Gazzettino – Quattro minuti e Longarone venne cancellata.
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9
ott
2013
50 ANNI FA LA TRAGEDIA CON 2MILA MORTI
Una data scolpita nella storia non solo di Longarone. Solo mezzo secolo dopo lo Stato ha chiesto scusa.
Mirta aveva sette anni, tutto ciò che è rimasto della sua casa è mezzo crocifisso sfregiato dal fango
«Quattro minuti e Longarone sparì»
Mirta aveva sette anni e si è salvata perché era minuta e stava in piedi nel sottotetto e l’onda, quando è arrivata a Codissago, aveva in parte perduto la furia distruttrice anche se portava il fango che seppelliva. Mirta si era arrampicata con i genitori dove la casa finiva, resistendo fino a quando il silenzio aveva fatto capire che l’apocalisse era passata. Codissago è una frazione di Castellavazzo, sul Piave, c’era il porto delle zattere e gli zattieri smistavano il legname per la Serenissima. Di legno delle montagne è fatto il mezzo crocefisso che è tutto ciò che è rimasto della casa quella notte del 9 ottobre 1963. Mezzo crocefisso, il busto del Cristo con le braccia spalancate, il resto lo ha proprio strappato il fango che è arrivato alla metà della croce e si è fermato risparmiando il volto. La famiglia di Mirta ha conservato la reliquia e ogni anno, il 9 ottobre, la porta fino alla diga in una specie di processione privata. Per il mezzo secolo dalla tragedia del Vajont, la bambina di ieri non ci sarà, è in ospedale.
Renato aveva dieci anni quando l’onda ha cancellato Longarone, erano tutti a letto a quell’ora: lui, il fratellino di tre anni, il padre e la madre. L’acqua ha strappato dai letti i quattro, li ha spogliati nel rapirli, portati lontano, fatti sparire. Renato si è salvato perché con lui l’onda è stata clemente, lo ha quasi accompagnato nella caduta, lo ha depositato a qualche centinaio di metri e attorno a lui il fango si è chiuso come in una bolla protettiva. È stato come se lo avesse racchiuso in un ventre materno dove non arrivavano i suoni della morte. Altri quella notte si sono salvati come lui.
È passato mezzo secolo da allora, molti di quelli che avevano visto l’alba del 10 ottobre a Longarone se ne sono andati, l’onda cieca ha risparmiato qualcuno, ma il tempo non risparmia nessuno. E chi è rimasto continua a dividersi tra sopravvissuti e superstiti perché, spiegano, non è la stessa cosa essersi salvati quella notte o essere vivi semplicemente perché si era da un’altra parte.
Nel museo di Longarone pendono dal soffitto 1910 lamelle grigie, tante quanti sono stati i morti accertati. All’uscita ti aspettano 31 lamelle bianche, una per ogni bambino mai nato, sono morte anche 31 donne che aspettavano un figlio. E fuori ci sono le lamelle attorcigliate perché i superstiti spesso si sono sentiti morti dentro, attorcigliati nella memoria quasi si sentissero colpevoli di avercela fatta.
Cinquant’anni sono quasi lo spazio di tre generazioni, i bambini di allora hanno nipoti. Forse l’Italia ha imparato poco dalla tragedia se ogni anno cadono pezzi di montagna, straripano fiumi e travolgono tutto, la terra non regge, si muore oggi come ieri per l’incuria dell’uomo.
C’è voluta la lezione civile di Marco Paolini per farci prendere coscienza di un passato che si tende a dimenticare. Forse la tragedia del Vajont è stata talmente enorme che si fatica anche a distanza di tanto tempo a farsi carico delle colpe dell’uomo, a riflettere che si poteva evitare.
Quelli che erano soldati di leva nel 1963 la notte hanno ancora incubi perché non riescono a dimenticare ciò che hanno visto nel Vajont. Furono scaricati dai camion provenienti dalle caserme di Belluno, Pordenone, Udine, Mestre e messi a scavare nella valle dell’orrore, dove l’odore più penetrante era quello della morte ancora più acido per la nafta che entrava nelle narici e freddo per l’aria gelida come se stesse per nevicare. E il rumore più forte era quello di un pianto trattenuto.
Ragazzi provenenti da ogni parte d’Italia messi a scavare anche a mani nude per cercare corpi sotto cataste di tronchi, fasciame di legno, rotaie arrotolate come molle di un giocattolo di latta. Attorno fantasmi vestiti di nero cercavano i resti di quella che fino a qualche giorno prima era una casa. E quando quei fantasmi trovavano una fotografia, un orologio, una stoviglia, la custodivano sotto il mantello come la più preziosa delle reliquie. Dalla Jugoslavia arrivarono reparti specializzati nel recupero e nel riconoscimento dei corpi: nella città macedone di Skopje distrutta dal terremoto, a fine luglio, erano stati identificati con metodi nuovissimi migliaia di morti.
Scavavano come in processione, uno dietro l’altro. Nella luce irreale, lattiginosa come se tutto dovesse essere fermato per sempre in una fotografia in bianco e nero. Elicotteri americani trasportavano le famiglie a Cimolais, nella colonia, nella scuola elementare. Una troupe della Rai filmava le scene di dolore, salendo fino alle frazioni devastate a metà. Le domande del cronista suonavano a volte assurde: «Signora che effetto le fa lasciare il paese?». «El paese? Al me ga fat effett lasciare qui le mie due sorelle che non so neanche dove son sepolte». Lo sapevano tutti da anni, non c’è stata tragedia più annunciata di quella del Vajont. Il monte dal quale si è staccata la frana si chiama Toc, contrazione di “Patoc” che vuol dire marcio.
Quella notte l’acqua e lo spostamento d’aria crearono la distruzione in quattro minuti! La valle si coprì di fango che seppellì interi paesi sotto una crosta dura. Un muro solido e orizzontale coperto di detriti. Soltanto alla luce del giorno fu possibile capire l’enormità del dramma. «Il paese di Longarone praticamente non esiste più. È stato cancellato. Al suo posto non vi è che un’enorme massa di fango», riferiva l’agenzia Ansa delle ore 10,39 del 10 ottobre, esattamente dodici ore dopo la tragedia. Dal Piave continuavano ad emergere centinaia di corpi straziati e denudati dalla furia delle acque. A Belluno videro il fiume gonfio di corpi. «Non è rimasto nulla. Non nulla per dire poca roba: proprio nulla», scrisse un giornale.
Un mese dopo i 48 scolari sopravvissuti su 253 di Longarone erano sui banchi improvvisati, con libri, quaderni e matite arrivati in dono da ogni parte d’Italia. Germano, 11 anni, guardò dalla finestra di quella specie di scuola e vide il paese distrutto, i soldati che spalavano, e disegnò le case che c’erano prima, gli uomini e le donne che camminavano per le vie, i bambini che rincorrevano un pallone. La fotografia è sul Gazzettino.
di Edoardo Pittalis
Così il Gazzettino schierò i suoi inviati sul fronte di fango
Io, cronista del disastro e l’esodo degli sfollati
Un mese dopo 48 scolari sopravvissuti su 253 erano in aula Germano, 11 anni, disegnò il suo paese con le vecchie case
“TORNEREMO QUI” – Opposero resistenza per non abbandonare morti, case e stalle
Per paura di un’altra frana fu diramato l’ordine di sgombero per la popolazione di Erto e Casso
La testimonianza di uno degli inviati del Gazzettino
L’ADDIO – Una fila biblica di gente di tutte le età senza più lacrime
Nella notte tra il 9 e il 10 ottobre 1963 il fronte del Vajont era stato affidato dall’allora direttore de “Il Gazzettino”, Giuseppe Longo, a due gruppi di giornalisti: quello veneto sul versante di Longarone e quello friulano nella zona di Erto e Casso. Così, nella valle del Piave, dove erano di gran lunga superiori il numero delle vittime e la consistenza del disastro, operarono le “grandi firme” della testata, assieme ai colleghi della redazione di Belluno, mentre nella valle del Vajont la competenza fu della sola redazione di Udine che aveva giurisdizione sull’intera area friulana, al tempo comprendente anche l’attuale provincia di Pordenone.
Senza rinforzi, la piccola pattuglia dei cronisti friulani appariva di gran lunga inferiore, con un carico di lavoro di notevole portata per i mezzi del tempo. Fu così che, nella mia qualità di “collaboratore fisso” della redazione, ormai “consolidata” da oltre un anno d’intensa attività in tutti i settori della cronaca, fui inserito nella piccola task force redazionale che, dal giorno successivo alla tragedia del Vajont, raccolse giornalmente le notizie sul campo, percorrendo circa cento chilometri all’andata e altrettanti al ritorno sulle tortuose strade del tempo, per garantire i servizi giornalistici dell’edizione locale e della parte generale.
La firma competeva soltanto ai “capi”. Dunque si trattò perlopiù di un lavoro gregario soddisfatto in parte da qualche sigla o da qualche firma nella cronaca quotidiana, oltre che dall’onore di fornire all’inviato ufficiale (l’allora responsabile della redazione, Vittorino Meloni) la crema delle notizie. Eppure fu un lavoro di grande soddisfazione compiuto con dedizione, tenacia e spirito di gruppo, guarda caso dal più anziano della redazione, Gian Maria Cojutti, e dal più giovane, il sottoscritto.
A 23 anni non ancora compiuti mi trovavo di fronte a una tragedia le cui proporzioni erano paragonabili soltanto a quelle della guerra che si era conclusa 18 anni prima. Forti sensazioni che avrei rivissuto dal vivo soltanto con le grandi alluvioni distruttive nel Veneto e in Friuli del 1965 e del 1966 e con il terremoto in Friuli del 1976.
L’angoscia e la paura che si vivono nei momenti dell’emergenza erano forti, nella valle del Vajont, non solo per quanto era accaduto, ma anche per quello che avrebbe potuto ancora verificarsi. Tra gli elementi di maggior peso restò infatti per molto tempo il timore di una nuova frana che avrebbe potuto staccarsi dal tristemente famoso monte Toc nella parte iniziale del lago, a monte della diga. La conseguenza sarebbe stata la cancellazione dell’abitato di Erto, sulla costa destra, e di Casso, sullo stesso versante, benché in zona sopraelevata. Si trattava di un’ipotesi funesta, che coinvolgeva la sottostante val Cimoliana, suffragata forse da tesi affrettate. Però il pericolo era reale.
Fatto sta che, a poche ore dal disastro, fu diramato l’ordine di sgombero della valle del Vajont per risparmiare la vita agli abitanti dei due centri più importanti del comune e del Comune di Cimolais, già privato di tutte le borgate minori, sulle due sponde, con un bilancio di oltre 150 morti che sarebbe stato maggiore se i paesini della sponda sinistra non fossero stati già evacuati nei mesi precedenti l’immane frana della sera del 9 ottobre.
Ertani e cassani non accettarono di buon grado quell’ordine tassativo. Ci volle tutto l’impegno e l’opera di convincimento degli uomini del soccorso (i militari) e dell’amministrazione comunale. Due giorni dopo, a mezzogiorno, la valle avrebbe dovuto essere vuota.
Fin dalla mattina l’esodo di massa era in atto e aveva assunto l’aspetto della fuga tumultuosa dopo una disastrosa battaglia. Mi colpì soprattutto il cammino dei profughi di Casso che, sulla discesa tortuosa verso Erto, avevano formato una fila biblica di gente di tutte le età, carica di quel che poteva, e non aveva più nemmeno la forza di piangere.
All’incauto cronista che cercava di raccogliere le loro impressioni, le risposte arrivavano come sassate. Quella gente parlava poco, come tutti i montanari; e poi, allora le persone non era abituata come oggi a farsi intervistare. Se ne stavano andando perché costrette, e maledicevano tutti: la diga, chi l’aveva costruita, i politici e via elencando. I più riflessivi riuscivano ad aggiungere: «Torneremo e ricostruiremo tutto. Cambieremo persino nome a questo paese che ci ha dato soltanto povertà e disgrazie».
A mezzogiorno non doveva trovarsi in valle nemmeno un civile. Ma noi due cronisti, l’anziano e il giovane, eravamo ancora nel piccolo vecchio municipio di Erto, quartier generale delle operazioni. Avevamo fatto il pieno di informazioni e impressioni e stavamo per fuggire anche noi da quella valle maledetta, quando fummo bloccati istintivamente dalla vista gradita di un po’ dei cibo: una pezza di formaggio latteria, un fiasco di vino bianco e un mucchietto di pane soltanto in parte intaccati dalla voracità di chi ne aveva fruito prima. Se il taccuino era pieno, non lo era la pancia: ci fermammo incoraggiati da uno sparuto impiegato. Fu un mordi e fuggi incosciente, ma provvidenziale, perché, una volta oltre il passo di Sant’Osvaldo ci scontrammo con l’altra faccia della realtà: alcuni evacuati che ai piedi della strada per Erto, appena fuori Cimolais, opponevano una forte resistenza alle forze dell’ordine. Loro non volevano abbandonare i morti, le case, le stalle per nessuna ragione al mondo.
E ritornarono successivamente, molti, di nascosto o con permessi speciali, come quando furono celebrati i funerali di alcune vittime estratte dal lago, i corpi simili a tronchi d’albero spogli e deformi, allineati dapprima in un’aula scolastica, tra l’odore acre della formalina e salutati quindi nel pesante silenzio del cimitero di pietra, dalle parole strazianti pronunciate nella lingua del luogo, dal vicesindaco Osvaldo Martinelli, poeta e storico che sopravvisse oltre dieci anni a quelle tremende conseguenze dell’umano ingegno.
Tutto, su quella catastrofe di 50 anni fa, è noto. Io mantengo per me i dettagli che ho vissuto per due mesi di frequentazione giornaliera della valle del Vajont e, per tutti gli anni a seguire, come cronista e come semplice cultore della realtà friulana e veneta. Con queste poche note ho solo socchiuso il greve taccuino dei ricordi.
di Pietro Angelillo
Le cerimonie con il presidente del Senato Grasso
Premio Longarone alla comunità dei superstiti
L’omaggio del Paese in memoria dei morti
Nove ottobre 1963. L’orologio segna le 22.39. È il momento in cui si consuma una delle pagine più sconvolgenti del Dopoguerra italiano: un’enorme frana di oltre 260 milioni di metri cubi si stacca dal monte Toc e precipita nel lago artificiale, provocando un’onda di 300 metri. Longarone, Erto e Casso e Castellavazzo sono spazzate via. Muoiono 1910 persone: tra loro, quasi cinquecento bambini. Un orrore provocato dall’uomo. L’orrore del Vajont. Di una tragedia prevedibile. Annunciata. E, per questo, vergognosa. Da quel lontano 9 ottobre è passato mezzo secolo. Ma per coloro hanno vissuto sulla propria pelle il dramma, cinquant’anni rappresentano un soffio. Un respiro. E oggi saranno in prima fila a celebrare il 50. anniversario della catastrofe: insieme a giovani e bambini, adulti e anziani, autorità religiose, civili e militari, istituzioni e gente comune.
Ci sarà anche lo Stato, rappresentato dal presidente del Senato, Pietro Grasso, che raggiungerà questa mattina alle 9.15 il cimitero “Vittime del Vajont” di Fortogna dove verrà deposta una corona di fiori. Alle 9.45, invece, il palasport di Longarone ospiterà la commemorazione civile: una sede inedita per la cerimonia, ma anche l’unica possibile per contenere una folla di migliaia e migliaia di persone.
Ci sarà la seconda carica dello Stato, quindi, ma non il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e tantomeno il premier Enrico Letta. Cosa che ha provocato qualche malumore tra i sindaci della provincia di Belluno. Basti pensare al primo cittadino di Feltre, Paolo Perenzin: «In Italia, il 9 ottobre, non ci possono essere impegni più importanti del 50. del Vajont. Almeno, non da tali giustificare l’assenza delle massime cariche dello Stato e del Governo a Longarone».
A proposito di Longarone, il sindaco Roberto Padrin ha invece sottolineato come «la presenza del presidente del Senato Grasso sia particolarmente significativa e apprezzata, in quanto rappresenta un segno tangibile di vicinanza nei confronti delle nostre comunità». Ieri sera, intanto, è stato assegnato il «Premio Longarone» all’intera comunità superstite: questo perché è ormai maturo «il tempo – si legge nella motivazione della giuria redatta dal sindaco Padrin e dai consiglieri Giovanni Danielis e Celeste Levis – per porre l’attenzione sul coraggio, la tenacia e la caparbietà dei superstiti nel voler riportare la vita in questa terra martoriata».
GIUSTIZIA E SOCIETÀ – Difficile “pilotare” la frana doveroso dare l’allarme per salvare la popolazione
di Ennio Fortuna
Mi sono occupato del Vajont come magistrato di Venezia nel periodo compreso tra la fine dell’istruttoria e l’inizio del dibattimento all’Aquila dove il processo fu spostato per legittima suspicione. Il presidente dei familiari delle vittime aveva presentato un’articolata denuncia sostenendo che la Sade, cedendo il bacino all’Enel, aveva commesso una vera e propria truffa perché era stata pagata una grossa somma, mentre valeva poco o nulla per essere irreversibilmente destinato all’interramento. Per rendermi conto della situazione dovetti leggere e impadronirmi di quintali di documenti e di verbali, e dovetti farlo al più presto (pochissimi mesi) perché i miei superiori, giustamente, esigevano il massimo della celerità anche per evitare prevedibili speculazioni. La sede della Sade era a Venezia dove era stato curato il pagamento. Da qui la competenza della Procura lagunare e la mia in particolare.
Fu probabilmente il lavoro più complesso e difficile in quasi cinquant’anni di carriera. Soprattutto fu il lavoro più impegnativo ed emozionante. Della tragedia fino ad allora sapevo ben poco, ma ricordo ancora la mattina del 10 ottobre, quando in ufficio a Rialto sentii per la prima volta parlare della diga. Le notizie erano incerte, si ipotizzavano il crollo del manufatto e la sommersione della vallata sottostante. Quando a tarda mattinata i fatti furono più chiari, alcuni di noi si offrirono di collaborare con i colleghi di Belluno. Preso dall’emozione, inoltrai addirittura la domanda trasferimento, ma il Procuratore bellunese fece subito sapere che non voleva aiuti, e che si sarebbe occupato personalmente della vicenda, e così fece.
Il delitto di truffa esige il dolo mentre nell’istruttoria del collega Fabbri si era parlato solo di colpa. Anch’io pervenni alla stessa conclusione. Fu decisivo il rilievo che l’imminenza e inevitabilità della frana erano note a tutti, tanto è vero che la Sade aveva costruito una galleria proprio per garantire il passaggio dell’acqua da una parte all’altra della stessa frana, ove questa fosse caduta nel lago, come poi avvenne. Inoltre molti dirigenti della Sade erano presenti sul posto nei giorni dei fatti, rischiando evidentemente la vita. Addirittura, alla sommità della diga era stata costruita una cabina di controllo dove operavano tecnici e specialisti. Tutti i presenti vi trovarono la morte. Insomma fu un colossale errore tecnico nel senso che gli ingegneri della Sade pensavano che la frana sarebbe entrata in acqua a velocità moderata e non a 100 km/h come poi si verificò, producendo quello che fu chiamato l’effetto pistone (un’enorme massa liquida che sovrastò la sommità della diga, precipitando poi a valle). Un grande scrittore, Dino Buzzati, descrisse il fatto come la caduta di un sasso in un bicchiere pieno d’acqua, con lo sversamento all’esterno. La velocità di caduta, assolutamente eccezionale, costituì il cuore della difesa degli imputati. Tutti sostennero che era impossibile prevederla, talchè non poteva parlarsi neppure di semplice colpa, la cui essenza è notoriamente costituita dalla prevedibilità dell’evento. La Corte di Cassazione, secondo me giustamente, replicò che quando si pongono in essere i presupposti di un evento negativo, gli agenti ne rispondono comunque, ancorché le conseguenze siano andate oltre il previsto. Da qui la condanna di tecnici e dirigenti.
Oggi si parla di frana pilotata, ma non è facile intendersi sul concetto. Il fronte della frana era di oltre un chilometro e mezzo, i metri cubi di roccia franata oltre 250 milioni. In che modo sarebbe avvenuto il pilotaggio? Più che di frana pilotata parlerei di frana osservata, studiata, seguita e ciò malgrado non evitata. Forse era impossibile evitarla, ma certamente sarebbe stato possibile dare l’allarme e invitare la gente ad allontanarsi, e forse il livello dell’invaso poteva essere regolato meglio e tenuto sotto controllo. Fu colpa quindi, del resto così ha detto la magistratura, e in particolare così si è espressa la Cassazione con una sentenza di valore storico, come di valore storico è stata tutta la vicenda. Di morte ma anche di eroismi.
9 OTTOBRE 1963
Perchè i geologi parlano adesso dopo 50 anni?
Voglio raccontare due episodi ai quali sono stato presente pochi giorni prima del disastro del Vajont. Il primo a Longarone, dove mi sono recato da Igne dove abitavo, con mio nonno a render visita a un suo amico, il sig. Francesco “Checo” Pioggia. Tra le chiacchiere parlarono della diga. Checo disse: “Bepi, questa prima o poi ci porterà via tutti”. Detto e fatto. È morto con tutta la famiglia. Il secondo episodio a Villanova a casa di mio zio, dove ora si trovano il negozio Fercas. Un’amica di mia zia, che abitava circa dove ora c’è l’azienda Teza, della famiglia Dalla Betta, disse: “Cara Ada uno di questi giorni mi vedrai passare davanti a casa in barchetta”. Non è passata in barca ma l’acqua se l’è portata via con tutta la famiglia, spariti anche la madre e i due fratelli con le rispettive famiglie che abitavano di fronte a mio zio. I miei parenti sono stati recuperati alle 3 del mattino, salvi.
Se queste persone comuni, e non solo loro, presagivano questo evento, perché gli scienziati geologi no? Domanda ormai stantia, ma perché l’attuale presidente dei geologi, che non deve essere un ragazzino di primo pelo, ha aspettato questa buffonata del 50° anniversario per parlare? Noi superstiti invece, a parte i soliti noti, conosciamo benissimo lo scopo di questa baraonda che nulla a che fare con il disastro, con noi e meno ancora con i nostri morti, ma serve a parecchia gente, con grande supporto dei media, per scopi personali politico-finanziari. Quanti anni dovranno passare perché qualcuno rispolveri questa storia e indaghi sullo sperpero vergognoso dei soldi dei contribuenti?
Giuseppe De Cesero
Vajont, oggi è giusto ricordare anche chi aiutò i sopravvissuti
Caro direttore,
in questi giorni di ottobre, la triste e terribile sciagura di Lampedusa in cui sono morti molti innocenti e molti altri sono profughi, le parole “compassione” e “accoglienza” mi risuonano spesso nella mente e, inevitabilmente, la memoria mi porta al 9-10 ottobre 1963 quando la gente del mio paese si trovò nella stessa situazione di bisogno. Anche da noi molti morirono travolti dall’acqua e dal fango e pochi furono ritrovati, i superstiti furono costretti a lasciare le loro case e il paese; raccolsero frettolosamente poche cose, quelle che ritenevano indispensabili o quelle a cui erano affettivamente più legati, e, per la maggior parte con mezzi militari, furono portati nei paesi vicini, Cimolais e Claut. In questi due Comuni ci fu una gara di solidarietà indicibile, le amministrazioni si prodigarono nel mettere a disposizione le loro strutture per accogliere gli sfollati. Ma la generosità più commovente fu quella spontanea della popolazione. Ogni famiglia aprì la propria casa per ospitare, offrendo e condividendo ciò che aveva, dimenticando campanilismi e difficoltà economiche. Spesso i profughi vivevano proprio assieme ai loro ospiti, come un’unica famiglia, ricevendo supporto materiale e morale. Questa solidarietà non fu solo nell’immediatezza dell’emergenza ma è durata per moli anni. Io sono “Informatore della memoria” e accompagno gruppi sui luoghi del Vajont, raccontando l’evento in tutte le sue sfaccettature e quasi sempre parlo loro di come fummo accolti, consolati e aiutati. In occasione del 50° anniversario del Vajont voglio esprimere pubblicamente la mia personale gratitudine e ammirazione alle genti di Cimolais e Claut che, secondo me, vanno meritatamente annoverate tra i soccorritori del Vajont.
Italo Filippin – Erto
——
Caro lettore,
lei oltre ad essere un informatore della memoria, è stato anche sindaco del comune di Erto e Casso e sa bene quindi che la tragedia del Vajont non fu figlia del destino cinico e baro, bensì della umana dissennatezza e dello spregio della vita delle persone. Per questo, a 50 anni di distanza, quell’immane disastro è ancora una ferita aperta, che la memoria rende viva anzichè sfumare o cancellare, come qualcuno vorrebbe. Ma se è giusto tenere vivo il ricordo e non rassegnarsi alle verità di comodo e agli scaricabarili di chi cercò e cerca di attribuire alla natura colpe che sono invece tutte dell’uomo, della sua cecità e della sua arroganza, è anche giusto ricordare, proprio oggi, a mezzo secolo dal quel terribile 9 ottobre, altri uomini e donne. Quelli che in quei giorni non esitarono invece a sacrificarsi per aiutare chi soffriva e chi aveva perso tutto. Come gli abitanti Claut e Cimolais a cui lei giustamente vuole rendere omaggio nella sua lettera. A loro, simboli di quel popolo generoso e disinteressato che si mobilitò per dare sollievo e speranza ai superstiti del Vajont, va il suo grazie. Ma, se ce lo permette, anche il nostro.