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TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

AI DOMICILIARI – Meneguzzo, il manager travolto dallo scandalo

Determinata e di poche parole, Paola Tonini per quattro anni ha indagato sul Consorzio Venezia Nuova e gli “amici”.

È ancora ai domiciliari nella sua casa di Vicenza, il finanziere Roberto Meneguzzo, 58 anni, ex amministratore della Palladio Finanziaria, considerata il salotto buono dell’economia nordestina.
Le dimissioni da tutte le cariche societarie le ha date dopo l’arresto del 4 giugno. Secondo l’accusa negli uffici di Milano della Palladio sarebbe stata consegnata la mazzetta da mezzo milione di euro a Marco Milanese, allora consigliere politico del ministro dell’Economia Tremonti.
Il fascicolo è stato trasmesso alla Procura meneghina per competenza, che si occupa anche della posizione del generale in pensione delle Fiamme gialle Emilio Spaziante.

 

I FASCICOLI RIUNITI – Dai “sassi d’oro” alle cartiere. E le due inchieste diventano una.

Due inchieste che diventano una. Paola Tonini arriva al Mose partendo da Chioggia e da una verifica fiscale alla cooperativa San Martino. Stefano Ancilotto invece arriva al Mose partendo da una inchiesta sulle mazzette che viaggiano come missili dentro gli uffici della Provincia di Venezia. Come in una matassa del malaffare, qualsiasi filo si tiri, da qualsiasi parte, si arriva sempre allo stesso punto, alla corruzione sistematica. Con l’inchiesta di Paola Tonini si scopre il sistema delle false fatturazioni delle cooperative, che versavano il 50 per cento dell’importo – al Consorzio Venezia Nuova. Lì, a Chioggia, si utilizzava il trucco dei “sassi”, i “murazzi” utilizzati per transennare le bocche di porto. Il “sasso”, si sa, è difficile da quantificare e da pesare e ci sono punti del fondale dove ne bastano due e tu dici di averne “affogati” quattro e chi s’è visto s’è visto. E, comunque, quando non bari sul peso e sul numero, bari sulla provenienza. Invece di comperarli direttamente dai produttori, in Croazia, gli fai fare il giro del globo, facendoli passare per il Canada. In questo modo quel che costa 1 costerà alla fine 4, al contribuente che per il Mose di Venezia ha finora staccato un assegno pari a 5 miliardi di euro. Ma i sassi a un certo punto finiscono e allora bisogna inventare sistemi nuovi per alimentare la macchina della corruzione. Ecco le “cartiere” e cioè le società che sono pagate esclusivamente per produrre fatture false cioè per lavori mai eseguiti. Se le cooperative di Chioggia lavoravano sul serio e non si limitavano a produrre fatture false, le cartiere come la Bmc di Colombelli, con sede a San Marino, producono invece esclusivamente fatture false. Ancilotto arriva alle cartiere dalla verifica fiscale alla Mantovani di Baita e da Baita al Mose. Nel frattempo anche Paola Tonini è arrivata alla fine del percorso che è iniziato a Chioggia. Le due inchieste vengono riunite e scoppia lo scandalo del Mose.

 

La toga di ferro che ha incastrato i signori del Mose

Alle 4 del mattino del 4 giugno è nella sua casa di Venezia in centro storico. Ha chiuso la porta dello studio per non svegliare i figli, il grande di 15 anni, e il piccolo di 9. Il cellulare è bollente. I finanzieri l’aggiornano in diretta sul blitz scattato, cronometro alla mano, in mezza Italia. Il primo dei 35 nomi indicati nella lista delle custodie cautelari da eseguire su disposizione del gip Alberto Scaramuzza. È la Retata storica, quella delle tangenti del Mose, quella che porta in carcere giudici contabili, magistrati alle acque, politici, funzionari, imprenditori, ufficiali della polizia e delle Fiamme gialle. La guerra al malaffare scatta nel settembre 2009 e culmina, per lei e i suoi collaboratori, con l’arresto il 12 luglio del 2013 di Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova. Tappa intermedia del percorso che si compirà quasi dodici mesi dopo, come quella del febbraio 2013, quando il collega Stefano Ancilotto, metterà le manette ai polsi di Piergiorgio Baita, patron della Mantovani, e di Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan al tempo in cui era governatore del Veneto. I due fascicoli erano stati riuniti da circa un anno. E a loro si era affiancato anche il pm Stefano Buccini.
Paola Tonini, in procura a Venezia, era arrivata a 26 anni: la laurea in giurisprudenza a Bologna, la sua città, il concorso in magistratura, l’assegnazione a Venezia quando gli uffici erano ospitati ancora alle Procuratie in piazza San Marco e con la toga c’era solo un’altra donna, Rita Ugolini. Un modello per lei. Fu in quel periodo che, in un ambiente coniugato completamente al maschile, indossò la corazza che ancora oggi la fa descrivere sul fronte caratteriale come ruvida, distaccata, addirittura burbera, di poche parole. Determinata sul fronte professionale. Ad indicarla con questo aggettivo è anche Mazzacurati quando viene informato che la verifica fiscale nella sede del Consorzio a Santo Stefano in realtà nasconde un’inchiesta penale, condotta da una pm. È il giugno 2010. E le intercettazioni telefoniche e ambientale durano da mesi: nessuno sa delle indagini, tranne chi le conduce. Ergo ci deve essere una talpa, un traditore. Si scoprirà poi che a passare le informazioni ai vertici del Consorzio sarebbe stato il generale Emilio Spaziante, al tempo comandante interregionale dell’Italia centrale e andato in pensione come vice comandante generale del Corpo: una coltellata. Alla schiena. «Il periodo più critico, quando c’è stato il rischio che tutto naufragasse. Quando si è cominciato a dubitare anche dei più stretti collaboratori» pensa preparandosi il caffè d’orzo per la colazione di una giornata iniziata nel cuore delle notte e destinata a durare mesi e mesi.
No, lei non corre. Non è una sportiva. Si rilassa piuttosto leggendo un libro, o passeggiando, per le calli meno battute dai turisti. Schiva. «Già è vero». La scelta di non apparire sui giornali l’ha fatta a inizio carriera. Alla ribalta della cronaca preferisce la discrezione delle aule di tribunale, la sfida con la difesa, a conclusione di un’istruttoria meticolosa, lunga, certosina. Lo sa, eccome. Con gli arresti si termina una parte del compito, premessa a quello per certi versi più oneroso del confronto con i legali degli indagati davanti al giudice, verso il verdetto. Per questo da sempre la sua strategia è quella di non risparmiarsi e sgobbare sulle “carte” per “blindare” il più possibile dal punto di vista processuale i riscontri raccolti. In questo caso dai finanzieri. Ormai quelli del 1. Gruppo Tutela Entrate li chiama “i suoi ragazzi”. E poi c’è il maresciallo di polizia giudiziaria che ha in segreteria: un punto di riferimento. A dare ragione al suo lavoro e a quello dei colleghi sostituti più giovani, allo stato attuale, l’esito del Riesame che ha confermato nel complesso le misure adottate. L’incontro decisivo? Quello con il colonnello Renzo Nisi a inizio autunno 2009: «Dottoressa, qui c’è qualcosa di grosso. Tutto questo nero porta al Mose e al Consorzio Venezia Nuova». L’ufficiale le aveva esposto i dubbi, ovvero le certezze, su quanto era emerso dagli accertamenti fatti alla Cooperativa San Martino impegnata nella realizzazione delle dighe mobili a Chioggia: la contabilità parallela che portava al Cvn, la notizia di reato al termine di tutte le attività in quel 23 settembre 2009 che poi diventa fascicolo assegnato a lei.
Tomarelli, Savioli, Neri, Sutto, Meneguzzo, Milanese, Sutto, Boscolo, Cuccioletta, Tiozzo, Piva, Giuseppone. Mosche nella tela del ragno Mazzacurati. È della Tonini la definizione di “grande burattinaio”. Se qualcuno glielo chiedesse non avrebbe esitazioni nel rispondere che «èil vero regista del “sistema Mose”. Il monarca indiscusso. Èlui l’ideatore insieme a Neri del meccanismo della sovraffatturazione per la creazione del “denaro fantasma ” con cui pagare le mazzette. Èlui che raccoglie il denaro e lo consegna personalmente al corrotto di turno. Anche Baita si adegua e obbedisce». Un uomo d’altri tempi. Andreotti? Sì il paragone potrebbe reggere. Che soddisfazione, durante i vari interrogatori, nell’estate 2013, ascoltare dalla voce di Mazzacurati la trama che già conoscevano, scritta nelle centinaia di pagine dell’informativa delle Fiamme gialle.

11-Continua (Le puntate precedenti sono state pubblicate il 10, 15, 17 23, 24, 30, 31 agosto, il 6, 7 e 13 settembre)

 

I lavori per il Mose: parte dell’inchiesta è partita dai sassi utilizzati per le scogliere

I VERBALI «O paghi o non lavori» Gli imprenditori accusano

Tutti raccontano la stessa storia. Anche Piergiorgio Baita: «Prima di darci l’assenso al subentro nella quota Impregilo, l’ing. Mazzacurati, Presidente e direttore del Consorzio Venezia Nuova, mi ha chiamato e mi ha detto se, al di là dei documenti del subentro, ero stato edotto di alcune regole che vigevano all’interno del Consorzio Venezia Nuova, cioè impegni chiamiamoli non trasferibili in atti statutari». Mazzette, insomma. E se non paghi, non lavori.
Lo spiega bene l’ing. Luigi Rizzo il quale in realtà con il Mose non c’entra e proprio per questo la sua testimonianza è importante dal momento che ci dà la prova provata di come funziona il sistema Venezia di cui il sistema Mose fa parte. «Mi rendo conto che ho sbagliato a versare al Brentan Lino delle somme che mi venivano chieste illecitamente ma purtroppo voglio precisare che si tratta di richieste alle quali un privato non può sottrarsi se vuole lavorare con le pubbliche amministrazioni o con le società pubbliche». Lino Brentan è l’ex amministratore delegato dell’autostrada Venezia-Padova in quota Partito democratico, ma sostenuto anche da Baita.
Anche Gianfranco Boscolo Contadin, l’imprenditore di Chioggia che lavorava per il Consorzio, pur con un eloquio non limpidissimo, è però chiarissimo: «Mazzacurati ci dava dei lavori. Per lavorare ci voleva dei soldi… abbiamo fatto delle fatture che poi restituivo circa il 50 per cento … Lui mi ha detto: pensa a portarli che il resto mi arrangio io e siccome era un po’ difficile andarlo a contrastare, perché avevo bisogno di lavorare e come facevo se non eseguivo?» … «o lo fai o… e c’era difficoltà per lavorare e io intendevo lavorare perché avevo bisogno di lavorare».
Se poi andassimo indietro nel tempo e tornassimo alle prime indagini che hanno portato in galera mezzo Ufficio tecnico della Provincia di Venezia, troveremmo esattamente le stesse frasi: «Mi hanno fatto capire che se non pagavo non lavoravo». Insomma il refrain è sempre lo stesso, a Venezia, che si tratti di Mose o di opere pubbliche come scuole o ospedali, se vuoi lavorare devi pagare. Ecco perché il Tribunale del riesame di Venezia, presieduto da Angelo Risi, ha puntato, per alcuni imputati di minor rilievo, sulla concussione invece che sulla corruzione. Significa che il Riesame crede alla versione degli imprenditori costretti a pagare il Consorzio Venezia Nuova per poter lavorare. La Procura invece, soprattutto per la parte “chioggiotta” dell’inchiesta, aveva messo in galera tutti accusandoli di corruzione. La differenza non è di poco conto dal momento che il cambio di reato, da corruzione a concussione, non solo modifica le pene, ma ritocca l’impianto accusatorio e mette nei guai due dei tre testi-indagati principali e cioè Mazzacurati e Baita. E i “concussi”, intanto, e cioè coloro che, secondo il Riesame, erano obbligati a pagare, sono diventati un nutrito gruppetto. Si è iniziato con il chioggiotto Stefano Boscolo Bacheto – difeso dall’avv. Antonio Franchini – e si è arrivati all’imprenditore ed ex presidente dell’Ente Gondola, Nicola Falconi, del Lido di Venezia, accusato di corruzione e finanziamento illecito. E poi si è aggiunto l’altro chioggiotto, Boscolo Contadin – avv. Giuseppe Sarti – Tre concussi. Tre imputati che hanno convinto il Tribunale del riesame di essere vittime del sistema Venezia.

 

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