Segui @OpzioneZero Gli aggiornamenti principali anche su Facebook e Twitter. Clicca su "Mi piace" o "Segui".

Questo sito utilizza cookie di profilazione, propri o di terze parti per rendere migliore l'esperienza d'uso degli utenti. Continuando la navigazione acconsenti all'uso dei cookie. Per maggiori informazioni cliccare qui



Sostieni la battaglia contro l'inceneritore di Fusina, contribuisci alle spese legali per il ricorso al Consiglio di Stato. Versamento su cc intestato a Opzione Zero IBAN IT12C0501812101000017280280 causale "Sottoscrizione per ricorso Consiglio di Stato contro inceneritore Fusina" Per maggiori informazioni cliccare qui

MOSE – La difesa: impossibile il confronto chiesto da Galan

«Mazzacurati sta molto male non riesce a ricordare più nulla»

Giovanni Mazzacurati non ricorda più nulla. Il grande accusatore dei politici travolti dallo scandalo Mose non può essere interrogato, come hanno chiesto invece i difensori dell’ex governatore veneto Giancarlo Galan. L’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova è negli Usa per curarsi, ma la sua potrebbe essere una forma di demenza senile tale da rendere impossibile l’incidente probatorio. «Non sa che cosa ha detto», dice il suo legale.

 

SCANDALO MOSE – La rivelazione dopo la richiesta di incidente probatorio presentata dai difensori di Galan

«Mazzacurati non ricorda più nulla»

Il grande accusatore dei politici è affetto da demenza senile. Il suo legale: inutile interrogarlo

Giovanni Mazzacurati, il “grande vecchio” del Mose, l’indagato che ha riempito centinaia di pagine di verbali accusando (e autoaccusandosi) di aver pagato mezzo mondo con i soldi del Consorzio Venezia Nuova, non ricorda quasi più nulla. Se dovesse essere interrogato nuovamente, anche a breve, non riuscirebbe a rammentare dettagli, circostanze, nomi, cifre. Al massimo potrebbe confermare di avere rilasciato dichiarazioni ai pm dal luglio 2013 in poi, dopo il suo arresto, ma non sarebbe in grado di ribadirle, nè di rispondere alle contestazioni dei difensori degli altri indagati nel corso di un interrogatorio incrociato. Viene così meno la possibilità di confutarne le scomode verità o di metterlo in contraddizione.
La notizia è trapelata ieri, dopo che gli avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini, difensori di Giancarlo Galan, avevano presentato al Tribunale di Venezia una istanza di incidente probatorio. Chiedevano di poter cristallizzare i verbali dell’ingegnere (che ha tra l’altro dichiarato che il governatore del Veneto riceveva un milione di euro all’anno dal Consorzio) visto il diffondersi di notizie preoccupanti sulle condizioni di salute di Mazzacurati, che si trova negli Stati Uniti.
A sorpresa è venuta, invece, la conferma che il grande accusatore dei politici veneziani e romani, dei generali della Finanza e dei magistrati alle Acque di Venezia, non è già più nelle condizioni di rispondere alle domande. Qualcosa era trapelato, ma in modo non così netto, quando era stato sentito a San Diego, in California, di fronte alla Corte Federale, a seguito dell’indagine del Tribunale dei ministri sull’ex ministro dell’ambiente Altero Matteoli, che è indagato a Venezia.
«Innanzitutto è impreciso sostenere che la Procura lagunare abbia autorizzato l’espatrio dell’ingegner Mazzacurati – dichiara l’avvocato difensore Giovanni Battista Muscari Tomaioli – Il mio assistito ha lasciato l’Italia attorno a Pasqua del 2014, ma era in libertà dall’agosto 2013. E quindi non doveva essergli concessa alcuna autorizzazione». Mentre era a San Diego, in Italia sono stati eseguiti una trentina di arresti. Nel frattempo le condizioni di Mazzacurati sono peggiorate, da un punto di vista psico-fisico. Il suo avvocato aggiunge: «L’ingegnere ricorda di aver reso dichiarazioni veritiere ai magistrati, ma non che cosa ha detto». Una diagnosi non è ancora certa, ma potrebbe trattarsi di una forma di demenza senile che rende ormai inutile un incidente probatorio. «Se anche l’ingegnere venisse chiamato domani, non sarebbe in grado di sostenere un interrogatorio, perché gli verrebbero chiesti dettagli di cui non ricorda nulla».
La richiesta di incidente probatorio, quindi, è ormai tardiva e le speranze di chi spera di contestare la verità di Mazzacurati sono destinate al fallimento. Casomai si potrà discutere se i verbali sono utilizzabili ai fini di una sentenza.

 

Chisso e il suo segretario davanti alla Cassazione per tornare in libertà

OGGI LA DECISIONE «Imputazioni generiche»

Lo scandalo del Mose approda in Corte di Cassazione. I primi due imputati che chiedono l’intervento della Suprema Corte sono Renato Chisso ed Enzo Casarin. Entrambi sono stati arrestati il 4 giugno. Il ricorso alla Cassazione è contro la decisione del Tribunale del riesame di Venezia che, per entrambi, ha confermato il carcere. Che cosa dicono gli avvocati Antonio Forza, per Chisso, e Carmela Parziale, per Casarin? Che non ci sono motivi validi per tenerli in carcere, prima di tutto, dal momento che Chisso ha dato le dimissioni da assessore alle Infrastrutture e Casarin dall’incarico di segretario di Chisso. Insomma per entrambi non c’è possibilità di reiterazione del reato se, invece del carcere, vengono messi agli arresti domiciliari.
Per Casarin l’avvocato Parziale batte sul tasto della genericità dell’accusa, che non indica date e luoghi esatti delle mazzette: «Dalla lettura degli atti – scrive – non emerge dove, quando e soprattutto da chi Casarin avrebbe preso in consegna i soldi».
E veniamo a Renato Chisso. L’avvocato Forza ha preparato una memoria di 100 pagine per cercare di smontare l’accusa. «Nel loro insieme e nella stragrande maggioranza si tratta di imputazioni, per così dire, liquide, generiche, sovrapposte o sovrapponibili, spalmate senza data in un arco temporale di più di quindici anni. Tutto è incerto e vago», scrive il difensore. Prendiamo i pagamenti per aver agevolato i project financing. Il legale ricorda che il solo progetto portato a compimento, quello della Pedemontana Veneta, è stato assegnato alla Sis, che aveva vinto in Consiglio di Stato il ricorso contro l’aggiudicazione. Ebbene, secondo il Tribunale del riesame, Chisso e Galan avrebbero fatto vincere ditte amiche e solo una sentenza del Consiglio di stato avrebbe poi provveduto a far vincere i concorrenti. «Come è stato documentato dalla difesa, l’aggiudicazione alla Pedemontana Veneta S.p.A., originariamente, era avvenuta il 4 dicembre 2007, l’aggiudicazione definitiva all’Ati Sis, a seguito della decisione del Consiglio di Stato, era avvenuta il 30 giugno 2009». Ebbene, le mazzette sarebbero state incassate da Chisso nel dicembre 2010 e nel 2011. «Che senso avrebbe avuto “finanziare” l’Assessore Chisso a posteriori e, soprattutto, per la mancata aggiudicazione?», si chiede l’avvocato, secondo il qual «questo processo è ricco di fatti corruttivi con dazioni “a scoppio ritardato”. Oggi la pronuncia della Cassazione.

 

Gazzettino – La commissione sul Mose agita il Pd

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

24

set

2014

IL CASO – Il segretario Stradiotto: «Le nostre indagini sono a un punto morto». Ed è polemica.

Il Pd si spacca e litiga. «La commissione d’inchiesta sul Mose è a un punto morto. Chi aveva incarichi di responsabilità non sta collaborando». Una dichiarazione, quella del segretario metropolitano del Pd, Marco Stradiotto, che ha dato la stura a una infuocata direzione provinciale. Michele Mognato, Alessandra Miraglia e Gabriele Scaramuzza hanno reagito, criticando Stradiotto e accusandolo di insinuare sospetti. «Rendiamo pubblica la relazione della commissione – ha risposto Stradiotto – ma non c’è niente di nuovo. Io chiedo più collaborazione, dobbiamo affrontare due campagne elettorali». Il clima nervoso risentiva anche dei dissapori emersi su aspetti come il Contorta e l’appoggio ad alcune iniziative e ai tagli di Zappalorto.

 

La commissione Mose spacca il Pd

Stradiotto rileva che «l’inchiesta interna è a un punto morto» e finisce nel mirino. Scontro tra renziani e minoranza

«La commissione d’inchiesta è a un punto morto. Sono certo che non abbiamo niente da nascondere però non riusciamo ad ottenere la massima trasparenza, perché chi aveva incarichi di responsabilità non sta collaborando». Una dichiarazione, quella del segretario metropolitano del Pd, Marco Stradiotto, che lunedì sera ha dato la stura a una infuocata direzione provinciale. Alcuni membri della direzione, tra i quali Michele Mognato, Alessandra Miraglia e Gabriele Scaramuzza hanno reagito, criticando Stradiotto e accusandolo di insinuare sospetti. «Non fa bene al Pd», ha detto la Miraglia. «Così facciamo credere di avere scheletri nell’armadio», ha aggiunto l’ex assessore Tiziana Agostini. Sta di fatto che la «commissione interna» del Pd (presieduta da Gilberto Bellò) che sta cercando di fare luce sui finanziamenti del 2009 e del 2010, ha finora concluso ben poco e la collaborazione di alcuni esponenti del partito è stata quantomeno tiepida. Qualcuno in direzione, come il civatiano Gianluca Mimmo, ha chiesto di pubblicare quanto emerso dalla commissione. «Rendiamola pubblica, – ha risposto Stradiotto – ma non c’è niente di nuovo. Io chiedo più collaborazione proprio perché andiamo verso due campagne elettorali e, prima che siano i nostri avversari a fare insinuazioni, dobbiamo avere gli strumenti per difenderci».
Il clima nervoso della riunione risentiva anche dei dissapori emersi negli ultimi mesi con i botta e risposta su social network e stampa. I motivi di dissenso non mancano: dalla questione Contorta all’appoggio ad alcune iniziative e ai tagli di Zappalorto. Secondo Stradiotto, infatti, è giusto che anche il Comune di Venezia, dove spende troppo, provi a risparmiare. Molti membri della direzione hanno però invitato il segretario a non mettere il naso sui temi cittadini e a restare «nel suo ambito provinciale». «Con queste pressioni voi mirate ad avere dei segretari deboli» ha replicato Stradiotto. Duro anche l’attacco di Antonio Cossidente: «Se tu e De Menech volete fare i segretari di una parte sola, dovete dirlo». E poi Mognato: «Le critiche e il confronto sono normali in un partito come il nostro. C’è però un luogo politico in cui ci si confronta, non esistono solo Facebook e Twitter».
E proprio Facebook è stato all’origine di un’altra accesa discussione. Dalla sua pagina Stradiotto aveva invitato il Pd ad assumere un ruolo diverso da quello di Bettin e Caccia, perché un partito che vuole essere l’asse portante di un’alleanza non può continuare a dire solo dei no (anche in riferimento al Contorta) ma deve prendere decisioni e proporre soluzioni. Il rischio di fare il gioco degli alleati? «Arrivare al 51% ma poi ritrovarsi in una situazione di ingovernabilità».
«Bettin e Caccia sono i nemici? Chiediamolo agli ex assessori» ha replicato Mognato, che poi ha chiamato in causa Ferrazzi chiedendogli, prendendo ad esempio il Pat, se in giunta o in consiglio gli alleati abbiano votato contro. «Non ho detto che sono i nemici – ha chiuso Stradiotto – io sono per alleanze più ampie possibile». In difesa del segretario provinciale, sono intervenuti Alessadro Coccolo, Laura Visentin e Giovanni Parise. «Stradiotto lancia una sfida che dobbiamo cogliere – commenta Coccolo – Non possiamo essere giudicati per un commento in Facebook o un articolo di giornale».

 

LA RETATA STORICA

di Beppe Caccia – Associazione “In Comune” Venezia

Il Consorzio Venezia Nuova s’inalbera per il prezioso lavoro di ricostruzione che il Gazzettino sta conducendo sullo scandalo Mose. Ma i conti che continuano a non tornare, sono proprio i loro. Nell’ottobre 2012, qualche mese prima dei primi arresti, il sottoscritto aveva provato a capire quale fosse l’effettiva destinazione delle ingenti risorse stanziate dallo Stato per Venezia e la sua laguna. Già allora balzava agli occhi l’insostenibile sproporzione dell’aggio riconosciuto al Consorzio a titolo di “spese generali di gestione”: un 12 per cento su ogni somma di denaro pubblico destinata alle opere di salvaguardia. E questo, grazie alla mostruosità giuridica rappresentata dalla “concessione unica”, a partire dalla Legge Speciale del 1984.
Nessun altro “general contractor” di grandi opere infrastrutturali finanziate con risorse pubbliche gode, nel nostro Paese, di un trattamento simile: si va, in taluni casi, da un minimo dello 0,5 per cento a un massimo del 6 per cento. E nessuna impresa è mai fallita per questo! E si tratta di una percentuale che è stata applicata non solo agli stanziamenti per la realizzazione del sistema di dighe mobili alle bocche di porto, ma a tutte le risorse gestite dal Consorzio durante la sua esistenza, pari a circa 9 miliardi di euro attuali, per un importo complessivo nella discrezionale disponibilità delle sue imprese pari a un miliardo di euro.
Ma non c’è solo questo. La convenzione stipulata nel 1991 tra lo stesso Consorzio e il Magistrato alle Acque di Venezia, e i successivi atti integrativi che ne hanno confermato e rafforzato il monopolio, stabilisce che le opere realizzate e da realizzarsi siano pagate sulla base di un tariffario stabilito e aggiornato dal Magistrato stesso. Questo spiega perché, come dimostrato dagli inquirenti e confermato dai diretti interessati, fosse decisivo per il Consorzio corrompere proprio i presidenti del Magistrato, che avrebbero invece dovuto dirigerne e verificarne l’operato. Avere “a libro paga” questi infedeli funzionari dello Stato significava controllare a proprio piacimento anche il meccanismo di retribuzione delle opere.
Considerato che con procedure d’appalto corrette e trasparenti si ottengono, per le opere pubbliche, ribassi d’asta assai significativi possiamo ipotizzare (ottimisticamente) che i prezzi siano stati gonfiati almeno del 35 per cento.
I conti sono perciò presto fatti: più della metà delle risorse di tutti noi contribuenti, stanziate dallo Stato e gestite dal Consorzio, non sono finite nei cantieri dei progetti, ma hanno costituito enormi riserve di super-profitti, ad altro destinate. In un modo o nell’altro queste risorse devono tornare alla città di Venezia e all’effettiva tutela fisica e socio-economica dell’ecosistema lagunare. L’attuale dirigenza del Consorzio Venezia Nuova, in perfetta continuità con quella finita in manette, continua a eludere questo tema. Sarebbe ora che la politica, e il governo nazionale per primo, gliene chiedesse finalmente conto.

 

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

LA GESTIONE DEL MOSE  «Rischiamo di restare per sempre “prigionieri” del Cvn»

I conti rivelati da Piergiorgio Baita: tra mazzette e “sponsorizzazioni” il Consorzio ha dispensato cento milioni all’anno per dieci anni

E il Mose? «Intanto spero proprio che funzioni, anzi sono sicuro che funzionerà dal momento che è la più grande opera di ingegneria che sia mai stata fatta in questo Paese e per il bene del mio Paese spero e credo che abbiano lavorato al meglio – spiega Stefano Ancilotto – Semmai il problema è un altro e cioè la manutenzione ordinaria e straordinaria. Temo che solo chi ha realizzato il Mose sia in grado di farlo funzionare.» Vuol dire che saremo prigionieri per sempre delle ditte del Consorzio? «Ho paura di sì. Metti che fai un appalto per la gestione delle paratoie e che una si rompa, la Mantovani o un’altra ditta può saltar fuori a dire che non si è rotta per motivi strutturali, ma perchè è stata eseguita male l’operazione di apertura e chiusura. Dunque…»

 

LE INDICAZIONI DI RAFFAELE CANTONE

«Fermare l’evasione per battere la corruzione»

Ma, passata la “buriana”, non andrà a finire che fra vent’anni siamo daccapo, esattamente come è successo dopo le inchieste del 1992? «Ci sono le leggi sbagliate da correggere e c’è un problema culturale» – avverte il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. La legge che affida al Consorzio Venezia Nuova la realizzazione in regime di monopolio del Mose è stata definita “criminogena” da Cantone perchè un soggetto privato è chiamato ad occuparsi di un’opera pubblica, interamente finanziata dallo Stato. Dunque questa legge, secondo Cantone va cancellata al più presto. Ma c’è anche il problema culturale. «Credo che la corruzione si combatta esattamente nel modo in cui abbiamo combattuto la mafia – spiega Cantone – Come abbiamo fatto? Siamo andati nelle scuole a parlare e a convincere i ragazzi che la mafia è il male del Paese. Oggi l’evasore fiscale e il corruttore non sono simpatici, ma non sono nemmeno antipatici. Anzi, il corruttore magari non è simpatico, ma l’evasore fiscale invece sì, viene considerato un furbo. Nessuno lo condanna socialmente. Non è come in America che i figli si vergognano dei genitori se vengono pizzicati a non pagare le tasse».
Lei ha fatto l’esempio di un evasore condannato a 21 anni di galera negli Stati Uniti. Qui da noi al massimo qualche anno, se non scatta la prescrizione.
«Il problema è che la corruzione è possibile solo perché c’è l’evasione fiscale. Le aziende riescono a fare nero perché evadono. Se non fermiamo l’evasione non fermiamo la corruzione e bisogna andare nelle scuole a spiegarlo». Lei sostiene che la corruzione è è un cancro come la mafia e che non ne usciamo se non con un salto culturale. «Il gap culturale da comare è relativo alla giustificazione dell’evasore. Finchè pensiamo che sia un furbo, un simpaticone, uno tutto sommato da invidiare, non ne usciremo mai.»

 

Vale un miliardo il grande saccheggio dei soldi pubblici

Al secondo interrogatorio Piergiorgio Baita cambia strategia. I suoi avvocati no. Racconta l’amministratore delegato e presidente della Mantovani che i suoi difensori si erano presentati in carcere con il suggerimento di farsi ricoverare in clinica per una operazione al cuore. In questo modo, spiega sempre Baita, sarebbe saltato il secondo incontro con il pm Stefano Ancilotto. Il primo si era concluso con un nulla di fatto e Baita aveva capito che sarebbe rimasto in galera. In quindici giorni matura la decisione di vuotare il sacco. I suoi legali lo sconsigliano e in ogni caso avvertono che non lo possono seguire su questa strada, visto il cambiamento improvviso di rotta che mette in crisi la strategia difensiva. E Baita decide che è arrivato il momento di mollare l’ancora e di prendere il largo con una barca guidata da un pilota diverso, che eviti di farlo schiantare contro lo scoglio delle patrie galere. Cambia avvocato – prima aveva Piero Longo, collega di studio dell’avv. Niccolò Ghedini, grande amico di Galan – e via, inizia a parlare. Il secondo interrogatorio è del 28 maggio 2013. Sono passate due settimane, ma è cambiato il mondo, per Baita, che non ha più intenzione di continuare a vederlo a scacchi.
UN MILIARDO IN FUMO
«Cominciamo dal 2002 – attacca Baita – anno nel quale la Mantovani compie un salto di dimensioni e anche di collocazione di mercato.» Inizia così e racconta per filo e per segno il sistema Mose, che lui in parte aveva trovato già pronto, bell’e fatto nel 2002. Vuol dire che Giovanni Mazzacurati già agli inizi degli anni Duemila aveva messo in piedi il meccanismo delle tangenti e delle “liberalità” e cioè i soldi per le sponsorizzazioni, quelli che servono a comprarsi le anime belle, mentre le tangenti comprano le anime dannate, ammesso che si riesca a percepire la differenza sostanziale. Il secondo verbale, quello del 28 maggio, sembra un libro stampato. Piergiorgio Baita costruisce tessera dopo tessera un mosaico completo, preciso del malaffare e mostra anche in questa occasione la sua genialità. Dispensa date e circostanze con la precisione di un chirurgo, ricostruisce accordi politici e “maneggi” con grande lucidità. Non si autoincensa, ma nemmeno si flagella. Spiega che il meccanismo non l’ha inventato lui, che quando arriva al Consorzio nel 2002 il meccanismo Mose è già rodato e chissà da quanto andava avanti sotto la direzione di Giovanni Mazzacurati di cui Stefano Ancilotto dà un giudizio che è la fotografia precisa dell’uomo: “E’ il Gianni Letta della laguna”. Il Richelieu, il Cardinal Mazarino, insomma, il potentissimo che non si mette mai in mostra e manovra dietro le quinte. Baita spiega che se si vuol lavorare con il Consorzio Venezia Nuova non c’è altro modo, funziona così e dice che sì, anche a lui dava fastidio pagare tutta quella gente che non faceva niente e incassava i soldi. Parla come uno che sa quel che vuole, come uno che ha messo in conto tutto. Dall’inizio. Forse anche l’arresto. Di sicuro il pentimento. E pure la condanna. Ha già fatto tutti i suoi conti e sa che il gioco vale la candela. Baita infatti patteggia 22 mesi di galera per l’evasione fiscale. Non se la caverà con così poco perché dovrà affrontare altri processi per corruzione e per concussione, ma il conto finale non sarà lontanissimo da quei due anni scarsi. Che sono niente, meno di niente se si pensa a quanti milioni di euro ha maneggiato, a quanti ammette di averne sottratti al fisco, a quanti ne ha pagati in tangenti. 22 mesi e poi basta. Volendo, si ricomincia da capo. Altro giro altra corsa. Esattamente come era successo nel 1992. Arrestato nel luglio di quell’anno, il quarantenne Piergiorgio Baita è accusato di corruzione e di violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Con lui finiscono in carcere il presidente della Giunta regionale del Veneto, Franco Cremonese e Giorgio Casadei, braccio destro e sinistro in laguna del ministro Gianni De Michelis. Finisce nei guai anche Franco Ferlin, segretario del potentissimo ministro dei trasporti ed ex presidente della Regione Veneto, il doroteo Carlo Bernini. Anche in quell’occasione la Tangentopoli veneta inizia con un imprenditore che è tagliato fuori dal giro e inizia a parlare. E poi è un banalissimo appalto per la fornitura di terra da utilizzare per la spalletta della bretella autostradale che porta al Marco Polo che fa finire in galera il gotha della politica veneziana. Baita racconta ai magistrati il sistema delle mazzette e spiega che dentro la torta ci sono tutti, i socialisti di De Michelis e i democristiani di Bernini-Cremonese, con l’inevitabile spruzzata di cooperative del Pci. Sembra oggi. Uguale, uguale. Alla fine del processo, nel 1995, Baita viene assolto per non aver commesso il fatto. E subito dopo inizia a mettere a frutto quel che ha imparato. Niente più mazzette nascoste dentro le mutande, come ha visto fare allora, con lui la corruzione viaggia sulle ali delle consulenze. Che non si negano a nessuno e che permettono alle aziende come la sua di scaricare anche i costi. Ed ecco l’idea delle “cartiere”, prima la Bmc di San Marino, fino al 2010, quando San Marino finisce nella black list e poi la Quarry Trade canadese. Per non parlare dei conti in banca in Svizzera, dove finisce il nero delle fatturazioni. Nicolò Buson, il cassiere di Baita alla Mantovani racconta che i soldi se li faceva portare in Italia dalla Svizzera con gli “spalloni”, come ai tempi del contrabbando di Totò e Fernandel. «Mi recavo o davo disposizioni alla banca e prelevavo delle somme e me le facevo portare dagli spalloni. Inizialmente a Milano, i primi anni, e poi invece ho visto che potevano arrivare a Padova».
Quanti soldi? Si andava a colpi di 150-200mila euro al colpo – spiega Buson. Del resto 100mila euro par di capire che non si negano a nessuno, che sia il presidente del Magistrato alle acque o un intrallazzatore che giura di conoscere un qualsiasi generale della Finanza. Tanto i soldi sono di Pantalone. Ma quanti soldi?
«Un miliardo di euro in 10 anni se si vuol stare ai conti dello stesso Baita» – sintetizza il pm Stefano Ancilotto.
Baita conteggia 10 milioni di mazzette all’anno per 10 anni. Fa un totale di 100 milioni. E il resto, fino a raggiungere quota mille milioni di euro, è in “liberalità”. Di fatto il Consorzio pagava tutti e corrompeva tutti. Il saccheggio di soldi pubblici avviene in molti modi. Il primo, legale: il Consorzio Venezia Nuova ha diritto al 12 per cento sull’ammontare dell’opera. Si chiamano “oneri di concessione” e valgono su qualsiasi lavoro svolto. Finora per il Mose lo Stato italiano ha speso 6 miliardi di euro, il 12 per cento di quei 6 miliardi è del Consorzio. Sono quattrini garantiti per legge al Consorzio dalla Legge speciale per Venezia. Questa è la legge che il presidente dell’autorità per la lotta alla corruzione, Raffaele Cantone, collega magistrato di Stefano Ancilotto, chiama “legge criminogena”. Perché affida a privati la gestione dei soldi pubblici. Senza controllo. E senza appalti. Significa che i cittadini hanno pagato il Mose almeno il 30 per cento in più di quanto lo avrebbero pagato se ci fossero stati gli appalti, che mediamente vengono assegnati con un ribasso del 30 per cento, per l’appunto. Siccome il Consorzio è il concessionario unico delle opere di difesa a mare, non viene fatta alcuna gara di appalto. Anche questo è legale.
LA SLOT MACHINE DEL CONSORZIO
Infine ci sono le mazzette e le “liberalità”.
Le mazzette, secondo i conti fatti da Piergiorgio Baita ammontano ad una decina di milioni di euro l’anno, abbiamo detto, le liberalità a 80 milioni di euro l’anno. Il totale è 100 milioni all’anno per 10 anni. Uguale, un miliardo, per l’appunto. Un fiume di denaro che sommerge Venezia e Roma passando per Milano. Un fiume di denaro che lambisce tutti e non risparmia nessuno. Il Consorzio dispensa quattrini urbi et orbi. A beneficiarne ad esempio è il Patriarcato di Venezia con la Fondazione Marcianum voluta dal cardinale Angelo Scola. Per il Marcianum hanno pagato tutti i cittadini, anche coloro che in chiesa non hanno mai messo piede. Così come hanno pagato per il restauro di un convento e di un seminario. Ma poi anche chi ama il basket e odia il calcio, senza saperlo ha finanziato squadre e squadrette di calcio di ogni ordine grado, a cominciare dal calcio Venezia. E poi convegni e libri, film – compreso quello del figlio di Giovanni Mazzacurati, Carlo – su Venezia e il Mose. E, ancora, giri in elicottero di centinaia di giornalisti e personalità varie, sempre a spese del contribuente che avrebbe dovuto pagare il Mose 1 miliardo e mezzo di euro e alla fine lo pagherà più di 6.

13 – Fine (Le puntate precedenti sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto, 6, 7, 13, 14 e 20 Settembre)

 

Recuperati 10 milioni 900 rischiano di “sparire”

E adesso parliamo di soldi. Baita conteggia mazzette per 100 milioni di euro. Quanti soldi ha recuperato finora la Procura con i p.m. Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini? 10 milioni di euro, una cifra consistente, ma è solo un decimo del maltolto.
Il resto? Ci sono ancora i sequestri di case e barche, auto e ville. Ma anche di quadri e gioielli. Improbabile che si arrivi a recuperare 100 milioni – anche perchè la prescrizione si porta via un certo numero di mazzette – ma la Procura di Venezia ce la mette tutta. Restano fuori conteggio invece le cosiddette liberalità. Nessuno dei tanti che hanno ricevuto centinaia di migliaia di euro, si è finora sentito in obbligo di restituire. Anche se, adesso, sa che si è trattato di soldi pubblici e cioè dei contribuenti, utilizzati per restaurare conventi e seminari, per pagare convegni sulla dottrina della chiesa e congressi sulle ultime frontiere della medicina. Quei soldi non li vedremo mai più. E se ha ragione Baita si tratta di una montagna di quattrini, 900 milioni di euro. E siccome si tratta di contributi regolarmente registrati non c’è alcun reato da perseguire – dicono in Procura. Non resta che sperare che sia la Corte dei conti ad aprire una inchiesta e a tentare di farsi restituire i soldi.

 

VENEZIA – Solo tra tre settimane si conosceranno le conclusioni alle quali saranno giunti il medico legale Silvia Tambuscio, il cardiologo Paolo Jus e lo psichiatra forense Davide Roncali dopo aver visitato e parlato con l’ex assessore regionale Renato Chisso, in carcere da oltre quattro mesi. Ieri, il giudice veneziano Roberta Marchiori ha incaricato i tre medici di eseguire la perizia che deve stabilire se le condizioni di salute dell’indagato siano compatibili o meno con la detenzione. A chiedere la scarcerazione per motivi di salute è stato il suo difensore, l’avvocato Antonio Forza, che ha presentato la consulenza di tre medici i quali sostengono che le patologia cardiache e la depressione di cui è soggetto Chisso nel carcere di Pisa dovrebbero portare immediatamente alla sua liberazione. I pubblici ministeri Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini hanno risposto con il parere di altri tre medici, che hanno sostenuto esattamente il contrario di quelli della difesa, riferendo, tra l’altro, che il carcere di Pisa è fornito di un Centro clinico cardiologico di prim’ordine ed, inoltre, sostenendo che la depressione di Chisso sarebbe leggera e simile a quello di ogni detenuto costretto a vivere rinchiuso in un carcere. Il magistrato veneziano ha concesso ai suoi tre periti due settimane per rispondere al quesito che ha posto loro, quindici giorni a partire dal momento in cui visiteranno Chisso, tra una settimana. Oltre a lui, anche l’ex presidente della giunta regionale Giancarlo Galan ha rivendicato motivi di salute che dovevano consigliare l’autorità giudiziaria ad evitargli in carcere: diabete, patologie cardiache e una frattura alla gamba con conseguente rischio di embolia hanno consigliato la Procura a spedire l’ex ministro di Forza Italia a rinchiudere in un vero e proprio reparto ospedaliero all’interno del carcere milanese di Opera, dove si trova ancora dal momento in cui la Camera ha dato l’autorizzazione a procedere chiesto dai pubblici ministeri. Non è escluso, tra l’altro, che nel caso le sua condizioni di salute migliorino, i pubblici ministeri veneziani decidano di trasferirlo in un carcere del Veneto, anche perchè i posti ad Opera e negli altri reparti ospedalieri per detenuti sono contati e le richieste sono sempre superiori alle disponibilità.

Giorgio Cecchetti

 

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

L’INCHIESTA – Aumentano gli indagati che chiedono di patteggiare

Le figure chiave. Claudia Minutillo, da ex segretaria a manager con la passione per le grandi firme. Piergiorgio Baita, l’uomo che fa funzionare il Sistema Mose

Intanto cresce il numero degli indagati che vogliono patteggiare la pena. Il 6 ottobre verranno valutate 18 posizioni su 34. Si sono aggiunti all’ultimo momento […………] (2 anni reclusione e 4 milioni di multa), l’ex presidente del Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta (2 anni di reclusione e 700mila euro di multa) e Stefano Tomarelli di Condotte (2 anni di reclusione e 800mila euro di multa). Il conto totale dei beni sequestrati è di 10 milioni di euro che saranno incassati dallo Stato. Si è sempre detto che le intercettazioni costano. Ma è proprio grazie alle intercettazioni che questa indagine porta nelle casse dello stato 10 milioni di euro.

 

IL RITRATTO DEL TERZO PM

Buccini, dalle Fiamme gialle alla Procura della Repubblica

Al suo attivo ha due omicidi risolti (il caso Jennifer e il delitto Bari), numerose indagini sul fronte ambientale e di reati contro la pubblica amministrazione, nonché un impegno appassionato nel mondo associativo della magistratura, coronato dall’elezione al Consiglio giudiziario, di cui è stato segretario fino al 2012. Stefano Buccini è il più giovane dei tre pm del pool che ha indagato sul “sistema Mose”. In magistratura dal 2002 (dopo un anno come ufficiale di leva nella Guardia di Finanza, concluso con un encomio solenne per l’attività svolta) è stato affiancato al collega Stefano Ancilotto nel marzo del 2013, subito dopo l’arresto del presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita. E da allora ha fornito un importante contributo all’inchiesta. Sempre con il sorriso che contraddistingue il suo modo di lavorare, anche nei momenti di maggiore tensione. Buccini è convinto che la serenità di giudizio, l’equilibrio, siano essenziali anche per chi svolge il ruolo di inquirente, assieme ad una buona dose di autoironia. Di reati contro la pubblica amministrazione si occupa dal gennaio del 2012 e, proprio in questi giorni, si appresta a chiudere le indagini a carico di alcuni poliziotti di Jesolo, accusati di aver abusato del proprio potere nella gestione dell’ufficio stranieri.
«La corruzione è un fenomeno sociale ed economico», ha dichiarato in uno dei suoi interventi, spiegando che il piano penale o quello etico non possono essere risolutivi: «La paura della sanzione penale non è sufficiente». È necessario prima di tutto rompere la spirale della “convenienza” che spinge a scegliere la strada della mazzetta. Dunque semplificazione normativa, nuove modalità di affidamento dei lavori pubblici, ripensamento del sistema di controllo, purtroppo fallito, come emerso dalle indagini sul Mose: il compito di controllare era stato affidato a persone già “ammorbidite” in partenza.

 

Dalle fatture false una pioggia di milioni per pagare le mazzette

FIGURA CHIAVE – Piergiorgio Baita, secondo il pm Ancilotto «un uomo molto intelligente»

«Ho capito che avevamo scoperchiato il pentolone quando mi sono arrivate le rogatorie da San Marino. Fatalità, a una mia collega di università era arrivata la nostra richiesta. Lei, bravissima, si è messa a lavorare giorno e notte sulle fatture di quella che allora era una società sconosciuta, la Bmc di tal William Colombelli. Le aveva tirate fuori tutte e ce le aveva spedite – ricorda il pm Stefano Ancilotto – Il Finanziere che faceva i conti e controllava ad una ad una le fatture, ad un certo punto è venuto da me: “Dottore o qui hanno sbagliato le virgole, oppure sono milioni di euro. Decine di milioni di euro.” Abbiamo controllato puntigliosamente e abbiamo visto che c’erano un sacco di soldi che venivano ritirati dalla banca in contanti. Una volta anche un milione di euro in un solo colpo. Abbiamo passato le fatture ad una ad una per vedere se si trattava di lavori effettivamente eseguiti e abbiamo visto che la Bmc era poco più di un ufficetto a San Marino. La società di sicuro non aveva le competenze per svolgere tutte quelle consulenze e quei lavori. A quel punto ho capito che stava per venir giù il mondo e mi sono reso conto dell’enormità dello scandalo. Poi è arrivata Claudia Minutillo».
LA “FEMME FATALE”
Aveva chiesto di parlare subito, prima ancora di salire in macchina, mentre era ancora in corso la perquisizione nella sua casa di Marocco, a pochi chilometri da Mestre. Un “appartamentino” da 17 vani, dotata di tutti gadget di una abitazione che appartiene ad una donna di successo. Come le luci che si accendono e si spengono “man mano che le stanze ammirano il lento incedere dei tuoi passi da regina della casa” – così recitano quei depliant che ti fanno apparire per quello che non sei. Come le stanze-guardaroba con gli armadi che hanno i ripiani fatti su misura per le borsette di Hermes e le scarpe di Christian Louboutin, quelle scarpe nere, decolleté, con la caratteristica suola rossa che non è che te le tirino proprio dietro visto che non scendono facilmente sotto i mille euro al paio, ma se non le hai non sei nessuno. Chissà se nel momento dell’arresto le era venuto in mente di quella volta che era andata a Parigi a fare “shopping” e si era comprata ben 12 paia di Loubotin in un colpo solo. In galera non gliele avrebbero fatte tenere. E nemmeno il cappottino che, secondo il suo ex datore di lavoro, Giancarlo Galan, valeva 18 mila euro.
“Signora, aspetti almeno che arriviamo in caserma, poi potremo verbalizzare” – le avevano detto i Finanzieri.
Era terrorizzata, Claudia Minutillo, e avrà pensato che da un momento all’altro stava per perdere tutto. Per anni era vissuta nell’idea che era la regina della slot machine che avevano messo in piedi per lei l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan e l’ex assessore alla Mobilità e infrastrutture Renato Chisso. Quando Galan l’aveva mandata via dalla Regione, ecco pronta la rete di salvataggio. Lei del resto glielo aveva detto chiaro e tondo a tutti e due che non poteva finire così, che 10 anni di sacrifici al servizio di Giancarlo non potevano essere cancellati con un colpo di spugna. Galan aveva parlato con Piergiorgio Baita, che l’aveva fatta entrare nel gran giro. «Galan e Chisso mi hanno detto che dovevo dare alla Minutillo uno stipendio di 250 mila euro netti all’anno, che è una retribuzione che non credo di prendere nemmeno io» – dice Baita.
250mila euro netti, come prenderne 500 mila lordi. Una cifra da maraja. Niente a che vedere con lo “stipendietto” da 2mila e 500 euro al mese che prendeva come segretaria particolare di Galan quando era Governatore del Veneto. E poi finalmente era libera, niente signorsì, niente sbattere i tacchi, non doveva più avere a che fare con il caratteraccio di quell’omone che sapeva essere simpatico con tutti, ma a volte era durissimo con lei. Adesso comandava. Adesso era amministratrice delegata di Adria Infrastrutture, una ditta della Mantovani e fatturava milioni di euro all’anno. E si era pure innamorata, di William Colombelli. Chissà se era l’uomo giusto. Di sicuro era l’uomo giusto per fare i soldi. Tanti soldi. Dal 2005 al 2013 la Bmc Broker della premiata ditta Colombelli-Minutillo ha emesso fatture per 10 milioni di euro.
«Quelle fatture sono relative a nulla» – aveva spiegato Claudia Minutillo nel suo primo interrogatorio. E quando il pm Stefano Ancilotto le aveva chiesto di nuovo: «A nulla? Quelle fatture si riferiscono a nulla?». «A nulla».
L’inventore delle fatture false, che poi è anche l’inventore del sistema dei project financing e uno dei “geni” dell’intera operazione Mose, è Piergiorgio Baita. L’idea delle “cartiere” – le società che producono fatture false – gliela dà […], il commercialista che è ancora l’unico latitante della retata storica. Ma una volta imparato il meccanismo, è Baita che lo fa andare al massimo. E’ lui che inventa le consulenze, che prepara le fatture false e che le fa firmare alla Minutillo come amministratrice delegata di Adria Infrastrutture. E’ lui che si fa riconsegnare dalla Minutillo i soldi che lei e Colombelli prelevano in contanti nella banca di San Marino. E’ lui, infine, che dispensa, assieme a Giovanni Mazzacurati, le mazzette. Perché a questo servono le fatture false e le “retrocessioni” ovvero i quattrini che tornano indietro, in contanti, dopo essere passati per San Marino, tolte le spese, ovviamente, perchè altrimenti Claudia Minutillo non avrebbe potuto continuare a fare la bella vita. I viaggi anche solo per fare acquisti a Parigi, le macchine con la targa di San Marino, che fanno tanto “in”, i vestiti firmati, quei suoi tubini neri che facevano tanto lady dark – una mania, quella di vestirsi di nero, che risale ai tempi del liceo scientifico, fatto nella succursale di Mirano del liceo classico Franchetti. Di tutto questo si vantava in continuazione la “dottoressa Minutillo”, come si faceva chiamare e come la chiamavano tutti, nonostante una laurea non l’avesse mai presa. Aveva fatto due anni di lingue, questo sì, a Ca’ Foscari, ma niente di più. Le compagne di scuola la ricordano come una “femme fatale” ma solo perché lei si viveva così, una che se la tirava e che agli uomini ha sempre fatto fare quello che voleva. Aveva trovato Galan e Chisso che le avevano asfaltato la strada.
BAITA, IL “GENIO”
«Fin dal primo interrogatorio mi ha dato l’idea di un uomo molto intelligente. Intelligentissimo. Forse l’indagato più intelligente che mi sia capitato di incontrare – ricorda il p.m. Stefano Ancilotto – Con Baita abbiamo messo a punto in 5 interrogatori tutto il sistema Mose. Con un altro ce ne sarebbero voluti 40. Era preciso, dettagliato, sicuro. E andava con ordine, elencando ad uno ad uno gli elementi, senza mai perdersi. La sua ricostruzione storica dei fatti è da manuale. Analitica. Parte dal 2002 e racconta che il meccanismo era già in funzione quando arriva lui al Consorzio. Poi parla di Galan e Chisso, poi descrive minuziosamente il meccanismo spartitorio. Freddo, razionale, calcolatore, questo sì».
Il primo “verbale di persona sottoposta ad indagini” è del 10 maggio 2013. Baita è in carcere da febbraio. Due mesi non sono stati sufficienti. Tant’è che l’amministratore delegato di Mantovani in quel primo verbale ammette quello che non può non ammettere e cioè che sì conosce la Claudia Minutillo e sì pure Colombelli. E sì, spiega che Colombelli gli è stato presentato da Galan e che Colombelli attraverso la Bmc «ha retrocesso allo scrivente gran parte della somma bonificata all’estero. Credo che la somma restituita ammontasse in media all’80 per cento della fattura pagata». Ma non ammette nulla di più e, alla fine, inguaia solo la Minutillo – che è già inguaiata di suo – e qualche altra “scartina”. Ma ad esempio dice di non ricordarsi a chi era andato un bonifico di 500 mila euro – soldi finiti nelle tasche del Presidente del magistrato alle acque, Patrizio Cuccioletta.
«Nel corso del primo interrogatorio, mi aveva fatto il quadro della situazione, ma senza dirmi praticamente nulla. Nessun nome, nessuna dazione. Mi ricordo che dopo aver chiuso il verbale, gli ho detto: “Ingegnere, come nel ’92.” Lui mi ha chiesto che cosa significasse e io gli ho spiegato che, come nel ’92, aveva raccontato per filo e per segno i meccanismi, ma più in là non era andato. Solo che io non potevo accontentarmi e gliel’ho detto chiaramente che non mi bastava. Volevo nomi e cognomi, volevo fatti. Volevo cifre. Circostanze precise. E lui mi ha guardato e secondo me ha capito che sarebbe rimasto in galera.»

12-Continua (Le puntate precedenti sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto, il 6, 7, 13 e 14 settembre)

 

Le difese: una battaglia giudiziaria a colpi di ricorsi

È stata una battaglia giudiziaria a suon di istanze di remissione in libertà e di ricorsi davanti al Tribunale del riesame. Dopo gli arresti del giugno scorso, gli indagati nell’inchiesta sul “sistema Mose” hanno messo in campo una batteria di difesori di tutto rispetto, molti dei quali veneti. L’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, ha scelto il presidente dell’Ordine degli avvocati, Daniele Grasso, capace di concordare un patteggiamento ai minimi (poi rigettato dal gip). I funzionari regionali Giovanni Artico e Giuseppe Fasiol, difesi da Rizzardo Del Giudice e Marco Vassallo, sono riusciti ad ottenere l’annullamento dell’ordinanza per mancanza di gravi indizi; l’ex presidente dell’Ente Gondola, Nicola Falconi (avvocati Giorgio Bortolotto e Paolo Rizzo) è stato rimesso in libertà in quanto ritenuto vittima di concussione. Tra i legali veneziani impegnati nel procedimento, figurano il presidente della camera penale veneziana, Renato Alberini (difensore di [……………]), l’avvocato Renzo Fogliata, primo difensore del sanmarinese Walter Colombelli, produttore di false fatture per la Mantovani; Simone Zancani, difensore dell’imprenditore bellunese Luigi Dal Borgo; Giovanni Molin, legale dell’ex presidente della Venezia-Padova, Lino Brentan. E ancora Andrea Franco, avvocato dell’imprenditore Andrea Rismondo; Angelo Andreatta, difensore di Stefano Tomarelli (Condotte); l’avvocato Tommaso Bortoluzzi che assiste l’ex collaboratore di Mazzacurati, Luciano Neri; il legale rodigino Francesco Zarbo, difensore di Giampietro Marchese, un tempo esponente di spicco del Pd.

 

Gazzettino – Mose, subito a processo. Meneguzzo e Milanese.

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

20

set

2014

Giudizio immediato a Milano per il finanziere vicentino e l’ex braccio destro di Tremonti

Nel mirino due mazzette da mezzo milione. In aula anche il generale in pensione Spaziante

Tangenti Mose: giudizio immediato per Milanese, Meneguzzo e Spaziante il 4 novembre davanti al tribunale di Milano in composizione collegiale. Il gip Natalia Imarisio ha accolto la richiesta della Procura meneghina di “saltare” l’udienza preliminare e quindi accorciare i tempi del processo. Una modalità che è prevista solo per gli indagati che siano ancora detenuti e non oltre il 180. giorno dall’esecuzione del provvedimento di custodia cautelare. Si tratta del troncone dell’inchiesta veneziana sulla nuova Tangentopoli lagunare i cui atti sono stai trasmessi prima dell’estate per competenza territoriale agli inquirenti milanesi. In ballo due mazzette da mezzo milione di euro ciascuna, la cui consegna materiale sarebbe avvenuta negli uffici di Milano della Palladio Finanziaria del vicentino Roberto Meneguzzo fra il giugno 2010 e il febbraio 2011.
Meneguzzo, 58 anni, difeso dagli avvocati Alleva e Manfredini, è agli arresti domiciliari nella città berica, dopo aver tentato il suicidio in cella. In base alle prove raccolte dal Nucleo di polizia tributaria di Venezia, il manager considerato il “Cuccia del Nordest” avrebbe messo in contatto il presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, sia con Milanese che con Spaziante, i quali dietro lauto compenso si sarebbero dati da fare, per quanto di loro competenza, per facilitare la continuazione dei lavori del Mose.
Marco Milanese, 55 anni, nato a Milano, difeso dagli avvocati La Rosa e Spagnuolo, nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere è rinchiuso dallo scorso 4 luglio. È accusato di corruzione: quale consigliere politico dell’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, avrebbe ricevuto 500mila euro per inserire nella delibera Cipe n.31/2010, un finanziamento di 400 milioni di euro per il Mose che era stato escluso dallo stesso Tremonti.
Anche Emilio Spaziante, 62 anni, casertano, difeso dagli avvocati Di Noia e Bergamini, è recluso a Santa Maria Capua Vetere dal 4 giugno, quando è scattata la “retata storica” in laguna. Generale della Finanza in pensione, all’epoca dei fatti in servizio a Roma come comandante interregionale dell’Italia centrale, sarebbe la “talpa” dell’inchiesta. Accusato di atti contrari ai doveri d’ufficio, avrebbe ricevuto 500mila euro (unico acconto rispetto ai 2 milioni e mezzo pattuiti) per ammorbidire la verifica fiscale aperta dalle Fiamme gialle nella sede del Consorzio l’11 giugno 2010 e per carpire informazioni sul procedimento penale e sulle intercettazioni disposte dagli inquirenti. In entrambi i casi a dare l’ordine di recuperare il contante a Piergiorgio Baita, allora patron della Mantovani, sarebbe stato Mazzacurati che poi lo avrebbe portato personalmente ai destinatari. Denaro rastrellato con il meccanismo della sovrafatturazione che vede coinvolti anche Luciano Neri, “contabile” del Cvn e Nicolò Buson, ragioniere della Mantovani.
Intanto, resta ai domiciliari l’ex eurodeputata vicentina Lia Sartori. Il Tribunale del riesame di Venezia rigettando l’appello presentato dagli avvocati Coppi e Zanettin. Lia Sartori, 67 anni, esponente di spicco di Forza Italia, già presidente del Consiglio regionale del Veneto, è accusata di finanziamento illecito per aver ricevuto nel 2009 un contributo elettorale di 25mila euro e altri contributi pari a 200mila euro, di cui 50mila consegnati personalmente da Mazzacurati il 6 maggio 2010. La Sartori respinge ogni addebito e annuncia di volersi difendere con ogni mezzo, «affinché la propria immagine pubblica e privata rimanga specchiata». Nel frattempo anche il manager Stefano Tomarelli (Condotte) ha concordato con la Procura il patteggiamento: due anni di reclusione (con sospensione della pena) e un “risarcimento” di 700mila euro.

Monica Andolfatto

 

L’ex presidente ascoltato negli Usa per conto del Tribunale dei ministri ripete di aver consegnato 400 mila euro all’esponente di Forza Italia

VENEZIA L’anziano ed ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, nonostante gli acciacchi, ha sostenuto l’interrogatorio del giudice statunitense, chiesto per rogatoria dal Tribunale dei ministri del Veneto, e ha confermato le accuse nei confronti dell’ex ministro Altero Matteoli, attuale parlamentare di Forza Italia: ai pubblici ministeri Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini aveva riferito di aver consegnato in diverse occasioni più di 400 mila euro, proveniente dalla casse del Consorzio, per le campagne elettorali di Matteoli e, inoltre, di aver inserito nell’appalto per i lavori di bonifica e marginamento l’azienda di Erasmo Cinque, compagno di partito dell’ex ministro, su richiesta pressante di Matteoli. E Cinque avrebbe intascato una parte degli utili degli interventi pur non avendo mosso un dito, insomma pur non avendo mai lavorato. Ora, toccherà ai tre giudici del Tribunale accogliere o meno la richiesta di incidente probatorio per Mazzacurati avanzata dai difensori di Matteoli, ma è probabile che venga respinta, visto che l’interrogatorio per rogatoria è già avvenuto (naturalmente alla presenza del difensore, l’avvocato Giovanni Battista Muscari Tomaioli). Continua a crescere, nel frattempo, il numero di coloro che raggiungono l’accordo con la Procura veneziana per patteggiare la pena: presumibilmente il 16 ottobre, data fissata dalla giudice Giuliana Galasso, per l’udienza verranno valutate le posizioni di diciotto indagati. Le ultime posizioni che si sono aggiunte a quella dell’[……………….] (2 anni di reclusione e 4 milioni di multa) sono quelle dell’ex presidente del Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta e dell’imprenditore della romana «Condotte d’acqua» Stefano Tomarelli. Entrambi hanno raggiunto l’accordo per i due anni di reclusione, con la pena sospesa, e 800 mila euro di multa il primo e 700 mila il secondo. Per ora, grazie alle multe che gli indagati pagheranno, sono quasi dieci i milioni che finiranno nelle casse dello Stato e i tre pubblici ministeri che hanno coordinato le indagini hanno puntato proprio su questo, per recuperare almeno una parte del denaro pubblico sottratto grazie ai vertici del Consorzio Venezia Nuova. L’ultimo che potrebbe aggiungersi alla pattuglia dei patteggiamenti è il trevigiano Pio Savioli, rappresentante per le cooperative rosse nel Consorzio e uno dei primi tra gli arrestati a collaborare con gli investigatori della Guardia di finanza. Oggi, intanto, l’avvocato e professore romano Franco Coppi, difensore tra gli altri dei più volte presidenti del Consiglio Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, perorerà per la seconda volta davanti al Tribunale del riesame lagunare presieduto dal giudice Angelo Risi la causa per la scarcerazione di Amalia «Lia» Sartori, l’ex parlamentare europea di Forza Italia ed ex socialista, agli arresti domiciliari con l’accusa di finanziamento illecito al partito. Ad accusarla ancora una volta Giovanni Mazzacurati, il quale ha riferito di averle passato per le sue numerose campagne elettorali 225 mila euro.

Giorgio Cecchetti

 

L’avvocato: «Basta interrogatori, sta male»

In tre ore di interrogatorio ha risposto a tutte le domande davanti alla Corte Federale di San Diego in California l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova (Cvn) Giovanni Mazzacurati, ma il suo stato fisico non gli consentirà d’ora in avanti di sostenere altre prove davanti alla magistratura. Lo ha riferito il suo legale, Giovanni Battista Muscari Tomaioli, il quale ha assistito all’interrogatorio. «Mazzacurati – ha spiegato l’avvocato – ha risposto garantendo la propria collaborazione alle attività di indagine, come ha sempre fatto sin dall’inizio, confermando le dichiarazioni già rese nel corso dei numerosi interrogatori effettuati avanti ai magistrati italiani». L’interrogatorio è stato tuttavia più volte sospeso, ha spiegato Tomaioli, per le forti criticità, riconducibili allo stato di salute psicofisica di Mazzacurati. Secondo il legale al termine l’ingegnere è apparso «fortemente prostrato», tanto da dover ricorrere all’aiuto dei medici.

 

Gazzettino – Mose. Mazzacurati, interrogatorio-calvario

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

19

set

2014

CASO MOSE – Interrogato Mazzacurati negli Stati Uniti: «Sono malato»

Sentito negli Usa, continue sospensioni per la sua malattia. Molte domande sui rapporti con l’ex ministro Matteoli

Nessun ulteriore interrogatorio per l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova e “padre” del sistema Mose, Giovanni Mazzacurati. Le sue condizioni di salute sarebbero tali da non poter più sostenere eventi del genere. Lo riferisce, al termine della rogatoria internazionale dalla California (dove l’82enne ex presidente si trova da tempo) il suo avvocato, Giovanni Battista Muscari Tomaioli. L’udienza, davanti alla Corte federale di San Diego è durata circa tre ore e lo ha visto rispondere in particolare a domande sull’ex ministro Altero Matteoli, per sua stessa richiesta in merito ad un’indagine nei suoi confronti per presunti finanziamenti illeciti aperta dal Tribunale dei ministri. Per quanto riguarda l’inchiesta Mose, di cui Mazzacurati è uno dei principali accusatori di Giancarlo Galan e Renato Chisso, gli inquirenti ritengono di avere in mano documentazione sufficiente.
«Ritengo che, nell’attualità – ha sottolineato Muscari Tomaioli – l’ingegner Mazzacurati non sia più in grado di sostenere interrogatori, ed in questo senso gli stessi medici curanti, che seguono il suo stato di salute negli Usa da quasi un anno, hanno raccomandato di evitare in assoluto ogni altra partecipazione ad attività di questa natura».
Nel corso dell’udienza, Mazzacurati non avrebbe fatto scena muta, ma risposto a tutte le domande che gli sono state rivolte pur dovendo richiedere diverse sospensioni dell’udienza anche con l’intervento di un medico. All’interrogatorio erano presenti Stephanie Chau – assistente speciale Attorney United States per il Distretto della California – e due agenti speciali del Dipartimento della Homeland Security Investigations.
«Ha risposto – ha continuato il legale – garantendo la propria collaborazione alle attività di indagine, come ha sempre fatto sin dall’inizio, confermando sostanzialmente le dichiarazioni già rese nel corso dei numerosi interrogatori effettuati avanti ai magistrati italiani». Così, nell’interrogatorio del 25 luglio scorso, Mazzacurati aveva descritto il rapporto con l’ex ministro Matteoli: «Il ministro Matteoli mi ha fatto dei favori e ho corrisposto finanziando la campagna elettorale… gli ho corrisposto dei soldi… erano corresponsioni di denaro direttamente a compenso in qualche modo di favori ricevuti… 400-500mila euro… dal 2009 al 2012-2013». Questa, invece, la replica di Matteoli, che sembra riferirsi ad un periodo diverso: «Non ho mai indicato imprese a chicchessia e non ho mai ricevuto denaro dal Consorzio Venezia Nuova né da altri soggetti. Il contributo elettorale di 20mila euro, accreditatomi con bonifico nel 2006, fu immediatamente restituito al mittente».

 

Gazzettino – Mose, otto indagati per le cerniere

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

18

set

2014

IL CASO – Tutto è partito dalla denuncia di un’altra ditta che chiede 650mila euro di danni

I vertici della Fip Mantovani di Chiarotto accusati di appropriazione indebita dei progetti

L’accusa era di aver depositato come propri i progetti per i meccanismi delle cerniere del Mose e di averli poi divulgati ai concorrenti commissionando a terzi l’esecuzione delle opere.
Il pm Orietta Canova della Procura di Padova ha concluso le indagini e ha iscritto nel registro degli indagati otto persone con l’accusa di appropriazione indebita di proprietà intellettuale, contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali. Tra i nomi degli indagati spiccano quelli di Donatella Chiarotto, presidente e amministratore delegato della Fip industriale spa e di Renato Chiarotto nipote di Romeo, patron del gruppo Fip Mantovani. Gli altri indagati sono Paolo Fortin, Alessandro Sardena e Giampaolo Colato della Fip, Davide Barin e Stefano Bertolini della Fiar srl, Nadia Zoratto di Technital Spa.
L’anno scorso una ditta di Padova, la General Fluidi, un’azienda di una decina di dipendenti e che lavora nella ricerca e nello sviluppo di impianti oleodinamici, aveva presentato una denuncia penale patrocinata dagli avvocati Biagio Pignatelli e Angela Favara e parallelamente aveva avviato una causa civile di risarcimento danni.
La General Fluidi era stata incaricata dalla Fip Mantovani di realizzare un prototipo per il sistema di aggancio delle cerniere delle paratoie del Mose e nel 2009 aveva prodotto il primo lotto per la bocca di Porto del Lido. Una commessa che complessivamente doveva aggirarsi sui due milioni di euro.
«Ma dopo il primo lotto la Fip non si fece più viva – racconta il rappresentante della General Fluidi Andrea Tiburli – e controllando i capitolati d’appalto al Magistrato alle Acque scoprimmo che la società aveva depositato parte dei disegni da noi forniti a proprio nome per poi subappaltarne ad altri la realizzazione sottocosto».
La General Fluidi chiede ora anche il risarcimento di 650mila euro, di cui 600mila sono stati quantificati per le spese di progettazione sostenute e per la mancata commessa e 50 mila come simbolico riconoscimento del danno morale. «Non siamo la piccola azienda che vuole speculare su quella grande. Ci preme che venga sancita la paternità dei progetti – conclude Tiburli – anche in vista del funzionamento del sistema Mose e della sua manutenzione».

 

Copyrights © 2012-2015 by Opzione Zero

Per leggere la Privacy policy cliccare qui