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A Caldogno i lavori del bacino di laminazione sono al 20% di realizzazione

Gli altri quattro vasconi antialluvione saranno pronti forse solo nel 2018

VENEZIA – Il bacino di laminazione di Caldogno, opera prima tra quelle del post alluvione 2010, è al 20 per cento della sua realizzazione. Per questo il governatore Luca Zaia andrà personalmente a vedere lo stato di avanzamento, venerdì prossimo, dell’invaso per contenere le acque del Timonchio, affluente di quel Bacchiglione che costantemente minaccia Vicenza e, quando salta gli argini, allaga anche Padova. A quasi quattro anni dall’alluvione del novembre 2010 a che punto sono le opere di difesa del suolo? Gli interventi sono quasi trecento, piccoli e grandi, per un investimento complessivo di 105 milioni di euro. La Regione del Veneto ne fornisce l’elenco puntuale: ma – ammettono a palazzo Balbi – per usufruire degli effetti delle infrastrutture di sicurezza idraulica bisognerà aspettare almeno l’inizio del 2018. Questi sono i tempi: dalla ricerca dei finanziamenti alla progettazione di massima, preliminare, esecutiva; dalle procedure di gara all’assegnazione; dalla consegna del cantiere all’impresa al completamento e collaudo dei lavori. Una corsa a ostacoli che prevede che almeno dieci diversi enti formulino i loro pareri sulle procedure: salvo ricorsi amministrativi, per aprire un cantiere servono almeno tre anni di procedure burocratiche. Un ginepraio più volte denunciato da tutti. I lavori del più importante dei bacini, quello del Timonchio a Caldogno, è stato assegnato «in via d’urgenza» all’associazione temporanea di imprese che ha vinto l’appalto, saltando gli ultimi passaggi dopo il pressing esercitato dai vertici della Regione. Ma l’avanzamento fisico delle opere è attualmente pari al 20 per cento dei lavori di progetto: un quinto. Per vederlo ultimato bisognerà attendere il febbraio 2016: poi il collaudo e finalmente la sua entrata in funzione, con la speranza che non debba servire mai. A Zaia va riconosciuto l’avvio di un piano strategico di difesa del suolo («Quando sono arrivato, nel 2010, di tutte queste opere non c’era nemmeno uno schizzo» ha dichiarato più volte) ma l’avanzamento appare a passo di lumaca. Del resto, la messa in sicurezza del Veneto appare un’impresa ciclopica: due miliardi i danni provocati dall’alluvione del 2010, 120 milioni nel 2012, 54 milioni nel 2013 e ben 301 quest’anno.

Il Veneto è una regione fragilissima, dove un terzo dei comuni è considerato «a elevato rischio idrogeologico», un’intera provincia (quella di Belluno) a rischio frana, larga parte della pianura esposta a esondazione, quasi novanta comuni classificati a medio rischio sismico.

Se poi ci mettiamo del nostro, come la cementificazione e l’impermeabilizzazione del suolo (con le sempre più frequenti tombinature dei fossi, naturali scoli delle acque meteoriche) il primato del Veneto è nazionale. Secondo un recente studio dell’Ispra, la nostra regione è dopo la Lombardia la regione dove maggiore è il consumo del suolo, con una percentuale superiore al dieci per cento. Con una crescita esponenziale subita negli ultimi quindici anni, anche dopo gli exploit delle leggi Tremonti.

La Regione, da par suo, fa l’elenco delle opere finanziate dopo l’alluvione 2010. I trecento interventi (277) finanziati, per un importo complessivo di 105 milioni di euro, non bastano: si va da opere di regimazione dei fiumi a messa in sicurezza di alcuni punti critici. Quanto ai bacini di laminazione, i principali sono quelli del Timonchio a Caldogno (40 milioni di euro, invaso di 3,8 milioni di metri cubi), del bacino Trissino (22,7 milioni di euro, 2,5 milioni di metri cubi), dell’invaso San Lorenzo (cinque milioni di euro, 860 mila metri cubi), l’invaso Colombaretta (12,7 milioni e 935 mila metri cubi) e il bacino Muson (16,8 milioni di euro per un milione di metri cubi). Dei cinque «vasconi» destinati ad ospitare le piene di fiumi e torrenti solo quello di Caldogno è partito e la conclusione dei lavori attesa per il febbraio 2016. Per il Trissino la consegna dei lavori è attesa a giorni e la conclusione del cantiere per il dicembre 2016. I lavori del bacino San Lorenzo inizieranno nel settembre 2015 per concludersi un anno dopo. L’appalto dell’invaso della Colombaretta, invece, è previsto per dicembre e la conclusione lavori per il settembre 2016. Il bacino del Muson, infine, strategico per salvare Castelfranco e l’Alta Padovana, dovrebbe andare in appalto a dicembre e concludere i suoi lavori entro il dicembre 2016. A cinquantun anni dalla tragedia del Vajont, il Veneto riparte insomma quasi da zero. Ma continua lo stesso, tragico errore: quello di dimenticare troppo in fretta.

Vera Mantengoli

 

«Non sono bombe d’acqua ma tragedie annunciate»

TREVISO – Marco Tamaro, direttore della Fondazione Benetton, lavora da trent’anni nel campo della difesa del suolo. La sensibilità è cresciuta o diminuita negli ultimi anni? «É certamente cresciuta, soprattutto a causa delle tragedie che puntualmente si abbattono sull’Italia e sul Veneto». Cosa fare per scongiurare nuovi disastri? «L’ennesima tragedia di Genova è figlia dell’insipienza. Certo, ci sono stati ritardi, ma si assiste a uno scaricabarile improduttivo: chi dà la colpa alle imprese, chi alla magistratura amministrativa, chi alla politica. Ma la verità è che siamo rimasti indietro». Gli enti che coordinano alla difesa del suolo sono stati spogliati, non è così? «Un tempo dentro a questi organi c’erano fior di professionalità: rispettate, temute, insindacabili. Oggi mancano i numeri e talvolta le competenze, si è deciso di non investire più in questo campo». Salvo poi ricorrere agli interventi di emergenza. «Ma siamo ancora fermi agli interventi post alluvione del 1966. Peccato che in 40 anni sia radicalmente cambiato l’assetto del territorio, l’urbanizzazione, il consumo del suolo. Certo, anche il clima» Come si può prevedere l’arrivo di una bomba d’acqua? «Ecco, mi sembra ipocrita usare questo neologismo. è come dare la colpa all’Altissimo. Sposta il problema lontano, è un inutile e dannoso gioco di parole per schivare responsabilità. Se dico bomba d’acqua evoco la guerra, condizioni straordinarie, terribili. Così cerco di attribuire colpe all’eccezionalità della situazione. E invece no. Il dissesto è figlio delle nostre decisioni, della nostra superficialità, di una politica del territorio inadeguata. Certo, anche dei cambiamenti climatici, ma insieme a una serie di cause che hanno negli uomini e nelle loro decisioni la responsabilità» Quali gli esempi da seguire? «A Copenagen c’è un ufficio per la gestione del suolo alla luce dei cambiamenti climatici, il suo dirigente gira l’Europa per spiegare cosa stanno facendo. A Venezia c’è un eccellente Centro di ricerca sui cambiamenti climatici, guidato da Carlo Giupponi, non ascoltato abbastanza». Da dove ripartire? «Su una cosa Renzi ha ragione: che bisogna rifare il paese, azzerare le procedure, ripartire da zero. Se toccasse a me chiamerei le migliori competenze a lavorare su questi temi: con procedure chiare e tempi snelli». Cosa pensa del Piano casa della Regione? «É assolutamente contrario a una politica di corretto uso del territorio: al Veneto serve piuttosto un grande piano di demolizione del patrimonio esistente non più funzionale». Ma rappresenta un ottimo volano economico. «Un’altra pietosa ipocrisia. Se c’è qualcosa, oggi, che può muovere interessi economici è proprio la rottamazione dei volumi e il riassetto del territorio: c’è molto lavoro da fare e molti posti da lavoro da occupare. Ma bisogna crederci».

Daniele Ferrazza

 

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