Gazzettino – Riviera. Scarpe cinesi, tremano i calzaturieri
Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments
26
apr
2015
RIVIERA DEL BRENTA – Controlli a tappeto di Direzione provinciale del lavoro, Finanza e Spisal
Offensiva contro abusivi e lavoro sommerso, ora rischiano pure i committenti italiani
NEL MIRINO – L’offensiva della Guardia di Finanza contro il lavoro sommerso dei calzaturifici non riguarda solo i negozianti cinesi. «I controlli li abbiamo estesi anche ai committenti italiani, responsabili sul fronte dell’elusione contributiva», spiega la Direzione provinciale del Lavoro.
GRANDI GRIFFE – L’operazione “Colpo di tacco” ha interessato 48 tomaifici, di Riviera e Miranese. «È riduttivo – incalza Cossu – tacciare i cinesi di concorrenza sleale, ma chiediamoci chi dà loro lavoro come contoterzisti. Sono i calzaturifici italiani, anche quelli legati alle grandi griffe.
ELUSIONE CONTRIBUTIVA Se i laboratori cinesi non pagano, imprese locali responsabili in solido
Calzature in nero, a rischio pure gli italiani
LA NOVITÀ «Chi dà lavoro ai tomaifici stranieri risponde in caso di inadempienze»
«Questa volta non ci siamo limitati ai laboratori cinesi, ma i controlli li abbiamo estesi anche ai committenti italiani, chiamati in causa come responsabili solidali sul fronte dell’elusione contributiva». Così Franca Cossu, combattiva responsabile della Direzione provinciale del Lavoro, sintetizza l’aspetto innovativo dell’ultima offensiva contro il sommerso nel calzaturiero, sferrata in Riviera e nel Miranese insieme a Guardia di Finanza, Spisal e Inps. Quell’operazione “Colpo di tacco”, che da novembre a ora ha interessato 48 tomaifici, con irregolarità riscontrate nel 70% dei casi e chiusura di otto opifici.
«È riduttivo – incalza Cossu – tacciare i cinesi di concorrenza sleale, ma chiediamoci chi dà loro lavoro come contoterzisti. Sono i calzaturifici italiani, anche quelli legati alle grandi griffe, al lusso e non solo del made in Italy, perché qui, sia chiaro, non stiamo parlando di contraffazione. E allora c’è il committente serio che va a verificare le condizioni del laboratorio cui si affida e fornisce anche il materiale, garantendo quindi la qualità sul prodotto finito. D’altro canto c’è il calzaturificio che pensa solo a spendere meno e quindi non si fa scrupolo di come le tomaie vengono confezionate».
Si sa il modo più facile per abbassare i costi di produzione è quello dello sfruttamento dalla manodopera, dell’evasione fiscale e previdenziale, del mancato rispetto della normative igienico-sanitarie della sicurezza, dell’impiego di materiale scadente.
«A eccezione dei soliti furbi, il nostro intervento non è mai repressivo fine a se stesso. Quindi – afferma Cossu – non vogliamo punire la committenza, bensì renderla consapevole: per questo con l’Inps intendiamo far rispondere in solido, per quanto riguarda il mancato versamento dei contributi ai lavoratori, i destinatari del prodotto richiesto. Mi spiego: il laboratorio cinese ha gli occupati in regola per tre ore la giorno, ma di fatto il consumo di energia, il numero di paia consegnato al giorno, la fatturazione, ecc. dimostrano che l’impiego orario della manodopera doveva essere almeno il doppio se non di più allora se non paga il cinese, deve pagare l’italiano. Il motivo? Spesso una volta eseguito l’accesso ispettivo e perfezionato l’esito, quando si torna non si trova più la stessa azienda, bensì la stessa committenza, a conferma di una filiera fissa».
Ammonta a 54.918 euro il primo verbale per elusione contributiva “conto terzi”, notificato a un calzaturificio rivierasco e già saldato.
E se esternalizzare, anche ai cinesi, segmenti della produzione applicando le regole è una prassi prevista dalla legge, non lo è in particolari condizioni.
«Ad esempio – conclude Cossu – quando si ricorre alla cassa integrazione in deroga per i propri dipendenti, che è a carico della fiscalità generale. È successo per un’unica azienda che, fortunatamente rappresenta un’eccezione, e nei confronti della quale verranno elevare non solo contestazioni amministrative ma anche penali».
Monica Andolfatto