Nuova Venezia – Dalla villa ai giornali: ecco l’impero dei Galan
Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments
7
giu
2014
ROTTAMIAMO ANCHE L’ITALIA DEL MALAFFARE
Avevano carta bianca. L’hanno barattata con la carta igienica. Letteralmente. Non bastavano i soldi, un mare come quello che avrebbero dovuto prosciugare nella laguna di Venezia. Hanno estorto persino dieci piani di morbidezza per i loro serenissimi deretani. E il caso-secondo l’accusa – dell’ente Magistrato delle acque, al quale il Consorzio Venezia Nuova, quello del mitico Mose, avrebbe comprato «anche la carta igienica, è vero,non e una battuta», come si legge nelle carte dell’inchiesta. Corruzione smodata. Arroganza miserevole. Nel cuore del Lombardo-Veneto, prima con l’Expo di Milano, ora con le dighe lagunari. Tutti erano sul libro paga della cricca riunita intorno al consorzio appaltante del Mose, ha raccontato alla “Nuova Venezia” Piergiorgio Baita, già manager di punta di una delle principali imprese coinvolte nello scandalo. Parla con cognizione di causa: ha patteggiato una pena di un anno e dieci mesi ed è fuori dall’attuale indagine. Rivela una cifra impressionante, cento milioni all’anno, da distribuire in consulenze, viaggi, sponsorizzazioni, prebende varie. Un potere fuori controllo capace di condizionare e di comperare esponenti politici di ogni colore. Non è la prima volta, nell’Italia delle consorterie, che ciò accade. Ma l’uno-due Milano-Venezia mette a dura prova la tenuta del Paese, nonostante la voglia di stabilità espressa con il voto di quindici giorni fa. Il senso stesso della nostra democrazia finisce imbrattato sotto il peso della sconcia carta igienica veneziana. C’è un problema di codice penale, ma c’è anche un codice etico da ricostruire nei comportamenti sia privati che pubblici. Il codice penale e stato sbeffeggiato con il ridimensionamento del reato di falso in bilancio. Eredità avvelenata del ventennio berlusconiano. Grazie alla manomissione dei bilanci vengono accumulati i fondi neri necessari per corrompere ciascuno in base al suo prezzo. La prescrizione poi e lo strumento per farla franca: la condanna deve arrivare entro sei anni dal compimento- non dalla scoperta, si badi bene – del reato di corruzione. Una passeggiata per chi può disporre di bravi avvocati. Un monito per procure, uffici gip e tribunali “malati” sì di superlavoro, ma in più di un caso di inefficienze organizzative non imputabili che a loro stessi. Leggi più giuste, dunque. Non più aspre, altrimenti la discussione finisce subito nel solito rissoso derby tra garantisti pelosi e manettari gaudenti. Leggi chiare, facilmente e rapidamente applicabili. Così come va sfrondata la burocrazia degli appalti, con le sue pratiche oscure. Ma non basta. C’è una questione etica – persino estetica – che riguarda la vita interna dei partiti e delle grandi organizzazioni sociali. Finché il Pd – si è scoperto solo dopo il recente arresto- bis – non si fa scrupolo di tesserare Primo Greganti e Forza Italia continua a coprire Marcello D’Utri, Claudio Scajola, Giancarlo Galan, di che cosa stiamo parlando? L’Italia differisce dalle altre grandi democrazie occidentali perché non conosce la sanzione reputazionale. Oggi è di moda dire: ci metto la faccia. Ma la faccia non la perde mai nessuno. Chi sbaglia non paga. Fuori dunque dai partiti mascalzoni, profittatori, facilitatori, faccendieri, inquisiti per reati ai danni della collettività. Da Berlusconi, pregiudicato impenitente, non c’è da aspettarsi nulla. Da Renzi sì. Ma non basta sostenere, come fanno i suoi, che il fango travolge solo esponenti del “vecchio” partito. Dopo la rottamazione occorre avviare un processo di bonifica ambientale. Senza distinzioni. Ha il consenso dalla sua. Lo usi con spietata saggezza. Il premier sicuramente conoscerà, essendo di formazione cattolica, una celebre massima di Sant’Agostino: «Quid sunt imperia, detracta iustitia, nisi magna latrocinia? ». Che poi, tradotto in maniera maccheronica, suona più o meno così: senza giustizia che cosa è il potere, se non un grande magna magna?
Luigi Vicinanza
BERLINGUER L’ULTIMO GRANDE POLITICO
Trent’anni fa moriva a Padova il segretario del Pci Enrico Berlinguer, figura importantissima per la sinistra italiana, per la storia del Pci, per i rapporti fra Italia e Nato, Italia ed URSS. Berlinguer è l’inventore dell’enorme trasformazione del Comunismo in Eurocomunismo. Che cosa fu il Comunismo? La più grande rivoluzione sociale e politica del Novecento, che si proponeva di riscattare la classe più povera, il proletariato, portarla al potere, e realizzare sulla Terra una nuova storia, depurata dei valori della borghesia. Una classe unica al potere voleva dire dittatura. E questo era il Comunismo: il potere di una sola classe, un solo partito, un solo gruppo dirigente. E, all’acme dell’impero sovietico, di un solo uomo. Fu una storia grandiosa e fosca, eroica e tragica. Per lunghi decenni parve che su tutta la Terra il riscatto della povertà fosse possibile solo applicando il modello sovietico. Berlinguer fu tra i primi a capire che in Occidente il Comunismo era inapplicabile, doveva adattarsi alla storia, alla cultura, alla religione, alle classi locali. Noi italiani interveniamo sulle grandi rivoluzioni del mondo importandole ma mitigandole: il nostro Romanticismo non è il Romanticismo tedesco, noi non possiamo essere nichilisti e disperati, perché noi ospitiamo il Cattolicesimo, e dove il Romanticismo europeo dice “con la morte non c’è più nulla”, il nostro Romanticismo, Manzoni in testa ma escluso il solitario Leopardi, dice “la morte è la porta verso la vera vita”. L’eurocomunismo è la stessa attenuazione del Comunismo: niente via rivoluzionaria per il potere, niente dittatura del proletariato, niente partito unico, addirittura niente rottura dell’alleanza con la Nato. Questo fu Berlinguer. Voleva addirittura un’alleanza con la Democrazia Cristiana, una specie di Larghe Intese anticipate, perché o si governa così o non si governa. Uomo pericolosissimo, per l’Unione Sovietica. Era in un paese dell’est, su una limousine, quando i servizi segreti tentarono di farlo fuori, speronandolo. Ma sopravvisse e morirà molto più tardi, trent’anni fa, a Padova, mentre teneva un discorso in Piazza della Frutta. I suoi discorsi erano monotoni, interminabili, molto populismo e poche idee. Difficilissimo prendere appunti, era come bloccare l’aria. Lo ascoltavo al Congresso Nazionale del partito a Roma, mi mettevo tra la Inge Feltrinelli e Paolo Volponi, e sentivo Volponi sbuffare:«Ma son discorsi che ammazzano!». Il discorso di Padova, l’ultimo della sua vita, non faceva eccezione. Quando si sentì male, voleva chiudere ma non ci riusciva, voleva dire: «Lavorate per la pace», ma Elio Armano si allarmò perché s’accorse che diceva «laorate», non riusciva più ad articolare la lingua. Il popolo supplicava: «Basta, va a riposare », ma lui volle concludere. Scese dal palco sorretto a braccio. Lo portarono in albergo. Un crocchio di amici aspettava davanti alla stanza, e quando una cameriera uscì dicendo: «S’è addormentato», il dottor Giuliano Lenci si spaventò: «Non deve farlo», ed entrò di corsa. Era l’ictus, il sangue usciva bagnando dolcemente il cervello. La notizia piombò a Roma, in Italia, nel mondo. Scesero nuvole di cronisti e fotoreporter. Ma quando arrivò la moglie di Berlinguer, un funzionario del partito ordinò: «Non fotografate la signora!», e non scattò nessun lampo. C’era il presidente della repubblica, Sandro Pertini, a Padova, e quando Berlinguer morì, volle portare la salma a Roma col suo aereo presidenziale. Perché la salma non viaggiasse da sola da Padova all’aeroporto di Venezia, il partito, e cioè Pietro Folena, chiamò tutti gli amici dotati di auto, preoccupandosi che l’auto non fosse bianca. M’infilai nel corteo di vetture, per la strada statale, e quando penso a un funerale accompagnato dall’amore del popolo, penso a quello: si avanzava con l’auto lentissimamente, tra due ali immense di folla, uomini donne bambini, che premevano da destra e da sinistra, tutti in lacrime, uomini e donne col pugno chiuso e bambini col pugnetto teso verso le vetture, e le donne lanciavano continuamente fiori. La mia vettura ne era coperta. Da Padova all’aeroporto di Venezia le ruote della mia auto non hanno mai toccato l’asfalto, ma sempre e soltanto petali di fiori. Un popolo dovrebbe salutare così tutti i suoi politici. Ma Berlinguer fu l’ultimo e fu l’unico.
Ferdinando Camon
LE REAZIONI «Una grande opera senza garanzie sul fronte sicurezza»
LA COMMISSIONE – Anni di controlli mancati ora indaga la Corte dei Conti
Sequestrati 200 mila euro sotterrati da Spaziante
Banconote in possesso del generale della Finanza. «Elevatissimo tenore di vita»
Sigilli a tre Canaletto e a un Tintoretto […..]
VENEZIA – Tre Canaletto e un Tintoretto, pittori veneziani, del 18° secolo il primo e del 1500 il secondo. Sono quattro dipinti che i finanzieri del Nucleo di Polizia tributaria di Venezia hanno sequestrato nella casa, di [………………….]. L’imprenditore, [………] d’origine ma da anni trapiantato [………….], presidente della «Grandi Lavori Fincosit spa» e vicepresidente del Consorzio Venezia Nuova, è finito in manette per corruzione e altri reati. Le «fiamme gialle», che hanno suonato alla porta del lussuoso alloggio dell’imprenditore all’alba di mercoledì per notificargli l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, hanno anche compiuto una perquisizione e hanno scovato quattro quadri di notevoli dimensioni, ai quali mancava del tutto la certificazione da parte della Soprintendenza ai Beni artistici e storici: proprio per questo i finanzieri se li sono portati via. Il loro valore si aggira sui trenta- quaranta milioni di euro; il sospetto è che non abbiano alcuna certificazione perché acquistati al mercato nero degli oggetti d’arte. All’ex numero due della Guardia di Finanza, il generale Emilio Spaziante, anche lui finito dietro le sbarre e come [……] residente a Roma, le «fiamme gialle» veneziane hanno sequestrato ben 200 mila euro in contanti, che evidentemente l’alto ufficiale solo da qualche mese in pensione, a causa delle indagini veneziane aveva dissotterrato dal suo giardino da poco perché le banconote erano ancora umide e sporche di terra. Mentre il veronese [….] è accusato di averle consegnate, assieme agli altri imprenditori del Consorzio, Spaziante deve rispondere di averle percepite: per la sua attività di copertura e di controinformazione, Baita gli aveva promesso poco più di due milioni di euro. Ne aveva già versati 500 mila e non è escluso che quei 200 mila fossero una parte della mazzetta ricevuta. Per alcuni indagati (uno di questi è il generale) i pm Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini hanno chiesto agli investigatori di compiere accertamenti patrimoniali. Nei documenti si legge che «il nucleo familiare di Spaziante si riduce alla giovane convivente Carmela Clima; hanno complessivamente dichiarato dal 2000 al 2011 entrate per euro 2.029.473,70 e sono state rilevate uscite per 3.791.886,37 euro, manifestando una sproporzione di 1.762.412,67 1. Appare significativo come allo Spaziante non siano ricondotte, anche per evidenti incompatibilità d’istituto, altre situazioni societarie e partecipative. In tale contesto emerge inequivocabile l’elevatissimo tenore di vita rilevabile sia dalla scheda patrimoniale (auto sportive, barche di lusso, villa con piscina, altri prestigiosi immobili) che dalle attività tecniche. In tale ultimo contesto emergono il possesso di orologi, quadri e arredi di prestigio, nonché la frequentazione di costosissimi alberghi per i suoi spostamenti in Italia (viaggi a Milano con costi del pernotto di circa 1.000 euro a notte) e all’estero (nella fattispecie Dubai, con volo in business class e trasferimento in limousine da e per l’aeroporto)». Intanto, sono arrivati i primi ricorsi al Tribunale del riesame, quelli di Andrea Rismondo (avvocato Andrea Franco), Luciano Neri (Tommaso Bortoluzzi), Stefano Tomarelli (Angelo Andreatta), Federico Sutto (Paolo De Girolami). L’udienza probabilmente sarà fissata dal Tribunale tra una decina di giorni.
Giorgio Cecchetti
Dalla villa ai giornali ecco l’impero dei Galan
Per ipmla famiglia dell’ex governatore è un’autentica dinasty milionaria mai redditi dichiarati non bastano a spiegare com’è stata costruita
L’amico venuti Giancarlo è molto spaventato perché se ti fanno un accertamento fiscale devi avere i dati messi in fila e dimostrare come hai comprato casa
VENEZIA – Società agricole tra Ravenna e Bologna, case e imbarcazioni in Croazia, energia verde, gas in Indonesia, sanità. La villa con barchessa a Cinto euganeo. «I Galan» – come vengono definiti dai pubblici ministeri Ancillotto, Buccini e Tonini negli atti – sono una Dinasty dal patrimonio milionario, investito nei campi e nei paesi più diversi. Partecipazioni societarie dirette – osservano i magistrati – o tramite prestanome,come il commercialista, amico e sodale Paolo Venuti, che in un colloquio intercettato nella sua auto descrive il capofamiglia Giancarlo, «molto spaventato…», perché «se ti fanno un accertamento fiscale: dimostrami come hai comprato la casa, cioè tu devi avere i dati messi in fila…. ». Redditometro che i finanzieri hanno fatto per conto della Procura: l’intero nucleo familiare convivente – Giancarlo Galan, la moglie Sandra Persegato, due figli – ha dichiarato dal 2000 al 2011 entrate per 1,413 milioni. Non certo da capogiro considerando che negli anni Galan è stato presidente della Regione, ministro, senatore e deputato. Ma a fronte di uscite rilevate per 2,695, con una sproporzione di 1,281 milioni: ai Galan è così ricondotta una galassia di partecipazioni, detenute anche tramite prestanome (in particolare Paolo Venuti), che secondo i magistrati – anche se non è definibili nel dettaglio – testimonierebbe una disponibilità finanziaria enormemente maggiore rispetto a quanto accertato. Non tutte finiscono tra le accuse, ma ricostruiscono il mondo-Galan. L’holding di famiglia si chiama come la figlia più piccola, Margherita Srl, al 100% dei coniugi Galan. A questa società, fanno riferimento la tenuta agricola Frassineto Sas, tra Casola Valsenio e Castel del Rio, per la procura al 70% riconducibile ai Galan, per un valore di 920 mila euro; c’è poi la San Pieri Srl, con partecipazioni nel settore energetico: il 21% della quale, per i finanzieri riferibile ai Galan per un valore di 1,323 milioni; infine il 10% (tra partecipazioni diretti e indirette) di Energia Green Power, prossima alla quotazione in borsa. Poi una fitta rete di società a scatole. C’è la Ihlf Srl partecipata da Galan al 50% attraverso la fiduciaria milanese Sirefid, operante nel settore delle consulenze sanitarie, insieme a dirigenti sanitari veneti e lombardi. C’è quindi l’Amigdala Srl (capitale sociale 50 mila euro), partecipata per il 20%dallamoglie di Galan attraverso la Sirefid, operante nel settore dei servizi finanziari. Soci sono Pvp (studio commercialistico di Paolo Venuti) e Finpiave, la holding riconducibile alla famiglia Stefanel. E, ancora, Franica Doo, società per gestire – ipotizzano gli investigatori – un patrimonio di immobili, imbarcazioni e conti correnti in Croazia. Infine Thema Italia Spa, capitale sociale 3 milioni di euro, garantito dai coniugi Venuti tramite un prestito obbligazionario sempre attraverso la Sifred, per un milione di euro: la facciata italiana di un affare da oltre 50 milioni per commerciare gas proveniente dall’Indonesia, finita nei controlli dei finanzieri, che allarmano il gruppo e il prestito rientra. Dopo una cena tra i Venuti e i Galan, nel luglio 2008, Alessandra Farina (intercettata) chiede al marito: «Cosa dici di questi affari della Sandra che sembra stia diventando miliardaria?». Venuti spiega che il gas arriva al rigassificatore di Porto Tolle. «Possibile che faccia i miliardi come dice lei?». E il marito: «O fai il colpo gobbo o non è da loro». C’è poi ovviamente la villa con barchessa di Cinto Euganeo, restaurata – secondo l’accusa – con fondi di Mantovani, che paga l’impresa restauratrice sovrastimando interventi su altri lavori: Baita paga, ma tira sul prezzo, troppo caro. «La prima occasione che ho visto il presidente Galan gli ho detto che non potevo farmi carico di tutto (1,7 milioni di restauro, ndr)…e lui mi ha chiesto solo se posso almeno venire incontro alle parcelle di Turato». Baita dichiara di aver tirato fuori 6-700 mila euro per la villa e 400 mila euro, anni dopo, per il restauro della barchessa. Galan era già ministro, ma ottiene comunque l’aiuto. Società della galassia e altre, invece, finite sotto inchiesta. «Oltre alla corresponsione di somme di denaro, il Baita era solito utilizzare anche altri mezzi», racconta l’ex fedele segretaria Claudia Minutillo in un interrogatorio, «come intestare quote di società che avrebbero poi guadagnato ingenti somme dalla realizzazione dei project financing a prestanome dei politici: Adria infrastruttiure e Pvp del Veneuti erano riconducibili a Chisso e Galan. Il mio 5% era in realtà di Chisso , mentre il 7% della Pvp era di Galan». Pvp è anche proprietaria del 70% di Nordest media, che rilevò le testate di free press del gruppo E-Polis. Ricorda ancora Minutillo: «Baita disse a Galan: facciamo una cosa del genere, tu non hai problemi ad alzare il telefono e chiedere a tutti i tuoi amici imprenditori di fare pubblicità sul giornale, lo puoi utilizzare come veicolo di informazione, ti intesto il 70% della società».
Roberta De Rossi
Perquisizione per ex generale Gdf
Il presidente di Regione Lombardia, Roberto Maroni, ha respinto le dimissioni presentategli da Mario Forchetti, ex generale della Guardia di Finanza e presidente del Comitato regionale per la trasparenza sugli appalti in Lombardia, perquisito (ma non indagato) nell’ambito dell’inchiesta sul Mose. Forchetti, che con il suo comitato era stato chiamato nei giorni scorsi da Maroni a verificare gli appalti legati alla sanità finiti al centro dell’inchiesta sull’Expo, «mi ha inviato una lettera in cui, molto correttamente, rimette il suo mandato- ha detto il governatore a margine di un evento -. Ho respinto le sue dimissioni perchè è accusato di essere amico di… e non sapevo che questo fosse reato». Il riferimento è al fatto che le perquisizioni sarebbero scattate per via della sua vicinanza al generale della Gdf Emilio Spaziante, coinvolto nell’inchiesta sugli appalti del Mose.«Ho piena fiducia in lui – ha concluso Maroni – continuerà a fare quello che fa».
COSì E’ SPARITO IL RIFERIMENTO DANTESCO AI POLITICI
Finanzieri a caccia dei “traditori”
L’operazione doveva chiamarsi Antenora: poi ha prevalso la cautela
VENEZIA Immersi con tutto il corpo nel ghiaccio, solo il viso – livido – rivolto verso l’alto, dopo una vita terrena passata con il cuore duro e freddo: è questo il contrappasso che Dante immagina per i traditori relegati nell’Antenora, zona del nono cerchio infernale piena di loschi individui colpevoli di aver ingannato la fede della propria patria o della propria parte politica. Ed è al sommo poeta che il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Venezia si è ispirato nel dare il nome in codice all’indagine sui fondi neri del Mose che ha portato ai clamorosi arresti di questi giorni. Operazione Antenora: sta scritto, così, nero su bianco, sui documenti circolati all’interno della Procura. E come tale avrebbe dovuto essere presentata anche alla stampa, se non ci fosse stato un ripensamento dell’ultim’ora, per ragioni di opportunità, ché forse l’immagine dei traditori sembrava troppo forte per essere offerta ai media di tutto il mondo. Evidentemente, chi ha suggerito maggiore prudenza nell’accostamento fra i politici veneti coinvolti nell’inchiesta e i personaggi del girone dantesco, non aveva fatto i conti con Matteo Renzi. La sua accusa di «alto tradimento», lanciata dal G7 di Bruxelles nei confronti dei politici che si rendono colpevoli di reati come la corruzione, deve aver suscitato un sorriso amaro nel gruppo degli investigatori veneziani, che a ragione potrebbero rivendicare il copyright della definizione. Del resto i primi a sentirsi traditi sono stati loro, gli uomini e le donne delle fiamme gialle, quando gli indizi, i riscontri e le testimonianze raccolte hanno fatto emergere il – presunto – coinvolgimento di uno dei loro alti ufficiali di punta, il comandante in seconda della Guardia di Finanza (oggi in pensione), generale Emilio Spaziante, che figura tra gli indagati. Traditi due volte, come cittadini e come uomini delle istituzioni che fanno il proprio dovere ogni giorno, portando a casa stipendi neanche lontanamente paragonabili al tenore di vita del sistema di affari e potere sul quale hanno indagato per mesi. Non dev’essere stato facile assistere a pranzi sontuosi nei ristoranti più rinomati della laguna, dove anche un aperitivo è fuori portata per le tasche dei comuni mortali ma dove alcuni dei protagonisti dell’inchiesta avevano il tavolo fisso riservato, per discutere –anche – di mazzette e favori. E quando invece capitava che l’incontro per lo scambio di contanti avvenisse in una anonima pizzeria della terraferma, quando l’imprenditore di turno si presentava con una busta gonfia di pezzi da 5 e 10 euro per raggiungere la somma pattuita (diverse decine di migliaia di euro), il malcapitato si vedeva anche sbeffeggiare e trattare da “pezzente” perché non si era presentato con banconote di taglio superiore, quei centoni a cui i signori delle tangenti erano a quanto pare molto più abituati. Non dormono da giorni, i finanzieri dell’operazione Antenora. E da mesi ormai la cosiddetta “nuova tangentopoli” ha stravolto le loro vite, perché i risultati ai quali sono arrivati, la mole di materiale raccolto che ha convinto il gip a emettere le ordinanze di custodia cautelare – tutto da verificare e riscontrare in sede processuale, è ovvio – non sono il frutto di soffiate o semplici intercettazioni: è stata un’indagine vecchio stile, fatta di appostamenti per la strada, pedinamenti all’autogrill per assistere a incontri riservati tra alcuni dei personaggi di spicco finiti agli arresti e il presidente del Consorzio Venezia Nuova Mazzacurati, registrazioni, analisi e incrocio dei dati. E sanno che non è finita qui, che – come si dice in gergo – ci saranno altri sviluppi. Perché la marea, come ben sa chi ha progettato il Mose, quando comincia a salire è difficile da fermare.
Andrea Iannuzzi
Infrastrutture venete
il potere Mantovani sull’assessore Chisso
Minutillo gestiva i rapporti con l’ex assessore dando ordini e ottenendo notizie sui project financing di tutta la regione
In un ufficio del Consiglio regionale l’ultima consegna di denaro del Consorzio
ALTI BUROCRATI «Incarichi a Fasiol per fidelizzarlo» dopo che alcune deleghe erano state sottratte a Vernizzi e destinate al suo vice e naturale successore
VENEZIA – L’ultima consegna porta la data del 7 febbraio 2013, appena due settimane prima dell’arresto di Piergiorgio Baita: l’incontro tra il factotum del Grande Corruttore Giovanni Mazzacurati e l’assessore regionale. L’incontro tra Federico Sutto e Renato Chisso avviene in un ufficio di Palazzo Ferro Fini a Venezia, la sede del consiglio regionale. Lo scopo, secondo le testimonianze raccolte dai magistrati, sarebbe stato quello di consegnare una tangente di 150 mila euro al politico. I soldi direttamente provenienti dall’ennesima «retrocessione » di una fattura della società Linktobe alla Mantovani. Due settimane più tardi scoppia il caso Mantovani e le consegne si interrompono. Persino il flusso di fondi neri che puntualmente l’azienda – oggi guidata dall’ex questore Carmine Damiano – accantonava si interrompe. Ma dalle oltre settecento pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal magistrato Alberto Scaramuzza emerge un quadro inquietante nei rapporti che si sarebbero instaurati tra il mondo delle imprese che ruotavano attorno al Consorzio Venezia Nuova a l’ex assessore alle infrastrutture. Un ritratto che descrive «il totale asservimento » del politico alle esigenze del Consorzio e della Impresa Mantovani, la più importante del cartello. Non solo lo stipendio fisso che avrebbe percepito Chisso (dai 250 ai 300 mila l’anno alla fine degli Anni Novanta in poi) e l’ex governatore Giancarlo Galan (un milione l’anno). Ma un rapporto stabilimente subordinato ai voleri del Consorzio Venezia Nuova e della Mantovani, principale azionista del cartello che sta costruendo il Mose. Dal Passante di Mestre alla Superstrada Pedemontana, dall’Autostrada del mare alla Nuova Valsugana, dalla Nogara mare alla Romea commerciale sino al nuovo ospedale di Mestre. Un insieme di infrastrutture realizzate o in corso di realizzazione attraverso il sistema di copartecipazione del capitale privato all’opera pubblica. Procedure che facevano riferimento alla struttura tecnica regionale delle Infrastrutture controllatada Chisso. L’ordinanza rivela il rapporto molto stretto tra Claudia Minutillo, l’ex segretaria di Galan diventata presidente di Adria Infrastrutture (società del gruppo Mantovani), e Renato Chisso. Ma dove sembra essere la donna a «dare ordini» al politico: «Sei sempre a mangiare da Ugo: alza il culo e vieni qua» sentono dire gli investigatori della Guardia di finanza che hanno sbobinato migliaia di telefonate. Negli uffici della società privata, l’8 gennaio 2013, l’assessore prende appunti: Claudia Minutillo lo rimprovera dicendo che sta perdendo consenso, perché «non dà più risposte». «Baita dice: io vorrei capire se Renato ha abdicato ad un certo ruolo» sibila la Minutillo, preoccupata della lentezza con cui vanno avanti le pratiche sulle infrastrutture. E fa l’elenco: accordo di programma, tangenziali venete, autostrada del mare, Strada regionale 10, Sisco». Chisso, puntuale, prende nota su un foglietto. Ma si capisce che non è più il Chisso di una volta, preoccupato e sempre più stretto nelle procedure da un ambiente politico circostante che stava cambiando rapidamente: Berlusconi non è più al governo, Galan fa il parlamentare, Zaia ha preso il posto del governatore e non c’è feeling. Appena un anno prima Chisso si vantava al telefono di concordare le procedure per una gara prima con Mantovani e poi di informare il presidente Zaia: «Chisso discuteva dei progetti della Regione preventivamente con la Mantovani, poi facendoli sviluppare dagli uffici regionali secondo i dettami della Mantovani ». La struttura regionale di controllo sarebbe stata asservita agli interessi della Mantovani e delle altre imprese amiche. Per fare questo, già a partire dal 2006 sarebbero state trasferite alcune delicate competenze dal settore ambiente a quello infrastrutture, direttamente sotto l’egida di Silvano Vernizzi e del suo braccio destro Giuseppe Fasiol. Proprio il ruolo di questo manager rodigino, erede naturale di Vernizzi, è uno dei punti nodali dell’inchiesta. I magistrati hanno ricostruito dalle testimonianze e dalle intercettazioni che «Fasiol andava ulteriormente fidelizzato» e per questo gli fanno avere incarichi di collaudo remunerativi, facendogli credere che siano avvenuti per intercessione di Piergiorgio Baita e di Claudia Minutillo, con l’avallo politico di Chisso e Galan.
Daniele Ferrazza
La Cgil: «Serve un patto per la legalità»
VENEZIA – Immersi con tutto il corpo nel ghiaccio, solo il viso – livido – rivolto verso l’alto, dopo una vita terrena passata con il cuore duro e freddo: è questo il contrappasso che Dante immagina per i traditori relegati nell’Antenora, zona del nono cerchio infernale piena di loschi individui colpevoli di aver ingannato la fede della propria patria o della propria parte politica. Ed è al sommo poeta che il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Venezia si è ispirato nel dare il nome in codice all’indagine sui fondi neri del Mose che ha portato ai clamorosi arresti di questi giorni. Operazione Antenora: sta scritto, così, nero su bianco, sui documenti circolati all’interno della Procura. E come tale avrebbe dovuto essere presentata anche alla stampa, se non ci fosse stato un ripensamento dell’ultim’ora, per ragioni di opportunità, ché forse l’immagine dei traditori sembrava troppo forte per essere offerta ai media di tutto il mondo. Evidentemente, chi ha suggerito maggiore prudenza nell’accostamento fra i politici veneti coinvolti nell’inchiesta e i personaggi del girone dantesco, non aveva fatto i conti con Matteo Renzi. La sua accusa di «alto tradimento», lanciata dal G7 di Bruxelles nei confronti dei politici che si rendono colpevoli di reati come la corruzione, deve aver suscitato un sorriso amaro nel gruppo degli investigatori veneziani, che a ragione potrebbero rivendicare il copyright della definizione. Del resto i primi a sentirsi traditi sono stati loro, gli uomini e le donne delle fiamme gialle, quando gli indizi, i riscontri e le testimonianze raccolte hanno fatto emergere il – presunto – coinvolgimento di uno dei loro alti ufficiali di punta, il comandante in seconda della Guardia di Finanza (oggi in pensione), generale Emilio Spaziante, che figura tra gli indagati. Traditi due volte, come cittadini e come uomini delle istituzioni che fanno il proprio dovere ogni giorno, portando a casa stipendi neanche lontanamente paragonabili al tenore di vita del sistema di affari e potere sul quale hanno indagato per mesi. Non dev’essere stato facile assistere a pranzi sontuosi nei ristoranti più rinomati della laguna, dove anche un aperitivo è fuori portata per le tasche dei comuni mortali ma dove alcuni dei protagonisti dell’inchiesta avevano il tavolo fisso riservato, per discutere –anche – di mazzette e favori. E quando invece capitava che l’incontro per lo scambio di contanti avvenisse in una anonima pizzeria della terraferma, quando l’imprenditore di turno si presentava con una busta gonfia di pezzi da 5 e 10 euro per raggiungere la somma pattuita (diverse decine di migliaia di euro), il malcapitato si vedeva anche sbeffeggiare e trattare da “pezzente” perché non si era presentato con banconote di taglio superiore, quei centoni a cui i signori delle tangenti erano a quanto pare molto più abituati. Non dormono da giorni, i finanzieri dell’operazione Antenora. E da mesi ormai la cosiddetta “nuova tangentopoli” ha stravolto le loro vite, perché i risultati ai quali sono arrivati, la mole di materiale raccolto che ha convinto il gip a emettere le ordinanze di custodia cautelare – tutto da verificare e riscontrare in sede processuale, è ovvio – non sono il frutto di soffiate o semplici intercettazioni: è stata un’indagine vecchio stile, fatta di appostamenti per la strada, pedinamenti all’autogrill per assistere a incontri riservati tra alcuni dei personaggi di spicco finiti agli arresti e il presidente del Consorzio Venezia Nuova Mazzacurati, registrazioni, analisi e incrocio dei dati. E sanno che non è finita qui, che – come si dice in gergo – ci saranno altri sviluppi. Perché la marea, come ben sa chi ha progettato il Mose, quando comincia a salire è difficile da fermare. Chisso e Galan all’inaugurazione di un’opera a sotto Fasiol e Minutillo «Il vasto sistema di corruzione che si è sviluppato all’ombra del Mose e che vede coinvolti esponenti politici, imprenditori, alte cariche pubbliche a tutti i livelli deve indurre le forze sane del Veneto a stringere un Patto per la legalità improntato alla moralizzazione della politica e dell’economia». Lo afferma Elena Di Gregorio, segretario della Cgil veneta (nella foto operai del Mose al lavoro). La Cgil evidenzia «la necessità di un confronto con le istituzioni e le forze sociali per il superamento del sistema delle deroghe, dei regimi di eccezionalità delle opere, del facile ricorso a strumenti quali il project financing permeabili a pratiche di corruzione».
Andrea Iannuzzi
«La sicurezza del Mose non è garantita»
Fellin: costretto ad andarmene perché criticai le cerniere. Di Tella: paratoie testate solo in vasca, senza modelli matematici
VENEZIA «Che ci sia un problema di sicurezza per le paratie del Mose? È possibile. Perché ricordo bene che quei pareri positivi erano rilasciati con una certa leggerezza. Con qualche stranezza, cioè che erano i progettisti a pagare i consulenti che dovevano giudicare i loro progetti ». Un sistema che «oliava» i passaggi decisivi per far andare avanti l’opera. Pareri e valutazioni sempre positivi, anche quando i dubbi tecnici erano tanti. E chi osava criticare, veniva mandato via. «Io me ne sono andato», racconta l’ingegner Lorenzo Fellin, esperto di sistemi elettrici chiamato nel Comitato tecnico di magistratura, organo interno al Magistrato alle Acque che dava il via libera ai progetti della salvaguardia. «Meglio, ho dovuto andarmene perché non ero ascoltato e non era possibile il dibattito in quella sede. Quando sollevai la questione delle cerniere, il cuore tecnologico del sistema Mose, venni zittito in malo modo dal presidente Cuccioletta». E la proposta delle cerniere venne approvata senza dibattito». Eppure Fellin, insieme al suo collega trevigiano Armando Memmio, strutturista, aveva sollevato dubbi non da poco su quella parte delle dighe mobili. Strutture tecnologiche essenziali per il funzionamento delle dighe. Il Consorzio Venezia Nuova aveva proposto le cerniere saldate in due pezzi affidandole alla società padovana Fip, di proprietà della Mantovani e della famiglia Chiarotto. Fellin, unico esperto di impiantistica nella commissione, si era opposto. «La letteratura internazionale ci dice un’altra cosa », aveva obiettato. «Meglio le cerniere fuse in unico blocco, le altre sono più a rischio di rottura sott’acqua e hanno bisogno di maggiore manutenzione ». Nessuno lo aveva ascoltato. E anche Maria Giovanna Piva, la presidente che lo aveva nominato – anche lei adesso arrestata nell’inchiesta – era stata rimossa e trasferita a Bologna. Le cerniere – in parte già installate sul fondo della bocca di Lido – sono state poi affidate alla Fip. All’inaugurazione del prototipo nella fabbrica di Selvazzano erano presenti il ministro Matteoli, il presidente Cuccioletta, il presidente della Regione Galan. Ma chi ha certificato la sicurezza delle cerniere? «Tutto è stato risolto », aveva commentato allora il Consorzio, «il problema potrà essere forse una manutenzione più accurata». Non è l’unico dubbio nella sicurezza della grande opera. Nel 2009, penultimo anno dell’amministrazione Cacciari, il Comune aveva commissionato alla società internazionale di ingegneria Principia uno studio sulla sicurezza e il funzionamento delle paratoie in caso di maltempo e di eventi estremi. La società francese aveva sottolineato il rischio di «risonanza» della schiera di paratoie nei momenti di cattivo tempo. Un dubbio già evidenziato dai cinque esperti internazionali, che pure avevano promosso l’opera, nominati nel 1996 dall’allora ministro Paolo Baratta. Ma anche in questa occasione il presidente Cuccioletta aveva respinto al mittente ogni critica. Commissionando un nuovo parere a esperti di fiducia che aveva escluso ogni rischio. «Non hanno mai accettato», ricorda l’ex dirigente della Legge Speciale del Comune Armando Danella, «un confronto pubblico con i nostri scienziati». Dubbi rilanciati dall’ingegnere Vincenzo Di Tella, esperto di tecnologie marine autore di un progetto alternativo al Mose – le Paratoie a gravità – molto meno costoso e impattante, presentato da Cacciari al governo e mai preso in considerazione. «A parte il lievitare dei costi dei materiali rispetto al nostro progetto», dice Di Tella, «esiste un reale problema di sicurezza. Perché il progetto delle paratoie è basato solo sulle prove in vasca senza modelli matematici. E questo fa sorgere ragionevoli dubbi sulla tenuta delle cerniere». Anche qui il Consorzio rassicura. Ed è possibile che alla fine i problemi siano risolti. Ma adesso sono in tanti a chiedere una revisione di tutte le autorizzazioni rilasciate. Comprese le Valutazioni di impatto ambientale che ora si è scoperto provenire da uffici e dirigenti corrotti.
Alberto Vitucci
Fabris: prima finire i lavori poi decida il Parlamento
Il successore di Mazzacurati al Consorzio Venezia Nuova risponde alle accuse di Baita mentre crescono le pressioni per rivedere il sistema. Il M5s: «Troppe opacità»
VENEZIA «Il primo obiettivo è completare l’opera. Sul resto, compreso un eventuale commissariamento, decidano il governo e il Parlamento». Si limita a rispondere così, il presidente del Consorzio Venezia Nuova Mauro Fabris, agli attacchi che vengono da più parti e alle richieste di sciogliere la struttura. «Ci rimettiamo alle decisioni del governo», dice Fabris, «ma ricordiamoci che il Mose è una grande opera di ingegneria che tutto il mondo ci invidia ». Un tentativo di voltare pagina dopo gli arresti dei vertici del Consorzio che ora sembra di nuovo in alto mare. Gli azionisti avevano individuato in Fabris, politico di lungo corso di area centrista, la persona ideale per dare un’immagine diversa del gruppo finito nel mirino dei magistrati. Come direttore era stato nominato Hermes Redi, ingegnere padovano già consulente del Consorzio negli anni precedenti. Ma la nuova bufera ha travolto come un tifone i timidi tentativi di ricrearsi un’immagine avviati dalla nuova dirigenza. Ultima l’offerta di «restituire » alla città i bacini di carenaggio e l’area nord dell’Arsenale, affidata al Consorzio per la manutenzione del Mose dal Demanio nel 2005 con il benestare della commissione regionale di Salvaguardia presieduta da Giancarlo Galan. Adesso sono in tanti a chiedere una revisione completa di autorizzazioni e pareri che hanno consentito al Mose di andare avanti. Superando ogni momento critico per decisione politica o di organi tecnici del ministero dei Lavori pubblici, della Corte dei Conti e della Regione, oggi sotto inchiesta. «Vanno chiariti subito tutti gli aspetti opachi della vicenda », chiedono i parlamentari Cinquestelle Endrizzi e Da Villa, «in particolare la mancanza di una Via favorevole e di un progetto esecutivo generale, l’elusione della normativa in materia di gare e appalti, alla triplicazione dei costi e alle varianti in corso d’opera. per tacere della violazione sistematica della normativa di tutela ambientale e paesaggistica da parte degli uffici regionali che cumulavano le competenze in tema di trasporti ma anche di ambiente, paesaggio e valutazione ambientale».
Alberto Vitucci
La Corte dei conti ora indaga su anni di controlli mancati
Dopo l’arresto di un magistrato contabile, ora primo rapporto in due settimane
Renzi: Daspo agli imprenditori. Prodi: «Progetto concepito prima del mio governo»
ROMA – La Corte dei conti ha istituito una commissione di indagine sul Mose dopo che le indagini hanno contemplato anche l’arresto di un ex magistrato contabile al lavoro a Venezia, Vittorio Giuseppone. La decisione è stata presa dal presidente della Corte, Raffaele Squitieri, sentito il consiglio di presidenza, e d’intesa con il Procuratore generale. La commissione, informa una nota, avrà il compito di condurre accertamenti su «tutte le procedure di controllo effettuate negli anni in merito all’opera» oltre che di verificare «gli atti e le relative risultanze».A presiederla è stato nominato il Presidente di sezione Adolfo De Girolamo. Squitieri ha chiesto un primo rapporto entro quindici giorni. Ieri, inoltre, il Procuratore generale, Salvatore Nottola,ha aperto un fascicolo «atti relativi alla vicenda del Mose ed eventuali responsabilità di magistrati della Corte dei conti». Nella nota Squitieri ribadisce che «eventuali casi individuali di corruzione o comportamenti illeciti da parte di magistrati della Corte, di per sè gravissimi e lesivi dell’onorabilità dell’istituzione, vanno individuati e puniti con la massima sollecitudine e severità, e che la Corte assicura alla magistratura ordinaria tutto il supporto tecnico che si ritenga necessario da parte degli inquirenti». Prodi si difende. «Trovo singolare che invece di prendersela con chi si è lasciato corrompere e ha speculato sui lavori del Mose, sempre che la magistratura confermi quanto è emerso fino ad ora dalle indagini, ce la si voglia prendere con chi ha consentito che un’ opera fondamentale per la salvezza di Venezia andasse avanti ». Lo afferma l’ex premier Romano Prodi replicando alle critiche che gli sono state mosse ieri, sul nostro giornale, dall’ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari. «Il progetto del Mose, preesistente al governo da me presieduto», continua Prodi, «fu discusso e esaminato dal Comitato di coordinamento per la salvaguardia di Venezia e della laguna in numerosissime riunioni e fu approvato da una larghissima maggioranza dei componenti. Non procedere alla sua realizzazione sarebbe stato del tutto assurdo e irragionevole». Cantone: non mi occupo di Mose. «Sull’Expo può avere un senso perchè ci sono termini stretti, sul Mose i temi sono già da tempo superati». Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, intervistato da Radio 24, esclude l’ipotesi di potersi occupare dell’inchiesta del Mose. Renzi: Daspo per gli imprenditori. Dovrebbero arrivare venerdì prossimo sul tavolo del Consiglio dei ministri un decreto e un disegno di legge anticorruzione. Il decreto conterrà i poteri dell’autorità nazionale presieduta da Raffaele Cantone. Il disegno di legge potrebbe introdurre una sorta di “Daspo” da uffici e appalti pubblici non solo per i politici ma anche per gli imprenditori. Si tratterebbe, in particolare, di rafforzare le regole che già esistono. E intervenire anche sulle regole per gli appalti. Il Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, chiede un intervento sulla prescrizione. Bersani: ore di avvilimento. «Sono ore di avvilimento. È chiaro che emergono dei comportamenti criminali che, se confermati, meritano una punizione molto severa e emergono anche dei meccanismi criminosi». Lo ha detto l’ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani, a Cagliari per l’inaugurazione di una mostra dedicata a Enrico Berlinguer. «Bisogna che ci convinciamo che, se non si cambiano certi meccanismi, combattere la corruzione è come andare a cavare l’acqua dal mare con un secchio», ha aggiunto Bersani, «basta anche con queste legislazioni speciali. E intanto se ci sono dei ladri cerchiamo di punirli». Riferendosi poi alla «questione morale» affrontata, a suo tempo, da Berlinguer, l’onorevole Bersani ha ricordato che il leader comunista «diede un grande messaggio politico: se i sistemi politici non sono sbloccati e diventano paludosi, provocano corruzione ».
Expo, scontro sui contratti della Maltauro
«Non sono stati rilevati elementi sufficienti a motivare la risoluzione dei contratti. L’impresa Giuseppe Maltauro porterà avanti l’esecuzione dei contratti aggiudicati». Lo comunica la stessa Maltauro, che rende pubblica una nota di Expo 2015. Mentre il cda dell’azienda propone un’azione di responsabilità contro Enrico Maltauro, Roberto Maroni è stupito: «La responsabilità del sito è nelle mani del Governo; ne prendo atto».
Il senatore pd casson alla videochat del nostro giornale
«Zaia mandava Artico al Senato per concordare i lavori alle dighe»
«Io al posto del sindaco Orsoni? No, grazie. Sto bene al Senato a Roma e non mi piace la riforma Renzi»
PADOVA – Dopo l’arresto del sindaco Giorgio Orsoni che succederà a Venezia? C’è chi invoca il senatore Felice Casson per la poltrona di Ca’ Farsetti: l’ex magistrato ha il profilo giusto per salvare la città dai gorghi del Mose. Ma lui, prima di iniziare la videochat al nostro giornale molto seguita dai lettori, risponde con un sorriso e una battuta. «No, grazie, sto benea Roma,al Senato della Repubblica e farò di tutto per salvarlo dalla riforma Renzi. Siamo stati noi a bloccare la legge bavaglio sulla stampa che prevedeva anche l’arresto dei giornalisti. La Camera l’aveva licenziata: se fosse passata non avreste potuto raccontare l’inchiesta Expo di Milano e quella del Mose di Venezia: la libertà di informazione è sacra e inviolabile, come altri diritti inalienabili della persona garantiti dalla Costituzione. Tocca al Senato vigilare». Altra domanda fuori onda: cosa ne pensa di Massimo Bitonci, capogruppo al Senato della Lega, che vuole fare il sindaco di Padova? «Ma è un mio collega? Non conosco la sua voce al Senato ». Come si può sradicare il sistema di corruzione così diffuso? Serve il Daspo come dice Renzi? O va ripristinato il falso in bilancio con l’autoriciclaggio e l’inasprimento delle pene? Ecco la riposta di Casson: «Le leggi ci sono, vanno solo applicate. Credo sia fondamentale intervenire sui meccanismi di prescrizione che rischiano di vanificare l’azione penale della magistratura. Qui bisogna intervenire in fretta, altrimenti i processi con le condanne saranno inutili. I magistrati hanno fatto un lavoro eccezionale durato anni: le confessioni di Baita e Mazzacurati hanno trovato conferma con le rogatorie internazionali, i passaggi di denaro sono documentati. Lavoro egregio, lo dico da ex pm e giudice istruttore». Qual è il peccato originale del Mose: la concessione unica al Consorzio Venezia Nuova? «Certo, l’errore sta in quella scelta, che ha spalancato le porte alla degenerazione del sistema. I costi sono lievitati da 1 a 5,5 miliardi e la manutenzione delle paratoie costerà almeno 20-25 milioni l’anno. Ho sempre espresso perplessità su quest’opera e condiviso i dubbi e le critiche delle associazioni ambientaliste e dei comitati, e alle ultime primarie del centrosinistra nel 2010 ho sostenuto Bettin e non Orsoni», dice il senatore Casson. Se ilPdè rosso di vergogna, il Pdl invoca il garantismo mentre la Lega esulta perché nessuno dei suoi è finito in manette. Eppure Renato Chisso è assessore nella giunta Zaia e in Regione hanno fatto una retata di dirigenti, alcuni dei quali già arrestati nel 1992 e tornati al loro posto come Chisso:lei che ne pensa? «Luca Zaia non si può chiamare fuori, sapeva tutto del Mose tramite Chisso e Giovanni Artico, funzionario arrestato: era lui il supertecnico del Mose che il governatore veneto della Lega inviava al Senato per decidere i finanziamenti e l’ avanzamento dei lavori. La commissione Ambiente di Palazzo Madama ha provato a mettere dei paletti, ma alla fine Artico concordava tutto con Pdl e Lega. E ora abbiamo capito come funzionava il meccanismo. Altro capitolo: i controlli. L’Europa ha chiesto all’Italia che i controlli ambientali sui lavori del Mose fossero affidati ad un organo non coinvolto nei lavori ma, grazie all’intervento dell’assessore Renato Chisso, il monitoraggio è tornato sotto il controllo di quegli uomini che in Regione Veneto venivano regolarmente stipendiati dal Consorzio Venezia Nuova proprio perché non creassero problemi. La regia va cercata a Palazzo Balbi».
(al.sal.)
La città senza sindaco si cerca una via d’uscita
Senza un provvedimento ad hoc del governo non sarà possibile votare prima della primavera 2015. Lo spettro del commissario spaventa i partiti
MESTRE – Tutti i futuri scenari sono legati in Comune alle scelte del sindaco Giorgio Orsoni (dimettersi o resistere) e alla capacità della reggenza provvisoria, affidata a Sandro Simionato, di arrivare a votare il bilancio, entro il prossimo 31 luglio. Il vicesindaco ci prova, con l’appoggio dei partiti del centrosinistra, forte del fatto che «l’amministrazione non è coinvolta nelle vicende giudiziarie», dice da Ca’ Farsetti Simionato. La maggioranza di centrosinistra, per ora, mette da parte tentennamenti e opportunità per stare unita e portare in porto il bilancio. Poi tutti a casa, questa è una prima ipotesi o, se va bene, si resiste fino a scadenza naturale dell’amministrazione. «Ci prendiamo la responsabilità di portare in porto il Bilancio », dicono dai partiti, dal Pd all’Udc. La scadenza naturale della giunta Orsoni è quella della primavera 2015. La prima data utile per le elezioni coincide al momento con le prossime elezioni amministrative di aprile 2015. In tempi di spending review, le nuove norme elettorali concedono una sola “finestra”, quella primaverile. Un anticipo del voto? Possibile solo se interviene il Ministero con un decreto legge. Altra strada tutta da sondare sono le opportunità date dalla nascita della città metropolitana che non potrà certo decollare con un sindaco sospeso e indagato. Una delle alternative delle prossime ore potrebbero essere le dimissioni in blocco dei consiglieri di maggioranza se sarà evidente che non si riuscirà a chiudere il bilancio. Sempre in ballo è la possibilità che Orsoni si dimetta: allora giunta e Consiglio vanno a casa e arriva il commissario ad occuparsi del bilancio. Ipotesi, questa, che fa paura a taluni, che temono tagli con la mannaia del burocrate e il rischio di penalizzare welfare e servizi al cittadino ma non del tutto insensata per altri, che forse avrebbero preferito non aggiungere anche una cura «da lacrime e sangue» (almeno 40 milioni da reperire per il bilancio di previsione) alle note di demerito da parte dei cittadini nei confronti di un Comune rimasto senza sindaco per lo scandalo delle tangenti Mose. Un pensiero di opportunità: se tagli pesanti tocca fare, specie dopo il fermo alla vendita del casinò, allora che li faccia un commissario. Pensieri per ora rientrati dalla responsabilità di voler votare il bilancio. Infine l’ipotesi “limbo”, che è tutt’altro che facile. La sospensione di Orsoni e la reggenza provvisoria di Simionato potrebbe durare fino a quattro mesi (tre di custodia cautelare più uno in caso di proroga) e dopo questo periodo il sindaco potrebbe tornare a Ca’ Farsetti. Tutti si augurano che Orsoni riesca a dimostrare la sua innocenza ma se torna al suo ruolo di sindaco, il problema diventa anche di opportunità politica. Il centrosinistra resterà al suo fianco e come? Del resto, tutti lo ammettono tra le righe: questo tsunami giudiziario in laguna è stato davvero un duro colpo all’immagine dell’amministrazione. Il quesito di fondo è anche questo.
(m.ch.)