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VENEZIA – Caso Mantovani. Il sindaco: «Rapporti ordinari»

Chi si aspettava clamorose rivelazioni sui rapporti tra l’impresa Mantovani e la città di Venezia dall’audizione del sindaco dev’essere rimasto abbastanza deluso. In procinto di partire per gli Usa, Giorgio Orsoni ha ripercorso le tappe degli episodi di cui era a conoscenza, rinviando i dettagli ai documenti che ha detto essere stati già inviati ai singoli componenti della commissione d’indagine. Infatti c’è chi come Marta Locatelli (Pdl) ha denunciato l’inerzia dell’amministrazione a rispondere alle questioni fondamentali per concentrarsi sui formalismi.

OSPEDALE AL MARE – «Fino alle ultime battute – ha detto il sindaco – è stata una partita gestita dal commissario». Il sindaco ha spiegato che il Comune ha intenzione di dare avvio alla causa con Est Capital per rientrare in pieno possesso del bene e, magari, rimetterlo in gioco in un momento in cui l’economia sarà ripartita.

MOF – L’area del Mercato ortofrutticolo di Mestre è stata acquistata da venice Campus, società acquisita di recente dal gruppo Mantovani. «Il 31 dicembre 2012 – ha riferito Orsoni – abbiamo risolto il problema del trasferimento degli operatori in via Porto Cavergnago: Venice Campus si impegna a realizzare la piattaforma di Fusina in cui ci sarà il nuovo mercato e solo dopo ci sarà il trasferimento da via Torino. Il termine lavori è il 2014 e ci teniamo il terreno in via porto di Cavergnago che vale una decina di milioni».

COPPA AMERICA – «Il 13 agosto 2011 – racconta Orsoni – raggiungemmo un accordo con gli americani: 750mila euro di “fee” invece dei 5 milioni che volevano e tutte le spese organizzative coperte da sponsor. Il Consorzio Venezia Nuova, Thetis e Mantovani furono gli unici a farsi avanti perché in quel momento dicevano che avrebbe fatto comodo un po’ di visibilità. Dopo l’approvazione del porticciolo al Lido erano in cerca di investitori. la loro offerta: 5 milioni».

TRAM – «Ve ne parlerà il presidente di Pmv – ha riferito il sindaco – io posso solo dire che i cantieri stanno procedendo e che si finirà entro il 2014».

AUTOSTRADE – «I pacchetti della Serenissima e della Brescia Padova erano di minoranza e non ricercati da nessuno. Dopo molte aste a vuoto, Mantovani è stata l’unica a fare un’offerta».

MOSE – «Ribadisco che il Comune è del tutto estraneo alla sua realizzazione – ha concluso – ma ho sempre ribadito anche di recente che la gestione delle acque della laguna e del Mose non può vederci estranei. Invece mi preoccupo un poco quando sento di riunioni tra Magistrato alle Acque, Porto e Capitaneria senza il Comune. Enti che non hanno avuto il garbo di invitarci, ma se il Mose è stato fatto per la salvaguardia della città, il Comune deve entrare nella gestione, qualsiasi sia la forma di ente gestore adottata».

Michele Fullin

 

ACQUA ALTA»LA PRIMA MOVIMENTAZIONE

Dopo trent’anni di studi e polemiche le dighe mobili superano il primo test

Ma permangono i problemi legati agli alti costi di gestione dell’opera

Le paratoie si alzano. E ci mancherebbe, dicono i comitati. Quello è il principio di Archimede. Adesso bisognerà vedere se il sistema funziona, quali saranno i suoi effetti sull’equilibrio della laguna.

Quanto costeranno manutenzione e gestione. Il giorno dopo la grande cerimonia del Mose si tirano le prime somme. Soddisfazione al Consorzio Venezia Nuova, che dopo gli scandali giudiziari ha voluto voltare pagina. Bombardamento mediatico per giornali, tv e fotografi, oltre un centinaio, giunti anche dall’estero. Riscontri positivi, con la presenza del ministro Lupi che ha garantito i finanziamenti per completare l’opera nel 2017. Soddisfazione per le maestranze, e adesso si prova a vendere la «tecnologia tutta italiana» a New York per un progetto simile. Ma tanti problemi restano aperti.

La manutenzione della città. «Abbiamo assistito alle prove delle prime paratoie del Mose», dice l’assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin, «sappiamo che se il meccanismo funzionerà, nel 2017, la città sarà al riparo da qualche acqua alta. Non sappiamo ancora se funzionerà in caso di aumento del livello dei mari e soprattutto non vogliamo che la manutenzione della città sia abbandonata».

Negli ultimi anni quasi tutti i fondi a disposizione della Legge Speciale sono stati assorbiti dalla grande opera. Per il restauro degli edifici, lo scavo dei rii, il rifacimento di rive e ponti le risorse sono vicine allo zero. «Vi abbiamo dato cento milioni», ha detto il ministro il giorno del Mose. «I conti non tornano», ha risposto il sindaco.

Gestione del Mose. Un problema, una volta che fra tre anni i lavori di costruzione saranno conclusi, per la gestione del sistema. Chi deciderà sulle aperture, chi coordinerà i lavori per la manutenzione. Da progetto, ogni paratoia delle 78 messe sui fondali delle tre bocche di porto dovrà essere rimossa e portata all’Arsenale ogni cinque anni. Una ogni 23 giorni. Costi che secondo il Consorzio sono fermi a 45 milioni di euro l’anno. Forse non sufficienti, comunque pari ai fondi che arrivavano ogni anno in laguna per la manutenzione. Il costo del Mose, inizialmente di un miliardo e mezzo di euro, è arrivato adesso a quasi sei miliardi di euro.

Le critiche. «Invece di venire a inaugurare le prove di quattro paratoie», dice il senatore del Pd Felice Casson, «il ministro Lupi farebbe bene a rispondere alle interrogazioni che abbiamo presentato. Sulle cerniere e la tenuta del sistema in caso di mare agitato, sulle inchieste che hanno portato in carcere esponenti del Consorzio, sui costi».

Gli inviti. «Dopo tutti i disagi imposti agli abitanti del Lido e di Punta Sabbioni potevano almeno invitare una rappresentanza di cittadini», dice l’avvocato Mario d’Elia, a nome dei consumatori. Tra gli invitati del resto, non c’erano il padre del Mose Giovanni Mazzcurati, di recente indagato per turbativa d’asta, né Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani (primo azionista del Consorzio) e coordinatore dei lavori fino al febbraio scorso. E nemmeno il primo presidente Luigi Zanda, oggi capogruppo dei senatori Pd a palazzo Madama.

Alberto Vitucci

 

i materiali

De Simone: «Vernici intaccate dal salso»

Aggressione salina già in azione. Materiali scelti «che non sono i migliori». Cerniere saldate e non fuse, lamiera a protezione catodica con anodi sacrificali al posto dell’acciaio. Fernando De Simone, architetto ed esperto di costruzioni marittime, è da sempre uno dei grandi critici del progetto Mose. Qualche anno fa aveva presentato un progetto alternativo – mai esaminato dal ministero – sul modello delle barriere già costruite a Rotterdam. Adesso attacca l’uso dei materiali e parla della difficile manutenzione di un meccanismo destinato a restare per sempre sott’acqua.

«Come dimostrano le foto, dopo pochi giorni di immersione l’aggressione salina ha già attaccato la vernice protettiva», dice, «hanno garantito le paratoie per cento anni ma le paratoie saranno tutte sostituite ogni cinque anni».

De Simone lancia l’allarme costi e chiede: «Cosa succederà se due paratoie si dovessero bloccare? Si aprirebbe una falla di 40 metri».

 

Gazzettino – Venezia. Il Mose si alza. Il futuro divide.

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13

ott

2013

LA POLEMICA  – Ma ora è scontro su chi gestirà le dighe mobili

BUONA LA PRIMA – Show in pompa magna per il sollevamento delle barriere mobili

Il ministro sale sulle dighe «Tutti i soldi arriveranno»

Scoppia il caso dell’ente gestore

E pensare che, per anni, il MOdulo Sperimentale Elettromeccanico, per tutti Mose, aveva avuto le sembianze di un baldacchino rosso, una specie di capitello in ferro che, non era ben chiaro come, avrebbe dovuto in un lontano futuro salvare Venezia dalle acque alte.  E invece eccoci qua, alle tre di un caldo pomeriggio di ottobre, con il sole che splende e un cielo così terso da far vedere in lontananza le montagne, tutti schierati sui ponti della motonave “Lady Giò” ad aspettare che l’acqua si increspi e dal fondale emergano le prime quattro paratoie gialle con i bordini rossi. Che poi all’inizio non danno neanche l’idea di poter fermare l’acqua: quando poco dopo le alle 15 (per la precisione 15 07’ 53″ – data e orario da segnare, non fosse altro perché se ne parla da 25 anni) si alza il primo parallelepipedo e poi subito sembra riaffondare, beh, sembra un mattoncino giallo del Lego sperso in mezzo all’acqua davanti alla bocca di porto del Lido. Poi però emerge il secondo. E dopo un altro quarto d’ora il terzo. E il quarto. E insieme formano una fila che dà l’idea della barriera e si capisce che, quando ci saranno tutte le 78 paratoie, l’acqua dell’Adriatico soffiata dallo scirocco troverà davanti a sé davvero un muro.
Per questa “Prima movimentazione delle paratoie del Mose” il Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico dello Stato, ha fatto le cose in grande. Ha aperto le porte al ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi. Ha invitato giornalisti da mezzo mondo (103 accreditati di cui un terzo stranieri, tra cui il New York Times, Al Jazeera, Il Quotidiano del Popolo di Pechino). Ha affittato una motonave e un pullman per i tour nei cantieri prima alla bocca di porto di Malamocco, poi del Lido (ci sarebbe stata anche Chioggia, ma non c’era tempo), per non parlare del contorno di motoscafi di supporto. La comunicazione per l’occasione (ma la collaborazione potrebbe anche continuare) è stata affidata allo studio di Enrico Cisnetto. Tutto è stato studiato nei minimi dettagli. Ad esempio: metti mai che piovesse, come facevano le autorità e i 100 e passa invitati, oltre ai giornalisti, a restare un’ora sotto la pioggia? E allora ecco gli scatoloni pieni di impermeabili Muji, due colori, o bianco o nero, prezzo di listino 15 euro l’uno. E le brochure e i video illustrativi perché, come raccontava l’ingegner Alberto Scotti, il “papà” del Mose, il progettista delle dighe mobili, «la cosa più difficile in tutti questi anni è stata spiegare ai politici, ma non solo a loro, il funzionamento del sistema di paratoie». (Tra parentesi: al Consorzio precisano che le spese per la comunicazione non provengono dai fondi per la salvaguardia di Venezia, sono soldi messi da parte ogni anno dalle imprese sulla base dei fatturati. Così, tanto per chiarire). Insomma, tutto in pompa magna per mostrare che il Mose funziona e funzionerà ogni qualvolta l’acqua salirà a 110 centimetri e dunque le dighe si alzeranno al massimo sette volte all’anno.
Tutte queste cose le spiega in mattinata ai giornalisti Hermes Redi, il direttore del Consorzio. Poi, nel pomeriggio, quando ci sono le autorità e in prima fila sul ponte più alto della motonave siedono il ministro Lupi, il governatore del Veneto Luca Zaia, il sindaco Giorgio Orsoni, la presidente della Provincia Francesca Zaccariotto, è il presidente del Consorzio Venezia Nuova, Mauro Fabris. Peccato che il rumore dell’elicottero che volteggia in cielo per riprendere dall’alto l’evento copra la voce di Fabris. Tant’è, sono immagini che faranno il giro del mondo. Come le rassicurazioni di Lupi: «L’obiettivo tassativo è il completamento dell’opera entro il 2016». Perché prima che parlasse il ministro, era stato Zaia a introdurre il poco nobile argomento dei soldi: «Il Mose funziona solo se sarà completato. E oggi è finanziato per l’87%». Ergo, ai 4,9 miliardi di euro già impegnati bisogna trovare gli altri 600 milioni. Il che, in tempi di crisi, non è scontato. Ma il ministro, appunto, rassicura: «I 120 milioni che erano stati tolti saranno reintegrati con la prossima Legge di Stabilità, ma anche le altre risorse per far andare avanti l’opera fino al termine della parte realizzativa ci saranno».
Bene, ma dopo cosa succederà? Nel 2016, una volta che saranno realizzate le quattro dighe con le 78 paratoie alle tre bocche di porto di Chioggia, Malamocco e Lido, chi deciderà quando premere il bottone per azionare il sistema di difesa dell’acqua alta? Chi gestirà il Mose? Chi sarà il cosiddetto Ente Decisore? «È una scelta che dobbiamo affrontare tutti assieme – dice il sindaco Orsoni – La gestione del Mose non può essere affidata solo al Magistrato alle Acque né solo al Porto né solo al Comune o alla Regione. Deve esserci un organismo che metta assieme in modo paritario tutti questi soggetti. Ma non dimentichiamo che il Mose nasce per difendere la città di Venezia». Il ministro alle Infrastrutture non si sbilancia: «Spetta al Parlamento decidere». E i soldi per la gestione? «Governo e Enti locali dovranno lavorare assieme per capire come individuare le risorse necessarie», dice Lupi. Che poi provoca: «Sennò il sindaco di Venezia si inventerà una nuova tassa, ma noi siamo le sentinelle anti-tasse».

Alda Vanzan

 

Venezia, il Mose supera l’esame  «Segnale al mondo»

Positivo test per le paratoie mobili che dal 2016 proteggeranno la città dalle acque alte: un muro che verrà alzato alle tre bocche di porto lagunari

Dieci anni di lavoro, già spesi 4,9 miliardi

Le dighe si alzeranno con acque superiori ai 110 centimetri: meno di 10 volte all’anno

BOTTA E RISPOSTA

Orsoni: «Costituire un organismo»

Lupi: «Deve decidere il Parlamento»

Mancano ancora 600 milioni per completare il progetto entro il 2016

Il sindaco: ora bisogna individuare chi governerà il sistema di difesa

Mazzacurati, il padre del Mose travolto dallo scandalo «L’avevamo invitato a una prova, ma non è venuto»

Flavia Faccioli, responsabile delle relazioni esterne del Consorzio Venezia Nuova, è aggrappata alla balaustra della motonave. Stanno alzando la prima delle quattro paratoie, quella identificata con il numero 7, e mentre la radio gracchia gli ordini che i tecnici stanno impartendo, lei non stacca gli occhi dalla striscia di mare. Sussurra: «Sono ventun anni anni che aspetto questo momento».
Anche l’ingegner Giovanni Mazzacurati forse avrebbe voluto esserci, ma l’ex numero uno del Consorzio Venezia Nuova, prima direttore, poi presidente e direttore insieme del concessionario unico delle opere di salvaguardia di Venezia, non si è fatto vedere. Né nessuno l’ha nominato, anche se tutti sanno che il Mose in un certo senso gli appartiene.
Mauro Fabris, il nuovo presidente del Consorzio Venezia Nuova, lo ammette: «Mazzacurati è il padre del Mose, una storia lunga 35 anni non si può cancellare».
Coinvolto in una vicenda giudiziaria che la scorsa estate (dopo le dimissioni dal Consorzio avvenute il 28 giugno) gli è costata l’arresto, l’ingegner Mazzacurati non è stato invitato alla prima movimentazione delle paratoie alla bocca di porto del Lido.
«Non abbiamo invitato nessuno dei precedenti presidenti del Consorzio Venezia Nuova», chiarisce Fabris. Che però ammette: «L’ingegner Mazzacurati l’abbiamo invitato in un precedente momento per le prove della movimentazione. Però non ha accettato, non ha voluto venire».

Al.Va.

 

IL CONSORZIO – Fabris: non subiremo le pretestuose polemiche di chi si oppone all’opera

Ore 15,37 dalla laguna esce il Mose

In azione le prime quattro paratoie, 47 anni dopo l’”acqua granda”. Operazione riuscita

Data e ora da ricordare: 15.37, 12 ottobre 2013. Tutto si è risolto in pochi minuti. Dall’acqua verdognola, tra le onde dolci della laguna alla bocca di porto di Lido, pur con qualche apprensione, il Mose ha preso forma. Tra i flutti, come in un film di 007, è spuntato un grande contenitore giallo con le strisce rosse; e poi un altro ancora. Alla fine hanno fatto capolino 4 grandi paratoie. A 47 anni dall'”acqua granda” del 1966, dopo 25 anni di progetti e polemiche, e dieci dalla posa della prima pietra, il sistema Mose con tutta la sua potenza è spuntato dalle acque. Quasi una simbologia biblica.
Ma, ieri pomeriggio, con i cassoni, si è vista solo la punta dell’iceberg, ma sotto il livello dell’acqua, a 12 metri di profondità, era all’opera una vera città realizzata lungo un tunnel che collega la riva di Lido con quella di Treporti, e che ospita tutti gli alloggiamenti per i cassoni. Un lavoro faraonico che unirà anche le bocche di porto di Malamocco e di Chioggia per un totale di 78 paratoie di diverse proporzioni (215; 320; 380 e 330 tonnellate). E poi 27 strutture di alloggiamento ovvero i cassoni, veri e propri condomini costruiti sul fondale della laguna (si varia da 13 mila a 22.500 tonnellate). E poi 156 cerniere che vincoleranno le paratoie agli alloggiamenti e che consentiranno poi il movimento di alzata e discesa delle paratoie in sette minuti. E oltre a tutto questo tre conche di navigazione, una per zona per grandi navi; imbarcazioni e pescherecci. Numeri da capogiro per un’opera di ingegneria idraulica “made in Italy” che, quando sarà ultimata nel 2016, potrà difendere Venezia dalle alte maree. Il tutto per 5 miliardi e mezzo di euro.
«Si è stabilito che le paratoie potranno alzarsi – spiega il direttore del Consorzio Venezia Nuova, Hermes Redi – quando si raggiungerà la quota di marea di 1.10. Quindi, cinque, sei, sette volte all’anno. E in tutti i casi di emergenza».
E all'”alzata” delle dighe mobili – con il ministro Maurizio Lupi, il governatore Luca Zaia, la presidente della Provincia Francesca Zaccariotto, il sindaco Giorgio Orsoni, Roberto Daniele per il Magistrato alle Acque oltre ai rappresentanti del Comitatone e molti imprenditori che hanno partecipato con le loro aziende al progetto – è toccato al presidente del Consorzio Venezia Nuova, Mauro Fabris, tracciare un primo bilancio. «Un’opera originata dall’acqua alta del 1966 – ha detto – e da allora si sono succedute 14 legislature, 44 governi, 10 sindaci di Venezia. Lo Stato ha fatto tre leggi speciali, e 48 riunioni del Comitatone. Qui, oggi, si è avuta la prova che si sta realizzando un grande progetto. Noi siamo concentrati su questo, nonostante vicende estranee al Consorzio rischino di condizionare l’operatività, intenzionati a non subire le pretestuose polemiche di chi da 50 anni si oppone e che ora pensa di strumentalizzare quelle stesse vicende per ottenere con altri mezzi ciò che in decenni di confronti tecnici, scientifici e politici non ha ottenuto».

Paolo Navarro Dina

 

LA TECNOLOGIA – Il sindaco Bloomberg vuole difendere così New York

COSTI E TEMPI – Nel 2016 l’opera idraulica più complessa al mondo sarà costata 5,5 miliardi

LE POLEMICHE – Il “fronte del No” la città spesso spaccata le ultime inchieste

Così in 35 anni il “Progettone” si trasformò in Mose

Alla fine saranno passati 13 anni e saranno stati spesi 5 miliardi e mezzo di euro: l’equivalente di una manovra finanziaria. Ma nel 2016 «la più bella città del mondo, sarà anche la più forte», come citava – chiudendo con uno slogan da curva da stadio, “Venezia for ever” – il video celebrativo dei lavori del Mose, proiettato ieri durante la cerimonia di innalzamento delle prime paratoie del sistema che difenderà Venezia e laguna dalle acque alte. Tredici anni per realizzare la più complessa opera di ingegneria idraulica del mondo e per chiudere il più massiccio intervento di modifica della morfologia lagunare che si ricordi.

 

Gli anni del Progettone

Nel 2016, a Mose finito, saranno ben 35 gli anni trascorsi da quando, nel 1981, sette professori universitari scelti dal governo consegnarono il “Progettone” con cui si prevedeva di regolare le maree con restringimenti alle bocche di porto, integrati da dighe mobili. E saranno 32 gli anni trascorsi da quando il Comitatone del 1984 decise di affidare le opere di salvaguardia della laguna a un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova. Sono stati decenni di polemiche, scontri con il fronte del No-Mose che ha messo in campo tecnici, periti, esperti. Con la città di Venezia spaccata in due, spesso dilaniata all’interno di una compagine governativa costituita per anni da un polo rossoverde contrario all’opera (lo stesso ex sindaco Massimo Cacciari disse: «C’è l’acqua alta? I veneziani usino gli stivali…»). Contestazioni tecniche, di carattere ambientale, ma anche politiche. A partire dalla procedura di affidamento al concessionario, un affidamento diretto a un unico soggetto gestore di una marea di soldi pubblici.

 

L’isola del tesoro

Scriveva nel 2004 l’ex vicesindaco ed ex parlamentare del Pd, Michele Vianello, nel libro “Un’isola del tesoro”, riferendosi alla nascita del Consorzio: «La tutela dei diversi interessi politici ed economici veniva garantita (nel rispetto della prassi dell’epoca) seguendo un metodo spartitorio, attraverso la presenza dell’Iri (che doveva rappresentare l’interesse pubblico), del Gruppo Fiat, di altre aziende private e nazionali e locali e delle imprese cooperative. Sempre presenti minoritariamente, le cooperative dovevano probabilmente garantire all’interno del Consorzio il mondo legato alla sinistra e, particolarmente, al Partito Comunista Italiano». Quanto il Mose è stato pensato ad arginare la forza della marea verso la laguna, tanto il Consorzio ha dovuto far fronte, dopo gli anni dei No-Mose, alle inchieste della magistratura degli ultimi tempi. L’inchiesta per fondi neri su Piergiorgio Baita, manager della Mantovani (uno dei colossi imprenditoriali del Consorzio) e quella su Giovanni Mazzacurati, per 30 anni al vertice di Venezia Nuova, hanno aperto uno squarcio sulla gestione di buona parte dei 4.867 milioni di euro spesi finora per il Mose. A partire, ad esempio, dal rapporto con il Magistrato alle acque, organo statale incaricato di vigilare sull’operato del concessionario privato. «L’ente ministeriale appare da un lato approfittare della potenza economica del Consorzio che dovrebbe controllare, dall’altro appare ad esso succube». Così la Guardia di finanza, nell’inchiesta su Mazzacurati, descrive il rapporto tra controllore e controllato. Lui, il “grande vecchio”, l’ingegnere che dopo Luigi Zanda (attuale capogruppo Pd al Senato) ha guidato il Consorzio, è un uomo libero dopo la revoca degli arresti domiciliari.

 

Il Consorzio volta pagina

Chissà per quanto tempo ha sperato di essere presente a un giorno come quello di ieri. Ma il Consorzio ha voltato pagina, alzando le proprie “dighe” e blindandosi nei confronti di inchieste che riguardano imprese associate, come le piccole cooperative sorprese dalla Finanza a costituire fondi neri in Austria gonfiando le fatture della posa dei massi per la costruzione delle dighe, O come l’ultima, quella che riguarda la Fip di Selvazzano, l’azienda che ha costruito le “cerniere” a cui le paratoie si agganciano, il cui amministratore è accusato assieme a un ingegnere di collusione con la mafia per l’appalto di una strada in Sicilia.
Proprio sulle cerniere il Magistrato alle acque si era spaccato a suo tempo, con tre tecnici dimessisi in contrasto con la scelta fatta che, ha ammesso ieri l’ingegner Alberto Scotti, progettista del Mose, «sono costate ben di più dell’alternativa a fusione che ci era stata prospettata». Vicende di cui Maria Giovanna Piva, ex presidente del Magistrato alle acque, non vuole più parlare. Eppure il Mose va avanti, inaugurazione dopo inaugurazione, resistendo alle folate e alle mareggiate delle polemiche, come dovrà fare quando sarà chiamato a difendere Venezia dall’acqua alta. Il Consorzio ha dato chiari segnali di discontinuità con il passato, costituendosi anche parte offesa per parare gli “schizzi di fango” piovuti negli ultimi tempi. Il concessionario unico ha voltato pagina, ha un nuovo management, ha anche mandato a casa il vecchio cda di Thetis, società controllata che in una intercettazione veniva definita «un baraccone spaventoso» da Pio Savioli, un altro degli ex dirigenti arrestati. Il Mose visto ieri fa impressione per l’imponenza e la tecnologia. Così come fa impressione l’enorme mole di interventi di compensazione e recupero ambientale realizzati in laguna. Ci lavorano 4mila addetti, il che equivale a 4mila famiglie. Non c’è dubbio che l’opera è e sarà sempre all’attenzione del mondo. La vuole pure Michael Bloomberg, sindaco di New York, per difendere la Grande Mela dagli uragani. “Un progetto italiano”, recitava ieri il video di presentazione. Nel bene e nel male.

Davide Scalzotto

 

IL PROGETTO – Quell’idea del tram sublagunare dentro le gallerie dei cassoni

LA GESTIONE – La cabina di regia sul Mose sarà decisa dal Parlamento. Lo ha specificato il ministro Lupi, affrontando uno dei nodi più importanti riguardanti il futuro del Mose. Il sindaco Orsoni ha però puntualizzato che nella gestione dovranno essere coinvolti tutti gli enti della città, dal Comune al Porto. Le paratoie, ha detto il direttore del Consorzio Venezia Nuova, Hermes Redi si alzeranno a quota 110: praticamente una media di 6-7 volte l’anno.

LA DIFESA DI VENEZIA – Il sindaco: «Segnale al mondo».

Pronto nel 2016, le barriere si solleveranno 6-7 volte l’anno

Il Mose si alza. Il futuro divide.

LA PROVA – Il Mose funziona. È andata a buon fine la prima prova in acqua delle gigantesche paratoie che, adagiate sul fondale, si dovranno alzare quando Venezia e la sua laguna saranno minacciate dall’acqua alta. Il sindaco Orsoni, presente al test assieme al ministro Maurizio Lupi e ad altre autorità, parla di una sorta di segnale al mondo che parte da Venezia: «La città – ha detto dimostra di essere capitale della contemporaneità, non un parco giochi».

Dieci anni di lavori, costo di 5.5 miliardi

IL RICORDO   «I problemi maggiori: far capire il piano ai politici

IL SINDACO  «Momento di svolta. Venezia capitale della modernità non parco giochi»

LA PROVA ALLE PARATOIE – Il ministro Lupi in sopralluogo ai cantieri delle dighe mobili. Sperimentato l’innalzamento delle gigantesche barriere idrauliche

 

I NUMERI DEL MOSE

Inizio lavori: 2003
Messa in funzione prevista: 2016
Stato di avanzamento attuale: 80 %
Costo totale dell’opera: 5.493 milioni di euro
Finanziamenti già stanziati: 4.867 milioni di euro
Addetti ai lavori: 4.000 (diretti e indiretti)
Dighe mobili: 4, per uno sviluppo totale di 1,6 km
Paratoie: 78 del peso complessivo di 1.245 tonnellate
Cassoni: 27 del peso complessivo di quasi 75.000 tonnellate
Cerniere: 156, ciascuna del peso di 42 tonnellate
Conche di navigazione: Malamocco, 1 per grandi navi, Lido, 1 per barche da diporto, Chioggia 2, per pescherecci e barche da diporto
Marea massima sostenibile: 3 metri (la marea record finora è stata di 1.94 nel 1966)
Rialzo del livello del mare previsto: 60 cm in 100 anni

 

IL PROGETTISTA DEL MOSE, ALBERTO SCOTTI

«Le cerniere? Funzionano ma abbiamo speso di più»

IL SISTEMA DELLE DIGHE – Un progetto ingegneristico che non ha uguali al mondo

Se ne è stato in disparte per buona parte della “missione” annunciata per vedere le prime paratoie mobili spuntare dall’acqua, ma poi non ce l’ha fatta. Alberto Scotti, ingegnere della Tecnital spa, è probabilmente uno dei “padri” del Mose. E ieri ha sicuramente gioito nel vedere le prime paratoie uscire alla luce del sole.
«Per Venezia i problemi maggiori – dice l’esperto – sono dovuti alle frequenze delle acque alte, anche perchè gli eventi eccezionali si verificano ogni dieci/quindici anni. I pochi centimetri di alta marea si possono gestire anche senza chiudere tutte le paratoie. Abbiamo cominciato a lavorare al progetto nel 1987, iniziammo a parlare con il ministro Prandini, ma io per la prima volta ho visto il suo successore Franco Nicolazzi». Scotti ricorda il suo lavoro: «É uno di quei progetti – sottolinea – che capita una volta nella vita. Devo dire che il Consorzio Venezia Nuova ha dato ampio seguito alle idee del progettista. Ho avuto la possibilità di fare quello che volevo, tenendo conto di tutte le problematiche e non solamente quelle costruttive, delle opere, o di quelle ambientali-sociali. La cosa importante è che funzioni. Non posso comunque nascondere che il lavoro per il Mose è stato anche un’ottima credenziale per altri lavori e per la mia professione».
Scotti non dimentica la peculiarità del sistema anti-acque alte: «Questo piano è una novità mondiale per la complessità – aggiunge – per la necessità di integrare più cose. L’idea iniziale riduceva molto lo scambio mare/laguna, ma poi abbiamo cambiato i criteri. Per quel che mi riguarda quanto è stato realizzato risponde pienamente all’idea progettuale». Infine il momento più delicato quando Scotti racconta dell’impegno profuso per spiegare il progetto a tecnici e politici: «É stato impegnativo spiegarlo. Certo: non solo ai politici, ma anche a molti tecnici. Per quel che riguarda le cerniere ricordo la discussione sull’ipotesi di fusione o quella di saldatura. Si decise per la prima opzione, ma i costi indubbiamente lievitarono».

P.N.D.

Il Mose si alza, ora l’obiettivo è il 2016

Il test va a buon fine: il sistema sarà attivato a quota 110, praticamente 6 o 7 volte l’anno

Improvvisamente il pelo dell’acqua ha iniziato ad incresparsi. A muoversi sempre di più, come se stesse spuntando fuori un sottomarino. Una scena da film di 007. E così è stato: alle 15.37, sette minuti dopo l’annuncio delle operazioni, il Mose si è materializzato con uno, due, tre, quattro paratoie di colore giallo e strisce rosse. A 47 anni dall’«acqua granda» del 1966; 14 legislature e dieci sindaci di Venezia, il Sistema di difesa della laguna di Venezia dall’acqua alta, ha fatto capolino dalle acque placide alla bocca di porto di Lido e Treporti. Un momento di suspence che si è risolto nel giro di qualche minuto con l’applauso dei rappresentanti delle istituzioni, alla presenza del ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi; del governatore del Veneto, Luca Zaia; della presidente della Provincia, Francesca Zaccariotto e del sindaco Giorgio Orsoni, oltre ai membri del Comitatone, degli imprenditori e delle maestranze. «Le dighe mobili – ha raccontato il direttore del Consorzio Venezia Nuova, Hermes Redi – si alzeranno cinque, al massimo sette volte all’anno in condizioni di emergenza». Gli ha fatto eco il presidente del Cvn, Mauro Fabris: «Ora speriamo che nella prossima Legge di Stabilità – ha detto – si possano garantire le risorse per finire questa grande opera». Una preoccupazione che è stata subito rimossa dal ministro Lupi: «I soldi ci saranno: arriveranno i 120 milioni che avevamo tolto nel “Decreto del Fare” e ci impegniamo fin d’ora a garantire il termine dei lavori nel 2016». Il ministro ha risposto anche sul caso Grandi Navi: «Ci ritroveremo al più presto con gli enti interessati. E partiremo dal decreto Clini-Passera che deve essere applicato». Dal canto suo, la presidente della Provincia, Francesca Zaccariotto ha sottolineato l’emozione: «Dopo quanto visto – ha detto – non possiamo che essere orgogliosi di quanto è accaduto». E anche il sindaco Giorgio Orsoni non ha nascosto la soddisfazione: «Siamo senz’altro di fronte ad un momento di svolta – ha detto il primo cittadino – Quest’opera cambierà in modo radicale il modo di approcciarsi alla città e alla laguna che sono un tutt’uno. Il Mose ci permetterà di consegnare al mondo un messaggio importante: questa città non è un parco giochi. Questa è una città viva, vitale. É una città della contemporaneità e quest’opera lo dimostra». E anche la Regione ha avuto la sua parte. «Si tratta di una pietra miliare per Venezia – ha detto il governatore del Veneto, Luca Zaia – Ora però dobbiamo finirlo. Il Mose non è importante solamente sul piano ingegneristico, ma anche perchè finora ha dato lavoro a oltre quattromila persone». E poi ha rilanciato sui fondi a disposizione per completare l’opera: «Noi paghiamo 18 miliardi di euro all’anno di tasse a Roma, siamo una delle cinque regioni che hanno un residuo fiscale attivo, per cui 20-30 milioni di euro che saranno necessari all’anno penso che a Roma già ci sono, e sono nostri».
E ora si guarda al futuro, dopo le tempeste giudiziarie dei mesi scorsi che si sono abbattute sul Consorzio Venezia Nuova e pure le recenti vicende che hanno visto una ditta, la Fip Industriale di Selvazzano, una delle aziende costruttrici delle cerniere del Mose, finire in odore di mafia. Ma oggi (ieri ndr) non è stato il giorno delle preoccupazioni, ma quelle di una sfida rinnovata alle acque alte. In difesa di Venezia.

 

 

VIAGGIO NEL CUORE DEI CASSONI

Quelle gallerie dove si poteva far passare il tram sublagunare

L’idea iniziale prevedeva anche un collegamento sommerso da Punta Sabbioni a Chioggia.

«Adesso non si può più»

Da Chioggia a Jesolo in bicicletta. O in tram. Sott’acqua. A dodici metri di profondità. Hermes Redi, direttore del Consorzio Venezia Nuova, sorride: «Noi lo avevamo proposto. Ci hanno detto di no e adesso non si può più». Manca poco a mezzogiorno, la motonave “Lady Giò” ha appena attraccato alla bocca di porto di Malamocco ed è qui che ai 103 giornalisti giunti da tutto il mondo l’ingegner Redi mostra il “Syncrolift”, l’ascensore sincronizzato che trasporterà i cassoni e li farà immergere nell’acqua, così da poter poi agganciare le paratoie. Il direttore del Consorzio mostra i cassoni montati su pilastri, sembrano enormi condomini di calcestruzzo, spiega che all’interno ci sono delle celle, delle stanze di fatto comunicanti. Insomma, sott’acqua, per far emergere all’occorrenza le paratoie contro l’acqua alta, c’è un tunnel. E questo tunnel poteva essere utilizzato come mezzo di trasporto. Solo che bisognava deciderlo a tempo debito.
«Si sarebbe potuto andare da Chioggia a Jesolo in bicicletta – dice l’ingegner Redi – O anche far passare un tram. Certo, bisognava deciderlo all’epoca. Ma quando è stata fatta la proposta, venne detto no». Il direttore non lo dice, ma è il senso chiaro: qualsiasi cosa provenga dal Consorzio Venezia Nuova trova contrarietà e contestazioni. Salvo, poi, rilanciare quando il tempo, le decisioni progettuali e lo stato di avanzamento dei lavori non lo consentono più. Ossia: inutile, oggi, chiedere di utilizzare i 27 cassoni lunghi 60 metri l’uno, per far correre le biciclette. O le macchine.
Fabio Pinton, direttore dei lavori, sgrana gli occhi appena gli si formula la domanda: «Far passare le persone qui sotto? Impossibile». La visita ai cassoni avviene nel tardo pomeriggio. Le autorità hanno già lasciato la motonave, resta solo un gruppetto di giornalisti che, caschetto in testa e giubbetto di sicurezza indossato, si cala con i tecnici sotto terra. Anzi, sott’acqua. Si scendono due, tre, quattro rampe di scale. Si è dodici metri sott’acqua, proprio all’interno dei cassoni che collegano due sponde della bocca di porta del Lido, solo qui sono 420 metri di lunghezza. Pare di stare in un bunker di cemento, un lungo corridoio che si collega a sinistra con delle stanzette a chiusura ermetica dove dentro ci sono le cerniere che fanno alzare e abbassare le paratoie e, per sicurezza, una camera iperbarica in ogni sala, mentre a destra ci sono altri due analoghi corridoi, i cosiddetti locali secondari. Quelli di “scorta”, dovesse mai capitare qualcosa. Le paratoie sono agganciate proprio sul “tetto” di questi cassoni. Chi verrà qui? Operai? Tecnici? Ingegneri? Praticamente nessuno, spiega Pinton, perché i comandi per azionare le dighe si trovano all’Arsenale e in ciascuna delle tre bocche di porto e questi corridoi serviranno solo per la manutenzione. Si potevano usare diversamente, certo, bastava allargarne uno. Solo che – dice il direttore del Consorzio Venezia Nuova – bisognava deciderlo a tempo debito.

HERMES REDI  «Anche il Porto dovrà far parte del gruppo di controllo»

LE CONCHE – Ospiteranno le medie stazze I colossi staranno in mare aperto

GESTIONE & IMPATTO – Il direttore generale del Consorzio «Le grandi navi? Saranno avvisate con tre giorni di anticipo quando il Mose entrerà in funzione»

Dighe mobili, la cabina di regia divide

Il ministro Lupi: «Deciderà il Parlamento».

Orsoni: «Coinvolgere tutti gli enti della città»

Devono ancora dargli un nome, figuriamoci se hanno deciso chi ne farà parte. Dunque, per ora è genericamente l’Ente Decisore. Non si sa chi rappresenterà. Non si sa da dove prenderà i fondi. L’unica cosa certa è che sarà l’Ente Decisore a stabilire quando le paratoie dovranno alzarsi. E, soprattutto, a gestire l’intero sistema di difesa di Venezia dalle acque alte. Per farla breve: quando nel 2016 il Mose sarà finito (ammesso che lo sia), il Consorzio Venezia Nuova uscirà di scena e farà il suo ingresso l’Ente Decisore.
Sarà un ente pubblico? privato? si faranno gare? da dove arriveranno i soldi per far funzionare per cent’anni il Mose? Secondo Hermes Redi, direttore del Consorzio Venezia Nuova, dovrà essere «un ente pubblico». Il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, non intende stare in un angolo: «È una decisione che dobbiamo affrontare tutti assieme perché la gestione del Mose non può essere affidata solo al Magistrato alle Acque né solo al Porto né solo al Comune o alla Regione. Deve esserci un organismo che metta assieme in modo paritario tutti questi soggetti. Ma – avverte Orsoni – non dimentichiamo che il Mose nasce per difendere Venezia». Della serie: la città deve avere voce in capitolo.
Il ministro alle Infrastrutture, Maurizio Lupi, dice che non tocca al Governo: «Spetta al Parlamento decidere. Ci sono quattro proposte di legge, quella di Gianpiero Dalla Zuanna ha già visto l’avvio dell’iter al Senato, in ogni caso tocca al Parlamento decidere le modalità di gestione di questa opera». E i soldi per la gestione del Mose? «Governo e Enti locali dovranno lavorare assieme per capire come individuare le risorse necessarie», dice Lupi. Che, peraltro, non si sbilancia neanche sui fondi per la manutenzione della città lagunare: «Partiamo da quello che stiamo facendo. Poi, in dialogo continuo con il Comune di Venezia, lavoriamo assieme per individuare le altre priorità».
È chiaro che se il Comune non vuole stare in un angolo, lo stesso varrà per l’Autorità portuale. Il primo a dire che il Porto dovrà far parte del futuro “gruppo di controllo” è l’ingegner Redi. Che spiega anche cosa succederà con le navi da crociera quando entreranno in funzione le paratoie: «Le navi da crociera potranno organizzare tranquillamente il loro tragitto perché noi sapremo con tre giorni di anticipo quando saranno azionate le paratoie, conosceremo data e ora di apertura e chiusura. E quindi l’avviso sarà dato in anticipo». Nel caso, le navi da crociera potranno trovare rifugio nelle conche di navigazione: ma solo quelle di media stazza – ha detto Redi – i colossi staranno in mare aperto.

 

I NO MOSE  «Non c’è proprio nulla da festeggiare»

(G.P.B.) «Non c’è davvero niente da festeggiare». Così i simpatizzanti del centro sociale Morion hanno energicamente protestato, ieri alle Zattere, mentre gli ospiti e le autorità si imbarcavano verso il cantiere del Mose.
«Non ci interessava andare con loro anche se con tutti i soldi versati dai contribuenti magari i cittadini potevano anche essere invitati – ironizza Tommaso Cacciari – la nostra era solo una protesta colorata per ricordare anche quello che accaduto sul fronte giudiziario. Insomma, che i problemi emersi non passassero inosservati».
Il Mose, secondo il centro sociale Morion e il No Grandi navi, non è preparato ad affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici. «Nessuno ha mai dato risposta ai dubbi sulla tenuta delle paratoie in presenza di forti correnti – affermano i No Mose – perchè nessuno ha mai chiarito se le cerniere sono sicure e affidabili. Sta venendo alla luce anche il meccanismo infernale della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova. È stato creato un meccanismo politico-affaristico». Nel ricordare le recenti inchieste della magistratura, i No Mose evidenziano che fino ad oggi sono stati spesi sei miliardi. «Il ministro Lupi invece di festeggiare – concludono – dovrebbe preoccuparsi di dare immediate risposte alla comunità che chiede l’allontanamento della Grandi navi. Bisogna riconvocare il vertice del governo e decidere subito sulle alternative».

 

Nuova Venezia – Le paratoie del Mose superano il primo test.

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13

ott

2013

Mose, le paratoie funzionano

Superato il primo test: le quattro dighe mobili (su 79) si sono alzate

Le paratoie del Mose si sono alzate. Alle 15, 07 e 53 secondi sono affiorate dall’acqua: la prima prova generale delle dighe mobili, quattro su 79 totali, ha funzionato. Il ministro Lupi: «Simbolo della grandezza d’Italia».

Le paratoie del Mose superano il primo test

Prova fra gli applausi a Santa Maria del Mare: «Sono le 15.07, funzionano»

Il ministro Lupi entusiasta: «Lavori tassativamente conclusi entro il 2016»

IL CONSORZIO VENEZIA NUOVA – I dubbi sulle cerniere sono stati superati, questo congegno difenderà la città fino a una quota di marea di tre metri

il sindaco orsoni – È un’opera che cambierà il modo di vedere Venezia Non siamo un parco giochi ma una città della contemporaneità

VENEZIA «Si alza!» Alle 15.07 e 53 secondi, come annunciato con un filo di emozione dall’ingegner Giovanni Cecconi, responsabile delle operazioni di cantiere, la prima paratoia giallorossa emerge dall’acqua. Il Mose entra nella sua fase «operativa». Dopo trent’anni di studi, polemiche non ancora sopite e contestazioni ecco la prima schiera di 4 paratoie che vengono su. 158 metri cubi di aria compressa sollevano in 7 minuti lo «scatolone» di acciaio di 20 metri per 30 largo 5. Primo esperimento pubblico riuscito, tra gli applausi delle autorità, la curiosità di fotografi, giornalisti e tv invitati da mezzo mondo. «Un simbolo della grandezza italiana», commenta il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi, appena arrivato dalla commemorazione delle vittime del Vajont. L’adunata in grande stile è stata voluta dai nuovi dirigenti del Consorzio Venezia Nuova. Per «inaugurare» le prime quattro paratoie su un totale di 78. Ma soprattutto per voltare pagina e far dimenticare gli scandali che hanno portato negli ultimi mesi agli arresti dell’ex presidente Giovanni Mazzacurati e dell’ex presidente della Mantovani Piergiorgio Baita (i padri del progetto Mose, ieri nemmeno invitati) e all’arresto di un manager della padovana Fip, l’azienda che ha costruito le cerniere, cuore del sistema Mose. «Ma l’evento era già programmato da tempo», dice il neopresidente Mauro Fabris.

I cassoni. Il lungo viaggio in laguna dei cento giornalisti e operatori invitati comincia di buon mattino. Destinazione Santa Maria del Mare, dove sono stati costruiti i giganteschi cassoni in calcestruzzo che saranno calati sul fondo per ospitare cerniere e paratoie. Sul terrapieno di 13 ettari davanti alla spiaggia ce ne sono allineati 18. I più grandi pesano fino a 22 mila tonnellate. Un quartiere grigio dove sono allineati i blocchi alti come palazzi di dieci piani, con l’incavo per le paratoie, le gallerie. Saranno sollevati da una gru speciale con giunti idraulici, poi calati in mare con il «Syncrolift», meccanismo con motori Rolls Royce. «Un lavoro che ci ha impegnato per anni», dice Enrico Pellegrini, direttore del cantiere.

La conca. Quasi ultimata a Malamocco è anche la conca di navigazione, costruita dopo la demolizione della vecchia diga per far entrare le navi in porto nei periodi di chiusura del Mose. Ma in pochi anni è già obsoleta, le grandi navi non ci passano più.

Redi. Tocca al nuovo direttore Hermes Redi illustrare con foto e filmati il lavoro fatto dal Consorzio negli ultimi trent’anni. barene, rive, difese a mare. E, soprattutto, Mose. «I dubbi sollevati sulle cerniere sono stati superati», assicura, «il Mose difenderà la città fino a una quota di marea di tre metri, e sarà in grado di sopportare l’aumento del livello dei mari fino a 60 centimetri.

L’isola del bacàn. La grande motonave con ospiti e giornalisti arriva all’isola artificiale del bacàn. In mezzo alla bocca di Lido, l’isola artificiale di 12 ettari ospita nuovi edifici e la centrale elettrica che deve azionare i meccanismi delle paratoie. Immettere l’aria compressa per sollevarle, pompare l’acqua di mare per rimetterle adagiate sul fondo.

Il sollevamento. La prima volta, nel giugno scorso, una paratoia non si era alzata. «Mi raccomando», sibila Fabris ai suoi tecnici prima di imbarcarsi con il ministro. L’operazione va liscia. Mare calmo, assenza di vento, condizioni climatiche ideali. Cosa succede in caso di mare agitato? «Nessun problema», rassicura Redi, «ogni paratoia deve tenere un peso relativamente piccolo». A distanza di sette minuti una dall’altra – il tempo necessario per riempirle di aria compressa – si alzano una dopo l’altra le paratoie 4, 5, 6 e 7. Nel canale di Treporti, tra Punta Sabbioni e l’isola, sono quattro adesso le paratoie montate sui cassoni e in funzione su un totale di 20.

Le autorità. Il ministro Lupi scherza e si diverte. «Questa, dice, «è la migliore risposta a chi ha criticato la Legge Obiettivo. Adesso garantiremo i fondi necessari per completare l’opera e anche quelli per la manutenzione». «Un’opera importante», commenta il sindaco Giorgio Orsoni, «che cambierà il modo di vedere Venezia. Non siamo un parco giochi ma una città della contemporaneità». Per Francesca Zaccariotto, presidente della Provincia siamo «all’ingegneria che tocca l’emozione». Per il presidente della Regione Luca Zaia i cantieri del Mose sono stati un grande volano per la nostra economia. Tecnologìa che va esportata». «Adesso vediamo», mormora il giovane sindaco grillino di Mira Alvise Maniero, «la Serenissima puniva severamente gli ingegneri che sbagliavano».

L’opera finita. La fine dei lavori del Mose, per il ministro Lupi, sarà il 2016. Data «tassativa». «E intanto penseremo, tutti insieme, alla gestione». Ogni paratoia mostra davanti i due grandi fori con cui dovrà essere sollevata (in media una ogni 23 giorni) per essere trasportata da navi speciali all’Arsenale per la manutenzione. Fine lavori prevista per il 2016, e intanto occorrerà monitorare («Lo faremo, anche con gli enti pubblici», ha garantito Redi) gli effetti della grande opera sull’equilibrio lagunare.

Alberto Vitucci

 

Manifestanti fermati alle Zattere «Nessuna festa»

«Non c’è niente da festeggiare. Invece di fare propaganda per rilanciare tutte le grandi opere inutili e devastanti del nostro Paese il ministro Lupi farebbe bene a rispondere alle domande della nostra comunità. A far luce sugli intrecci del malaffare che sono emersi nella concessione unica e darci presto risposte sulle grandi navi».

I comitati Ambiente Venezia, No Mose, No Grandi navi, Laboratorio occupato Morion, hanno provato ieri a seguire la cerimonia del varo delle prime paratoie al Lido. Ma alle Zattere, dove volevano imbarcarsi, sono stati bloccati dalla polizia. «Nessuno ha mai garantito che le paratoie siano sicure», dicono, «un nuovo Vajont su Venezia sarebbe disastroso».

(a.v.)

 

Uno spettacolo sobrio

Politici in passerella a favore di telecamere

Cento giornalisti da tutto il mondo, elicottero e barconi

Ma sull’evento aleggiano inchieste giudiziarie e arresti

VENEZIA – La sobrietà è proporzionata all’evento, non ancora biblico ma spettacolare quanto basta, quanto deve e quanto può. Per la prima movimentazione delle quattro paratoie del Mose, in una giornata che sembra ordinata direttamente a chi regola il sole, il Consorzio Venezia Nuova raccoglie autorità e stampa, conia un nuovo slogan dal sapore obamiano («Venezia forever») e nel verde della laguna, in un ribollire d’acqua da mostro di Loch Ness, fa spuntare come denti le prime barriere gialle. Alle 15.07, trent’anni dopo che il Mose era stato immaginato per la prima volta, tre mesi dopo il repentino cambio dei vertici e tre giorni dopo la notizia di un’altra inchiesta che ha coinvolto l’azienda costruttrice delle cerniere delle paratoie, arriva l’applauso liberatorio con un vago sentore apotropaico perchè l’opera è onestamente molto complicata.

Dimagrita per via dei tempi, delle circostanze e del buon gusto, la festa del Mose non rinuncia all’elicottero, che ronza come una mosca su Punta Sabbioni, a un’intera motonave con un centinaio di giornalisti arrivati da tutto il mondo (inclusa Al Jazeera) e portati in giro in laguna per sette ore, e a un’altra che all’ora di colazione fa apparire tutti quelli che ci devono essere. Il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, il governatore Luca Zaia, la presidente della Provincia Francesca Zaccariotto, il sindaco Giorgio Orsoni, il presidente della Biennale Paolo Baratta, quello del Porto Paolo Costa, e ancora il presidente del Magistrato alle Acque Roberto Daniele, il responsabile dell’Ufficio salvaguardia Fabio Riva, il presidente della fondazione Venezia 2000 Marino Folin, svariati consiglieri regionali, provinciali e comunali, e un drappello di assessori in un vorticoso rotear di targhette sulle sedie, incroci di mani e qualche silenzio di troppo. Mai nominato, nemmeno per un ringraziamento a distanza considerata la primogenitura del Mose, l’ex presidente Giovanni Mazzacurati. «Non abbiamo invitato nessun presidente precedente – mormora lievemente tirato il nuovo Mauro Fabris – L’ingegnere è il padre del Mose, la storia non può essere cambiata. L’avevamo invitato a vedere le prove tecniche ma non è venuto». Per mettere insieme tutto l’ambaradan, in un lavoro di settimane day & night, l’ufficio stampa del Consorzio è stato affiancato da Enrico Cisnetto (e dalle sue collaboratrici molto Charlie’s Angels) che ora magari medita un Venezia InConTra. La sobrietà evidentemente non esclude il nuovo nè l’improvvido tacco a spillo su calza a rete di un’ospite che confonde la motonave con un red carpet. Include invece tre scatoloni di impermeabilini Muji che non servono ma fanno molto chic. Ed è quindi raggiante nel sole, pago e quasi commosso, che il direttore Hermes Redi annuncia: «E, con questo, tutto quello che c’era da tirare su l’abbiamo tirato su».

Manuela Pivato

 

Domani la commissione d’inchiesta a Ca’ Farsetti

Orsoni parla della Mantovani

Audizione del sindaco sui rapporti della società con il Comune

Sarà il sindaco Giorgio Orsoni a riferire domani su tutti i rapporti intercorsi tra il Comune e l’impresa Mantovani negli ultimi anni, di fronte alla Commissione d’indagine consiliare che si è già costituita da qualche mese a Ca’ Farsetti – dopo l’inchiesta della magistratura per frode fiscale che ha portato nei mesi scorsi all’arresto dell’ex presidente della società Pier Giorgio Baita – proprio stabilire se ci sia eventualmente qualche zona d’ombra nelle trattative che hanno riguardato Ca’ Farsetti e l’impresa.

Orsoni riferirà in particolare delle trattative che riguardano il Mercato ortofrutticolo di Mestre, la sponsorizzazione per la Coppa America, la vendita di una quota minoranza della società autostrade Venezia-Padova – che contribuì due anni fa ad evitare l’uscita dal Patto di Stabilità – e ancora le vicende che riguardano la vendita poi fallita dell’ex Ospedale al Mare (in cui Mantovani era in cordata con EstCapital per l’acquisto) e dello stesso Mose, limitatamente agli aspetti che possono riguardare l’Amministrazione comunale.

La Commissione d’indagine sulla Mantovani si riunirà poi nuovamente giovedì per ascoltare anche una relazione dei dirigenti comunali in particolare sull’operazione del Mercato ortofrutticolo di Mestre.

Tra le successive audizioni, previste quella con il nuovo presidente del Consorzio Venezia Nuova Mauro Fabris – che ha da poco preso il posto dell’indagato Giovanni Mazzacurati – con il direttore Ermes Redi, con i sindaci uscenti Massimo Cacciari e Paolo Costa, con gli ultimi tre presidenti del Magistrato alle Acque (Maria Giovanna Piva, Patrizio Cuccioletta e Ciriaco D’Alessio).

(e.t.)

 

Nuova Venezia – Gruppo Mantovani ancora nel mirino.

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12

ott

2013

I rapporti sospetti di un’azienda-gioiello

VENEZIA – Il gruppo che fa capo alla famiglia degli imprenditori padovani Chiarotto è finito mercoledì, ancora una volta, nel mirino della magistratura. Questa volta non sono stati i manager della Mantovani a finire sotto inchiesta, ma quelli della Fip Industriale di Selvazzano, il cui presidente è Donatella Chiarotto, figlia dell’anziano Romeo. L’azienda è considerata un fiore all’occhiello del gruppo, nonostante spesso fosse in perdita. I guai arrivano dalla Sicilia, E sono guai pesanti. Infatti iI carabinieri di Caltagirone, coordinati dai pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Catania, hanno arrestato l’amministratore delegato della società padovana, il 55enne mestrino Mauro Scaramuzza, e l’ingegnere padovano di 39 anni Achille Soffiato, responsabile del cantiere siciliano di Caltagirone dove l’impresa partecipava alla costruzione di un tratto di strada lunga quasi nove chilometri. Con loro sono finiti in manette i catanesi Gioacchino Francesco La Rocca, 42 anni, il figlio di “Ciccio”, il capo dell’omonimo clan mafioso di Caltagirone, Giampietro e il fratello Gaetano Triolo, rispettivamente 53 e 42 anni, il primo cognato di La Rocca. Le accuse sono pesanti, a vario titolo devono rispondere di associazione a delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni e concorso esterno nell’associazione mafiosa. Gli arresti arrivano appena a tre giorni dall’inaugurazione ufficiale e in grande stile, oggi, alla presenza di almeno due ministri delle prime quattro paratoie del Mose, una delle grandi opere ideate e costruite dal Consorzio Venezia Nuova, opera alla quale hanno collaborato sia la Mantovani sia la Fip Industriale. Quest’ultima ha infatti ideato le cerniere che permettono alle paratoie di alzarsi in caso di maree particolarmente alte e poi di abbassarsi.

 

La difesa dei manager Fip «Mai fatto favori alla mafia»

Interrogati gli arrestati Scaramuzza, guida operativa dell’azienda di Selvazzano, e Soffiato «Non abbiamo alcun legame con il clan di Francesco La Rocca e con i boss di Caltagirone»

VENEZIA – Ha negato di conoscere e di sapere chi veramente è Gioacchino Francesco La Rocca, appartenente all’omonimo clan di Caltagirone. Mauro Scaramuzza, ad della Fip di Selvazzano arrestato tre giorni fa con l’accusa di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, inoltre ha sostenuto al gip che lo interrogava, che di sicuro gli appalti non sono stati spezzettati per evitare di dover chiedere la certificazione antimafia alla prefettura di Catania e che addirittura è stata la stessa Fip ad aver richiesto la certificazione per tutti i contratti di fornitura del cantiere di Caltagirone. Sulla stessa linea le risposte dell’ingegnere Achille Soffiato. Ieri, per i due, interrogatorio di garanzia a Catania davanti al gip Anna Maggiore. Ad assisterli gli avvocati Alessandro Rampinelli (Scaramuzza) e Carlo Augenti (Soffiato). L’interrogatorio del primo è durato quaranta minuti, quello del secondo quarantacinque. Alla pesante accusa di aver agevolato il clan mafioso “La Rocca” di Caltagirone, i due manager hanno cercato di spiegare come quanto riportato nell’ordinanza di arresto, sia lontano dalla verità. In particolare Soffiato, responsabile del cantiere aperto a Caltagirone per realizzare un tratto di strada che vale 122 milioni di euro, ha ricordato che non è ipotizzabile per un dirigente che arrivi sul posto al lunedì e riparta il giovedì, possa conoscere la genesi e le parentele di tutti coloro che hanno rapporti di lavoro con l’azienda. Proprio per questo la Fip stessa, avrebbe chiesto alla Prefettura l’applicazione delle norme antimafia su tutti gli appalti e subappalti. Un’autotutela della società padovana arrivata al punto di applicare lo stesso criterio a tutti i contratti di fornitura di materiali al cantiere e non solo dei subappalti. Soffiato ha spiegato che la sta procedura della sua azienda valeva per qualsiasi importo di contratto o appalto. Il professionista ha ricordato al giudice che lui stesso assieme a Chiarotto padre una prima volta e poi a Donatella Chiarotto, la presidente della Fip, si sono recati in Prefettura a Catania per chiedere la documentazione antimafia. Ma dalla Prefettura, stando a quanto ha detto Soffiato, non è mai arrivata una risposta per motivi interni allo stesso ufficio territoriale di governo. Sempre secondo il responsabile del cantiere, la documentazione sui vari subappalti, oltre ad essere inviata alla Prefettura è stata consegnata, secondo legge, all’Anas che ha risposto dando il proprio assenso nei tempi previsti. Nessuna risposta negativa è mai arrivata, sostiene l’ingegnere, dalla Prefettura. Quindi la Fip ritiene quel silenzio un assenso. Sempre Soffiato ha fatto presente al giudice che proprio con il suo arrivo al cantiere è stata installata una garrita all’entrata del cantiere con una persona a guardia dell’accesso. Questa aveva il compito di controllare tutti coloro che entravano in cantiere chiedendo i documenti e spiegazioni sul motivo della loro presenza. Ma non solo. Sempre secondo il dipendente dell’impresa padovana, proprio lui ha fatto installare delle telecamere per la videosorveglianza del cantiere, consegnando la password di accesso al sistema remoto a polizia e carabinieri che in qualsiasi momento potevano controllare le presenze in cantiere. «Tutto quanto ha detto il mio assistito» spiega l’avvocato padovano Carlo Augenti, «è dimostrabile con documenti che forniremo al giudice. Di certo chi voleva agevolare un clan mafioso non si sarebbe comportato in questa maniera».

Carlo Mion

 

Paratoie del Mose, prove in diretta

Il ministro Lupi, il governatore Zaia e il sindaco Orsoni saranno presenti oggi all’evento. Si alzeranno una alla volta

Il momento forse non è dei migliori. La crisi, gli arresti per mafia che hanno toccato anche i tecnici della Fip di Padova, l’azienda che ha costruito le cerniere. E poi, il cinquantenario della tragedia del Vajont, diga perfetta costruita sotto la frana. Le indagini della Finanza che continuano, le richieste di «trasparenza» e gli antichi oppositori che riprendono fiato. Per il Mose, progetto da 6 miliardi di euro che dovrebbe salvare Venezia dalle acque alte, la fine dei lavori è ancora lontana. Ma a dieci anni dalla prima pietra – posta nel 2003 da Silvio Berlusconi – si è arrivati al punto. Quasi ultimati gli interventi preliminari, le dighe foranee, gli scavi e le trincee. Sono finiti anche i cassoni in calcestruzzo, le gigantesche basi che dovranno sostenere le 78 paratoie nelle tre bocche di porto. Adesso tocca al «software»: le prime quattro paratoie in acciaio (venti metri per trenta, spesse quasi cinque metri) sono state calate sui fondali della bocca di Lido, lato Treporti. Le «prove in bianco» sono cominciate a giugno. E al primo esperimento, per la verità, una delle paratoie ha fatto cilecca. «Problemi dell’aria compressa, abbiamo provveduto», diceva allora il Consorzio Venezia Nuova. Adesso le prove sono quasi finite, e il pool di imprese responsabile del progetto Mose ha deciso di mostrarle al mondo. Oggi giornata in laguna per centinaia di giornalisti, imbarcati alla Marittima su una motonave che li porterà prima a Malomocco a visitare il cantiere dove sono stati costruiti i cassoni. Undici blocchi in calcestruzzo da 22 mila tonnellate, grandi come un condominio di dieci piani, lunghi fino a 50 metri e larghi 26. Saranno «varati» nei prossimi mesi, trainati e affondati alle bocche di porto di Lido e poi di Malamocco. Il cantiere di Santa Maria del Mare ha ospitato per quasi dicei anni le lavorazioni dei megacassoni, per questo il Consorzio è finito anche nel mirino dell’Unione europa. Diapositive e conferenze a bordo per istruire chi il Mose non sa nemmeno cosa sia. Poi alle 14.30, alla presenza del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, del sindaco Giorgio Orsoni, del presidente della Regione Luca Zaia, la prova di sollevamento. I tecnici premeranno il bottone e le paratoie si alzeranno, una alla volta. È prevista pioggia, ma il cielo non preoccupa i progettisti che intendono mostrare al mondo l’orgoglio di un’opera «tutta italiana» e la loro estraneità alle recenti vicende giudiziarie. In molti, consiglieri e senatori, hanno rifiutato l’invito. «Prima di serimonie di questo tipo», dicono, «occorre dare risposte ai dubbi tecnici sollevati dagli esperti sul funzionamento delle paratoie». I dubbi degli ingegneri come Lorenzo Fellin, esperto idraulico che si era dimesso dopo aver criticato le modalità di costruzione delle cerniere. O quelli della società di ingegneria Principia. Contatta dal Comune (giunta Cacciari) nel 2008 aveva scritto che in caso di eventi estremi (scirocco e mare agitato) le paratoie non danno garanzia. Dubbi espressi molti anni prima dal cinese Chang Mei nel parere dei cinque esperti internazionali che avevano promosso (con riserva) il progetto preliminare del Mose. «Tutto superato», assicurano i tecnici del Consorzio. La «parata» di oggi e il giro in laguna – già organizzato altre volte alla presenza di ministri e governatori – hanno prima di tutto lo scopo di inaugurare il «nuovo corso» del Consorzio. I padri del progetto – l’ingegnere Mazzacurati e Piergiorgio Baita – non sono nemmeno stati invitati. Quasi una presa di distanza da una storia cominciata oltre trent’anni fa. E adesso forse vicina al suo epilogo.

Alberto Vitucci

 

INTERROGAZIONE PARLAMENTARE – Cerimonia in pompa magna «Fare chiarezza sulle spese»

Tre arresti eccellenti. Ma per il Consorzio «non c’entrano con il Mose». E la nuova dirigenza si è costituita parte offesa nelle inchieste in corso. Dopo gli arresti dell’ex presidente della Mantovani Piergiorgio Baita e del presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, due giorni fa il supertecnico della Fip di Padova (l’azienda che ha costruito le cerniere del Mose) Mauro Scaramuzza accusato di legami con la mafia. C’era da dare una svolta mediatica. Ed ecco la grande cerimonia. «Inaugurazione del Mose» l’hanno già titolata molti giornali nazionali. In realtà si tratta delle prime prove in pubblico di quattro paratoie su 78. Le prime che sono state ancorate sul fondo in calcestruzzo, da qualche mese sotto osservazione. Si alzeranno le paratoie? «Ridicola farsa per utili idioti», la definisce senza mezzi termini l’associazione Ambiente Venezia, «le paratoie si alzano immettendo aria compressa, si abbassano immettendo acqua del mare: è solo il principio di Archimede che non ha certo bisogno di conferma». Per invitare centinaia di giornalisti, ministri e autorità, parlamentari e consiglieri, il Consorzio ha fatto ricorso a una società di comunicazione esterna, diretta da Enrico Cisnetto. «Ma solo per questo grande evento», precisa il direttore Hermes Redi. «Tutte le necessità logistiche sono in carico all’organizzazione», c’è scritto nell’invito. Spese «extra» per un grande evento sui cui il senatore del Pd Felice Casson ha annunciato una interrogazione parlamentare. «Sarebbe meglio invece fare chiarezza e rispondere a quesiti ancora irrisolti», dice. L’europarlamentare di Sel Andrea Zannoni ha presentato una nuova interrogazione a Bruxelles. «Chiedo che il Parlamento europeo indaghi anche sull’utilizzo dei fondi europei e sul possibile non funzionamento di questa mastodontica opera». Una indagine è già stata aperta dal presidente della commissione europea Potocnik.

(a.v.)

 

Gazzettino – “Mafia, i manager Fip sapevano”

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11

ott

2013

IL CASO – Dalle intercettazioni emergerebbero le responsabilità dei dirigenti dell’azienda di Selvazzano

Nelle telefonate si parla di assunzioni pilotate e di Rolex da 6mila euro regalati

Il gip di Catania: «Scaramuzza e Soffiato consci di apportare contributi al clan La Rocca»

«Mauro Scaramuzza e Achille Soffiato seppur incensurati hanno agito con la consapevolezza di apportare un contributo al clan mafioso La Rocca di Caltagirone, permettendogli di acquisire la gestione delle attività economiche e il controllo degli appalti pubblici».

Così il gip di Catania, Anna Maggiore, definisce il ruolo svolto dall’amministratore delegato Fip di Selvazzano e dal responsabile del cantiere nell’ambito dell’appalto per la “Variante di Caltagirone” che l’altro giorno ha portato in carcere oltre a loro anche altre quattro persone. Un’inchiesta clamorosa che ha fatto emergere legami tra l’azienda che ha realizzato le cerniere del Mose e il clan mafioso. Con la loro attività, quindi, i due veneti, residenti a Mestre e a Padova, avrebbero dato la possibilità ai La Rocca “di realizzare profitti ingiusti mediante la percezione di finanziamenti pubblici che altrimenti non avrebbero ottenuto”. È anche da questi elementi che è scattata la decisione del gip di optare per la custodia cautelare in carcere. Dall’ordinanza, poi emergono anche altri particolari che secondo la Procura confermano un quadro abbastanza nitido. Una parte consistente del quadro accusatorio, come spesso accade in queste circostanze, arriva dalle intercettazioni telefoniche. In un contatto tra Scaramuzza e la padovana Daniela Vedovato (responsabile dei contratti e anche lei indagata), l’amministratore delegato racconta di una persona che prima ha chiesto l’assunzione di un suo parente e ora l’orologio.

«L’orologio se lo scorda – dice Scaramuzza – perchè suo cugino ormai lo abbiamo assunto». E in un’altra conversazione Scaramuzza parla di un orologio Rolex di circa 6000 euro «che doveva regalare evidentemente per ricambiare un favore. Il destinatario era colui che gli aveva chiesto a settembre l’assunzione del cugino». Poi ci sono le telefonate di Soffiato.

«È emerso – si legge nell’ordinanza – che Gioacchino Francesco La Rocca agiva affinchè i lavori venissero dati in subappalto alle ditte To Revive e Edilbeta (controllate dal clan) con contratti di subappalto artificiosamente frazionati in modo da eludere la normativa antimafia». Stando a quanto è emerso a Catania, sarebbero stati abbastanza chiari i rapporti tra Soffiato e Gioacchino la Rocca.

«La Rocca – si legge – chiede a Soffiato informazioni sui documenti della società con riferimento al contratto di subappalto “per quanto riguarda i nostri documenti tutto a posto? Stanno andando avanti?” A queste domande Soffiato risponde che “sono già andati, è tutto all’Anas, adesso aspettiamo il ritorno dalla Prefettura”.

Poi, logicamente, ci sono i rapporti tra gli stessi protagonisti veneti. «Soffiato che è il responsabile del cantiere tiene costantemente informato Scaramuzza, amministratore Fip che a sua volta dimostra nelle conversazioni, in particolare con la co-indagata Vedovato, di essere un protagonista assolutamente consapevole dello stratagemma».

A livello più generale emerge poi che uno degli indagati aveva «acquistato in leasing nel luglio del 2011 quattro autovetture intestate alla ditta L&C, due della quali erano state messe a disposizione del responsabile dell’Anas e del direttore dei lavori del cantiere, soggetti a cui spettano i controlli sull’operato delle ditte impegnate sull’appalto».

Oggi gli arrestati saranno interrogati dal gip. «La Fip ha fatto di tutto per avere trasparenza – attacca l’avvocato Rampinelli che difende Scaramuzza – chiedendo anche un protocollo più rigoroso alla Prefettura. Sulla prima ditta di subappalto ci era stato detto che non c’erano problemi, sulla seconda appena saputo delle difficoltà l’abbiamo allontanata dal cantiere. E questa ci ha anche fatto causa».

Gianpaolo Bonzio

 

L’INCHIESTA – Sono cinque le persone arrestate nell’operazione siciliana

Sono cinque le persone arrestate nell’ambito dell’operazione dei Carabinieri di Caltagirone tra i quali il veneziano Mauro Scaramuzza. L’accusa dei cinque è a vario titolo per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni per eludere le norme in materia di prevenzione patrimoniali, concorso esterno nell’associazione mafiosa e altro. Nel mirino la costruzione di una strada per 112 milioni di euro da parte di un’associazione temporanea di imprese tra cui la Fip industriale di Padova amministrata da Scaramuzza.

 

Il Consorzio: «Siamo noi la parte lesa»

E decide di azzerare il Cda di Thetis, dove sedevano Mazzacurati, Baita e Claudia Minutillo

Ora il Consorzio Venezia Nuova ha deciso di dire basta. E di partire al contrattacco ritenendo di essere estraneo ai fatti contestati negli scorsi mesi in sede penale.

«In relazione alle recenti notizie di stampa – sottolinea in una nota l’ente presieduto da Mauro Fabris – il Consorzio rileva il continuo tentativo di strumentalizzazione nei confronti del proprio operato e respinge con fermezza ogni accostamento indebito tra la realizzazione del Mose e le attività diverse e estranee delle 50 società che sono nel Consorzio e della moltitudine che fanno parte del proprio indotto».

Il riferimento è all’ultima vicenda, quella della Fip Industriale di Selvazzano Dentro (come riferiamo qui sopra). E quindi il Consorzio Venezia Nuova, già finito nella tempesta giudiziaria per il caso Baita-Mazzacurati, ha deciso di presentare ieri alla Procura della Repubblica di Venezia, un “atto di intervento”. «Si è deliberato – aggiunge il Consorzio – di volersi costituire come parte offesa nei procedimenti penali che vedano il nostro ente quale possibile soggetto danneggiato ribadendo così la totale estraneità ai fatti e alle persone oggetto di indagini». Ma non c’è solo questo. Al di là dell’azione di tutela, il Consorzio ha deciso anche l’«azzeramento» del consiglio di amministrazione di un altro consorzio, il Thetis, con sede all’Arsenale, già coinvolto parzialmente con la raffica di arresti legati al caso Baita. A farne le spese il vecchio cda e l’amministratore delegato, Maria Teresa Brotto. Oggi, dopo l’assemblea di alcuni giorni fa che ha designato alla presidenza, l’imprenditore Duccio Astaldi, verrà scelto il nuovo Ad, probabilmente Hermes Redi, direttore del Consorzio Venezia Nuova.
Infine non si placano le polemiche sugli arresti dei giorni scorsi, ieri il consigliere comunale ambientalista Beppe Caccia ha polemizzato con il ruolo dei cosiddetti “collaudatori” del Mose sulla base di un’interrogazione presentata in consiglio comunale a Venezia nella quale metteva in dubbio l’«imparzialità di giudizio» di alti funzionari dell’Amministrazione centrale dello Stato, scelti dal Magistrato alle Acque per esprimere un parere sui lavori del Mose.

 

La difesa del tecnico mestrino arrestato «La Fip era in regola con l’antimafia»

IL RITRATTO – Scaramuzza l’ingegnere dei grandi appalti

Mauro Scaramuzza è poco noto a Mestre e persino ai suoi vicini di casa, ma nei grandi appalti è quasi sempre presente.

PARTE OFFESA – Dopo le mille polemiche che hanno accompagnato il suo nome alle recenti inchieste della Procura veneziana su Mose e Mantovani, il nuovo direttivo del Consorzio Venezia Nuova è passato al contrattacco e ha deciso di costituirsi parte offesa. «Ora basta, troppe strumentalizzazioni. Siamo noi il soggetto danneggiato».

LA CONTROLLATA – Il Consorzio ha fatto saltare l’intero cda della società controllata Thetis e anche l’amministratore delegato Maria Teresa Brotto. Il nuovo presidente è Duccio Astaldi e tra i consiglieri figurano molti nomi già presenti ai vertici del Consorzio.

LE POLEMICHE – Orsoni: «Negato al Comune l’accesso agli atti»

«Al Magistrato alle acque avevo chiesto informazioni sulle cerniere – dice il sindaco Giorgio Orsoni – ma non mi hanno mai risposto».

VENEZIA – Terremoto nella controllata Thetis: cambia tutto il cda, Duccio Astaldi nuovo presidente

Mose e inchieste, offensiva del Consorzio

Venezia Nuova si costituisce parte offesa: «Basta strumentalizzazioni, i danneggiati siamo noi»

LA PROCURA – Il Pm veneziano Stefano Ancilotto chiederà di avere gli atti dell’inchiesta

LA STORIA – Un veneziano e un padovano arrestati dai carabinieri di Catania

INTERROGATORI – Scaramuzza e Soffiato oggi compariranno davanti al giudice

L’INCHIESTA SICILIANA – Subappalti pilotati a favore di aziende legate a Cosa Nostra

L’Inchiesta della Procura della Repubblica di Catania mira a far luce sulle infiltrazioni mafiose in particolare nei confronti dei lavori alla Variante di Caltagirone che doveva ammodernare la viabilità della zona. Per questo gli arrestati veneti devono rispondere dell’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare alcuni contratti, secondo la tesi accusatoria, sarebbero stati frazionati per evitare controlli. Ma gli avvocati contestano duramente questa impostazione ed hanno già fatto sapere che su questo terreno ci sarà battaglia.

 

LA TESTIMONIANZA – Il sacerdote: «Il cantiere siciliano era sempre sorvegliato dai carabinieri»

C’era sempre un presidio dei carabinieri fuori dal cantiere “Variante di Caltagirone”, una nuova strada in fase di costruzione in provincia di Catania. Le forze dell’ordine dovevano controllare che i lavori si svolgessero regolarmente. Achille Soffiato – 39 anni, ingegnere di Albignasego – era il responsabile del medesimo cantiere. È stato arrestato mercoledì per concorso esterno all’associazione mafiosa. Un fulmine e ciel sereno per la comunità di Albignasego. Soffiato è considerato «una persona eccezionale»; si sempre dato da fare in parrocchia: a Sant’Agostino e, dopo il matrimonio, ai Ferri. Ora la sua famiglia è stretta nel massimo riserbo. «Non abbiamo nulla da dire», il commento dei parenti. In questo momento l’unico pensiero è poter riabbracciare presto il loro caro. Don Alessandro Martello, parroco dei Ferri, conosce bene Soffiato. È convinto che sia stato incastrato da un sistema più grande di lui: «Domenica scorsa abbiamo cenato insieme in occasione dell’incontro coppie. L’ho visto tranquillo. Mi ha confidato che non vedeva l’ora di ritornare a lavorare vicino casa. Qui siamo tutti certi che Achille non centra nulla. Probabilmente è stato coinvolto in un sistema di cui non era nemmeno a conoscenza. C’erano sempre le forze dell’ordine all’esterno del cantiere: impossibile che abbia commesso qualche illegalità». Soffiato sarebbe dovuto rientrare definitivamente a casa nel giro di qualche settimana. Il sindaco di Albignasego, nonché assessore provinciale al lavoro, Massimiliano Barison non conosce di persona Soffiato. «Non voglio entrare nel merito della vicenda – commenta – Non so come funzionino gli appalti in Sicilia. Posso parlare solo del nostro Comune. Qui esiste un ufficio gare e appalti che ha il compito di gestire dall’inizio alla fine tutti i bandi».

Francesco Cavallaro

 

«Noi, in regola con l’antimafia»

Il difensore del tecnico mestrino della Fip: «Inchiesta fantascientifica, avevano fatto tutte le verifiche del caso»

«Abbiamo fatto di tutto per evitare di avere problemi con la malavita. Davvero, tutto il possibile. Ed ora il mio assistito si trova in carcere come i mafiosi».

Alessandro Rampinelli, l’avvocato difensore di Mauro Scaramuzza, ribatte con forza, punto su punto, alle accuse della Procura della Repubblica di Catania. E definisce “fantascientifiche” le impostazioni che ha avuto l’inchiesta (di cui scriviamo nel fascicolo nazionale a pagina 8). Oggi, nel corso dell’interrogatorio in carcere, Scaramuzza negherà addebito e illustrerà la propria versione dei fatti.

«Era stata costituita questa associazione temporanea di imprese – attacca Rampinelli da Catania – e due ditte avevano avuto il subappalto. La Fip inizia a far lavorare le aziende dopo aver comunicato all’Anas l’avvio dei lavori. Insieme all’Anas si chiede un protocollo ancora più impegnativo alla Prefettura di Catania, un protocollo così stringente che non è ancora attuato a livello provinciale. Un testo, in pratica, che mira ad avere verifiche davvero serie sulle aziende».

E qui arriva la svolta. «Della prima imprese finita nel mirino, la Edilbeta, non ci viene segnalato alcun problema, mentre solo nell’ottobre del 2012, quando l’attività era iniziata ormai da un anno, ci viene detto che ci sono problemi con la To Revive. A questo punto la Fip allontana questa azienda dal cantiere e questa si rivolge al Tribunale per fare chiarezza».

Secondo l’avvocato, dunque, nessun addebito può essere mosso all’azienda di Selvazzano che in tutti questi mesi ha incalzato le autorità del luogo per avere chiarimenti. Ed ora si trova bloccata in una vicenza delicata.

«Per tutti questi motivi – aggiunge Rampinelli – il mio assistito ha davvero intenzione di dire tutto quello che sa al giudice. Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare e per questo replicheremo ad ogni accusa di questa vicenda». Sempre questa mattina, in carcere a Catania, sarà interrogato anche Achille Soffiato che è difeso dall’avvocato Augenti del foro di Padova.

Intanto l’effetto dell’inchiesta siciliana è arrivato anche in Procura a Venezia. Il pubblico ministero Stefano Ancilotto è infatti intenzionato a chiedere, in tempi abbastanza brevi, tutta la documentazione sul caso della Variante di Caltagirone. È probabile che il magistrato, da tempo impegnato sul fronte Mantovani, voglia far luce su alcuni aspetti della vicenda.


L’IMPRENDITORE – Parla Romeo Chiarotto, 84enne patròn della Fip

«Mai frazionato lavori per i clan»

«Non è vero che davamo subappalti inferiori a 154 mila euro per eludere i certificati antimafia. Anzi le autorizzazioni e i certificati antimafia ce li abbiamo in mano. Voglio dire che abbiamo documenti che attestano come fosse tutto regolare». Romeo Chiarotto ha visto nascere la Fip di Selvazzano («l’ho fondata io negli anni ’60») ed è uno dei suoi orgogli di imprenditore. Un’azienda metalmeccanica che ha realizzato fra l’altro le cerniere che legano le paratoie del Mose e che oggi ha 430 addetti «di cui 60 laureati e 40 ingegneri».

Chiarotto ha 84 anni e non ci sta a far credere che al sud il ramo edile della sua società fosse colluso con la mafia. Secondo l’accusa infatti attraverso il direttore del cantiere e l’amministratore della Fip edilizia, sarebbero stati affidati in subappalto lavori a società che erano controllate dalla famiglia “La Rocca”. Sui cento milioni e oltre dell’appalto per gli 8,7 chilometri della statale 683 chiamata “variante di Caltagirone”, 36 sarebbero stati subappaltati. Un milione alla ditta “To revive” e qualche centinaia di migliaia di euro alla “Edilbeta costruzioni” gestita dal figlio del boss.

«Prima di tutto quello della To Revive non è un subappalto ma un contratto con un fornitore da 1 milione e 40mila euro» continua Chiarotto. «E poi come ho già detto, la Edilbeta aveva il certificato antimafia, mentre quello della To Revive l’abbiamo chiesto alla Prefettura di Catania e ci hanno risposto dopo 14 mesi. La legge però applica il silenzio-assenso se la Prefettura non risponde entro 75 giorni e noi siamo partiti affidando i lavori. Quando la Prefettura ci ha informato che la la To Revive non era a posto li abbiamo messi alla porta e non pagati, tanto che ci hanno fatto causa».

«Insomma – conclude – non abbiamo mai fatto appalti irregolari. Anzi ai carabinieri di Caltagirone segnaliamo ogni giorno chi lavora in cantiere e il curriculum dei fornitori. Abbiamo firmato del resto un Protocollo per la legalità con la Prefettura». Dunque cosa può essere successo? «Domani (oggi per chi legge) quando torneranno i nostri avvocati faremo un comunicato».

Mauro Giacon

 

Dal sisma dell’Aquila all’Expo. L’ingegnere dei grandi appalti

MAURO SCARAMUZZA – L’amministratore della Fip passa il suo tempo nei cantieri dell’azienda, nella sua casa in via Terraglietto si vede poco

Una villetta nascosta nel verde di via Terraglietto, protetta da telecamere e da un cancello che si apre con dei comandi a distanza. Mauro Scaramuzza da due giorni non torna più la sera nella sua residenza mestrina. Una villetta al civico 17/B, immersa nel verde della zona Terraglio. Ci si arriva imboccando via Terraglietto prima del cavalcavia della Favorita. Una strada stretta, con tante curve a gomito conosciuta perché conduce ad un centro sportivo dove si gioca a tennis e calcetto. Ad un certo punto un cancello in ferro di colore grigio chiaro e tre campanelli. Al 17/B il nome di Mauro Scaramuzza e del figlio Nicola, oltre a quello di una ditta e di una donna. «Non abbiamo nulla da dire e da dichiarare. Scusateci. Buongiorno», risponde una voce femminile. Un risposta secca, un no comment gentile. È chiusa dunque nel silenzio la famiglia dell’ingegnere mestrino, amministratore delegato della Fip di Selvazzano (Padova), finito in carcere su disposizione della Dda della procura di Catania con accuse gravissime.

I vicini conoscono poco Mauro Scaramuzza, ingegnere di 55 anni, perché il suo tempo lo passa soprattutto nei cantieri sparsi per l’Italia che la Fip ha aperti. D’altronde, non ci sono state occasioni perché il suo nome fosse di dominio pubblico. La prima volta che i media hanno parlato di lui è stato solo nel gennaio 2011, quando la Fip finì nel mirino della magistratura nell’ambito dell’inchiesta sulla realizzazione di 4mila 500 appartamenti del progetto C.a.s.e. per dare un tetto alle famiglie sfollate dal terremoto de l’Aquila. Un progetto finito poi tra mille polemiche per le promesse non mantenute dall’allora Governo Berlusconi. Secondo gli investigatori, la Fip avrebbe fornito una partita di 2mila 200 ammortizzatori sismici a pendolo privi di omologazione. Poi però la posizione di Scaramuzza e quella della presidente della Fip Donatella Chiarotto è stata archiviata. Il contratto con la Protezione Civile, che allora gestiva il business della ricostruzione, superava i tre milioni di euro.

Il nome di Scaramuzza è comparso poi nell’ambito di numerosi cantieri importanti, tra cui quello per il rifacimento di un ponte sul Po in provincia di Piacenza e di un altro ponte questa volta nell’ambito dei lavori dell’Expo 2015 di Milano. Più di recente, Scaramuzza è stato sentito come teste dalle Fiamme Gialle nell’ambito dell’inchiesta del Pm veneziano Stefano Ancilotto sugli appalti dell’autostrada Venezia-Padova. Una persona riservata, quindi, naturale che Scaramuzza fosse conosciuto dai vicini solamente di vista.

Come la signora Chinellato che abita poco distante dal civico 17. «Io vivo qui da un sacco di tempo ma quelli che abitano dietro quel cancello li conosco poco – spiega – Sono tre villette costruite di recente. Gente riservata, con macchine di grossa cilindrata. Qualche “buongiorno” e “buonasera”. Uno fa il dentista. Il signor Scaramuzza? Sì, forse, mi pare di aver capito chi è. Lo vedo qualche volta, molto riservato. Forse qualche saluto ma nulla di più». La signora non sa nulla de suo arresto.

«A me pare una brava persona poi, per gli affari non so cosa si può arrivare a fare».
Un uomo d’affari, Scaramuzza, che poco lasciava alle pubbliche relazioni con il vicinato. Dal civico 17/B di via Terraglietto esce un’auto di grossa cilindrata. Non si ferma neppure ad un cenno. Le telecamere del cancello comandato a distanza si richiudono e assieme a lui anche la famiglia.

(ha collaborato  Raffaele Rosa)

 

I COLLAUDATORI «Tecnici ministeriali. L’elenco è segreto»

LA COMUNICAZIONE ALLA PROCURA «Dobbiamo tutelare le nostre imprese dal rischio di strumentalizzazioni»

IL MAGISTRATO ALLE ACQUE – Tre gestioni dell’ente di controllo: «La Fip è solo un’esecutrice»

«Le ditte? Le ha sempre scelte Venezia Nuova»

«Che cosa c’entrano i risvolti giudiziari odierni della Fip con il Magistrato alle Acque e con le cerniere del Mose?». L’ex magistrato alle Acque Ciriaco d’Alessio, in pensione dal 30 aprile scorso, è estremamente diplomatico quanto ricorda la vicenda che scatenò la bufera in Comitatone all’epoca della scelta della tecnologia delle cerniere del Mose.

«La Fip non era tra i progettisti dell’opera, ma semplicemente una ditta esecutrice, una consorziata, sia pure controllata dalla Mantovani. E il fatto che non ci sia stato un appalto ma l’affidamento diretto da parte del Consorzio Venezia nuova è frutto della legge sul concessionario unico. È vero che ci furono delle discussioni e delle varianti in corso d’opera, ma è anche vero che le dimensioni delle cerniere sono state sostanzialmente modificate e sono circa il doppio di quelle previste nel progetto originario».

D’Alessio dribbla anche l’ipotesi di collaudatori dell’opera in conflitto d’interessi: «Vengono scelte persone con competenze specifiche che possano collaudare l’opera per step. Ma la normativa è talmente vincolante da non lasciare margine di intervento e se ci fossero state delle irregolarità a Venezia si sarebbe saputo subito».

E mentre il predecessore – anch’egli pensionato – Patrizio Cuccioletta non è rintracciabile, il Magistrato alle Acque fino al 2008 Maria Giovanna Piva con la consueta gentilezza si schermisce e preferisce non ricordare quel periodo della sua vita in cui era a capo di Palazzo X Savi e durante i quali si era opposta a tecnologie diverse da quelle previste dal progetto esecutivo. Piva aveva invitato tecnici esperti a partecipare al Comitatone perchè riteneva che in un organismo in cui si deliberava l’assegnazione di un ammontare così imponente di fondi si dovessero avere quanto meno delle competenze specifiche sui materiali utilizzati, sulle dinamiche strutturali, sugli impianti che sarebbero entrati in funzione. Ma della commissione dei collaudatori non c’è traccia neanche in rete. Nonostante la normativa sulla trasparenza amministrativa. «Sono centinaia i collaudatori – spiega l’ingegner Fabio Riva, responsabile dell’ufficio Salvaguardia del Magistrato alle Acque, attualmente retto ad interim dall’ing. Roberto Daniele – c’è un ufficio apposito che si occupa di questo. Ma credo si tratti di atti ministeriali non divulgabili»

Raffaella Vittadello

 

Domani la prova di innalzamento della paratoia

LA RIVOLUZIONE – Cda ridotto da 7 a 5, entrano amministratori legati al Consorzio

Incarico revocato all’ad Brotto. Oggi la ratifica del nuovo presidente Duccio Astaldi

PRESA DI DISTANZE – Presentato anche un “atto di intervento” come soggetto danneggiato e per rimarcare l’estraneità dalle inchieste

Domani alle 14.30 è prevista la prima movimentazione ufficiale delle paratoie alla bocca di porto del Lido, alla presenza del Ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi, il presidente della Regione Luca Zaia, il sindaco Giorgio Orsoni e tutti i rappresentanti delle istituzioni che operano in seno al Comitatone. La delegazione si muoverà alla 10 dalla Marittima.
La prima delle 21 paratoie era stata posizionata solo nel giugno scorso e sistemata in posizione “di riposo” in fondo al mare. Le prove di movimentazione prevedono che vengano alzati questi dispositivi come nel caso di previsione di acqua alta, in modo da mitigare l’effetto dell’allagamento della marea in città.

 

INTERROGAZIONE – Documento presentato al Senato

De Poli (Udc) al Viminale: «Combattere la mafia a Nordest»

Un’interrogazione al ministro dell’Interno, Angelino Alfano per conoscere che tipo di provvedimenti intenderà mettere in atto per rafforzare i controlli nei confronti delle ditte aggiudicatrici delle opere pubbliche e per difendere il tessuto imprenditoriale del Nordest dalle infiltrazioni della criminalità organizzata. É questo il senso di un intervento del senatore Udc, Antonio De Poli nei confronti del Viminale.

«Dopo la notizia dell’arresto dell’amministratore delegato della Fip Industriale di Selvazzano Dentro (Pd) – sottolinea De Poli – e di altri professionisti e i conseguenti ordini restrittivi eseguiti nell’ambito di un’inchiesta su un appalto pubblico da 140 milioni di euro per la variante Caltagirone, chiedo di conoscere quali provvedimenti si intendano adottare per combattere la criminalità».

Nella sua interrogazione, De Poli ricorda come le indagini dei Carabinieri abbiano permesso di accertare come i protagonisti della vicenda avrebbero ingiustificatamente e senza alcuna documentazione affidato lavori importanti in subappalto a ditte direttamente controllate del clan, con contratti frazionati in modo da eludere la normativa antimafia che viene applicata oltre la soglia dei 154 mila euro.

«Tutto ciò visti i numerosi arresti effettuati negli anni anche nel Veneto – aggiunge De Poli – che testimoniano la diffusione della criminalità e i numerosi appelli dell’Ance (associazione costruttori) e dei sindacati che più volte hanno denunciato come per colpa della crisi, le aziende possano essere preda della mafia.

 

Terremoto in Thetis. Via l’intero Consiglio

Un vero e proprio “terremoto”. Per carità, tra i corridoi del consorzio Thetis ce lo si aspettava da un momento all’altro. E così è stato. Il “ribaltone” è arrivato: fulmineo. Con una decisione netta i vertici del Consorzio Venezia Nuova, insieme agli soci (Actv, Adria Infrastrutture Spa; Co.Ve.Co.; Grandi Lavori Fincosit; Ing. E. Mantovani Spa; Ing. Mazzacurati Sas; Palomar Srl; Società Condotte Spa; VI Holding Srl) ha deciso di mandare a casa l’intero consiglio di amministrazione della Thetis spa, la società di ingegneria incaricata di sviluppare progetti e applicazioni tecnologiche per l’ambiente e il territorio, direttamente coinvolta nel progetto Mose e non solo, e che ha sede all’Arsenale Nord, non distante dai Bacini.

Così, i soci hanno deciso di cambiare un consiglio di amministrazione, già ampiamente provato dopo gli arresti legati al caso Baita. Infatti sedevano nel cda di Thetis, prima della tempesta giudiziaria, Giovanni Mazzacurati come presidente; e nel ruolo di consiglieri Piergiorgio Baita; Claudia Minutillo, Pio Savioli, Federico Sutto oltre ad altri manager in rappresentanza degli altri soci (Maurizio Castagna per Actv; Nicoletta Doni, Alessandro Mazzi, Luciano Neri, Antonio Paruzzolo che si era già dimesso in precedenza per ricoprire il ruolo di assessore nella giunta Orsoni, Johann Stoker, Stefano Tomarelli). Ora si è deciso di mutare registro: azzerato il consiglio di amministrazione è stata sollevata dall’incarico anche Maria Teresa Brotto, amministratore delegato di Thetis fino a pochi giorni fa.

Ora il cambio con la decisione da parte del Consorzio Venezia Nuova e dei dieci soci di dare anche una sfoltita ai posti in consiglio di amministrazione che passeranno da sette a cinque. Oggi infatti si dovrebbe tenere la prima riunione del nuovo Cda di Thetis dopo l’assemblea dei soci tenutasi la scorsa settimana. Nel nuovo organismo siederanno soprattutto persone che potranno rappresentare ancor più il trait d’union tra Consorzio Venezia Nuova e Thetis. Di sicuro, nel nuovo staff dovrebbero entrare a far parte il direttore del Consorzio, Hermes Redi insieme ad altri componenti del Cda di Venezia Nuova come Duccio Astaldi (al quale è già stata assegnata la presidenza di Thetis) e Mauro Gnech in rappresentanza di Co.Ve.Co; Alessandro Mazzi, (che poi sarebbe l’unico a transitare dal vecchio al nuovo Cda) e Francesco Zoletto, come “new entry”.

P.N.D.

 

IL MOSE E IL COMUNE «Non abbiamo poteri Ma se ci saranno problemi la città si muoverà»

Non è andata a buon fine l’istanza di accesso agli atti che nell’ottobre dello scorso anno il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni si era impegnato ad inoltrare al Magistrato alle Acque di fronte al Consiglio comunale.

«Ho chiesto le informazioni e non le ho ricevute – commenta Orsoni – avevamo presentato un’istanza di accesso agli atti e questa non è stata evasa. Parlerò con il nuovo presidente del Magistrato e se poi anche questi non ci darà gli atti, faremo un passo formale».

La richiesta riguardava materiale richiesto dal consigliere Beppe Caccia in merito alle cerniere prodotte proprio dalla Fip di Selvazzano, poiché nella trasmissione “Report” c’erano state testimonianze che non deponevano a favore della scelta.

Inoltre, si chiedeva di conoscere come il Ministero avesse messo in piedi un sistema di monitoraggio indipendente sui lavori e che fosse reso pubblico l’elenco dei tecnici collaudatori. Secondo Caccia, ci sarebbero state situazioni di conflitto di interesse tutte da verificare.

Sabato, intanto, ci sarà la presentazione del funzionamento delle prime paratoie del Mose messe in opera a Treporti, proprio con le cerniere Fip, realizzate in metallo saldato e non fuso, come invece avrebbe prescritto il progetto iniziale.
Che cosa ha intenzione di fare adesso il Comune?

«Francamente – continua il sindaco – non credo che il Comune abbia competenze in merito. Non riesco neppure a fermare le navi (scherza) figuriamoci se riesco a fermare il Mose, ammesso che il Mose sia da fermare. Secondo me è interesse della città avere un Mose che funzioni bene. Non ho elementi per dire ora che il Mose non funziona per via di quelle cerniere o per chissà quale ragione. Se poi non dovesse funzionare, la città farà certamente le sue valutazioni e si muoverà di conseguenza».

Sul fatto che il Consorzio Venezia nuova abbia annunciato la costituzione di parte civile e che abbia azzerato i vertici di Thetis, Orsoni non si sbilancia.

«Era nell’aria. Si sapeva più o meno di questo cambiamento, dal momento che Thetis dipende direttamente dal Consorzio ed è naturale che dopo il cambio della presidenza nel Consorzio ci possa essere un cambio nei vertici delle controllate. Per me – conclude – è un normale avvicendamento».

 

IL CASO – I dubbi sul sistema di aggancio delle dighe e il ruolo dei collaudatori. Anche la Finanza ha acceso un faro.

BEPPE CACCIA – Nuovo affondo del consigliere

(pnd) Ora Beppe Caccia preme il pedale sull’acceleratore. E torna alla carica. All’indomani dell’operazione dei Carabinieri di Caltagirone che hanno messo le manette a Mauro Scaramuzza, amministratore delegato della Fip Industriale di Selvazzano Dentro (Pd), azienda direttamente coinvolta nelle forniture delle “cerniere” per le dighe mobili, per i suoi contatti con le cosche mafiose di Caltagirone, il consigliere comunale di “In Comune” punta il mirino su una altro aspetto delicato della “partita Mose”: il ruolo dei collaudatori inviati dal Magistrato alle Acque (e quindi dal ministero per le Infrastrutture) chiamati ad esprimere un giudizio sui lavori del Mose, ma che nel corso di questi anni ha sollevato parecchi dubbi sulla loro imparzialità di giudizio.

Una “perplessità” da parte di Caccia che ha avuto come risultato anche la presentazione nel maggio del 2012, di una interrogazione al sindaco Giorgio Orsoni dal titolo emblematico:

“Sono sicure le cerniere del sistema Mose? E chi controlla i controllori (leggasi collaudatori ndr) in materia di salvaguardia?”.

Un documento corposo che solleva dubbi e criticità sull’operato dei “collaudatori” del Mose e sui gangli amministrativi legati alle loro nomine.

«In questi giorni – sottolinea Caccia – abbiamo appreso di un ennesimo blitz delle Fiamme Gialle nella sede del Magistrato alle Acque a Palazzo X Savi a Rialto per raccogliere documentazione relativa ai cantieri presenti in laguna e ai collaudi svolti sui lavori del Mose. Di fronte al cortese invito del presidente del Magistrato alle Acque, Roberto Daniele, di partecipare alla “prima movimentazione” delle paratoie al Lido, ho gentilmente chiesto che rispondesse alle mie richieste di trasparenza e chiarezza già illustrate nell’interrogazione e sulle quali non ho avuto risposta. Ho chiesto e richiedo con forza che il Magistrato alle Acque renda pubblico e trasmetta al Comune, il dettagliato elenco dei componenti delle commissioni di collaudo con relativi importi liquidati e corrispondenti posizioni nella pubblica amministrazione. Mi risulta che tra i collaudatori ci siano figure apicali dell’Amministrazione centrale dello Stato che altresì hanno assicurato e assicurano la continuità dei flussi di cassa allo stesso Consorzio».

E proprio su questo aspetto già nel luglio scorso, i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria che hanno condotto l’indagine sul Consorzio Venezia Nuova, segnalavano come “opaco” il rapporto tra Cvn e Magistrato alle Acque e “scarsità di controlli” soprattutto facendo presente che tra i collaudatori ci sarebbero personaggi di rilevanza nazionale come Lorenzo Quinzi e Vincenzo Fortunato, oggi rispettivamente capo e ex di gabinetto del ministero dell’Economia nonchè l’ex presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Angelo Balducci, coinvolto in ben altre note inchieste.

 

Nuova Venezia – Mafia e appalti, arrestato.

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10

ott

2013

Manager mestrino della Fip in carcere con altri quattro

Due veneti arrestati per mafia

In manette Scaramuzza e Soffiato della Fip, azienda del gruppo Chiarotto

VENEZIA – Ancora una volta il gruppo che fa capo alla famiglia degli imprenditori padovani Chiarotto nel mirino della magistratura. Questa volta non sono stati i manager della “Mantovani spa” a finire sotto inchiesta, ma quelli della “Fip Industriale spa” di Selvazzano, il cui presidente è Donatella Chiarotto, figlia dell’anziano Romeo.

I carabinieri di Caltagirone, coordinati dai pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Catania, hanno infatti arrestato l’amministratore delegato della società padovana, il 55enne mestrino Mauro Scaramuzza, e l’ingegnere padovano di 39 anni Achille Soffiato, responsabile del cantiere siciliano. Con loro sono finiti in manette i catanesi Gioacchino Francesco La Rocca, 42 anni, il figlio di “Ciccio”, il capo dell’omonimo clan mafioso di Caltagirone, Giampietro e il fratello Gaetano Triolo, rispettivamente 53 e 42 anni, il primo cognato di La Rocca.

Le accuse sono pesanti, a vario titolo devono rispondere di associazione a delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni e concorso esterno nell’associazione mafiosa. Gli arresti arrivano appena a tre giorni dall’inaugurazione ufficiale e in grande stile alla presenza di almeno due ministri delle prime quattro paratoie del Mose, una delle grandi opere ideate e costruite dal Consorzio Venezia Nuova, opera alla quale hanno collaborato sia la “Mantovani” sia la “Fip Industriale”. Quest’ultima ha infatti ideato le cerniere che permettono alle paratoie di alzarsi in caso di maree particolarmente alte e poi di abbassarsi.

Sette mesi fa, in manette, erano finiti Piergiorgio Baita, presidente della “Mantovani”, e Nicolò Buson, ragioniere della stessa società, accusati di frode fiscale, mentre l’ex presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati è stato arrestato il 12 luglio per turbativa d’asta.

Stavolta gli arrestati avrebbero frazionato, con la complicità di dipendenti dell’Anas di Catania, i subappalti senza superare la soglia di 154 mila euro, limite da cui scatta l’obbligo dei informative e certificati antimafia. Era la tecnica, secondo la Procura di Catania, adoperata per favorire l’inserimento di aziende del clan nella realizzazione del primo stralcio della “Variante di Caltagirone”, che interessa otto chilometri e mezzo di una strada progettata negli anni Sessanta, finanziato con poco meno di 112 milioni di euro. È quanto emerge dalle indagini dei carabinieri della compagnia di Caltagirone e del comando provinciale di Catania nell’inchiesta “Reddite viam” che ha portato all’arresto dei cinque.

Secondo l’accusa, la “Fip Industriale”, attraverso Soffiato e Scaramuzza, avrebbe affidato lavori in subappalto a società che, ritengono la Procura di Caltagirone e la Dda di Catania, erano controllate dalla “famiglia La Rocca”. I carabinieri stimano che su circa 36 milioni di euro in subappalto, un milione siano arrivati a una ditta, la “To Revive”, che è stata sequestrata assieme alla “Edilbeta costruzioni”, gestita dal figlio del boss.

Il meccanismo, ritengono i militari dell’Arma, coinvolgeva anche tre dipendenti dell’Anas, per i quali le Procure di Caltagirone e Catania avevano chiesto un provvedimento cautelare, ma che il giudice delle indagini preliminari non ha concesso perché ha riconosciuto l’ipotesi di abuso d’ufficio, ma non l’aggravante dell’avere favorito l’associazione mafiosa. Negati anche ordinanze di custodia cautelare per un altra dipendente della Fip, Daniela Vedovato (60 anni di Teolo), responsabile amministrativa, e un catanese presunto affiliato al clan. Nell’inchiesta, aperta a giugno del 2011, ci sono altri indagati in stato di libertà.

La Fip, impresa di rilevanza internazionale e capofila dell’Associazione temporanea d’impresa (Ati) che si è aggiudicata i lavori, avrebbe «favorito e affidato dei lavori in subappalto per importanti e considerevoli cifre a società come la “To Revive” e la “Edilbeta Costruzioni”», che secondo la Procura erano controllate dalla cosca dei La Rocca. Secondo l’accusa, per «eludere la normativa antimafia», i due dirigenti padovani, «con la complicità di funzionari dell’Anas» avrebbero «ingiustificatamente frazionato i contratti di subappalto stipulati dalla Fip con le predette società in modo che ciascuno di essi non superasse la soglia di 154 mila euro oltre la quale diventavano obbligatorie le informative e la certificazione antimafia».

«Altrettanto gravi sono gli ingiustificati ritardi, oltre otto mesi», sottolineano i carabinieri, con i quali i tre impiegati Anas hanno trasmesso alla Prefettura di Catania la richiesta di informazioni per un subappalto oltre soglia relativo sempre alla “To Revive” che, nelle more delle informazioni, ha percepito regolari pagamenti. Gioacchino La Rocca, per eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, avrebbe ceduto in maniera fittizia al cognato Giampietro Triolo e al fratello Gaetano la titolarità della “To Revive”, della quale aveva invece la diretta gestione. I carabinieri hanno eseguito anche il sequestro preventivo di quest’ultima ditta e della “Edilbeta Costruzioni” con affidamento a un custode giudiziario. Gli investigatori dell’Arma avevano avviato le indagini ipotizzando che “Fip Industriale” si fosse appoggiata alle ditte che facevano capo alla cosca di Caltagirone, proprio perché la mafia sempre più cerca di penetrare nei grossi appalti pubblici al fine di acquisire il controllo delle attività economiche.

Giorgio Cecchetti

 

«Solido il legame tra cosche e colletti bianchi»

«L’incessante attività investigativa condotta dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Catania, dai carabinieri e dalle forze dell’ordine, con cui ci congratuliamo, ha consentito oggi di mettere a segno un altro importante risultato nella lotta all’illegalità».

Ad affermarlo è il presidente della Confindustria di Catania, Domenico Bonaccorsi di Reburdone, commentando l’operazione che ha portato all’arresto di 5 persone.

«È evidente», prosegue il presidente degli industriali catanesi, «che il legame tra clan mafiosi, imprenditoria e colletti bianchi è ancora solido e consente di realizzare lucrosi affari. Legalità e libertà d’impresa, precondizioni dello sviluppo economico, sono ancora due valori fortemente ostacolati dalla presenza della mafia. È sull’area grigia della contiguità che occorre mantenere un atteggiamento inflessibile. Solo un grande lavoro comune tra istituzioni, forze dell’ordine e imprese che vogliono operare rispettando le regole, può scardinare il sistema e dare fiato all’economia sana».

 

LE INDAGINI – Costretti a scendere a patti con le cosche siciliane

La mafia innanzitutto vuole accrescere la propria influenza sul proprio territorio e, oltre a voler realizzare profitti, cerca di penetrare nei grossi appalti pubblici per ottenere il completo controllo dei lavori, delle imprese. Vuole essere in grado di far assumere o meno i dipendenti delle ditte che operano dove agisce, vuole incidere sui prezzi delle opere, vuole il controllo sulle attività economiche. Sono decine, ormai, i casi in cui imprese del Nord, come la «Fip Industriale» hanno dovuto venire a patti con le cosche, hanno dovuto subappaltare a ditte indicate dal capo della cosca locale. Hanno dovuto acquistare terreni e materiale da imprese legate alla mafia.

C’è chi si è rifiutato, magari senza denunciare, lasciando perdere e tornando al Nord . Stando alle accuse, invece, Scaramuzza era «ben consapevole di attuare uno stratagemma finalizzato a consentire alle società della cosca di entrare nella spartizione dei lucrosi subappalti al fine di avere garantita dall’organizzazione mafiosa l’equilibrio territoriale per non pregiudicare lo stato di avanzamento dei lavori».

 

«Sapevano che aiutavano le imprese di Cosa Nostra»

Le intercettazioni del gip, La Rocca chiama Soffiato per sollecitare i pagamenti «Ho bisogno di soldi». «Tranquillo ho gia dato l’ok alla banca per i 69 mila euro»

VENEZIA – Il mestrino Mauro Scaramuzza ad della Fip e i padovani Achille Soffiato e Daniela Vedovato, erano consapevoli che stavano agevolando aziende del clan mafioso “la Rocca”. Ne è convinto il gip di Catania Anna Maggiore che ha firmato l’ordinanza che ha portato in carcere i due uomini e indagata la donna. I tre hanno rapporti diretti con Gioacchino Francesco La Rocca detto Gianfranco figlio del capo clan Francesco. È lui il titolare dell’impresa che i padovani e il mestrino hanno agevolato per farla lavorare nella costruzione della strada, nonostante di certificati antimafia non abbia visto, mai, nemmeno l’ombra. Si tratta della “To Revive”. Ma lo stesso clan controlla la “Edilbeta”, altra azienda agevolata. La Rocca tiene i rapporti soprattutto con Soffiato si presenta come “quello della To Revive”.

In una delle prime telefonate intercettate dice: «Pronto, Gianfranco sono della To Revive» e nel prosieguo della conversazione chiede a Soffiato informazioni sui documenti della società con riferimento al contratto di subappalto «per quanto riguarda i nostri documenti tutto a posto? Stanno andando avanti?» e Soffiato gli risponde rassicurandolo «sono già andati ed è tutto all’Anas …è stato già mandato tutto quanto…adesso aspettiamo il ritorno della prefettura».

Ed è sempre a Soffiato che La Rocca si rivolge perché dia il nullaosta al pagamento, da parte della banca, di una fattura da 69 mila euro «perché ho bisogno di soldi». L’altro risponde «tranquillo ho già dato l’ok». Appena riattacca Soffiato chiama la sede di Padova della Fip e sollecita il pagamento.

Scrive il Gip: «Gioacchino La Rocca, titolare e gestore della ditta “To Revive”, ha agito, come risulta dal tenore delle conversazioni intercettate con Soffiato Achille, il responsabile del cantiere FIP spa, ditta che si era aggiudicata l’appalto per l’esecuzione dei lavori della variante di Caltagirone affinché i suddetti lavori venissero dati in subappalto alle ditte “To Revive” ed “Edilbeta” (entrambe controllate dalla “famiglia” di Caltagirone) con contratti di subappalto artificiosamente frazionati, in modo da eludere la normativa antimafia che richiede per i contratti di importo superiore a 154mila euro la richiesta, alla Prefettura, della certificazione antimafia».

Per il gip Soffiato e Scaramuzza sono responsabili di concorso esterno in associazione di stampo perché «concorrono all’affermazione nel controllo delle attività economiche del clan di Caltagirone». Ciò che non viene dimostrato per Daniela Vedovato, responsabile dell’ufficio contratti della Fip. Un ruolo fondamentale nello “spezzatino” dei contratti per agevolare il clan mafioso lo hanno tre dipendenti dell’Anas, tra cui il direttore dei lavori del cantiere per la variante di Caltagirone.

Scrive il gip: «Soffiato manteneva i contatti con Maria Coppola, direttore dei lavori del cantiere, la quale non solo dava consigli al Soffiato sulla procedura da seguire per eludere i controlli previsti dalla normativa antimafia «avrebbero dovuto fare un aggiornamento, con una revisione, una settimana dopo, quindici giorni dopo, non lo stesso momento, ma addirittura», prosegue il gip, «strappava il secondo contratto ed invitava Soffiato a distruggere anche la copia recante il timbro del pervenuto; nell’ultima conversazione sopra citata Soffiato comunicava alla Coppola «mandiamo un contratto fino al raggiungimento dei 150.000 per iniziare a fargli fare una pila relativamente a quel discorso che le dicevo che volevano fare un mese di… prova, facciamo così .. tre giorni dopo, facciamo un contratto invece più grosso e quindi che va direttamente in Prefettura». Ma intanto l’impresa del clan iniziava a lavorare e quel lavoro doveva essere pagato, anche se successivamente la Prefettura contestava la mancanza del certificato antimafia.

Carlo Mion

 

«Cantieri sotto controllo per garantire la legalità»

Parla il prefetto di Venezia Cuttaia: «Attendiamo la conclusione delle indagini prima di rilasciare i certificati antimafia a Consorzio e alla Mantovani»

VENEZIA «La situazione in Veneto è continuamente monitorata. La perfetta sintonia con Procura Antimafia e Dia ci consente di tener sotto controllo i vari appalti e le opere che possono essere soggette a infiltrazioni mafiose», fa sapere il Prefetto Domenico Cuttaia.

Da almeno due anni il Prefetto Cuttaia ha spinto molto per compiere verifiche continue su ogni cantiere, su ogni appalto e azienda della nostra regione.

Spiegano ancora in Prefettura: «Per il momento, in attesa della conclusione delle indagini non abbiano ancora rilasciato i certificati antimafia sia per la Mantovani che per le imprese del Consorzio Venezia Nuova coinvolte nelle inchieste della Procura di Venezia. Attendiamo la fine delle indagini».

In diverse occasioni il Prefetto ha scritto ai comuni e alle provincie invitano tutti a impegnarsi allo scopo di «individuare per tempo segnali di interferenze esterne o situazioni anomale che, pur non concretizzandosi in specifiche ipotesi di reato la cui valutazione è affidata alla magistratura e agli organi di polizia giudiziaria, siano suscettibili di attento esame da demandare al Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica».

In secondo luogo, il prefetto chiede «particolare attenzione rivolta alla promozione di iniziative per sensibilizzare adeguatamente le associazioni rappresentative delle categorie economiche sulla necessità di denunciare per tempo fenomeni di usura ed estorsione, che, se coperti, rischiano di alimentare sul territorio la formazione di organizzazioni potenzialmente in grado di radicarsi, come si è già avuto modo di registrare». Non solo appelli, però.

«Questa Prefettura», ha spiegato ancora Cuttaia, «intende rafforzare la cooperazione con le amministrazioni locali per la verifica della precisa conformità dei flussi finanziari alla normativa vigente».

Il prefetto ritiene che «i tentativi, sempre più aggressivi e pericolosi, delle organizzazioni malavitose di radicarsi e strutturarsi nel territorio veneto» siano stati, almeno fino ad ora, fronteggiati da un’incisiva azione di prevenzione e da una forte azione di contrasto. Tutto ciò deve «necessariamente accompagnarsi a una corale affermazioni del principio di legalità in tutte le sue declinazioni». Per questo richiama l’attenzione sulla «necessità di mantenere una buona amministrazione, improntata ai criteri di correttezza, trasparenza e partecipazione». Ricordando i numerosi episodi di corruzione scoperti dalla magistratura, il Prefetto spesso ha sottolineato, che potrebbero «fare da sfondo ad una maggiore penetrazione delle mafie, in grado di captare e sfruttare la disponibilità di amministratori avvicinabili».

Carlo Mion

 

Chi È Il Boss di caltaniSsetta, ora in carcere, e il potere criminale in sicilia della sua famiglia

L’equilibrio mafia-politica garantito da Ciccio La Rocca

Disse di Falcone: «Un cornuto che se la meritava», ma ciò non gli impedì di continuare a vincere appalti pubblici

La passione del clan mafioso di Francesco La Rocca, detto Ciccio, boss di Caltagirone, oggi settantenne, nato e cresciuto criminalmente a una decina di chilometri da Catania, è sempre stato il cemento e la politica. E il collante fra questi due elementi che sembrano apparentemente lontani e diversi, è continuata ad essere la mafia. In questo caso Cosa nostra riesce a mettere insieme persone e cose e a farne un’arma da utilizzare contro gli imprenditori che rispettano la legge e per inquinare l’economia legale.

Ciccio La Rocca ha dato vita negli anni Ottanta nel calatino alla famiglia mafiosa che prende il suo nome. Da alcuni anni è detenuto perché condannato definitivamente per associazione mafiosa. Sul territorio siciliano, e non solo, ha lasciato molti eredi e uomini di fiducia che stanno portando avanti gli affari della famiglia, affari non sono sempre legali. Gli inquirenti lo definivano come «un soggetto in grado di garantire, per il prestigio criminale acquisito e per le particolari doti di mediazione possedute, l’equilibrio così accortamente perseguito». L’equilibrio fra mafia e politica.

Il vecchio boss ha sempre vantato solidi rapporti con i corleonesi e in particolare con Bernardo Provenzano. Molti “pizzini” trovati nel covo in cui il vecchio padrino venne arrestato nel 2006 erano indirizzati anche a La Rocca. E il mafioso calatino che si faceva passare anche per imprenditore e amava corrompere i politici, in alcune intercettazioni fatte all’inizio del 2000 definiva Provenzano «uno di quelli che ha la testa sulle spalle».

E non lesinava commenti nemmeno contro chi è stato vittima della mafia. Le piccole cimici piazzate dagli investigatori in alcuni ritrovi utilizzati dal boss di Caltagirone hanno anche registrato i suoi commenti sull’attentato al giudice Giovanni Falcone, definendolo «un cornuto che se la meritava». Basterebbero queste poche frasi per chiudere il profilo di questo mafioso e far comprendere di che pasta è fatto il capo del clan La Rocca. Basterebbe ricordare pubblicamente il suo giudizio su Falcone per far accendere un semaforo rosso ogni qual volta un cittadino onesto, un pubblico amministratore imparziale o un politico pulito lo incroci sulla sua strada e lanciare l’allarme: uomo da evitare. Anche solo per evitare di stringergli la mano, solo per una questione morale. E invece no. I politici e gli aspiranti politici sono andati a cercare La Rocca per ottenere la sicurezza, con il carico di elettori che può muovere, di essere eletti o rieletti ai consigli comunali e a quelli regionali. L’allarme rosso non è servito nemmeno a quei pubblici amministratori che gli hanno dato larghi spazi di manovra per accaparrarsi appalti pubblici per milioni di euro. E consentito i subappalti. A discapito di imprenditori onesti che rispettano la legge e pagano le tasse.

Pochi mesi fa un collaboratore di giustizia raccontava che Francesco La Rocca «teneva in mano il presidente della regione siciliana Salvatore Lombardo e lo giostrava come voleva lui, lo teneva in mano sua. Ciccio La Rocca aveva in mano mezza Sicilia e voleva riunire tutta la Sicilia». Ecco, secondo un pentito questo mafioso “giostrava” l’ex governatore siciliano, l’autonomista alleato di Silvio Berlusconi. Lombardo oggi è sotto processo a Catania e per lui la procura ha chiesto al giudice la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Ai magistrati il pentito racconta di incontri avvenuti durante la campagna elettorale per le elezioni regionali del 2006 con politici e candidati e ritorna sempre su Francesco La Rocca, che è ben ammanicato a Catania e ricostruisce il rapporto che ci sarebbe stato con Lombardo: «In cambio, se c’erano infrastrutture da realizzare a Caltagirone, saremmo stati i primi a beneficiare di questi lavori». Alla commissione antimafia gli inquirenti catanesi per delineare il profilo di Ciccio La Rocca dicevano: «Abbondanti sono i segnali, cristallizzati anche in risultanze di indagini, indicativi dell’elevata caratura delinquenziale di Francesco La Rocca, non solo con riferimento agli ambiti palermitani: unitamente al figlio Gioacchino «Gianfranco», e ai nipoti Gesualdo «Aldo» e Gaetano Francesco «Franco», (secondo quanto emerso nelle indagini «Chiaraluce», «Grande Oriente», «Orione» e «Dionisio») gode di grande ascendente criminale». Da padre in figlio. Sono storie, fatti e personaggi che tornano ancora adesso a dominare il mondo della mafia imprenditoriale e della politica collusa.

 

IL RETROSCENA –  Il dipendente dell’Anas batte cassa all’azienda

VENEZIA – Ma non è il solo indagato che chiede ricompense materiali per dei piaceri fatti, agli imprenditori che stanno lavorando su quella strada. È ancora un dipendente dell’Anas che batte cassa. Si tratta di Maria Coppola, il direttore dei lavori per la realizzazione della variante di Caltagirone. Il suo ruolo è fondamentale nel garantire lo spezzatino degli appalti per far lavorare le imprese della mafia quindi va ricompensata in maniera ben superiore che con un orologio. Ed ecco che le viene fornita un’auto. Ricostruiscono gli investigatori «Francesco Fundarò aveva acquistato in leasing dal mese di giugno-luglio 2011 quattro autovetture intestate alla sua ditta “L&C” due delle quali erano state messe a disposizione del responsabile Anas geometra Antonio Marianelli e dell’ingegnere Maria Coppola Maria direttore dei lavori del cantiere, soggetti cui spettano i controlli sull’operato delle ditte impegnate nell’appalto». Ed infatti, diverse volte, Maria Coppola veniva ripresa dalle telecamere posizionate dai carabinieri, allontanarsi dal cantiere a bordo di una Citroen C4, intestata alla ditta L&C di Fundarò.

(c.m.)

 

Orologi in cambio di favori

L’impresa padovana era obbligata ad assumere persone e fare regali

VENEZIA – Nell’ordinanza che ha portato in carcere Scaramuzza e Soffiato il giudice scrive: «Dal contenuto delle conversazioni intercettate emergono invece rapporti dì altra natura tra i dirigenti delle imprese aggiudicatarie e i funzionari dell’Anas, dalle conversazioni emergerebbe la preoccupazione per eventuali controlli da parte della DIA sui lavori e l’assunzione di un capocantiere».

Mauro Scaramuzza parla con Daniela Vedovato di una persona che prima ha chiesto l’assunzione di un suo parente e poi di un orologio. Dice Scaramuzza: «L’orologio se lo scorda perché suo cugino ormai lo abbiamo assunto». Successivamente dal tenore delle conversazioni che seguono Gianmarco Celegato emerge che Scaramuzza ha acquistato ad un costo inferiore rispetto a quello di mercato, «ovvero al prezzo di circa 6.000 euro, un orologio Rolex che doveva regalare evidentemente per ricambiare “un favore”». Questo emerge sempre da varie conversazioni intercettate e che vedevano protagonisti sempre Scaramuzza e la sua collaboratrice Vedovato. Dalle telefonate emerge che l’ad di Fip ha effettivamente acquistato l’orologio il 5 novembre del 2011 e il destinatario era colui che gli aveva chiesto nel mese di settembre l’assunzione del proprio cugino e da accertamenti svolti dai carabinieri, il cugino del destinatario dell’orologio è stato poi identificato in Giuseppe Incorvaia, assunto alla “L&C”, impresa che partecipava alla realizzazione della strada, dal giugno 2011, e che è cugino di uno degli odierni indagati accusato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso.

(c.m.)

 

Scaramuzza, ingegnere sempre in viaggio

L’amministratore delegato Fip, mestrino poco conosciuto: preferiva girare tra i cantieri piuttosto che stare in ufficio

MESTRE – Cinquantacinque anni, ingegnere, con casa in una delle vie più esclusive di Mestre, via Terraglietto, sposato e padre di un figlio. Pochi a Mestre possono dire di frequentare e conoscere bene Mauro Scaramuzza, sempre in viaggio per raggiungere dirigere in tutta Italia e anche all’estero. Quando non viaggia comunque stava a Selvazzano, la sede della «Fip Industriale». Come per Piergiorgio Baita, pure lui ingegnere, anche lui è un tecnico più che un manager che sa di amministrazione e gestione aziendale. Non a caso era più spesso sui cantieri che negli uffici della società della famiglia Chiarotto. È finito per la prima volta dietro le sbarre, ma non è la prima volta che si trova implicato in indagini giudiziarie sia come indagato sia come persona informata sui fatti ai quale erano interessati gli investigatori.

A sentirlo, per la prima volta, sono i poliziotti per conto della Procura della Repubblica di Torino dopo il crollo di un pezzo del la tettoia dello «Juventus stadium» del capoluogo piemontese, nella cui costruzione la ditta padovana aveva avuto un ruolo. Poi, invece, finisce indagato in seguito agli interventi per il dopo terremoto a L’Aquila assieme ad altre cinque persone, tra le quali la presidente del consiglio d’amministrazione della società per cui lavora, Donaletta Chiarotto. I magistrati della Procura abruzzese li sospettano di frode nelle pubbliche forniture e turbativa d’asta. La «Fip» aveva vinto una commessa della Protezione civile per oltre tre milioni per fornire duemilacinquecento isolatori in gomma per le case destinate ai terremotati. Con loro, finiscono sotto inchiesta Gian Michele Calvi, direttore dei lavori, Michel Bruno Dupety, presidente dell’«Alga», una delle ditte fornitrici, e Agostino «Marioni, amministratore della stessa ditta. Qualche mese fra, comunque, il pubblico ministero chiede l’archiviazione delle accuse per Chiarotto e Scaramuzza e il rinvio a giudizio per gli altri tre. Poi c’è anche la Guardia di finanza che lo sente, questa volta nell’ambito dell’inchiesta del pubblico ministero veneziano Stefano Ancillotto conclusa con la condanna dell’amministratore delegato dell’Autostrada Venezia-Padova Lino Brentan. E, ieri, infine l’arresto assieme al collega Achille Soffiato.

 

ACHILLE Soffiato

Volontario in parrocchia a Sant’Agostino

PADOVA. C’è incredulità e stupore ad Albignasego tra gli amici dell’ingegner Achille Soffiato, 39 anni, nato a Padova e residente ad Albignasego con la moglie Federica e due figli. Chi lo conosce lo stima sia professionalmente sia per la splendida famiglia. Nonostante gli impegni di lavoro, da sempre è il braccio del parroco, lo aiuta su ogni iniziativa della parrocchia di Sant’Agostino. Ieri i carabinieri sono andati a prenderlo all’alba nella sua abitazione, in questi giorni infatti si trovava a casa. Un suo caro amico racconta che da qualche tempo alla Fip gli avevano prospettato la possibilità di fare il capocantiere al sud d’Italia, in aree dove l’azienda si era aggiudicata importanti commesse. Soffiato era stato costretto ad accettare, nonostante questo significasse effettuare delle lunghe trasferte in Sicilia. Agli amici più stretti aveva confidato che, proprio per i lavori che l’hanno poi portato in carcere, viveva una situazione di tensione. Spesso gli uffici del cantiere erano vigilati da guardie giurate armate, capitava che si vivessero situazioni di tensione per svariati motivi. Inoltre, nella sua veste di ingegnere capo-cantiere subiva delle pressioni da persone del posto che spingevano per delle assunzioni. In merito alle accuse che gli vengono contestate in paese il giudizio è chiaro: si è trovato in mezzo ad una situazione complessa, di cui è anch’egli una vittima.

 

«Siamo increduli, c’è piena fiducia in lui»

Parla Donatella Chiarotto, presidente della società sotto inchiesta. Tranquillo il padre Romeo 

SELVAZZANO – Il giorno della notizia dell’arresto dell’amministratore delegato Mauro Scaramazza e dell’ingegnere Achille Soffiato, nello stabilimento della Fip Industriale di Selvazzano l’attività prosegue normalmente. I lavori vanno avanti a ritmo serrato anche nei cantieri nei comuni di San Michele di Ganzaria e Caltagirone dove l’azienda padovana sta realizzando per conto dell’Anas la strada statale 683 Licodia Eubea-Libertinia. Nella sede storica dell’industria padovana, in via Scappacchiò, appena fuori il centro del paese, ci sono i vertici aziendali: il presidente Donatella Chiarotto ed il papà Romeo che seppure da qualche anno non assuma incarichi di vertice, sovrintende all’attività col suo grande carisma di imprenditore di successo. «Siamo increduli, una cosa del genere è impossibile possa essere successa, esordisce Donatella Chiarotto. Oggi (ieri ndr) sono partiti per la Sicilia i nostri avvocati per capire meglio il problema. Aspettiamo di conoscere bene tutti gli aspetti della vicenda prima di formulare giudizi affrettati. Scaramuzza sovrintende da qualche anno alla parte edile e da parte nostra ha la piena fiducia». Nel pomeriggio dal sud arrivano, attraverso i legali dell’azienda, notizie più precise sul caso. A renderle note è Romeo Chiarotto. «Mi è stato riferito, puntualizza l’imprenditore, che si tratta di una questione legata a subappalti a due ditte locali: la “Tor Revive” per un importo che si aggira sul milione di euro e alla Edil Beta per alcune centinaia di migliaia di euro. Per entrambi era stato chiesto il certificato antimafia. Non avendo avuto risposta dopo circa tre mesi, come prevede la legge, sono stati affidati i lavori. A distanza di un anno, però, l’antimafia per la “Tor Rivive” è arrivato e si è scoperto che la ditta non era a posto. Così abbiamo deciso di metterla immediatamente alla porta, tant’è che ci ha fatto causa per avere il pagamento della parte di lavori effettuati. Non credo che i nostri collaboratori fossero a conoscenza delle infiltrazioni mafiose del clan La Rocca. Per l’altra ditta, invece, era tutto regolare». Romeo Chiarotto tiene a precisare che per quanto riguarda l’appalto siciliano, proprio per evitare infiltrazioni di stampo mafioso, era stato sottoscritto un Protocollo di legalità. «Un documento che oltre a Fip Industriale hanno firmato il prefetto di Catania ed i responsabili della Dia, spiega l’industriale. Se viene assunta una persona in quel cantiere stradale dobbiamo segnalarlo ai carabinieri, come pure se decidiamo di cambiare un fornitore». L’imprenditore padovano non sembra entusiasta di quell’appalto vinto due anni fa in Sicilia. «Purtroppo con la crisi che attanaglia il settore bisogna spostarsi dove c’è lavoro».

Gianni Biasetto

 

«Per fortuna che c’è la magistratura»

Cgil, Cisl, Uil plaudono alle inchieste che mettono a nudo le infiltrazioni illegali nell’economia

VENEZIA «I sindacati dei lavoratori non sembrano sorpresi dalla notizia dell’arresto a Mestre, dove risiede, dell’amministratore delegato della Fip Industriale spa Mauro Scaramuzza.

«Noi lo diciamo da tempo che la malavita organizzata ha messo piede in Veneto» dichiara il segretario generale della Cgil regionale, Emilio Viafora «ci risulta che la Fip da molti anni ha esternalizzato molte delle sue attività e questo non è certo un bel segno. La magistratura deve andare fino in fondo con l’inchiesta, ma anche le forze sociali devono contrastare con tutte le loro e forze questo fenomeno. Non possiamo avere indugi perché le mafie distruggono l’economia sana e scardinano dalle fondamenta gli equilibri sociali, peggiorano la sicurezza negli ambienti di lavoro. Dobbiamo fare in modo che le aziende siano più trasparenti per evitare che siano i lavoratori inconsapevoli a pagare le conseguenze dei comportamenti illeciti e criminali dei loro datori di lavoro, fino a perdere il posto di lavoro. Regione e Stato non possono permettere che questo avvenga». Lino Gottardello, segretario generale della Cisl veneziana, si complimenta con la magistratura che anche con questa inchiesta «lancia un segnale positivo perchè dimostra che la criminalità organizzata che cerca di intaccare anche il sistema economico e produttivo del Veneto e di tutto il Nordest si può contrastare efficacemente».

«In un momento di grave crisi economica e occupazionale come quello attuale, più a rischio di infiltrazioni mafiose» dice Gottardello «non possono essere tolte risorse e sostegno alla magistratura inquirente, alla guardia di finanza e a tutte le altre forze dell’ordine pubblico. Le organizzazioni criminali agiscono nell’ombra e la vigilanza degli organi preposti deve avere gli strumenti e gli uomini necessari per garantire sicurezza e legalità anche nel mondo del lavoro».

Sulla stessa linea è Gerardo Colamarco, segretario generale della Uil veneta che commenta: «E’ chiaro da tempo che la mafia non c’è solo i in Sicilia, anzi penetra sempre più anche nei territorio del Nordest dove c’è più lavoro e più ricchezza. Tenere gli occhi aperti è un nostro dovere, ma la magistratura con le forze dell’ordine deve essere sostenuta e avere tutti i mezzi necessari per condurre le indagini e smascherare il malaffare che insidia l’economia e fa concorrenza sleale e criminale a chi lavora onestamente».

(g.fav.)

 

Il grande business delle cerniere cuore pulsante del sistema Mose

L’ex ministro Matteoli e Galan avevano inaugurato gli ingranaggi nati per azionare le paratoie

Gli arresti alla Fip arrivano dopo che un’altra indagine aveva decapitato i vertici del Consorzio 

«Orgoglio di un’opera italiana», aveva detto l’esponente del Pdl all’inaugurazione

Ma c’è una polemica che dura da anni sull’utilizzo degli impianti Fip

VENEZIA – Non è un imprenditore qualunque Mauro Scaramuzza, arrestato per i contatti con la cosca mafiosa di Gioacchino La Rocca. Ma il responsabile del settore cantieri della Fip, la società padovana presieduta da Donatella Chiarotto che ha lavorato alla costruzione delle cerniere del Mose. Un’azienda di cui è proprietaria la Mantovani, colosso dell’edilizia e primo azionista del Consorzio Venezia Nuova. Mantovani di nuovo nell’occhio del ciclone, dunque, dopo gli arresti dell’ex presidente Piergiorgio Baita e l’inchiesta sul Mose che ha portato all’arresto del presidente fondatore del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati. La Fip di Selvazzano di Dentro è una grande azienda di proprietà di Romeo Chiarotto e dei suoi figli Giampaolo e Donatella.

Tre le divisioni dell’azienda, quella finanziaria con la Serenissima holding, quella delle imprese (settore industriale e metalmeccanico, produzione di cerniere e sistemi idraulici) e quella commerciale. La Fip, azienda specializzata ma sconosciuta ai più, aveva avuto il suo momento di gloria nazionale nel marzo del 2010. L’ex ministro per le Infrastrutture del Pdl Altero Matteoli, grande sponsor del rientrato presidente del Magistrato alle Acque Patrizio Cuccioletta, aveva personalmente battezzato le nuove cerniere del Mose. 161 ingranaggi da 34 tonnellate l’una, due per ognuna delle 78 paratoie che costituiranno il sistema Mose più qualcuna di scorta. Matteoli accompagnato da Giancarlo Galan in caschetto bianco aveva personalmente premuto il bottone del varo. «Orgoglio di un’opera tutta italiana», aveva detto.

Cerniere su cui la polemica e i dubbi degli scienziati ancora non sono chiariti. Due ingegneri di chiara fama, Lorenzo Fellin e Armando Memmio, consulenti del Magistrato alle Acque, erano stati licenziati in tronco per aver criticato il sistema di costruzione delle ceniere. «Sistema a nostro parere superato, con i pezzi saldati e non fusi, dalla durata minore e dalla manutenzione complessa», avevano scritto nero su bianco i due esperti.

La risposta era stata il loro allontanamento e anche il licenziamento di Maria Giovanna Piva, presidente sostituita da Matteoli con Cuccioletta. «I dubbi sono stati superati», avevano garantito al Consorzio. Ma la tenuta delle cerniere saldate e non fuse, generalmente riconosciute più delicate, è tutta da verificare. Per aver utilizzato il brevetto dei tensionatori e degli impianti la Fip ha anche aperto un contenzioso con un’azienda concorrente, la General Fluidi, che rivendica a sé l’idea del meccanismo e ha chiesto il risarcimento dei danni. «Noi siamo stati puniti per le nostre critiche», ha raccontato qualche mese fa alla Nuova l’ingegnere padovano Lorenzo Fellin, «perché avevano già deciso di far costruire alla Fip, gruppo Mantovani, quei meccanismi, e la Fip è specializzata nella costruzione delle cerniere saldate».

Adesso le cerniere, il «cuore tecnologico» del sistema Mose, sono di nuovo sotto i riflettori. Domani sott’acqua saranno le prime otto prodotte a Selvazzano a far sollevare le prime quattro paratoie. Dentro le cerniere, alte quasi tre metri, passano i condotti idraulici, i cavi per l’energia, i sistemi di comando della grande opera. La costruzione era stata affidata dal Consorzio Venezia Nuova alla Fip, di proprietà Mantovani e della famiglia Chiarotto, tra i big dell’imprenditoria e della finanza a Padova. Una bella storia turbata adesso dall’ arresto di Scaramuzza. Che arriva dopo l’inchiesta su Piergiorgio Baita, presidente e manager tuttofare della Mantovani fino a qualche mese fa. Una vicenda che si lega con le due inchieste aperte in laguna e non ancora terminate. E che riaccende interrogativi sui mali del monopolio. Garantito da quasi trent’anni e previsto dalla seconda Legge Speciale, quella del 1984. Insieme alla riscrittura della prima legge del 1973, veniva istituito il Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico dello Stato per le opere di salvaguardia. Finanziamenti statali e niente gare d’appalto. Un’opera colossale, il Mose, che doveva costare un miliardo e mezzo di euro e ora ne costa quasi sei, gestione e manutenzione escluse.

Alberto Vitucci

 

Con il fiato sospeso per le prove generali

Domani è in programma la prima movimentazione delle paratoie, giornalisti da tutto il mondo 

VENEZIA – Forse il momento non era il più adatto, vista la crisi e le vicende giudiziarie che non si fermano. Ma per mostrare al mondo i primi movimenti delle paratoie incernierate sui cassoni, il Consorzio Venezia Nuova ha deciso di fare le cose in grande. Ministri, sindaci, centinaia di giornalisti da tutto il mondo, fotografi e tv. Giro in laguna mattina e pomeriggio per mostrare il prodigio di un’opera tutta italiana. Cerimoniale deciso dal nuovo presidente del Magistrato alle Acque Roberto Daniele e dai nuovi vertici del Consorzio. In mattinata tutti a Malamocco, a vedere da vicino i grandi cassoni in calcestruzzo. Sono alti da 17 a 26 metri, lunghi 50. Una serie di condomìni in calcestruzzo che saranno gettati in acqua e poi trainati da rimorchiatori per essere affondati, ai primi di novembre nella bocca di porto di Lido. Lavori per chiudere il secondo varco della bocca di Lido, la più grande delle tre con i suoi 900 metri di larghezza. In mezzo è stata costruita la grande isola artificiale dove troveranno posto gli edifici di controllo, la centrale elettrica, i servizi. Domani la prima movimentazione delle paratoie, dopo le prove che hanno coinvolto i tecnici dela Mantovani e della Fip – che ha costruito le cerniere – per mesi. Nel giugno scorso le prime prove, dopo che le paratoie in metallo sono state fissate sul fondale appunto attraverso le cerniere, meccanismo delicato e complesso. Un inconveniente ha impedito il sollevamento della paratoia. «Ma era un problema idraulico, subito risolto», hanno rassicurato i tecnici del Consorzio. Domani la «parata» per mostrare a tutti il funzionamento delle prime quattro paratoie – a regime saranno 78 sulle tre bocche di porto – che dovrebbero chiudere la laguna in caso di acqua alta eccezionale. Lavori che si dovevano concludere nel 2009, poi spostati al 2014, infine adesso slittati al 2016. In mattinata la visita del cantiere a Santa Maria del Mare, dove sono stati costruiti i grandi cassoni che andranno sul fondale delle tre bocche di Lido, Malamocco e Chioggia. Alle 14.30 all’isola del bacàn il sollevamento delle quattro barriere a uso dei fotografi. Cerimonia a cui i due «padri» del progetto, l’ex presidente Giovanni Mazzacurati e l’ex presidente di Mantovani Piergiorgio Baita, finiti in carcere nell’inchiesta sul Mose e da qualche settimana, non sono nemmeno stati invitati.

(a.v.)

 

Interrogazione alla Camera dei deputati del Pd, duro commento di Caccia

le reazioni dei politici

VENEZIA. «L’arresto di Scaramuzza proietta l’ombra di Cosa Nostra anche sulla concessione unica per le opere di salvaguardia di Venezia e della sua laguna. Dimostra che c’è un sistema malato legato al monopolio del Consorzio e agli affari da esso gestiti nell’ultimo trentennio».

Va giù pesante il consigliere veneziano della lista «In Comune» Beppe Caccia. E chiede a governo e Parlamento di intervenire con urgenza, viste anche le recenti vicende giudiziarie che hanno interessato il Consorzio e la sua principale azionista, la Mantovani. E di annullare la pomposa cerimonia prevista per domani.

«Mancherà l’uomo cerniera, e non c’è nulla da festeggiare». «L’uomo cerniera del Mose è stato arrestato per mafia», scrive Caccia, «il suo nome ricorre negli ultimi anni in molti dei più discussi affari e opere pubbliche degli ultimi anni, a cominciare dall’Aquila, dall’Expo 2015, dai rapporti con la Cmc di Ravenna titolare delle opere preliminari alla Tav in Val di Susa. E questo prova che i nuovi vertici della Mantovani spa sono ben lontani dal compiere quella operazione di pulizia che avevano promesso al momento del loro insediamento».

Dopo l’arresto dell’ex presidente Baita al vertice della Mantovani era stato insediato infatti un ex questore, Carmine Damiano. «Occorre avviare al più presto una verifica sul progetto Mose, dal momento che l’affidabilità delle cerniere, prodotte proprio dalla Fip di Padova è anora aperta. Ma anche delle ingentissime risorse pubbliche spese in questi anni dal Consorzio e dalle imprese ad esso collegate». «Occorre infine superare la concessione unica», conclude il consigliere, «che si sta rivelando sempre più criminogena».

Sui legami tra imprese del Nord Est e Cosa Nostra intervengono anche i deputati del Pd Alessandro Naccarato, Margherita Miotto e Giulia Narduolo. Con una interrogazione al ministro dell’Interno Angelino Alfano chiedono «se il ministro sia al corrente dei fatti più volte segnalati, cioè le infiltrazioni mafiose in Veneto favorite anche dalla crisi degli ultimi mesi». E «quali concrete iniziative intenda porre in essere al fine di prevenire e contrastare l’infiltrazione mafiosa nel territorio e nel tessuto economico del Veneto». Un fenomeno, scrivono ancora i parlamentari, «che desta un grave allarme sociale presso la popolazione della nostra regione di fronte al quale occorre reagire con determinazione e prontezza per scongiurare il diffondersi del fenomeno». «Il ministro Lupi non può venire a inaugurare il Mose prima di aver fatto chiarezza e un’indagine interna», dice Andreina Zitelli (Iuav).

(a.v.)

 

Cisnetto responsabile della comunicazione

nuovi incarichi al consorzio 

Il nuovo corso del Consorzio Venezia Nuova si affida a una società esterna di Pubbliche relazioni. Il neopresidente Mauro Fabris, egli stesso addetto stampa del pool di imprese alla fine degli anni Ottanta, ha deciso di affidare la comunicazione ai consulenti dello studio Cisnetto. Un lavoro che era sempre stato fatto in casa con discreti risultati – prima da Franco Miracco, poi da Flavia Faccioli che si avvalevano dei dipendenti – e adesso viene affidato a Cisnetto.

«Studia e descrive i processi di cambiamento del capitalismo italiano e internazionale soprattutto in relazione alle dinamoche politiche», scrive di se stesso il genovese Cisnetto nel suo sito. 55 anni, giornalista economico e docente di Finanza alla Luiss, commentatore economico di vari giornali, Cisnetto ha fondato con la moglie le rassegne Cortina InConTra e Roma InConTra. Ha buoni rapporti con i settori economici di molti giornali e conosce molti direttori. Basterà per rilanciare l’immagine del Consorzio e ricominciare l’avventura del Mose?(a.v.)

Blitz delle Fiamme Gialle al Magistrato alle Acque

Sequestrati documenti e i pagamenti relativi ai collaudi dei lavori per il Mose

I fascicoli riguardano in particolare gli alti dirigenti di palazzo Dieci Savi 

VENEZIA – Guardia di Finanza a palazzo Dieci Savi. Non è la prima volta, ma adesso nel mirino degli investigatori che stanno indagando sui grandi lavori in laguna e sulle consulenze, ci sono i soldi pagati per i collaudi dei lavori del Mose. Un gruppo di finanzieri si è presentato qualche giorno fa nella sede del Magistrato alle Acque di Rialto e ha chiesto l’intera documentazione riguardante gli incarichi affidati quasi sempre su chiamata negli ultimi anni. Lavori che riguardano in particolare gli alti dirigenti del Magistrato alle Acque, ma anche dirigenti romani del ministero dei Lavori pubblici. Sono i vari filoni delle due inchieste aperte sulla salvaguardia e il Consorzio Venezia Nuova, che hanno portato nei mesi scorsi all’arresto dell’ex presidente della Mantovani Piergiorgio Baita – ora tornato in libertà – e dell’ex presidente e direttore Giovanni Mazzacurati, anch’egli tornato a casa. Ma anche nuove indagini scaturite da accertamenti e intercettazioni. Si cerca di capire come siano stati spesi i soldi pubblici – somme ingenti, molti milioni di euro – affidando a ingegneri e geometri i collaudi dei lavori in laguna. Un tema già sfiorato tre anni fa con le indagini sulla «cricca» e i vertici del ministero pagati dal costruttore Anemone per i lavori del G8 alla Maddalena. Indagini che avevano sfiorato la laguna, ma allora non erano state approfondite. Le tracce della cricca e degli ingegneri arrestati portano in laguna. Mauro della Giovanpaola, dirigente coinvolto nella disastrosa operazione del nuovo Palacinema. Ma anche Angelo Balducci, potentissimo ex presidente del Consiglio Superiore dei Lavori pubblici dove si approvavano grandi opere e progetti a cominciare dal Mose. Era Balducci spesso a indicare i consulenti e i collaudatori. Tra cui c’era lui stesso, e il suo fidato Fabio De Santis, già Provveditore delle Opere pubbliche ad Ancona, che aveva meritato 150 mila euro per i collaudi di alcuni lavori.

«Lo conosco ma non ho mai avuto rapporti con loro», diceva l’allora presidente Patrizio Cuccioletta. Incarichi anche agli ingegneri veneziani, e all’ex vicepresidente Luigi Mayerle, ora in pensione. Le indagini dovranno adesso appurare se tutto si sia svolto regolarmente e se il sistema adottato per i compensi agli ingegneri – potrebbero essere gli stessi che dovevano autorizzare i lavori, con un evidente conflitto di interessi – siano leciti oppure no. Carretti di delibere del Comitato tecnico e del presidente, incartamenti, fatture sono stati sequestrati dai finanzieri. Che hanno sentito per molte ore ex dirigenti. «No comment» e silenzio assoluto al Magistrato alle Acque, dove i nuovi dirigenti sono evidentemente estranei all’attività svolta fino al 2012. Ma circola una certa preoccupazione. Dopo gli ultimi sequestri di documenti, l’anno scorso, erano scattati gli arresti per i vertici del Consorzio. Le indagini sulla salvaguardia e sul coinvolgimento di altri livelli nella corruzione non sono evidentemente finite.

Alberto Vitucci

 

La Fip, gioiello della famiglia Chiarotto

Ricavi per 178 milioni: l’azionista aveva deciso di tornare a investire nel settore antisismico

PADOVA – Questa volta i suoi martinetti antisismici non sono bastati: il terremoto ha investito direttamente il vertice dell’azienda. Eppure, la Fip Industriale spa è sempre stata considerata il gioiello tecnologico del gruppo Chiarotto: una staff di ingegneri e progettisti di primordine, grandi capacità di industrializzazione, più di cento brevetti depositati, un elenco di referenze che fa il giro del mondo, dal grattacielo di Taipei al Golden Gate di San Francisco. Ma l’idea che Fip industriale dovesse occuparsi anche di lavori stradali non le ha portato fortuna: l’arresto dei suoi manager riguarda ora proprio la gestione di un appalto per la variante stradale di Caltagirone, e una banale storia di subappalti in odore di mafia. Che il business delle costruzioni fosse «contro natura», del resto, l’ha compreso anche lo stesso Romeo Chiarotto, che dopo l’inchiesta che ha portato all’arresto di Piergiorgio Baita ha deciso di ridimensionare l’attività edile della Fip Industriale e ricondurla al tradizionale e redditizio segmento dell’antisismica. Il bilancio al 31 dicembre 2012 di Fip Industriale S.p.A. registra l’aumento dei ricavi da 175,7 a 177,8 milioni di euro e il ritorno all’utile (1,7 milioni di euro) dopo la sventola patita nell’esercizio 2011 (una perdita di quasi 15 milioni di euro). Gli addetti diretti sono più di 430, in larga parte nello stabilimento di Selvazzano Dentro. Poche settimane fa, durante l’approvazione del bilancio, l’azionista è stato chiaro: Fip torni a fare quel che sa fare, lasciando il business delle costruzioni (per quello c’era la Mantovani). Nella relazione al bilancio la decisione di «rivedere le proprie strategie in modo da ridimensionare il settore edile, focalizzarsi sul proprio core business storico legato alla meccanica e a quei lavori edili, di minore rilevanza e quindi a minor rischio, che sono di fatto funzionali e complementari alla attività meccanica stessa». Il peggio, con l’accusa di mafia, doveva ancora arrivare.Fip industriale è tra i leader mondiali dell’antisismica: progettazione e produzione di apparecchiature e dispositivi di meccanica strutturale, impiegati in opere stradali, ferroviarie e marittime. Suoi i martinetti che tanto hanno fatto discutere (anche per l’inchiesta che ne nacque) delle «case sospese» del dopo terremoto a L’Aquila.

Gazzettino – Tecnico del Mose arrestato per mafia

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10

ott

2013

COSA NOSTRA & GLI APPALTI

VENEZIA – L’ombra di Cosa Nostra su un appalto in Sicilia. Nessun collegamento con il Consorzio, ma è polemica in laguna

Manette a Mauro Scaramuzza, ad della Fip, la ditta che realizza le cerniere delle paratoie

COINVOLGIMENTO – Le indagini riguardano il comparto edile e non industriale

INCHIESTA A CATANIA – I Carabinieri arrestano cinque persone, tra loro c’è l’ad di una ditta padovana legata alla Mantovani

I FATTI – Legami con una società “sospetta” per i lavori di una strada in Sicilia

ARRESTATI – Mauro Scaramuzza e Achille Soffiato, concorso esterno ad associazione mafiosa

L’ombra della mafia sul tecnico del Mose

Manette a Mauro Scaramuzza, a capo della Fip, l’impresa che sta realizzando il sistema di ancoraggio ai fondali

Un collegamento diretto tra la mafia e un’impresa padovana amministrata da un mestrino. Ieri mattina i carabinieri di Catania hanno arrestato cinque persone nell’ambito degli appalti sulla “Variante di Caltagirone”. In carcere sono finiti l’ingegnere mestrino Mauro Scaramuzza, 55 anni, amministratore delegato della Fip di Selvazzano (Padova) insieme al responsabile del cantiere l’ingegner padovano Achille Soffiato, di 39 anni. Oltre a loro i carabinieri hanno arrestato anche Gioacchino Francesco La Rocca, 42 anni, figlio del capomafia detenuto “Ciccio”, suo cognato Giampietro Triolo, di 53, e il fratello di quest’ultimo, Gaetano Triolo, di 42.

In città la Fip è un’azienda abbastanza conosciuta, soprattutto perchè è l’aggiudicataria dei lavori di costruzione delle cerniere che “legano” le grandi paratoie mobili che costituiscono il Mose. Al vertice dell’azienda (che non risulta coinvolta dall’inchiesta catanese visto che il problema riguarda solo il comparto edile e non quello industriale, che lavora per il Mose) è Donatella Chiarotto, sorella di Giampaolo, attuale amministratore delegato della Mantovani arrivato al vertice dopo la vicenda giudiziaria che ha interessato Piergiorgio Baita. In passato anche l’ex ministro Altero Matteoli aveva visitato l’industria padovana. E la vicenda della Fip, ben prima dell’inchiesta siciliana, aveva già sollevato più di qualche polemica visto che proprio il tema delle cerniere scelte per il Mose aveva dato vita a diverse critiche. Con tanto di accuse e di improvvise dimissioni.

Dalle indagini dei carabinieri sarebbe emerso che gli arrestati avrebbero frazionato, con la complicità di dipendenti dell’Anas di Catania, i subappalti senza superare la soglia di 154mila euro, limite da cui scatta l’obbligo dei informative e certificati antimafia.

Secondo l’accusa, la Fip, attraverso Soffiato e Scaramuzza, avrebbe affidato lavori in subappalto a società che, dice la Procura, erano controllate dalla “famiglia” La Rocca. I carabinieri stimano che su circa 36milioni di euro in subappalto, un milione sia andato alla ditta, la “To Revive”, che è stata sequestrata assieme alla Edilbeta costruzioni, gestita dal figlio del boss.

Le indagini, avviate già nel 2011, hanno avuto un’impennata negli ultimi tempi e i carabinieri di Venezia hanno fornito un prezioso contributo ai colleghi siciliani. Sono stati fatti appostamenti, osservazioni e verifiche vicino all’abitazione di Scaramuzza, nella zona di via Terraglietto, ma al momento della conclusione dell’indagine l’amministratore non si trovava in terraferma ma in Sicilia dove è stato arrestato.

Gianpaolo Bonzio

 

I TECNICI DEL MAGISTRATO ALLE ACQUE – Quelle dimissioni per i dubbi sulle cerniere

La tecnologia delle cerniere saldate anzichè fuse era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso per l’ingegner Lorenzo Fellin, professore dell’Università di Padova e membro esperto del Magistrato alle Acque nel Comitatone. Tanto che a novembre del 2010 Fellin aveva dato le dimissioni.

«Sono consapevole della gravità di questa decisione – scriveva il professore – ma la mia formazione di ricercatore, improntata al dubbio e alla necessità di continue verifiche, mi porta a prese di posizione più riflessive. Per questo sullo specifico argomento, che ritengo in assoluto il più delicato e il più critico dell’intera operazione di salvaguardia della laguna, intendo non essere ulteriormente coinvolto nelle decisioni che verranno assunte».

Fellin era stato nominato come esperto quando il precedente Magistrato alle Acque, Maria Giovanna Piva, si era accorta della carenza di competenze specifiche in un consesso che deliberava per centinaia di milioni di euro. E così erano stati invitati anche l’ing. Armando Mammino, esperto dal punto di vista strutturale successivamente liquidato dal Magistrato alle Acque, Patrizio Cuccioletta (e sostituito con il prof. Renato Vitaliani, che vanta anche consulenze sul ponte della Costituzione a Venezia) e l’ing. Mario Paolucci, metallurgo che aveva sollevato in una perizia alcuni dubbi sulla tecnologia adottata.

«Originariamente le cerniere dovevano essere fuse – ricorda Fellin – poi improvvisamente il progetto esecutivo fu cambiato in corso d’opera. E allora si fece una sperimentazione con un prototipo che costò dapprima 6 milioni di euro diventati 7,5 con una variante successiva.

Ma perchè non si è fatta una gara internazionale per stabilire quale fosse la tecnologia migliore da utilizzare, piuttosto che scegliere la Fip Mantovani? All’epoca c’era un’altra ditta concorrente della Fip, la Fracasso di Padova che avrebbe potuto competere. Ma non ne ho saputo più nulla».

Raffaella Vittadello

 

LA VISITA – Il 18 marzo del 2010 l’allora ministro Altero Matteoli, accompagnato dal governatore Giancarlo Galan e da

Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, visitò la Fip.

CERNIERE – Una tecnologia al centro di polemiche

Lo sviluppo sotto la guida dei Chiarotto

I CANTIERI – Nessun commento da parte del Consorzio Venezia Nuova

La F.I.P. srl fu fondata nel 1945 dal Attilio Daciano Colbachini, lo stesso della IVG di Cervarese leader nei tubi in gomma (acquisita nel 1980 da Romeo Chiarotto). Fino al 1962 ha svolto un’attività di carattere commerciale, rivolta alla distribuzione di articoli tecnici destinati all’edilizia, al settore idroelettrico ed autostradale. Nel 1956 entrò a far parte della società proprio Romeo Chiarotto, patron di Mantovani, che si rese promotore di un’azione di rinnovamento. Chiarotto (oggi ottantaquattrenne) perfezionò l’acquisizione della FIP sempre negli anni Ottanta (dell’’87 quella di Mantovani costruzioni). Oggi FIP Industriale spa, sotto la guida di Donatella Chiarotto (48 anni, padovana ma residente a Treviso), ha aumentato la sua espansione verso i mercati esteri ed opera con prodotti e tecnologie all’avanguardia nel campo dell’ingegneria civile, in particolare nei settori delle strade, autostrade, ferrovie, metropolitane, edifici, impianti industriali, dighe, piattaforme petrolifere e strutture portuali.

 

I lavori alle dighe proseguono. Sabato si alza la prima paratoia

Che l’imbarazzo sia palpabile è certo. E tutto sommato è un’altra tegola – almeno di riflesso – sull’immagine del Consorzio Venezia Nuova, proprio quando si stavano calmando le acque della “tempesta” giudiziaria che nei mesi scorsi con il caso Baita che aveva travolto Giovanni Mazzacurati subito dopo le sue dimissioni da presidente dell’ente. Ora arriva l’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Catania, a catapultare il Consorzio nuovamente sulle prime pagine dei giornali. E anche questa volta, più che in passato, bocche cucite, anche se a mezza voce, dalla sede del Consorzio fanno sapere che la “Fip industriale” di Selvazzano Dentro, è solo una delle 50 aziende che operano nei cantieri del Mose. Insomma, una delle tante anche se centrali, ma in questo caso, il Consorzio non c’entra. Tutte questioni siciliane. Tant’è. Di certo, però la Fip Industriale di Selvazzano, è senz’altro uno degli punti centrali – e da tempo – dell’operazione Mose. Ed è infatti, proprio l’azienda padovana guidata da Donatella Chiarotto, sorella di Giampaolo, attuale amministratore delegato dell’azienda Mantovani del “dopo Baita”, ad essere al centro di una delle commesse più importanti per la realizzazione del Mose: la costruzione delle cerniere che “uniscono” – in un gioco malizioso – tra “maschi” e “femmine” le grandi paratoie mobili che serviranno per difendere Venezia dall’acqua alta. E proprio il caso vuole che sabato prossimo, alla presenza del ministro per le Infrastrutture, Maurizio Lupi e delle istituzioni che operano in seno al Comitatone per Venezia, sia stata annunciata in una nota congiunta Magistrato alle Acque e Consorzio Venezia Nuova, la “prima movimentazione” delle prime quattro paratoie mobili posizionate alla bocca di porto del Lido. Quasi uno “scherzo” della Provvidenza. Infatti nell’occasione, Magistrato alle Acque e Consorzio faranno il punto della situazione anche sul Mose e sui lavori che si stanno completando. Come più volte ribadito dal Consorzio, anche davanti ad un taglio di circa 100 milioni di euro relativamente all’ultima manovra del Governo per la “copertura dell’Imu”, i lavori alla dighe mobili sono giunti all’80 per cento del suo completamento. Va ricordato infine che proprio nelle scorse settimane, il Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica) aveva stanziato circa 970 milioni di euro proprio per avvicinare sempre più il Mose al suo completamento.

Paolo Navarro Dina

 

Beppe Caccia: «Manager chiave per i lavori a Nord e Sud»

L’ATTACCO / «Stop alla prima di sabato»

Caccia: «Un manager al centro delle maggiori commesse pubbliche»

L’affondo è degno di un centravanti. E per farlo, dopo gli arresti compiuti in terra siciliani, usa una metafora efficace.

«Se la ricostruzione della Dda di Catania sarà confermata – butta lì il consigliere Beppe Caccia – l’ingegner Mauro Scaramuzza era davvero un “uomo cerniera” cioè una figura di connessione decisiva tra gli interessi delle cosche mafiose in Sicilia e quelli delle grandi imprese di costruzioni “pulite” del Nord. Che tanto pulite poi non sembrano essere, a conferma del livello di compenetrazione ormai raggiunto, su tutto il territorio nazionale, tra capitali illegali da riciclare e capitali legali da valorizzare».

E su questo Caccia chiarisce: «Scaramuzza non è un manager qualsiasi. Il suo nome ricorre in molti dei più importanti e discussi affari nel campo delle opere pubbliche: dalla ricostruzione dell’Aquila ai lavori in Lombardia per Expo2015, dai rapporti con la Cmc di Ravenna per la Tav in Val Susa fino ai “protocolli antimafia” in appalti chiacchierati».

Insomma, un uomo al centro delle commesse nei lavori pubblici. «Soprattutto – dice Caccia – è un “uomo-cerniera” dal ruolo chiave nel sistema di potere organizzatosi intorno al progetto Mose e al Consorzio. Sua è la responsabilità della realizzazione delle “cerniere” che devono connettere le paratoie delle dighe mobili ai cassoni sui fondali delle bocche di porto. Cerniere sulle cui garanzie di affidabilità e condizioni di sicurezza ho presentato oltre un anno e mezzo fa un’interrogazione che non ha mai ottenuto risposta dal Magistrato alle Acque».

Per questo, Caccia chiedendo la sospensione della presentazione della prima movimentazione delle paratie mobili prevista per sabato, sottolinea come “l’arresto di Scaramuzza proietti l’inquietante ombra di “Cosa nostra” anche sulla concessione unica per le opere di salvaguardia di Venezia».

P.N.D.

 

COSA NOSTRA & GLI APPALTI

IL PRECEDENTE – Scaramuzza e Chiarotto nel 2011 indagati all’Aquila

LA DIFESA – La famiglia Chiarotto ha rilanciato la Fip ora nell’occhio del ciclone

Il capostipite Romeo: «Siamo increduli, avevamo adottato tutte le precauzioni antimafia per quel cantiere in Sicilia»

«Abbiamo sempre rispettato le regole»

LA SEDE – La Fip ha sede a Selvazzano Dentro in provincia di Padova. La famiglia Chiarotto, titolare anche della Mantovani, l’ha rilevata rilanciandone l’attività

«Siamo increduli. Ci sembra impossibile, viste tutte le precauzioni antimafia che abbiamo attivato prima di iniziare i lavori di questo appalto a Caltagirone. Ora è in viaggio verso la Sicilia il nostro avvocato, e speriamo di poter avere anche noi maggiori dettagli sulla vicenda per comprendere meglio che cosa possa essere accaduto».

L’imprenditore Romeo Chiarotto, 82 anni, capostipite della famiglia che negli anni Sessanta ha dato un nuovo impulso all’azienda Fip di Selvazzano avviando il settore industriale, siede accanto alla figlia Donatella. È lei oggi alla guida della Fip Industriale spa, che conta 440 dipendenti. Ieri mattina nella sede principale di Selvazzano, nota anche per aver realizzato le famose cerniere del Mose, le attività si sono svolte nella totale normalità. Di fatto il nuovo caso giudiziario non tocca il settore metalmeccanico della Fip Industriale, ma quello secondario, edile. Un settore che lavora in autonomia, seguito dal suo amministratore delegato, che si occupa della ristrutturazione di viadotti e di realizzare strade come appunto sta avvenendo da due anni a Caltagirone, con la circonvallazione.

«Il nostro lavoro principale è metalmeccanico – ha spiegato Chiarotto – realizziamo giunti di dilatazione e sistemi antisismici. Ma per mettere in opera i giunti abbiamo un nostro settore edile, che è secondario rispetto al metalmeccanico, che però nel tempo è diventato importante. In questi momenti di difficoltà per il settore si cerca di lavorare dove ci sono opere da realizzare e dove ci sono i soldi. Siamo andati a lavorare in Sicilia con questo appalto per costruire la circonvallazione di Caltagirone».

Un appalto che la Fip ha ottenuto assieme ad altre due aziende siciliane che rappresentando solo il 10% dell’incarico, mentre l’azienda di Selvazzano ne è la capofila. Un appalto da 100 milioni di euro, giunto al 70% della realizzazione e che dovrebbe concludersi entro un anno. Opera finanziata con i Fondi Europei e dall’Anas. Incarico che, come ha spiegato Chiarotto, è stato preceduto da un protocollo di legalità approvato dal ministero del Lavoro, dalla prefettura di Catania e dalla Dia: «Siamo inceduli, abbiamo adottato tutte le precauzioni».

«Il cantiere non è stato bloccato – ha precisato la figlia Donatella – si continua a lavorare. Ora attendiamo di avere maggiori chiarimenti dal nostro avvocato».

Nel gennaio del 2011 l’azienda di Selvazzano venne coinvolta nell’inchiesta riguardante gli isolatori sismici utilizzati a L’Aquila per il progetto C.a.s.e. per la costruzione di 4.500 alloggi dove si ospitavano circa quindicimila persone. Fra gli indagati dalla Procura della Repubblica dell’Aquila anche Donatella Chiarotto e Mauro Scaramuzza.

 

L’ACCUSA – Il Pm chiederà misure più dure

ROMEO CHIAROTTO «Tutto controllatissimo, impossibile lavorare così»

(M. G.) «Andiamo al Sud perché lì per fare le strade ci sono i finanziamenti europei, ma per noi è un’anomalia. Comunque vogliamo essere in regola. Lo sa che ogni giorno controlliamo tutte le 150 persone del cantiere e se ce n’è uno di diverso chiamiamo i carabinieri?». Romeo Chiarotto, 84 anni è il presidente di Serenissimna holding spa, la società “madre” della Fip di Selvazzano presieduta dalla figlia Donatella. «Abbiamo chiesto la documentazione dell’antimafia alla Prefettura di Catania per la “To Revive”. Dopo 75 giorni non ci hanno dato risposta e per il silenzio-assenso siamo andati avanti affidando loro un appalto da un milione. Passa un anno e, sei mesi fa, la Prefettura ci dice che non sono a posto con l’antimafia. Li abbiamo messi alla porta senza finire di pagarli e loro ci hanno pure fatto causa. L’altra, la Edilbeta, il certificato ce l’aveva. Ora mi dica lei come si può lavorare? Avevamo firmato un patto di legalità con la Prefettura, più di così…».

 

VENEZIA – Il Consorzio tace . Gli ambientalisti no: «Stop alla “prima”»

VENEZIA – Da una parte il Consorzio Venezia Nuova che si trincera dietro ad un “silenzio imbarazzato” pur sottolineando che la Fip Industriale di Selvazzano Dentro, è solo una delle aziende che operano per la realizzazione del Mose; dall’altra il mondo ambientalista che si scatena come il consigliere comunale, Beppe Caccia che, fuor di metafora, parla dell’amministratore delgato della Fip, Mauro Scaramuzza, come dell’«uomo cerniera» tra gli interessi delle cosche mafiose in Sicilia e le grandi imprese del Nord. Nel mezzo, le notizie provenienti da Catania, con relative polemiche che – manco a farlo apposta – arrivano a pochi giorni dall’incontro organizzato dal Consorzio Venezia Nuova per la “prima movimentazione” di quattro paratoie mobili (quelle stesse costruite dalla Fip Industriale di Selvazzano, ora al centro dell’inchiesta siciliana) alla bocca di porto del Lido. Un incontro non proprio sottotono visto che Magistrato alle Acque e Consorzio Venezia Nuova, l’ente concessionario per le opere del Mose, hanno organizzato per sabato prossimo la visita del ministro per le Infrastrutture, Maurizio Lupi e delle istituzioni che siedono nel Comitatone.

Beppe Caccia, consigliere comunale ambientalista, dopo aver chiesto la sospensione dell’incontro, ha tuonato: «Scaramuzza non è un manager qualsiasi. È l’amministratore delegato della Fip di Selvazzano Dentro, una società controllata dalla Mantovani SpA della famiglia Chiarotto. E il suo nome ricorre in molti dei più importanti affari degli ultimi anni nel campo delle opere pubbliche: dalla ricostruzione dell’Aquila ai lavori in Lombardia per Expo2015, dai rapporti con la CMC di Ravenna per le opere della Tav in Val Susa fino alla sottoscrizione di “protocolli antimafia” in appalti chiacchierati».

 

IL CASO – Appalti in Sicilia, per la procura di Catania l’imprenditore avrebbe favorito l’infiltrazione dei clan

Mafia, in manette l’uomo delle “cerniere”

Arrestato Scaramuzza, l’ad della padovana Fip, che ha realizzato uno dei lavori più importanti del Mose.

Avrebbero frazionato, con la complicità di alcuni dipendenti dell’Anas di Catania, i subappalti senza superare la soglia di 154mila euro, limite da cui scatta l’obbligo di informative e certificati antimafia. In questo modo alcune aziende sospettate di collegamenti con la mafia, ed impegnate nella “Variante di Caltagirone” che interessa 8,7 chilometri con un finanziamento di poco meno di 112 milioni di euro, sarebbero state favorite.

Si conclude con 5 arresti l’inchiesta dei carabinieri di Catania sugli appalti che è penetrata anche in Veneto. In carcere sono infatti finiti l’amministratore delegato della Fip industriale di Selvazzano (Padova), Mauro Scaramuzza, mestrino di 55 anni, il responsabile del cantiere l’ingegnere padovano Achille Soffiato, di 39 anni, Gioacchino Francesco La Rocca, 42 anni, figlio del capomafia detenuto “Ciccio”, suo cognato Giampietro Triolo, di 53, e il fratello di quest’ultimo, Gaetano Triolo, di 42. L’azienda padovana è molto conosciuta in laguna per aver ha realizzato le cerniere del sistema Mose che mira alla difesa di Venezia dalle acque alte.

La Fip, secondo la Procura, attraverso Soffiato e Scaramuzza avrebbe favorito e affidato lavori in subappalto alle ditte “To Revive” e “Edilbeta costruzioni” che sarebbero controllate dal clan La Rocca, in particolare da Gioacchino Francesco La Rocca. Stando a quanto accertato dalla Dda etnea, il danno arrecato alla Stato sarebbe consistente, visto che su 36 milioni di subappalti oltre un milione sarebbe finito alla “To Revive” di La Rocca. Secondo i carabinieri di Catania, inoltre, i protagonisti della Fip avrebbero dimostrato di essere consapevoli dello stratagemma per consentire a queste società di entrare nella spartizione di consistenti subappalti. Il tutto probabilmente al fine di non aver problemi nell’avanzamento del cantiere.

Dall’indagine è poi emerso che il meccanismo coinvolgeva anche tre dipendenti dell’Anas, per i quali le Procure di Caltagirone e Catania avevano chiesto un provvedimento cautelare, ma che il gip non ha concesso perché ha riconosciuto l’ipotesi di abuso d’ufficio, ma non l’aggravante dell’avere favorito l’associazione mafiosa.
L’indagine della Procura (che accusa gli arrestati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, intestazione fittizia di beni al fine di eludere le norme in materia di prevenzione patrimoniale e concorso esterno in associazione mafiosa) era partita da un controllo su un’associazione temporanea di imprese. Da qui sono scattate alcune intercettazioni telefoniche, pedinamenti e riprese video in particolare nei confronti della EdilBeta. Anche i carabinieri di Venezia hanno fornito un aiuto consistente con appostamenti ed osservazioni nelle immediate vicinanze dell’abitazione di Scaramuzza.

Gianpaolo Bonzio

 

VENEZIA – Revocati all’ex presidente della Mantovani gli arresti domiciliari

L’udienza è fissata per giovedì 17 ottobre: il giudice per l’udienza preliminare di Venezia, Massimo Vicinanza, prenderà in esame l’istanza di patteggiamento formulata dall’ex presidente dell’impresa di costruzioni Mantovani spa, l’ingegner Piergiorgio Baita, finito sotto inchiesta con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata ad una maxi frode fiscale realizzata attraverso false fatture per oltre 8 milioni di euro, attraverso le quali la Mantovani avrebbe accumulato consistenti provviste di denaro in nero.

Baita, difeso dagli avvocati Alessandro Rampinelli ed Enrico Ambrosetti, ha concordato l’applicazione di una pena quantificata in un anno e dieci mesi di reclusione. In attesa dell’udienza per definire il patteggiamento, il gup Vicinanza ha revocato la misura cautelare degli arresti domiciliari e ha rimesso in libertà l’ingegnere dopo oltre duecento giorni di detenzione, di cui i primi 106 trascorsi nel carcere di Belluno e i restanti 96 nella sua villa di Mogliano Veneto (Treviso). Il giudice ha riconosciuto il venir meno delle esigenze cautelari, sia perché Baita si è dimesso da ogni incarico, sia perché ha iniziato a collaborare con la procura: negli ultimi mesi ha sostenuto una mezza dozzina di interrogatori davanti ai pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, nell’ambito del prosieguo dell’inchiesta. Le sue dichiarazioni sono coperte da segreto, ma è probabile che abbia riferito dettagliatamente in merito alla destinazione dei consistenti fondi neri della Mantovani che, secondo la Guardia di Finanza, sarebbero serviti a pagare amministratori e politici in cambio di appalti.

Nell’udienza del 17 ottobre saranno prese in esame anche le richieste di patteggiamento avanzate dagli altri tre imputati coinvolti nell’inchiesta sulle false fatture milionarie della Mantovani: il direttore amministrativo della società padovana, il ragionier Nicola Buson, 66 anni; Claudia Minutillo, 49 anni, di Mestre, l’ex segretaria dell’allora presidente della Regione, Giancarlo Galan, poi diventata collaboratrice di Baita in qualità di amministratore delegato di Adria Infrastrutture, e William Colombelli, 50 anni, presidente della società Bmc Broker Srl, con sede a San Marino, una delle “cartiere” utilizzate dalla Mantovani per realizzare fondi neri. Dopo aver collaborato con la Procura, i tre hanno formalizzato richiesta di applicazione di pene che vanno da quattordici a sedici mesi di reclusione. I pm Ancilotto e Buccini hanno già dato parere favorevole a tutte le istanze, ma ciò non significa automaticamente un via libera ai patteggiamenti: il gup Vicinanza, infatti, potrebbe decidere di rigettare le richieste nel caso in cui ritenesse non congrua la pena individuata. In tal caso una eventuale richiesta al rialzo dovrà essere valutata da un diverso giudice.

 

NEL COMELICO

COMELICO – Allo sconcerto del sindaco di Comelico Superiore, Mario Zanondella Necca, si unisce anche il Comitato Per Altre Strade che da tempo si batte contro l’attraversamento delle Dolomiti da parte dell’A27.

«Siamo sorpresi – spiega Alessandra Cason – dal tempismo di questa cordata che si sta attrezzando per depositare in Regione questa nuova proposta di asse di attraversamento. Noi crediamo che questo territorio debba essere salvaguardato e non devastato da nuovi assi stradali. Vigileremo affinché questi territori siano conservati integri. Chiederemo presto un incontro con gli amministratori del Cadore e del Comelico per ragionare insieme su quali iniziativa intraprendere».

Si preannuncia dunque durissimo il braccio di ferro sul progetto di nuova Intervalliva che un pool di imprese (Finconsit, Maltauro, Mantovani) sta predisponendo per collegare Italia con l’Austria, attraverso Sappada. Un tracciato che dovrebbe sovrapporsi all’attuale strada che attraversa il Cadore e il Comelico e che dovrebbe terminare a Padola e poi, con un traforo, attraversare il Monte Cavallino fino al versante austriaco. Il progetto ha le caratteristiche di una risagomatura del tracciato attuale con le modalità del projetc financing. Il progetto, anticipato dal nostro giornale sabato, sta per essere depositato in Regione per la dichiarazione di pubblica utilità. Ma il sindaco di Comelico Superiore si è già dichiarato contrario:

«Sorprendente che a distanza di pochi mesi dalla definitiva ratifica del Protocollo trasporti della Convenzione delle Alpi da parte di tutti i membri e del consiglio dell’Unione europea ed a pochi giorni dallo ‘scioglimento’ della Società Venezia-Monaco proprio a seguito di tale accordo, resusciti il collegamento Italia-Austria attraverso il Comelico».

«Del traforo del Cavallino si è molto parlato in questi ultimi 20 anni: un’ipotesi da sempre contrastata dai comuni diretti interessati sia sul versante italiano che su quello austriaco: se conosco un po’ cosa pensano i colleghi sindaci dell’Alta Pusteria a dell’OstTirol sul tema, credo proprio che diranno ‘nein’».(d.f.)

 

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