Nuova Venezia – Il riesame: Chisso deve restare in carcere
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29
giu
2014
LA MELMA DEL MOSE E L’ALTROVENETO CHE HO NEL CUORE
di ANTONIO RAMENGHI
«Oportet ut scandala eveniant» (Matteo, 18,7): è bene che avvengano gli scandali,ma«guai all’uomo che ne è all’origine». Oggi in Veneto, ma non solo in Veneto, verrebbe da dire “troppa grazia sant’Antonio”: siamo sommersi da scandali. E tra questi lo scandalo Mose è sicuramente il più grave di tutti. Peggio, molto peggio della Tangentopoli milanese degli anni ’90 quando giravano tangenti dagli imprenditori direttamente nelle casse dei partiti e di qualche mariuolo. Qui la corruzione si è fatta sistema e ha coinvolto imprese e imprenditori, cooperative, politici, magistratura, guardia di finanza, commercialisti, architetti, istituzioni culturali, religiose e quant’altro. Il sistema è stato raccontato dal collega Renzo Mazzaro su queste colonne e poi nel libro “I padroni del Veneto” pubblicato due anni fa. Lì il sistema era già descritto perfettamente. Certo non c’erano le confessioni di tanti protagonisti arrivate solo dopo l’indagine della magistratura e il tintinnar di manette capace di ridare voce e risvegliare ricordi a tanti inquisiti. E c’era descritto, nel libro di Mazzaro, l’intreccio perverso che ha permesso, per almeno un decennio, che tutti accedessero alla mangiatoia del Mose e tutti contribuissero a tenerla in vita, chi per convenienza, chi per paura, chi per ignavia.
PUNTURINE di Roberto Bianchin
Scandalo Mose, per i politici è difficile uscire di scena
È faticoso togliere il disturbo con dignità, dopo essere stati primattori per tanti anni in Veneto. A volte bisogna saper perdere
Non è mai facile uscire di scena, come sanno bene i vecchi attori. Non è mai facile quando hai vissuto una vita sotto i riflettori, e all’improvviso finisci, senza che lo abbia deciso tu, in quel cono d’ombra dove più nessuno ti vede, dove più nessuno ascolta la tua voce, dove più nessuno parla di te. Dove il tuo nome, da un giorno all’altro, sparisce dai giornali come per un sortilegio. È ancora più difficile uscire di scena a testa alta. Con dignità. Senza il bisogno di voltarsi indietro. Di chiedere scusa per qualcosa. Perdono per ogni peccato. Non vale solo per gli attori. Vale un po’ per tutti, in verità. Ma vale soprattutto per i politici. Perché in fondo anche loro, come gli attori, recitano una parte. Chi meglio, chi peggio. Anche loro vivono sotto i riflettori. Anche loro vedono il loro nome sui giornali e le loro facce nelle televisioni. Anche per loro è dura, spesso molto dura, togliere il disturbo. Perché non lo dicono, a volte brontolano, a volte negano, fanno gli istrioni,ma in fondo a loro piace, e piace molto, la luce abbagliante dei riflettori. Perché è uno stupefacente, una volta che l’hai provato non puoi più farne a meno. Perché il potere logora solo chi non ce l’ha, come sosteneva, non senza ragioni, quella vecchia volpe (ci manca?) di Giulio Andreotti Belzebù. E allora fai di tutto, fingi anche di essere giovane, come Papi Silvio Berlusconi, per restare sul palcoscenico. Anche a costo di sfiorare il ridicolo, di diventare patetico. Come appare patetica, e triste, l’uscita di scena dei primattori dello scandalo del Mose. Soubrettes fino a ieri abituate a comandare che oggi piagnucolano come donnicciole sul viale del tramonto. Pezzi da novanta, come l’ex governatore Giancarlo Galan, per quindici anni l’uomo più potente del Veneto, che si avventurano in difese disperate, sgangherate, le voci alterate, le mani tremanti, gli sguardi sconvolti dall’idea della prigione. Sindaci influenti e benestanti, come Giorgio Orsoni, costretti a confessare di aver chiesto soldi ai padroni delle dighe, non per sé, per carità, ma per il Pd. E giganti della migliore imprenditoria italiana, come il mite (di aspetto) Giovanni Mazzacurati, il padre padrone delle dighe, uno che aveva a libro paga ministri della Repubblica e dava del tu a presidenti del consiglio, costretto a mettere migliaia di chilometri tra sé e la vergogna, dopo aver balbettato davanti ai magistrati, imbarazzato come un bimbetto sorpreso con le dita nel vaso della marmellata. Che tristezza. Certo non è facile andarsene da sconfitti, umiliati e vilipesi. Ma colpisce vedere la loro arroganza di ieri tramutata di colpo in lamentazione. E in difese improbabili, condite da tesi di spettacolare arditezza, del tipo: i soldi delle tangenti se li sono tenuti quelli che dicono di avermeli dati. Nessuna pietà, in ogni caso. Nessuno sconto di pena. Nessun perdono. Paghi chi ha sbagliato, come è giusto. E si ricominci. Ma era lecito aspettarsi almeno che uscissero di scena con un briciolo di dignità. Invece non hanno avuto neanche quella. Segno che non erano solo politici da poco. Perché, come cantava Shel Shapiro, la voce dei mitici Rokes, bisogna saper perdere. r.bianchin@repubblica.it
Il riesame – Chisso deve restare in carcere
L’ex assessore regionale Renato Chisso resta in carcere. Il Riesame ha respinto il suo ricorso e quello di Enzo Casarin.
Renato Chisso e Casarin devono restare in carcere
Domiciliari per Brotto e Manganaro; solo obbligo di dimora per Lino Brentan
Annullate le ordinanze di custodia cautelare per Artico, Falconi, Lugato e Turato
Molti avvocati stanno cercando di contattare la procura per concordare il patteggiamento
VENEZIA – L’assessore regionale Renato Chisso resta nel carcere di Pisa e anche il ricorso del suo più stretto collaboratore a palazzo Balbi, Enzo Casarin è stato respinto. Dopo una due giorni di udienza e camera di consiglio, i giudici del Tribunale del riesame presieduto da Angelo Risi hanno affrontato ben nove posizioni e gli unici due rigettati sono proprio quelli di Chisso e Casarin, cambiata, invece, la situazione di tutti gli altri indagati. Hanno ottenuto gli arresti domiciliari il direttore tecnico del Consorzio Venezia Nuova Maria Teresa Brotto e l’ex maresciallo dei carabinieri, il romano Vincenzo Manganaro, l’ex amministratore delegato dell’Autostrada Venezia Padova Lino Brentan è stato scarcerato dagli arresti domiciliari, ma non potrà uscire dal territorio comunale perché ha l’obbligo di dimora a Campolongo Maggiore, infine sono state annullate le ordinanze di custodia cautelare per il dirigente regionale Giovanni Artico, l’imprenditore veneziano Nicola Falconi, gli architetti Dario Lugato di Venezia e Danilo Turato di Padova. Dopo più di venticinque pronunce è ora possibile avere una visione complessiva su ciò che pensa il Tribunale dell’inchiesta: i giudici del Riesame hanno sostanzialmente convalidato le tesi accusatorie della Procura, sia quelle che sono approdate alle contestazioni di corruzione sia quelle di illecito finanziamento pubblico ai partiti. Il Tribunale ha ritoccato le misure cautelari del giudice, spesso sostenendo che non essendo più in essere le condotte criminose, idonea a fronteggiare le esigenze cautelari può essere la misura degli arresti domiciliari piuttosto che il carcere. I giudici hanno poi annullato alcune ordinanze di custodia per indagati che sono marginali rispetto al filone principale dell’indagine. Intanto, più di un difensore avrebbe preso contatto con i tre pubblici ministeri che coordinano le indagini per trovare un accordo e arrivare a patteggiare la pena, seguendo l’esempio del sindaco in modo da uscire dall’inchiesta prima che la Procura chieda il rito immediato, saltando l’udienza preliminare, o decida il deposito degli atti prima di avanzare la richiesta di rinvio a giudizio. C’è Patrizio Cuccioletta, l’ex presidente del Magistrato alle acque, c’è l’imprenditore romano di «Condotte d’acqua» Stefano Tomarelli, ci sono Stefano Boscolo Bacheto e Gianfranco Boscolo Contadin, titolari il primo della «Cooperativa San Martino» dalla cui verifica fiscale tutto è partito, e il secondo della «Co. Ed. Mar», entrambi chioggiotti. Sono indagati che nei loro interrogatori davanti ai pubblici ministeri hanno sostanzialmente già ammesso le loro responsabilità e ora non vedono l’ora di uscire da questo incubo giudiziario. Poi, naturalmente, ci sono gli indagati non arrestati, Claudia Minutillo, Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati, i corruttori senza le dichiarazioni dei quali l’indagini non sarebbe arrivata fin qui. (g.c.)
Nordio: «L’impianto accusatorio è valido»
VENEZIA. «La pronuncia odierna del Tribunale del Riesame dimostra l’assoluta fondatezza dell’intero impianto accusatorio peraltro già avallato dalle precedenti decisioni. Anche il rigetto dell’istanza di patteggiamento del professor Orsoni si colloca in questa linea, consolidando sia la correttezza giuridica della formulazione del reato sia la gravità delle prove a carico dell’indagato». Lo afferma il Procuratore aggiunto Carlo Nordio, a nome della Procura di Venezia. «In ogni caso l’adesione a una richiesta di patteggiamento espressamente formulata dall’interessato nel contesto di una sostanziale ammissione di responsabilità – aggiunge Nordio – risponde al costante indirizzo di questo Ufficio che ha sempre considerato i parametri della quantificazione in termini pragmatici e ragionevoli». «Infine, le dichiarazioni odierne del professor Orsoni benché incoerenti con le documentate istanze dallo stesso avanzate, non possono essere oggetto di commento»
Reati a rischio prescrizione
L’ex magistrato Fojadelli: «Va riformata, indagini complesse, tempi più lunghi»
L’istituto giuridico non può diventare una resa della Giustizia Purtroppo i mezzi a disposizione dagli inquirenti sono gli stessi di molti anni fa
VENEZIA Nell’inchiesta veneziana i principali reati sono corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti. Generalmente vengono prescritti in un arco di tempo di sei anni, aumentabile in alcuni casi a sette anni e mezzo, con numerose eccezioni legate alla procedura e alla configurazione del reato. Gran parte delle accuse contenute nell’inchiesta Mose risalgono agli anni tra il 2005 e il 2010, ai tempi dunque del cosiddetto «sistema Galan». Scontato appare dunque l’esito dei processi che, dal primo grado di giudizio, debbono arrivare alla sentenza in giudicato entro i termini della prescrizione. Ciò vuol dire che larga parte dei reati contestati in queste settimane dai magistrati si estingueranno proprio a causa di questo istituto giuridico. Pensata quale strumento di garanzia per gli imputati – che hanno diritto a una giustizia dai tempi ragionevoli – la prescrizione è stata usata soprattutto negli anni come strumento per «salvarsi» dal processo, con legali estremamente abili dal punto di vista procedurale a scorrere il tempo usando tutti i diritti concessi alla difesa. Antonio Fojadelli, per lunghi anni Procuratore a Treviso e prima ancora a Vicenza e alla Direzione distrettuale antimafia (con Dalla Costa e Pavone seguì il processo alla banda Maniero), commenta il rischio della prescrizione e suggerisce di mettere mano a questo istituto. «La prescrizione, un tempo- spiega Fojadelli – era quasi un’onta per i magistrati che istruivano un processo, era motivo anche di richiamo. Successivamente, spesso, ci si è rassegnati a un uso della prescrizione legato allo smaltimento dei casi minori. Praticamente una resa della Giustizia ». Nell’inchiesta veneziana i principali reati sono corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti. In questi casi i termini di prescrizione sono mediamente di sei anni. Ma i fatti contestati risalgono soprattutto al periodo 2005-2010. Vicinissima è la prescrizione, perché i processi non potranno iniziare prima di un anno. Cos’è la prescrizione? «L’istituto è antichissimo e risponde a un principio di quiete sociale: dopo un certo tempo non vale la pena di perseguire determinati reati, perché lo sforzo non vale la candela. Naturalmente si tratta solo di alcuni reati, non quelli più gravi». La prescrizione è usata dagli avvocati come scappatoia dal processo. «Oggi la prescrizione va vista in relazione ai reati che si compiono, che hanno una natura di complessità molto più alta rispetto al passato e che richiedono dunque indagini approfondite, complesse e di più lunga durata di un tempo». La giustizia può ancora arrivare in tempo? «L’origine del problema sta nei mezzi che la Giustizia mette in campo per contrastare reati spesso difficilissimi da ricostruire. Noi invece abbiamo ancora i mezzi di molti anni fa. É dunque plausibile che si arrivi all’individuazione del reato con ritardo e che i processi rischino la prescrizione». Da dove cominciare dunque per riformare questo istituto? «Si potrebbe pensare a dei meccanismi per far decorrere la prescrizione non dalla data del reato ma dal momento in cui siha la prova del reato». Spesso il cittadino si sente beffato. «Vero, il cittadino onesto si sente defraudato, la prescrizione appare come una beffa rispetto all’onestà dei comportamenti. Per questo è necessario intervenire». (d.f.)
class action – Già 75 iscritti all’azione del Codacons in città
VENEZIA «Da Roma indicano come obiettivo minimo un centinaio di persone che è un risultato importante perché la procedura della class action è impegnativa. Ma siamo già ad un ottimo punto: numerose persone, almeno una settantina, stanno partecipando con la costituzione come parte offesa». Franco Conte del Codacons del Veneto conferma che c’è interesse in città per l’azione risarcitoria avviata dalla associazione a livello nazionale con la costituzione degli associati come parte offesa nel processo per le tangenti del Mose. «Un percorso complesso ma dai tempi più veloci rispetto all’azione risarcitoria in sede civile », ricorda Conte che poi annuncia una seconda azione: «Abbiamo chiesto alla Procura, con una istanza, di allontanare tutti gli indagati che ricoprono incarichi pubblici. Un provvedimento possibile per il giudice: allontanino tutti gli inquisiti con incarichi pubblici e che non si sono dimessi finora». Per partecipare alla costituzione come parte offesa, il Codacons invita i cittadini ad iscriversi all’associazione (al costo di 6,10 euro). L’atto di nomina sarà inviato alla mail del cittadino e va poi inviato alla Procura della Repubblica di Venezia. L’associazione interviene nel procedimento come «ente rappresentativo degli interessi dei cittadini». L’azione, spiegano dal Codacons, è quella di accertare la responsabilità degli indagati, e in caso di rinvio a giudizio «l’opportunità di costituirsi parte civile nel processo penale al fine di chiedere un risarcimento per i cittadini non inferiore a cinquemila euro ». Termine per aderire, fissato al 31 luglio. Tutte le informazioni su www.codacons.it.
No del giudice a Orsoni
Mose, patteggiamento respinto. L’ex sindaco a processo
le reazioni «Meglio così ora sapremo la verità»
I politici veneziani sorpresi dal “no” del giudice al patteggiamento di Orsoni. «Ma con il processo sapremo la verità».
«Pena troppo mite a Orsoni» No del Gup al patteggiamento
Vicinanza: la multa è cento volte inferiore al massimo e la detenzione inferiore al minimo
Il sindaco dimissionario: «Sono contento, potrò dimostrare la mia estraneità alle accuse»
VENEZIA – Il sindaco dimissionario di Venezia andrà a processo con tutti gli altri indagati dello scandalo Mose. Ieri, infatti, il giudice veneziano Massimo Vicinanza ha respinto la richiesta di patteggiamento a 4 mesi di reclusione e 15 mila euro di multa proposta dalla Procura e dalla difesa sulla base del loro accordo, ritenendo la pena «del tutto incongrua rispetto alla gravità dei fatti». Il magistrato scrive che tenendo conto «dell’atteggiamento processuale dell’indagato e del venir meno della carica che egli ricopriva quando è stata adottata la misura cautelare», non può non essere notato «che le condotte da lui tenute sono molto gravi». Secondo il giudice dell’udienza preliminare si tratta di condotte gravi «sia per l’entità del contributo illecito ricevuto, sia per la provenienza soggettiva e oggettiva del denaro, sia per l’inevitabile rischio per la corretta gestione della cosa pubblica che ha comportato l’aver ricevuto ingenti somme». Proprio questi aspetti hanno portato il magistrato veneziano a ritenere «del tutto incongruo» l’accordo proposto da Orsoni e dalla Procura valutando che l’insieme delle pene sia stato eccessivamente basso, visto che quella pecuniaria risulta essere «cento volte inferiore a quella massima irrogabile» e quella detentiva «inferiore di due mesi al minimo irrogabile, anche tenendo conto dell’entità del finanziamento ricevuto ». «L’esito dell’udienza odierna era prevedibile in relazione all’entità delle accuse svolte, al clamore che ne era seguito anche in relazione allo sproporzionato uso della misura cautelare » ha dichiarato Giorgio Orsoni, che non era presente all’udienza, dopo aver saputo l’esito. «La scelta di accettare il patteggiamento proposto dalla Procura», ha aggiunto l’ex sindaco, «era stata dettata dalla necessità di tutelare l’Amministrazione, ben consapevole della assoluta infondatezza dei fatti addebitati e della insussistenza della fattispecie di reato ipotizzato». «Venuta meno tale esigenza, ho auspicato la soluzione odierna che mi consente finalmente di difendermi appieno nell’ambito del processo. Prerogative fino ad oggi sempre negatemi», ha concluso l’ex primo cittadino. I suoi difensori, gli avvocati Daniele Grasso e Mariagrazia Romeo, hanno spiegato che le prossime mosse verranno decise assieme al cliente, comunque «le condizioni per affrontare il processo ci sono tutte» hanno dichiarato. In aula avrebbero in qualche modo preso le distanze dall’accordo che pur avevano firmato con i rappresentanti dell’accusa, battendosi perché il giudice dichiarasse subito il proscioglimento sulla base dell’errata qualificazione giuridica dei fatti. Per gli avvocati Grasso e Romeo, infatti, Orsoni non avrebbe commesso il reato di finanziamento illecito di un partito, non appartenendo lui ad alcun organizzazione politica ed essendo stato candidato di una coalizione. I pubblici ministeri Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, davanti al magistrato, hanno sostenuto la bontà dell’accordo raggiunto affermando che sicuramente è meglio una pena certa, anche se minima, piuttosto che alla fine del processo di primo grado una pena maggiore, che però rischia la prescrizione davanti alla Corte d’appello visto il tempo trascorso dai fatti (la campagna elettorale è quella del 2010). Il giudice Vicinanza, comunque, si è espresso anche sulla qualificazione giuridica dei fatti, ritenendo corretta così come è stata contestata dalla Procura lagunare, che ha accusato il sindaco di aver incassato più di 500 mila euro dal Consorzio Venezia Nuova attraverso Giovanni Mazzacurati ed altri.
Giorgio Cecchetti
«Meglio fare il processo così sapremo la verità»
Politici veneziani in parte sorpresi per il “no” del giudice al patteggiamento.
Centrosinistra ancora sotto choc per l’arresto di Orsoni, prova a ripartire
MICHELE ZUIN – La politica non c’entra, siamo di fronte a un reato del sindaco
SEBASTIANO BONZIO – Rifondazione sarà parte civile nelle aule di tribunale
BORASO – La giustizia faccia il suo corso Pensiamo alla città
GIANFRANCO BETTIN – Guardiamo al futuro, basta con questi finanziamenti
VENEZIA – La notizia che, per Giorgio Orsoni, si chiude la porta del patteggiamento e si apre quella del processo ha sorpreso ieri il mondo politico veneziano, fortemente scosso dalla tangentopoli del Mose che ha messo in crisi sia il centrosinistra che il centrodestra. «Le questioni processuali avranno il loro corso e l’ex sindaco potrà spiegare tutto, mi auguro nel miglior modo», dice Marco Stradiotto segretario provinciale del Partito Democratico. Ma, dice Stradiotto, la lezione per la politica è evidente. «Quel tipo di finanziamenti , anche se leciti e legittimi, non sono opportuni e chi fa attività politica è tempo che investa risorse proprie per la campagna elettorale evitando di operare, poi, senza serenità o con qualcuno che lo tira per la giacchetta. Ne ho parlato anche con la Serracchiani: la cosa migliore è mettere, come ha fatto lei, dei tetti alle donazioni, fissandole in massimo 5 mila euro». Poi, continua Stradiotto, «è bene ribadire che al di là della vicenda personale di Orsoni, il Comune di Venezia non è stato chiamato in causa per alcun atto specifico. Dagli atti sul Mose non era coinvolto». Resta il fatto che quel finanziamento del Consorzio ad Orsoni è apparso, dice il segretario Pd, «come un investimento per non avere contro qualcuno» e la accettazione del patteggiamento a questo punto suona come un atto non compreso. Stradiotto ad Orsoni augura di uscire nel «miglior modo possibile dal processo, ovvero innocente» ma spiega che l’interrogativo di fondo resta: «Perché chiedere il patteggiamento? Il Comune poteva andare avanti lo stesso». Stessa domanda che si pone ancora l’ex vicesindaco Sandro Simionato, anche lui Pd. «Capisco che il primo obiettivo era tornare libero dagli arresti domiciliari. Umanamente è un atteggiamento che comprendo. Ma resta questa una vicenda per molti aspetti strana. Non sono un esperto giurista ma Orsoni poteva benissimo difendersi anche prima». Sul fronte politico, dice Simionato, «la vicenda è chiusa. E lo dico senza meditare vendette ma con il dispiacere del come si è chiusa. A mio avviso il Pd ha fatto bene a fare quel che ha fatto. Ora dobbiamo dimostrare che esiste una politica sana e che il Comune non c’entra nulla in questa vicenda, come ripetiamo da settimane». Da Rifondazione Comunista che si vuole costituire parte civile nei processi, Sebastiano Bonzio dice: «Bene che non ci sia patteggiamento così ci potrà essere un processo». «La vicenda Orsoni è oramai puramente giudiziaria. Gli auguro di riabilitare la sua posizione e uscire da questa vicenda. Politicamente abbiamo già messo la parola fine a questa stagione che spero abbia insegnato molto a molti», avverte il giovane Udc Simone Venturini. «Orsoni io l’ho affrontato su molte questioni quando era nel pieno dei poteri. Ora trovo vile chi infierisce su di lui in un momento drammatico mentre fino a ieri lo salutava con deferenza». Da Taranto, Gianfranco Bettin, ex assessore all’Ambiente, commenta: «Ho sempre auspicato il processo come luogo dove Orsoni potrà smentire Mazzacurati e magari permettere di arrivare ai veri percettori di quei fondi. Ora da privato cittadino è libero di agire come crede. Ma siamo arrivati a questa situazione per una via decisamente tortuosa e difficile. Politicamente, c’è ben poco da dire: lui ha detto che è entrato in politica forzato, che ha avuto molte difficoltà e ora abbandona la vita politica. Per noi è decisivo un punto per il futuro: certi finanziamenti, anche se leciti, non sono accettabili ». Concetto dilatato da Beppe Caccia (In Comune): «Quando sono emersi quei finanziamenti per noi la maggioranza era già una esperienza finita e lo abbiamo detto subito. Al di là delle responsabilità che Orsoni ora potrà chiarire con un processo difendendosi e affrontando chi lo accusa, è questo è un bene, siamo soddisfatti che in città si è rotto il rapporto con il sistema affaristico rappresentato dal Consorzio. Ma anche altri dovrebbero avere il nostro coraggio. Noi, come maggioranza, abbiamo sciolto il consiglio comunale. Non altri. E in Regione cosa fanno? Zaia cosa aspetta a dimettersi? Poco importa che non sia coinvolto, ma se lui non ha visto nulla in tutti questi anni è un “mona”. E poi i vertici di Porto e aeroporto perché non si dimettono? Il mondo va al contrario: l’unico ente, senza alcun coinvolgimento, è il Comune ed è l’unica istituzione della città che non esiste più». Dal centrodestra parole pacate ma anche richieste di verità. «Non ho alcun commento da fare. Quelle di Orsoni ora sono solo questioni giudiziarie. La politica? Non c’entra nulla», dice l’ex capogruppo di Forza Italia in Comune, Michele Zuin. E Renato Boraso aggiunge: «La giustizia faccia il suo corso ed emerga tutta la verità. Questo è importante per Venezia che ha subito un forte discredito. Punti oscuri che il processo dovrà chiarire è dove sono finiti quei soldi».
Mitia Chiarin