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L’imprenditore di Polverara: «Nicolò Buson andò a Roma nella sede de Il Punto per tentare di fermare l’inchiesta»

VENEZIA «Ricordo che successivamente Nicolò Buson andò a Roma da Enzo Manganaro, il quale gli disse, dopo averlo portato nella sede della rivista “Il Punto” in via Nazionale, che avrebbero potuto risolvere i problemi con la magistratura e la Guardia di finanza con il pagamento di 200 mila euro». Questo uno dei passaggi centrali del verbale d’interrogatorio dell’imprenditore di Polverara Mirco Voltazza, braccio destro di Piergiorgio Baita nella vicenda delle fatture fasulle. Le frasi sono riportate nelle pagine della motivazione firmata dal giudice veneziano Angelo Risi per spiegare perché il Tribunale del riesame ha respinto il ricorso di Buson, ragioniere della «Mantovani spa», e lo ha tenuto in carcere. «Alessandro Cicero, direttore editoriale del settimanale romano, rivelava a Voltazza», si legge ancora nel documento depositato ieri nella cancelleria, «che “Il Punto” oltre ad essere un giornale era un’agenzia dei servizi segreti, che a loro volta finanziavano il giornale in caso di difficoltà. In questo contesto Cicero presentò a Voltazza tale Enzo Manganaro, a suo dire collegato con i servizi». Naturalmente il magistrato veneziano si pone il problema della verifica delle affermazioni dell’imprenditore di Polverara e scrive: «Non si tratta di mere vanterie perché sono stati rinvenuti nelle perquisizioni della Guardia di finanza (fatte a Cicero e a Manganaro: ndr) i decreti di perquisizione firmati dal pubblico ministero Stefano Ancilotto, la bozza di lavoro non firmata dell’ordinanza di custodia cautelare e dati relativi ai magistrati procedenti». Inoltre, Voltazza ha rivelato che «Buson possedeva delle chiavette con tutti i verbali della Guardia di finanza di Venezia e Padova». Buson, dunque, non era solo «l’ufficiale pagatore» o «il semplice contabile», ma il responsabile amministrativo della «Mantovani»), con «un ruolo di essenzialità nel programma criminoso», «la longa manus di Baita». A parlare del ragioniere c’è anche Claudia Minutillo e ammette: «Tutta la contabilità di Adria Infrastrutture e di Mantovani era seguita da Buson». E ancora Voltazza racconta per quanto riguarda i soldi delle fatture false: «Le somme venivano portate da Marazzi in contanti, dopo averle fatte rientrare dalla Croazia… Poi le consegnavo a Buson. Ho fatto questo per Baita setto-otto volte». Per tutto questo, il Tribunale del riesame ritiene che Buson «gestiva in prima persona tutti i pagamenti delle false fatture, ben conscio che si trattava di incarichi già svolti da altre società» e che la «Bmc Broker» di William Colombelli a San Marino non poteva svolgere. Inoltre, il ragioniere della Mantovani, stando alle prove raccolte, avrebbe partecipato attivamente anche all’opera di depistaggio e di inquinamento delle prove. E, così, si trova ancora nel carcere di Treviso. Intanto, il pubblico ministero sta valutando di chiedere nuovamente il sequestro dei conti correnti e dei cinque appartamenti di Baita. Il 5 per cento delle azioni Mantovani, per il valore di 2 milioni e mezzo, è ancora sotto sequestro.

Giorgio Cecchetti

 

VENEZIA – Quei 200 mila euro che Piergiorgio Baita avrebbe consegnato alla «New Time Corporation srl» di Roma non sarebbero stati il prezzo pagato per le informazioni sulle indagini della Procura di Venezia sul conto della Mantovani, bensì il denaro per acquisire una parte della proprietà del giornale on line edito dalla società, «Il Punto». A sostenerlo il direttore editoriale Alessandro Cicero, che con il suo collaboratore Enzo Manganaro, sono stati perquisiti dalla Guardia di finanza di Venezia e negli uffici dei quali sono stati rintracciati la bozza dell’ordinanza di custodia per Baita, Colombelli, Buson e Minutillo e due schede informative sul pm Stefano Ancilotto e sul giudice Alberto Scaramuzza. «Nulla di strano», sostiene Cicero, «i magistrati sono arrivati qui per via di un contratto che ho firmato con la Mantovani. La società era interessata ad un’attività editoriale e per questo ha finanziato il nostro giornale con 200 mila euro e in futuro arriverà ad acquistare il 51 per cento del capitale». Anche i giornalisti della redazione de «Il Punto» sono intervenuti, spiegando, smentendo che il settimanale sia collegato in qualche modo ai servizi segreti. «La ricostruzione dei fatti riportata dall’articolo», scrivono i giornalisti romani, «poggia su un presupposto sbagliato che ne inficia l’attendibilità: la perquisizione presso la nostra sede è avvenuta lo scorso 20 marzo e non il 28 febbraio», giorno dell’arresto di Baita e degli altri tre indagati. Infine, precisano che «l’intero personale giornalistico, dal direttore responsabile all’ultimo collaboratore, non è stato oggetto di alcun provvedimento giudiziario». A raccontare agli inquirenti veneziani che quei 200 mila euro versati da Baita erano il prezzo delle informazioni raccolte sull’indagine era stato l’imprenditore Mirco Voltazza, che aveva aggiunto anche di aver partecipato con Buson ad alcune riunioni. Aveva sostenuto che il giornale on line romano sarebbe stato uno schermo dei servizi segreti. Per quanto riguarda Cicero e Manganaro aveva spiegato che sarebbero stati in buoni rapporti con un generale della Guardia di finanza in servizio a Roma. Poi era scattata la perquisizione e il sequestro dei documenti ritenuti interessanti. (g.c.)

 

L’Espresso – Affari e grandi opere, la cricca veneta

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24

mar

2013

di Gianfrancesco Turano

L’uso dei fondi miliardari del Mose ma non solo. Dopo l’arresto eccellente di Piergiorgio Baita, i magistrati indagano sul sistema di affari e politica che ha gestito i grandi progetti della regione

Dighe e arresti sono arrivati insieme il 28 febbraio. Giustizia a orologeria? A Venezia avranno usato un cronometro da gara. Nello stesso giorno in cui sbarcavano a Porto Marghera le prime paratoie anti-inondazione del Mose, l’acqua alta giudiziaria ha messo in crisi l’ecosistema politico-affaristico che per venticinque anni ha governato la laguna e buona parte del Veneto grazie ai finanziamenti pubblici per il Mose (5,7 miliardi di euro), realizzato dal Consorzio Venezia Nuova (Cvn), e per altri grandi opere.

L’inchiesta per associazione a delinquere e frode fiscale è stata battezzata “Chalet”, traduzione beffarda del cognome dell’arrestato più in vista, Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani, l’azionista di riferimento del Cvn, e uomo forte del consorzio presieduto da Giovanni Mazzacurati.

L’ingegner Chalet, 64 anni, è sopravvissuto alla prima Repubblica, alla Democrazia cristiana che lo ha lanciato, agli arresti e ai processi di Tangentopoli. Ha prosperato durante il lungo regno alla Regione di Giancarlo Galan (1995-2010). Ha brindato alle infinite inziative promozionali dell’opera insieme a Silvio Berlusconi, all’ex ministro Altero Matteoli, al veneziano Renato Brunetta, ai sindaci di centrosinistra che hanno amato il Mose, come Paolo Costa, o che ci si sono rassegnati, come Massimo Cacciari. Per rafforzare il consenso ha distribuito sponsorizzazioni e sostegni finanziari a pioggia tra il teatro della Fenice e la Reyer di basket, tra una tornata di Coppa America di vela (5 milioni di euro) e un milione versato al Marcianum, il centro studi della Curia voluto dall’ex patriarca di Venezia Angelo Scola.

Baita ha vissuto grandi stagioni sotto la protezione di Gianni Letta ma si è adattato molto bene al successore di Galan, il leghista Luca Zaia che, colmo di meraviglia per quanto accade sotto gli occhi di tutti da anni, adesso vuole allestire una commissione di inchiesta sui metodi della Mantovani e delle imprese sue alleate.Sulla metodologia di questo gruppo di potere che in poco tempo è diventato dominante sulle infrastrutture venete si è dilungata anche Claudia Minutillo, 48 anni, arrestata assieme a Baita e al faccendiere bergamasco William Ambrogio Colombelli, ex consigliere della Nuova Garelli di Paolo Berlusconi con villa a Santa Margherita Ligure, barca a Portofino e “cartiera” a San Marino, dove la sua Bmc consulting emetteva fatture false intestate al Consorzio Venezia Nuova in cambio di una provvigione ragionevole: su 10 milioni di euro, lui se ne teneva 2. Il resto veniva ritirato da Minutillo nelle sue frequenti visite al Titano e distribuito.

Distribuito a chi, hanno chiesto i giudici. A differenza del molto taciturno Baita, difeso dall’avvocato Piero Longo (lo stesso di Silvio Berlusconi ), Minutillo ha risposto nel corso di sei ore di interrogatorio secretato e – si presume – in modo convincente, visto che è tornata a casa agli arresti domiciliari.

Il carcere femminile della Giudecca, per quanto dotato di una sua aura romantica, non faceva per la manager abituata all’eleganza nel vestire e allo shopping di qualità nelle boutique di Venezia e Padova. Da quello che Minutillo ha dichiarato dipende il futuro dell’inchiesta. L’acqua alta ordinaria degli inverni in laguna potrebbe diventare uno tsunami considerato che Minutillo è stata segretaria di Galan per cinque anni dopo che nel 2001 la precedente factotum, Lorena Milanato, era stata spedita a Montecitorio dove tuttora si trova.

Nel 2005, su precisa richiesta della signora Galan, Minutillo è stata spostata al servizio di un altro potente locale, Renato Chisso. Ex socialista transitato nel Pdl, Chisso è stato assessore ai trasporti e alle infrastrutture sotto Galan e tale è rimasto sotto Zaia. Il suo potere, semmai, si è accresciuto e la continuità con il governo locale precedente è stata garantita.

Chiusa l’esperienza da Chisso, Minutillo è stata promossa amministratore delegato di Adria Infrastrutture, una società creata a sua misura grazie ai capitali della Mantovani nel 2006, lo stesso anno in cui la giunta regionale, il Consorzio e Mantovani incominciavano a foraggiare la Bmc di San Marino («Io creo carta straccia, capito?», urla al telefono Colombelli alla Minutillo, «in sei anni vi siete portati a casa otto milioni!»).

Adria va subito alla grande. Conquista gli appalti regionali per la superstrada Treviso-Mare e per il passante Alpe Adria. Ma anche prima di fare il salto di qualità il soprannome di “dogaressa” la diceva lunga sulla reale influenza di Minutillo nelle vicende politico-affaristiche del Veneto. Questo spiega perché il toto-nomi dell’interrogatorio alla Giudecca tiene sveglia parecchia gente. Nessuno, a cominciare dai magistrati, crede che la cresta complessiva sia stata di soli 10 milioni. E nessuno crede che l’unica cartiera per creare i fondi neri sia stata la Bmc consulting che Colombelli, prima dell’arresto, ha tentato invano di vendere a Baita per 3 milioni di euro (risposta eloquente di Baita a Colombelli: «Io non posso come gruppo prendere una società che produce carta, è pericoloso»).

A dirla tutta, nessuno crede alla tesi con cui gli enti locali, il Consorzio, le imprese e i sindacati tentano di arginare l’allagamento dell’operazione Chalet. Questa tesi collettiva è: se Baita ha sbagliato, ha sbagliato per suo conto. E soprattutto, non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca, visto che si può sempre non sapere.

Così la famiglia padovana Chiarotto, che controlla la maggioranza della Mantovani attraverso Serenissima Holding e che è stata arricchita da Baita (100 milioni di euro di utili a riserva), ora minaccia azioni di responsabilità contro l’ingegnere che è anche azionista dell’impresa con il 5 per cento, anche se la Finanza ha proposto il sequestro della quota. Galan dice di averlo appena conosciuto e Chisso tace. Persino la Cgil locale ammonisce che i 900 posti della Mantovani vanno salvaguardati e che, arrestato il doge Baita, il Mose deve andare avanti. Tanto più che sono in arrivo altri 250 milioni di euro di finanziamenti tra il denaro dello Stato e il contributo anticipato dalla Banca europea degli investimenti (Bei).

Eppure l’intraprendenza dell’ingegnere Chalet ha lasciato tracce evidenti. Il “tavolino” degli appalti lagunari è una fetta consistente di prodotto interno lordo regionale e si può solo tentare di ipotizzare una stima. Il perno, si è detto, sono i lavori per il Mose gestiti dal Cvn. E’ un progetto varato un quarto di secolo fa con il sistema degli affidamenti interni. Significa che le imprese socie del Consorzio, cioè la Mantovani, la Condotte di Duccio Astaldi, la Fincosit […………………………….], la Ccc (Lega coop) e altre minori, ricevono dallo Stato il denaro per realizzare il Mose e appaltano i lavori a se stesse, con una quota di gare minima che l’Ue ha più volte e invano contestato.

Il Mose, e i suoi prezzi in continua espansione rispetto a preventivi e a prezzi fintamente bloccati, ha consentito ottimi margini di guadagno alle imprese soprattutto perché, a differenza di altri grandi opere sbandierate nel libro berlusconiano delle illusioni, le dighe mobili hanno ricevuto le rate di finanziamento dal Cipe con una puntualità senza uguali.

Il terzetto alla guida del Cvn, ossia Mantovani-Condotte-Fincosit sotto la guida di Baita, ha reinvestito gran parte dei suoi utili in iniziative infrastrutturali in Veneto e in qualche partecipazione monetizzata dagli enti locali in ristrettezze finanziarie, come la quota dell’autostrada della Venezia-Padova.

Il cerchio magico, di cui faceva parte anche Adria Infrastrutture guidata da Claudia Minutillo, si è aggiudicato commesse per centinaia di milioni di euro con il timbro altrettanto magico del project financing: i privati mettono i soldi al posto dello Stato al verde e, in cambio, incamerano affitti e pedaggi legati all’opera.
Sotto l’insegna del project financing Mantovani & friends si sono assicurati la realizzazione dell’ospedale e del passante stradale di Mestre, la sublagunare che dovrebbe collegare le isole veneziane con l’aeroporto di Tessera, gestito dagli amici della Save-Finint Enrico Marchi e Andrea De Vido. Il flusso di denaro consentito dalle delibere del Cipe ha permesso agli amici della Serenissima di guadare l’Adda e di inserirsi nell’appalto per la “piastra” di Milano Expo grazie alla continuità politico-territoriale con l’ex governatore Roberto Formigoni e all’assenso del sindaco di centrosinistra Giuliano Pisapia, che ha confermato la sua fiducia alla Mantovani anche dopo l’arresto di Baita.

Ma il territorio di riferimento resta a Nordest. L’ultima perla della collezione è un colosso da 2,5 miliardi di euro progettato nelle acque di fronte a Venezia. Insieme all’autorità portuale, presieduta dall’ex sindaco ed ex presidente della commissione Infrastrutture dell’Ue Costa, Mantovani è in prima fila per costruire il porto offshore otto miglia a largo di Chioggia. La nuova struttura è pensata per le navi portacontainer che adesso vanno a Marghera mettendo a rischio l’equilibrio della laguna, mentre le navi passeggeri che attraccano in piazza San Marco potranno continuare le loro crociere fino al centro storico. Il porto offshore prevede un meccanismo di finanziamento misto. Ci sono fondi della Mantovani, che si incarica dei lavori, e soldi in arrivo dal Cipe, cioè dalle casse dello Stato.

Con Baita fuori dai giochi, il progetto andrà avanti con un nuovo manager da designare nei prossimi giorni. Si parla di una successione in famiglia con il timone della Mantovani affidato a Giampaolo Chiarotto, 46 anni, figlio del patriarca Romeo, classe 1929.

Ma la caduta di Baita, l’uomo degli equilibri tra politica e impresa, ha già provocato il primo intoppo grave nel quieto vivere lagunare. Poche ore dopo gli arresti, la Mantovani e il sindaco Giorgio Orsoni sono entrati in guerra, con minacce di azioni di risarcimento incrociate, per l’operazione che avrebbe cambiato faccia al Lido di Venezia. In sostanza, il Comune aveva ceduto l’area dell’Ospedale al Mare al fondo Real Venice 2, gestito da Est Capital dell’ex assessore alla Cultura cacciariano Gianfranco Mossetto e partecipato dal trio Mantovani-Condotte-Fincosit. Al posto dell’ospedale doveva sorgere un quartiere residenziale con una megadarsena per diportisti da oltre 1500 posti e un investimento da 250 milioni di euro.

Il fondo ha versato una caparra di 32 milioni al Comune che, con questi soldi, avrebbe provveduto a costruire il nuovo palazzo del Cinema. Poi sono sorte discordie su chi doveva bonificare l’area dell’ospedale. La nuova darsena è saltata e il palacinema è stato sostituito dal progetto di un palazzo dei congressi che Est capital avrebbe realizzato con la caparra rispedita al mittente da Orsoni.

Ancora due giorni dopo l’arresto di Baita, l’accordo tra le parti era dato per fatto. Invece, niente. La parola torna al giudice civile che darà il suo verdetto sulla controversia entro dieci giorni.

Prima, però, verrà il turno del tribunale penale che, in sede di riesame, stabilirà se Baita può tornare libero o se l’inchiesta “Chalet” è appena incominciata. Di sicuro, non sarà un lavoro facile come dimostra la scelta di un nome in codice che, di solito, si riserva a operazioni contro il crimine organizzato. In questo caso è stato necessario perché gli inquisiti, dopo le prime perquisizioni della Guardia di finanza risalenti a due anni fa, avevano attivato una manovra di controspionaggio attraverso due ex agenti segreti per sapere a che punto erano le indagini.

Stavolta non è stato sufficiente ma basta a spiegare il livello delle protezioni di cui godeva e gode la cricca lagunare. Quella che per bocca di Baita si vantava: «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott’acqua».

link articolo

 

Gazzettino – Mantovani, Baita, spunta l’ombra degli Servizi

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24

mar

2013

MANAGER – Piergiorgio Baita, si allungano i sospetti per la sua gestione dell’Impresa Mantovani di Mestre

Un contratto milionario per ottenere informazioni

VENEZIA – Clamorosi sviluppi dalle perquisizioni effettuate dalla Finanza in una redazione online di Roma

Il manager finanziò una “rete” di controspionaggio. Trovata una bozza dell’ordine di arresto

Spunta l’ombra dei servizi segreti nel filone d’inchiesta relativo ai tentativi di depistaggio dell’inchiesta sulle presunte false fatturazioni contestate alla società di costruzioni Mantovani spa.
È stato più di un testimone a riferire agli investigatori dei presunti legami esistenti tra ambienti legati agli 007 e la società perquisita giovedì scorso a Roma, editrice di un giornale online, “Il Punto”. Nel corso delle perquisizioni la Guardia di Finanza ha rinvenuto materiale proveniente da uffici giudiziari e schedature di alcuni magistrati, tra cui il sostituto procuratore che coordina le indagini sull’ex presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita.
Il nome di quella rivista online, del direttore editoriale Alessandro Cicero e di un suo collaboratore, ex carabiniere, erano emersi da tempo attraverso alcune intercettazioni: ad attirare l’attenzione degli investigatori erano state le ingenti somme di denaro garantite alla rivista sotto forme di pubblicità o sponsorizzazioni, ritenute sproporzionate rispetto all’importanza e alla diffusione della testata. Successivamente sono stati il ragioniere padovano Mirco Voltazza ed altri testimoni ascoltati dal pm Ancilotto a spiegare che quei soldi sarebbero stati il compenso per attività di informazione, anche sull’andamento dell’inchiesta veneziana. Voltazza, titolare della società Italia Service, ha ammesso di aver siglato un contratto con Baita per un ammontare di un milione e 320mila euro impegnandosi a mettere in atto una sorta di rete di “controspionaggio”, finalizzata ad «anticipare eventuali aggressioni da parte delle forze dell’ordine e della magistratura» e consentire alla Mantovani di mettere in campo le risposte opportune per difendersi. Voltazza ha poi raccontato che la Mantovani avrebbe finanziato anche la rivista romana.
Il materiale rinvenuto dalle Fiamme Gialle negli uffici della società romana e in alcune abitazioni private è particolarmente copioso e i militari lo stanno vagliando per capire se si tratti proprio di documenti fatti uscire illecitamente da qualche “talpa” (si sono ipotizzate entrature anche ad alto livello nella Guardia di Finanza); oppure se le carte sequestrate siano state “costruite” per millantare con Baita conoscenze e infiltrati nelle forze dell’ordine. Il direttore de “Il Punto” avrebbe spiegato agli investigatori che i documenti rinvenuti sono stati acquisiti nell’ambito del lavoro giornalistico svolto dalla testata.
Nel frattempo la Finanza sta continuando ad analizzare anche la copiosa documentazione acquisita in relazione a numerose società che, oltre alla Bmc Broker di San Marino, avrebbero prodotto false fatturazioni per conto della Mantovani, consentendo all’ingegner Baita di costituire consistenti “fondi neri”. Con molte probabilità la Procura veneziana punta a chiudere il filone delle false fatturazioni entro l’estate, prima che scadano i termini di custodia cautelare per Baita, per poi concentrarsi sul possibile “secondo livello”, e dunque sulla destinazione di quei consistenti flussi di denaro. Spesso i “fondi neri” servono per pagamenti illeciti, talvolta a politici in cambio della concessione di appalti: gli investigatori vogliono scoprire se sia avvenuto così anche in questo caso.

Gianluca Amadori

RETROSCENAMantovani, che passione per i giornali free-press

La Mantovani ha sempre avuto una passione per i giornali. La società presieduta da Piergiorgio Baita fece ingresso nel 2009 nella compagine azionaria di uno dei principali quotidiani “freepress”, quelli della catena di EPolis (fallita nel gennaio 2011), che in Veneto editava sei testate (tra cui Il Venezia e Il Padova). EPolis, lanciata dall’editore sardo Nicola Grauso, fu rilevata nel 2007 dal finanziere Alberto Rigotti (Abm merchant bank) che con Baita collaborava in altre società. L’ex segretaria di Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, indagata nell’inchiesta sulle false fatture, nel suo interrogatorio spiega che fu proprio Rigotti, attraverso uno scambio di quote di altre società, a far entrare Mantovani nella compagine di EPolis.

 

Nuova Venezia – Mantovani, Caccia agli informatori di Baita

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24

mar

2013

Fondi neri Mantovani, filone d’inchiesta sulla fuga di notizie: l’ipotesi di reato è corruzione

VENEZIA – L’imprenditore di Polverara Mirco Voltazza avrebbe partecipato a incontri e riunioni, anche a Roma, quando Piergiorgio Baita e Nicolò Buson avrebbero incontrato pubblici ufficiali in grado di raccogliere informazioni sulle indagini che ormai erano in corso da alcuni mesi sul loro conto. E Voltazza ha raccontato tutto al pubblico ministero Stefano Ancillotto, il quale ha prodotto al Tribunale del riesame brevi stralci dei verbali d’interrogatorio. Dopo l’arresto per associazione a delinquere e frode fiscale sembra essere proprio questo l’indirizzo che stanno prendendo gli accertamenti: prima ancora di stabilire se i fondi neri che l’ex presidente della Mantovani siano stati utilizzati per ungere le ruote per ottenere gli appalti, gli investigatori vogliono scoprire se vi siano pubblici ufficiali che in cambio di denaro abbiano fornito la loro collaborazione, tradendo i colleghi che indagano e i magistrati. Nel mirino, grazie alle dichiarazioni di Voltazza, ci sono uomini vicini ai servizi segreti e un alto ufficiale della Guardia di finanza, tutti in servizio a Roma. L’ipotesi di reato è prima di tutto quella di corruzione, in particolare dopo che gli investigatori del Nucleo della Polizia tributaria di Venezia hanno trovato negli uffici e nelle abitazioni del direttore editoriale del giornale on line “Il Punto” Alessandro Cicero e del collaboratore ed ex carabiniere Enzo Manganaro la bozza dell’ordinanza di custodia cautelare che riguardava Baita, Buson, Claudia Minutillo e William Colombelli prima che fosse notificata agli interessati e appunti con informazioni sul conto del pm Ancilotto e del giudice che ha poi firmato l’ordinanza, Alberto Scaramuzza. Per ottenerle Baita avrebbe finanziato con 200 mila euro la società romana New Time Corporation srl, editrice de “Il Punto”, il giornale con sede a Roma in via Nazionale 75 e legato ai servizi segreti. Una parte di quel denaro l’avrebbe consegnata Buson. Voltazza avrebbe partecipato a incontri e riunioni per il fatto che si occupava dei servizi di security per la Mantovani, tanto da aver firmato una scrittura privata – trovata in casa di Baita – nella quale l’imprenditore di Polverara si impegnava ad «anticipare eventuali aggressioni da parte di forze dell’ordine e magistratura, concedendo all’azienda i tempi di attivazione dei diversi piani di gestione della crisi con conseguente attività di bonifica ambientale… con l’organizzazione e direzione di una piattaforma di intelligence capace di generare in sicurezza un flusso continuo di informazioni mirate al management e all’azionista». Tutto questo per un milione e 320 mila euro che Baita doveva pagare in tre rate. Ma non è solo a Roma che gli investigatori veneziani cercano le “talpe”. Baita, infatti, potrebbe aver avuto appoggi anche nel Centro del servizio segreto civile con sede a Padova, oltre a quello concesso da un vice questore in servizio alla Questura di Bologna. È finito nei guai Giovanni Preziosa, già assessore nella giunta di Bologna guidata da Guazzaloca. Il poliziotto su richiesta di Baita avrebbe compiuto degli accertamenti presso il terminale del ministero dell’Interno per verificare se erano aperte delle indagini nei suoi confronti. Preziosa ai finanzieri ha detto per giustificarsi: «Io faccio anche piccoli lavori di consulenza per la sicurezza di privati».

Giorgio Cecchetti

Fondi neri Mantovani, soldi a una rivista vicina ai servizi segreti: trovati la bozza del mandato e appunti sugli inquirenti

VENEZIA – Grazie ai suoi soldi, tanti, Piergiorgio Baita era riuscito a costruire una rete di «controspionaggio» talmente efficiente da aver ottenuto addirittura la bozza dell’ordinanza di custodia cautelare prima che gli venisse notificata il giorno del suo arresto e informazioni sul pubblico ministero Stefano Ancillotto, colui che coordinava le indagini della Guardia di finanza, e sul giudice Alberto Scaramuzza, colui che di lì a qualche giorno avrebbe firmato il provvedimento d’arresto. Tra le carte consegnate ieri dai pubblici ministero Stefano Ancillotto e Stefano Buccini ai giudici del Tribunale del riesame, che nel tardo pomeriggio di ieri hanno respinto il ricorso presentato dal ragioniere della Mantovani spa Nicolò Buson, ci sono anche il verbale d’interrogatorio dell’imprenditore di Polverara Mirco Voltazza e il verbale di perquisizione che le Fiamme gialle di Venezia hanno compiuto negli uffici di un giornale on line di Roma, «Il Punto», del suo direttore editoriale Alessandro Cicero e di un collaboratore. Lo scenario che ne risulta è simile a quello che, dieci anni fa, venne a galla quando gli investigatori mandati dalla Procura di Milano nell’ambito delle indagini sul rapimento da parte della Cia dell’imam Abu Omar scoprirono a Roma in via Nazionale 230 l’«ufficio riservato» gestito da Pio Pompa, uomo strettamente legato al direttore del Sismi di allora Nicolò Pollari. Gli investigatori mandati dalla Procura milanese trovarono decine di fascicoli intestati a numerosi magistrati, dentro informazioni sulla loro vita. E anche in quell’occasione c’era a disposizione un giornalista, Renato Farina, ingaggiato e retribuito dal Sismi per scrivere su «Libero». Voltazza racconta al pubblico ministero veneziano che Baita, oltre al contratto con la sua società (l’Italia Service srl) che doveva «anticipare eventuali aggressioni da parte di forze dell’ordine e magistratura» per un compenso di un milione e 320 mila euro, avrebbe finanziato la rivista romana on line, che ha sede in via Nazionale 75, con 200 mila euro, una rivista – sempre stando a Voltazza – infiltrata da uomini dei servizi segreti che, in cambio di quel finanziamento, si sarebbero impegnati a raccogliere informazioni sull’andamento delle indagini grazie ai loro contatti con alti vertici della Guardia di finanza. L’imprenditore fa anche i nomi del direttore editoriale de «Il Punto» e di un collaboratore, ex carabiniere, tanto che il 28 febbraio scorso, il giorno degli arresti di Baita, di Claudia Minutillo, di William Colombelli e di Buson, i finanzieri del Nucleo di Polizia tributaria lagunare perquisiscono Cicero e l’ex carabiniere e trovano la bozza dell’ordinanza di custodia cautelare, che neppure gli arrestati ancora avevano ufficialmente, e gli appunti sui due magistrati veneziani. Soldi spesi bene, dunque, visti i risultati. E Buson avrebbe consegnato una parte di quel denaro a Roma. Ieri, il suo difensore, l’avvocato Fulvia Fois, si è battuta per fare in modo che le nuove carte non venissero acquisite dal Tribunale perché presentate all’ultimo momento tanto che lei non avrebbe potuto predisporre una difesa efficace. Ha sostenuto anche che a Buson non si può contestare una condotta che abbia portato all’inquinamento delle prove. Ma il Tribunale le ha dato torto e ha ritenuto che il ragioniere della Mantovani debba rimanere nel carcere di Treviso.

Giorgio Cecchetti

CAMORRA – Gara A22 nel mirino per infiltrazioni Una gara per realizzare barriere antirumore sull’A22 del Brennero, è oggetto di accertamenti da parte della polizia di Trento. Si sospettano infiltrazioni della camorra. La gara riguardava la realizzazione di quattro barriere fonoassorbenti a Bussolengo, assegnata l’1 dicembre 2012 a un’azienda con sede a Castellamare di Stabia. Dalla base d’asta di 5,4 milioni di euro la cordata vincitrice si era aggiudicata il lavoro a 3,5 milioni.

MANTOVANI – Sequestrati documenti provenienti da uffici giudiziari

Baita, trovato a Roma l’archivio dei magistrati schedati dagli 007

Inchiesta Mantovani, trovati a Roma documenti che schedavano magistrati e atti provenienti da uffici giudiziari. La prova del tentativo di depistaggio messo in atto dall’ex amministratore della Mantovani, l’ingegner Baita. L’archivio è stato scoperto e sequestrato dalla Guardia di finanza nella sede di una società individuata dopo la confessione del ragioniere padovano Mirco Voltazza.

La testimonianza di Voltazza utile per rinvenire la documentazione

Le carte mostrano tutti i depistaggi messi in atto dalla Mantovani

In una società di Roma scoperti documenti sui giudici e su atti giudiziari. Intanto Buson rimane in custodia cautelare nel carcere di Treviso

Schedature di magistrati e copie di documenti provenienti da uffici giudiziari, apparentemente senza giustificazione. La Guardia di Finanza li ha rinvenuti nella sede di una società romana, perquisita nei giorni scorsi sulla base della confessione resa agli inquirenti dal ragioniere padovano Mirco Voltazza, il quale ha raccontato al pm Stefano Ancilotto di aver siglato un contratto di quasi un milione e 400mila euro con l’allora presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita, per organizzare un servizio di “spionaggio” finalizzato ad evitare «aggressioni da parte delle forze dell’ordine e della magistratura».
La documentazione relativa al clamoroso sequestro è stata prodotta ieri mattina dal pm Ancilotto davanti al Tribunale del riesame di Venezia, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di scarcerazione presentata dal direttore amministrativo della Mantovani, il padovano Nicolò Buson, accusato di associazione per delinquere finalizzata a false fatture milionarie assieme a Baita, Claudia Minutillo (amministratrice di Adria Infrastrutture) e al presidente della Bmc Broker, William Alfonso Colombelli. Quelle carte, rinvenute dalle Fiamme Gialle, sono indicate come la prova dei tentativi di depistaggio messe in atto dalla Mantovani per cercare di uscire indenne dalla verifica fiscale iniziata nel 2010, e forse anche dell’esistenza di “talpe” in grado di avere accesso diretto ad atti giudiziari, e disposti a “girarli” agli 007 assoldati da Baita. L’inchiesta, dunque, pare destinata ad uscire dai confini del Veneto con possibilità di nuovi sviluppi a breve. Intanto Buson rimane in custodia cautelare nel carcere di Treviso. Lo ha deciso il collegio rigettando il ricorso dell’avvocato Fulvia Fois per una modifica dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip Alberto Scaramuzza, e la concessione di una misura più tenue, come gli arresti domiciliari. L’udienza (alla quale non ha partecipato l’indagato, detenuto a Treviso) si è aperta con colpo di scena: il sostituto procuratore Stefano Ancilotto – che conduce l’inchiesta assieme al collega Stefano Buccini – ha presentato anche alcuni documenti che, secondo gli inquirenti, proverebbero il coinvolgimento di Buson non in forma marginale nella vicenda legata alla false fatturazioni per circa 8 milioni in capo al gruppo Mantovani. Tra questi, il verbale di una perquisizione domiciliare con il ritrovamento di materiale definito interessante da un punto di vista indiziario.
Il collegio presieduto dal giudice Angelo Risi si è convinto, evidentemente, che Buson non fosse un semplice “contabile”, ma abbia avuto un ruolo attivo nella produzione delle presunte false fatture utilizzate dalla Mantovani per realizzare fondi neri; nonché nelle attività di inquinamento probatorio con le quali il Gip ha motivato l’esigenza cautelare. Le motivazioni del provvedimento del Riesame, saranno disponibili lunedì o martedì. La difesa di Buson si è opposta alla produzione dei documenti presentati dal pubblico ministero per l’intempestività del deposito. In subordine, l’avvocato Fois ha chiesto l’inutilizzabilità degli atti, perché prodotti nel corso di udienze dedicate ad altri indagati. Si trattava per lo più di verbali di interrogatorio di Mirco Voltazza, il consulente che una settimana fa ha parlato a lungo (circa 6 ore) con il Pm nella sede del Nucleo regionale di polizia tributaria; verbali peraltro pieni di “omissis”. Per questo motivo il legale ha lamentato la lesione del diritto di difesa. Venendo al merito, l’avvocato Fois ha sostenuto che nell’ordinanza di custodia cautelare il pericolo di inquinamento delle prove è stato sollevato solo con riferimento alle attività dei coindagati, senza mai richiamare la figura di Buson. «Occorre rivalutare le esigenze cautelari – ha detto – e verificare la riconducibilità del pericolo alla condotta effettivamente posta in essere dall’indagato, non solo per una mera relazione che questi aveva con gli altri».

 

MANTOVANI Una società del centro Italia senza dipendenti

Baita, la guardia di finanza scopre una nuova “cartiera”

Si apre un nuovo fronte nelle indagini sulle false fatture della Mantovani. La Guardia di finanza ha scoperto un’altra sospetta “cartiera”: una società del centro Italia che non risulta avere dipendenti ma soltanto un titolare (il quale non è indagato). Anche questa società avrebbe fatturato ingenti somme come corrispettivo per consulenze alla Mantovani o ad altre imprese del gruppo.

CASO MANTOVANI – Sviluppi in Centro Italia dell’inchiesta per frode fiscale nel mondo degli appalti

Fatture ingenti portano a una società sospetta dove lavora soltanto il titolare (che non è indagato)

L’inchiesta sulla società di costruzioni Mantovani si arricchisce di un nuovo filone, pare indipendente dai precedenti. Una nuova “cartiera” (una società il cui unico scopo è quello di rilasciare false fatture) è stata rintracciata in centro Italia dal sostituto procuratore di Venezia, Stefano Ancilotto. Questa società avrebbe fatturato qualche milione di euro alla Mantovani o ad altre società del gruppo, rafforzando così l’ipotesi che il sistema fosse molto più esteso di quanto si immaginasse all’inizio, quando alla ribalta era balzata la sanmarinese Bmc Broker di William Colombelli. Il magistrato e i suoi collaboratori si sono imbattuti in questa scoperta studiando le carte acquisite con i sequestri del 28 febbraio. Dagli atti era emersa una società di servizi che aveva fatturato importi notevoli, così aveva inviato alcuni finanzieri all’indirizzo indicato nei documenti contabili, ma questi non avrebbero trovato nulla se non una sede formale, senza una struttura aziendale come strumenti o personale dipendente o di supporto. Anzi, il titolare dell’azienda avrebbe precisato di lavorare da solo nella fornitura di consulenze specialistiche, pur non risultando iscritto ad alcun albo professionale. Logico che gli inquirenti abbiano sentito puzza di bruciato e abbiano iniziato ad approfondire. Al momento il titolare dell’azienda è stato sentito solo come persona informata dei fatti, ma non è escluso che possa essere successivamente indagato nell’ambito della medesima inchiesta per associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale. Inchiesta che finora ha scoperto un presunto imponibile sottratto per circa 8 milioni stando agli atti che hanno portato alle manette per l’ex presidente della Mantovani Piergiorgio Baita (si è dimesso all’indomani del fatto), del responsabile amministrativo Nicolò Buson (la cui posizione sarà discussa oggi in sede di Riesame), del consulente William Colombelli e dell’amministratore delegato di Adria Infrastrutture Claudia Minutillo. Questi ultimi due si trovano agli arresti domiciliari, i primi due sono invece ancora in carcere.
Il Tribunale del Riesame (Risi, Bartolini, Teatini) ha depositato ieri la sentenza in cui accoglie il ricorso dei difensori di Baita annullando il decreto di sequestro preventivo dei beni del manager. Il Riesame ha anche riaffermato – ed è la seconda volta – la competenza territoriale di Venezia su tutta la vicenda, sostenendo l’irrilevanza di quanto sostenuto dalla difesa, che aveva indicato nella sede di Padova dell’azienda il luogo in cui si sarebbe estrinsecata l’eventuale attività illecita.
Per quanto riguarda il sequestro dei beni di Baita, il Tribunale ha sostenuto la “non condivisibilità” del calcolo effettuato dal giudice per le indagini preliminari nella quantificazione del presunto profitto derivante dall’attività posta in essere dagli indagati. Inoltre è stata affermata l’inesistenza di una valutazione dei beni sequestrati, proprio a garanzia che il provvedimento cautelare serva a coprire l’eventuale debito nei confronti della giustizia e non sia invece eccedente. Nel caso in questione, il Gip aveva fatto il calcolo del profitto del reato sommando l’importo delle singole fatture, mentre a parere del Tribunale, avrebbe dovuto prendere in considerazione l’imposta evasa attraverso il “nero”.
Infine, il Riesame precisa che l’annullamento è basato solo su carenze formali “e non sull’insussistenza del fumus delicti”. Pertanto, è possibile una nuova richiesta meglio motivata. Ed è quanto il pubblico ministero è intenzionato a fare.

 

Nuova Venezia – Mantovani, trovata un’altra “cartiera”

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22

mar

2013

Fatture per due milioni di euro di lavori svolti da una società che non aveva né dipendenti, né tecnici, né professionisti

VENEZIA – Una cartiera tira l’altra, nell’inchiesta “Chalet” che ha portato in carcere a fine febbraio, per frode fiscale, l’ex presidente di Mantovani Spa Piergiorgio Baita e l’ex direttore generale del gruppo, Nicolò Buson, per il quale proprio oggi l’avvocato Fois chiederà al Tribunale del Riesame la scarcerazione, con la misura degli arresti domiciliari che gli stessi giudici hanno già negato a Baita. Dopo la madre di tutte le fabbriche di false fatture intestate alla Mantovani in capo a William Ambrogio Colombelli e alla sua Bmc Broker con sede a San Marino (per circa 10 milioni di spese fasulle); dopo la rete di cartiere minori (per altri due milioni di euro) che il ragioniere padovano Mirco Voltazza ha detto di aver messo a disposizione di Baita che gliene aveva fatto richiesta dopo che Bmc era finita nel mirino della Guardia di Finanza; ora, spulciando tra le migliaia di false fatture sequestrate nell’inchiesta, i finanzieri del Gico di Mestre hanno individuato un’altra cartiera, questa volta facente capo ad un sedicente “professionista” del centro Italia. Accertate spese fasulle per un altro paio di milioni di euro, emesse da una società senza sede, senza impiegati, senza che il suo titolare risulti iscritto ad alcun albo professionale o impegnato in qualche attività. Anche in questo caso, però, fioccavano consulenze per conto della Mantovani, gigante dell’imprenditoria edile e delle grandi costruzioni che ha già annunciato di volersi costituire parte lesa contro i suoi ex amministratori. Un (temporaneo) colpo a favore la difesa di Baita l’ha comunque segnato, ottenendo dallo stesso Riesame il dissequestro dei due conti correnti (uno con 500 mila euro) e quattro ville ed appartamenti intestati a Baita e alla moglie. Il giudice per le indagini preliminari Scaramuzza aveva autorizzato il sequestro di beni a copertura del valore complessivo delle false fatture contestate. Il Tribunale del Riesame, presieduto da Angelo Risi, ha ricordato come la Cassazione abbia chiarito che il sequestro preventivo debba riguardare beni per un valore pari al solo “profitto del reato”, pari all’imposta sui redditi evasa. In questo caso, chiarisce il Tribunale, l’aliquota Ires (variabile tra il 27,5 e il 33%), più la sanzione prevista sull’imposta evasa, pari al 100%. Un ammontare pari a circa 6 milioni, dunque, sui quasi 9 precedentemente bloccati. Inoltre, sul provvedimento va indicato il valore dei beni immobiliari sequestrati. In ogni caso, chiarisce il Riesame, essendo l’annullamento del sequestro «basato su profili formali e non sulla insussistenza del fumus delicti, non ne impedisce la reiterazione». E, infatti, gip e Procura sono al lavoro per reiterare il provvedimento. Il Riesame ha respinto l’eccezione presentata dagli avvocati Longo e Rubini, tesa al trasferimento dell’inchiesta a Padova, in quanto – è la tesi della difesa, «il sistema delle false fatturazioni avrebbe trovato la propria concreta attuazione presso gli uffici della sede operativa della Mantovani, a Padova», unico centro operativo dell’associazione contestata a Baita, Buson, Colombelli e Claudia Minutillo (che con Colombelli ha lasciato il carcere dopo aver collaborato all’inchiesta). In realtà, osserva il giudice Risi, «non potendo individuare con chiarezza il luogo dove l’associazione ha operato» vale il domicilio legale dell’azienda – quindi Venezia – tanto più che a Padova si è svolta «un’attività posta in essere dopo la nascita delle indagini, avente come scopo di inquinare il quadro probatorio e far apparire come effettivamente realizzati gli incarichi, progettuali o di consulenza, che invece erano stati in precedenza svolti da altri».

Roberta De Rossi

Il Movimento all’attacco sull’ospedale di Mestre: «Project financing nella sanità, strumento letale»

VENEZIA – Il nuovo Ospedale di Mestre costruito in project financing, cioè con il contributo finanziario dei privati, non è stato un buon affare per la collettività. A guadagnarci alla fine sono state soltanto le imprese, e in particolare la Veneto Sanitaria di Piergiorgio Baita. E’ quanto sostiene il Movimento Cinquestelle, che ha raccolto un corposo dossier sull’argomento e inviato una segnalazione alla Corte dei Conti. «Abbiamo scritto anche al presidente della Regione Luca Zaia», spiega il consigliere comunale veneziano Pierluigi Placella, «per segnalare che da quel buco nero si potrebbero ricavare risorse per la sanità». Placella è un ex primario ortopedico, di sanità se ne intende. Il gruppo di lavoro, costituito da un medico, un ex direttore sanitario e un esperto in bilanci, ha messo nero su bianco i conti del nuovo Ospedale, avviato nell’anno Duemila dalla giunta Galan. Lavori affidati all’Ati (associazione temporanea di imprese) costituita dalla Mantovani, Astaldi, Cofathec, gruppo Gemmo. Gestione affidata alla Veneta Sanitaria Finanza di progetto. «Il project in sanità è uno strumento letale», titola il dossier. Secondo i grillini, per costruire il nuovo Ospedale i privati hanno messo 140 milioni di euro, di cui 120 chiesti alle banche. In cambio hanno ottenuto la gestione dei servizi alberghieri, ma anche degli esami di laboratorio, per i prossimi 24 anni. «Ma il costo a carico della Regione», si legge nell’esposto, «ammonta a 399 milioni di euro, di cui 124 milioni di euro di Iva». Il business totale per i privati, continua il dossier «è di 1,3 miliardi in 24 anni. E tutto questo per aver avuto 20 milioni. Il mutuo poteva farlo la Regione, e ci avrebbe guadagnato». La segnalazione, racconta il consigliere Placella, era stata inviata anche al direttore dell’Asl 12 Antonio Padoan nel 2011. «Avevamo chiesto un incontro, per illustrare la possibilità di risparmiare soldi della collettività andando a rivedere la convenzione», dice, «ma non ci ha mai ricevuto. Secondo l’Asl i soldi sui sarebbero spesi lo stesso per pagare i servizi. In realtà per gli anni futuri pagheremo ad esempio il 21 per cento di iva invece del 10» Conti da rivedere, dunque. E un sistema di finanza privata che adesso in tanti vogliono rivedere.

Alberto Vitucci

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