Segui @OpzioneZero Gli aggiornamenti principali anche su Facebook e Twitter. Clicca su "Mi piace" o "Segui".

Questo sito utilizza cookie di profilazione, propri o di terze parti per rendere migliore l'esperienza d'uso degli utenti. Continuando la navigazione acconsenti all'uso dei cookie. Per maggiori informazioni cliccare qui



Sostieni la battaglia contro l'inceneritore di Fusina, contribuisci alle spese legali per il ricorso al Consiglio di Stato. Versamento su cc intestato a Opzione Zero IBAN IT12C0501812101000017280280 causale "Sottoscrizione per ricorso Consiglio di Stato contro inceneritore Fusina" Per maggiori informazioni cliccare qui

La vera storia dell’acquisto della tenuta Frassineto: 400 ettari di pascoli, boschi e rustici che l’ex ministro liquida in tre righe nel memoriale ai giudici per giustificare i suoi beni

VENEZIA – Quattrocento ettari sull’appennino tosco-emiliano, a Casola Valsenio. L’azienda agricola si chiama Frassineto ed era di proprietà di don Pierino Gelmini, il fondatore delle comunità Incontro. Giancarlo Galan è passato di là, se n’è innamorato e ha deciso di comprarla. Si ignora se sia stato lui a proporsi o don Gelmini a offrirsi. Si sa invece come è avvenuto l’acquisto, anche se per scoprirlo bisogna destreggiarsi tra i passaggi societari orchestrati dall’ex presidente del Veneto e dai suoi cari. Nel memoriale consegnato ai giudici il 25 luglio, quando ormai era in carcere, Galan ha dedicato a Frassineto tre righe esatte: «Si tratta di territorio prevalentemente boschivo acquistato con una quota pari al 70% nel 2008 con un mutuo presso Veneto Banca a copertura dell’intero importo». Nient’altro. Sembra che parli di un boschetto dietro casa, sui Colli Euganei. La tenuta Frassineto è leggermente più estesa, a cavallo di tre province: Firenze, Ravenna e Bologna. Il mutuo con la banca ci sarà anche stato, ma nel 2008 l’assegno di Veneto Banca copriva solo 75.000 euro dei 526.070 della cessione, corrispondenti a metà del valore di Frassineto. L’acquirente si impegnava a pagare la cifra mancante, cioè quasi tutto, entro il 20 novembre 2013. L’ex presidente tace altri particolari. Per rientrare nel beneficio fiscale di cui godono gli agricoltori, aveva intestato la proprietà a un prestanome. Pudore comprensibile, lo fanno in tanti. Con buoni motivi, visto che nel suo caso, al posto di circa 156.000 euro, è riuscito a pagarne solo 13.000, con un risparmio di 143.000 €. Il prestanome di Galan è una signora che si chiama Monica Merotto. È la moglie dell’avvocato Niccolò Ghedini, che risulta iscritta all’Inps come coltivatrice diretta dal 17 settembre 2008. Appena un mese prima di dare il via alle operazioni. Era tutto orchestrato con gli amici. E chi più amico di Ghedini, che lo sta difendendo anche in questo momento? Come persona fisica Galan entra nella proprietà solo nel 2013. All’inizio è presente attraverso Margherita srl, la società che condivide con la moglie Sandra Persegato. Mandavano avanti le signore. Le fasi della compravendita sembrano ideate da Azzeccagarbugli. Si comincia il 20 ottobre 2008: viene concordata con un rappresentante legale di don Gelmini la costituzione della “Società agricola Frassineto sas di Merotto Monica e C”, con sede a Padova in Passaggio Corner Piscopia 10. Lo stesso indirizzo dello studio di Paolo Venuti, il commercialista di Galan. Incidentalmente anche Venuti è stato arrestato il 4 giugno. È ancora in carcere. La “Frassineto sas di Merotto Monica” nasce con 100.000 euro di capitale sociale: 98.000 sono la quota riconosciuta a don Gelmini, 1.000 della Merotto, altri 1.000 di Margherita srl. Il 6 novembre la società passa dal registro ordinario delle imprese alla sezione speciale: don Gelmini rinuncia alla titolarità dell’impresa agricola, trasferendola alla Merotto anche se ha solo l’1% delle quote. Il 20 novembre 2008, don Gelmini cede il 48% a Margherita srl che passa al 49%; la Monica resta all’1%; il valore della cessione è fissato nei già citati 526.070 euro; Monica Merotto e Margherita srl diventano soci accomandatari, cioè i veri gestori; don Gelmini con il 50% è socio accomandante, cioè alle dipendenze. Curiosità: di solito è il notaio che redige la compravendita. Per Frassineto invece i nostri arrivano con gli atti già fatti. Forse è per questo che, con tutti i notai di Padova, vanno a farsi autenticare le scritture private a Stanghella, da un giovane notaio, Emanuela Di Maggio, che ha appena vinto una sede disagiata. Come minimo risparmiano sulle tariffe. Il 22 dicembre 2008 entra nella società un altro amico di famiglia: è Mauro Mainardi, consigliere regionale tuttora in carica, del Pdl o quel che resta. Mainardi è «l’uomo di Dubai», nel 2008 aveva un’intesa di ferro con Galan e una d’acciaio con Ghedini e stava ancora trainando l’investimento immobiliare nel Golfo. Un’allegra compagnia partiva dal Veneto, guidata dal presidente, infoltita di politici e di imprenditori, per quello che doveva essere un affarone. Ma al ritorno dall’ultimo viaggio i musi erano lunghi. Secondo una vulgata mai smentita, i primi investimenti avevano riempito il portafoglio, poi era scoppiata la bolla speculativa ed è arrivata la stangata. Sono rimasti scottati in tanti, ma qualcuno si è salvato. Oggi a Dubai c’è un palazzone lasciato a metà, in pratica l’investimento è andato perduto. Può succedere di perdere i soldi, è doloroso ma non è un reato. Certo che se il tuo socio si salva e tu no, mastichi più amaro. Mainardi entra in Frassineto sas perché don Gelmini vende anche il 50% che gli resta. Adriafin srl, la società di Mainardi, rileva il 20% pagandolo 30.000 euro; il 21% va a Margherita srl per altri 30.000 euro; il 9% alla Merotto per 15.000. Ma il totale fa 75.000 euro, cifra stranissima. L’altra metà della proprietà era stata pagata più di mezzo milione: la differenza balza all’occhio, siamo sopra 450.000 euro. Per giunta il venditore si dichiara soddisfatto. Non si spiega. Tre mesi dopo, il 24 marzo 2009, chi aveva dichiarato di aver incassato tutto si ricorda che il prezzo è diverso. Viene fatto un atto di rettifica e gli importi cambiano in modo rilevante: alla fine le quote saranno pagate 230.000 euro da Margherita srl, 98.000 da Monica Merotto e 219.000 da Adriafin. La comunità Incontro è fuori del tutto, ma i nostri non hanno ancora finito le transazioni tra di loro. Il 27 maggio 2009 Sandra Persegato persona fisica acquista l’1% da Margherita srl, cioè da se stessa, per 10.960 euro. L’artificio le serve perché nel frattempo è diventata imprenditrice agricola e non ha più bisogno della Merotto come prestanome. La signora Ghedini viene retrocessa a socio accomandante, come Mainardi. La società diventa “Frassineto sas di Margherita srl e C”. Tutte scritture private autenticate dal notaio di Stanghella. Il 14 novembre 2011 altro giro di valzer. Esce la signora Ghedini, esce Mauro Mainardi ed entra (chi si rivede) Tiziano Zigiotto, un amico per la pelle di Galan. Zigiotto lavorava in Publitalia con Giancarlo, l’ha seguito in Forza Italia, alle regionali del 1995 è stato inserito nel listino bloccato del presidente (elezione automatica in caso di vittoria senza essere votati) ed è diventato consigliere regionale. Bis nel 2000, tris nel 2005. Zigiotto si è fatto15 anni in Regione trasportato in carrozza da Galan. Lui e qualche altro. Oggi il listino bloccato è stato abolito, sempre troppo tardi. L’uscita dalla scena regionale di Giancarlo nel 2010 coincide con quella di Zigiotto. Lo ritroviamo presidente dell’Inea, l’istituto nazionale di economia agraria, nominato da Galan il 23 maggio 2011, il giorno prima dimettersi da “ministro delle mozzarelle”, come ironizzava quando c’era Luca Zaia. Pazienza se Zigiotto non aveva i titoli richiesti, era un premio fedeltà: stipendio allora di 65.000 euro più i gettoni di presenza, in caso non fosse bastata la buonuscita regionale di 100.000 euro, peraltro integrata dal vitalizio. Dall’Inea lo butta fuori il ministro Nunzia Di Girolamo, che commissaria l’istituto a gennaio 2014, anche lei poco prima di dimettersi. Contrappasso perfetto. Grandi meraviglie del Pd, in precedenza silenzioso, chissà perché. Anche Zigiotto era nell’avventura di Dubai. In Frassineto Galan lo chiama perché escono sia Mainardi che Monica Merotto. Zigiotto subentra con la società agricola Monterotondo, come socio accomandante, rilevando il 10% di Monica Merotto per 75.000 euro e il 20% di Mainardi per 219.196. A Mainardi dà solo 30.000 euro, perché i rimanenti 189.196 sono il debito ancora da pagare a don Gelmini, buonanima, che Zigiotto si accolla. Questa combriccola di amici che gira l’Italia mescolando politica e affari, ha uno stile inconfondibile. Un esempio? Nella tenuta di Frassineto, uno dei contadini si era visto assegnare in passato un fabbricato in proprietà, sul quale oggi vive il figlio, che lo sta ristrutturando. I nuovi titolari fanno subito vedere di che pasta sono fatti: litigano con il figlio del contadino perché il pozzo sconfina per un paio di metri nella proprietà dell’azienda. Quando si possiede una tenuta dieci volte più estesa dello Stato del Vaticano, la pignoleria diventa una questione di status. Comincia un lavoro ai fianchi del disgraziato: l’obiettivo è ricostruire l’integrità di Frassineto strappandogli il fazzoletto di terra, altrimenti lo portano in tribunale. L’ultimo tentativo di farlo capitolare risale allo scorso maggio. Zigiotto si presenta con un avvocato, spiegando all’infelice che gli conviene vendere se non vuole mangiarsi tutto in spese legali. La discussione va avanti per un po’. In casa c’è una terza persona che assiste, senza spiaccicare parola. Ad un certo punto Zigiotto lo interpella: «Scusi lei chi è?». «Sono un invitato a cena», risponde quello, «sto aspettando che ve ne andiate, perché siete anche un po’ noiosi». Zigiotto fiuta il vento infido, gira i tacchi e se ne va. Ha ragione. Questo signore è un ex generale della Guardia di Finanza in pensione, che si è ritirato sull’Appennino. L’uomo che al tempo del sequestro Soffiantini coordinò le indagini sul generale dei carabinieri Francesco Delfino. Non uno qualunque. Quando si dice la sfortuna. Ma fino al 4 giugno i nostri non temevano l’opinione pubblica. Potevano ingaggiare un muratore per ristrutturare i fabbricati di Frassineto e rinviare alle calende greche i pagamenti. Il muratore telefona per sollecitare, risponde la Sandra intimandogli di non disturbare perché sono in vacanza in barca. Figurarsi la replica del muratore. La storia gira in paese, con il commento che più ricchi sono, più fatica fanno a tirar fuori i soldi. Cosa che non stupisce, perché vale sotto tutte le latitudini. Ad ogni buon conto Paolo Venuti può certificare che la pendenza, benché in ritardo, è stata liquidata.

Renzo Mazzaro

 

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

IL CASO – La Procura sommersa dai certificati medici

Nel mirino anche un generale e un vicequestore: «Passavano informazioni»

Il pm Ancilotto: «Un processo contro un malavitoso è più facile di questo»

Mai visti tanti certificati medici. E perizie psichiatriche e cardiologiche, ortopediche e chirurgiche. La Procura di Venezia è stata sommersa da tonnellate di referti, da centinaia di pagine di indagini tossicologiche, di analisi di ogni liquido contenuto nel corpo umano. Del resto par di capire che in alcuni casi l’invocazione delle condizioni di salute “incompatibli” con la carcerazione appare come la via d’uscita più rapida – se non l’unica – dal carcere.
Del resto l’inchiesta dura da più di quattro anni e in quattro anni la Procura ha raccolto tonnellate di materiale, quanto basta per lunghe carcerazioni preventive.

 

IL SISTEMA MOSE

Baita: Mazzacurati mi disse come si doveva fare

All’inizio c’è solo Claudia Minutillo. Poi arriva Piergiorgio Baita. Poi vien giù il mondo. Perchè Baita racconta per filo e per segno il Mose delle mazzette. «Cominciamo dal 2002 – attacca Baita, interrogato da Stefano Ancilotto – anno nel quale la Mantovani compie un salto di dimensioni e anche di collocazione di mercato».
Nel 2002 la Mantovani entra a far parte del Consorzio Venezia Nuova acquisendo le quote di Impregilo. «Prima di darci l’assenso al subentro nella quota Impregilo l’ing. Mazzacurati, Presidente e direttore del Consorzio Venezia Nuova, mi ha convocato… e mi ha detto se, al di là dei documenti del subentro, ero stato edotto di alcune regole che vigevano all’interno del Consorzio Venezia Nuova, cioè impegni chiamiamoli non trasferibili in atti statutari». Ecco, i lord inglesi li chiamano “impegni non trasferibili in atti statutari”, in linguaggio da suburra sarebbero le mazzette. Dunque, grazie a Baita, sappiamo che è dal 2002 che in laguna va alla grande il sistema messo in piedi da Mazzacurati e perfezionato da Piergiorgio Baita. Il principio è che si paga tutti. Ci si compra le anime nere di chi accetta di essere corrotto e si danno soldi anche alle anime belle, quelle che fanno finta di essere contro il Mose. Soldi alla destra e soldi alla sinistra, rispettando le quote e cioè le percentuali. Le coop rosse valgono per il 7 per cento dentro il Consorzio? Pagheranno l’equivalente del 7 per cento in mazzette. E le pagheranno al partito democratico. Le grandi aziende come la Mantovani valgono il 30 per cento? E allora pagheranno mazzette milionarie. A chi? Ai politici di destra. E se si tratta di corrompere ministri e sottosegretari, si comparsi giudici e magistrati alle acque? Ognuno darà per la sua quota parte e Mazzacurati in persona si occuperà della distribuzione.

 

Così gli indagati spiavano le mosse dei pm di Venezia

I vertici del Consorzio Venezia Nuova e l’amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, non facevano mistero nelle telefonate e nelle intercettazioni ambientali della loro capacità di “sapere” che cosa bolliva in pentola in Procura a Venezia e i magistrati un po’ alla volta si erano fatti un’idea precisa, tant’è che la mattina del 4 giugno 2014 le manette scattano anche ai polsi proprio del generale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, mentre un anno prima era stato arrestato il vicequestore di Bologna, Giovanni Preziosa, perchè era entrato nel database delle forze dell’ordine senza autorizzazione ed aveva passato le informazioni a Baita. Racconterà Mirco Voltazza, un ragioniere padovano che si improvvisa spia, di aver stipulato un contratto con la Mantovani da 1 milione e 400 mila euro per organizzare un servizio che doveva servire “ad evitare aggressioni da parte delle forze dell’ordine e della magistratura”. Voltazza, dunque, assicura di essere in grado di prevenire – o di “curare” – verifiche fiscali e inchieste.
Commenta Nicolò Buson, il cassiere-ragioniere della Mantovani: «Io, se devo essere onesto, una cazzata del genere l’avevo sentita sparare dal buon Voltazza e gli ho detto che quello era tutto scemo, che una cosa del genere non era un contratto che era possibile scrivere, insomma».
Ma che ci fosse al lavoro una vera e propria macchina dello spionaggio contro l’inchiesta, i pm del Mose, Stefano Buccini, Stefano Ancilotto e Paola Tonini, l’avrebbero scoperto solo dopo. L’avrebbero saputo in un secondo momento che gli indagati come Baita riuscivano ad avere i verbali di interrogatorio, quelli che restano chiusi nell’ufficio del pm, quelli che non ha nemmeno l’avvocato difensore. E anche Mazzacurati in una intercettazione ambientale diceva che sapeva perfettamente che lo stavano intercettando. «Anche una volta che sono andato a parlare con Gianni Letta, mi hanno beccato».
E che dire di Claudia Minutillo? L’ex segretaria di Galan, quando aveva iniziato a parlare con i pm, aveva raccontato a verbale di essere stata avvertita da Voltazza e da Baita che aveva una “cimice” in auto. Lei aveva fatto bonificare la macchina e niente. «Impossibile. Cerca meglio. E’ nell’alloggiamento della luce, la lucina che illumina l’abitacolo». Nuova ricerca e nuovo niente. «Ascoltami, c’è. Non la trovano perché è una cimice silente. Fai smontare il pezzo della luce e poi lo fai rimettere a posto, ma dev’essere un lavoro che nessuno se ne accorge, mi raccomando».
Era vero. La cimice c’era. Voltazza aveva ragione. Si trattava di una microspia “silente” e cioè che non emette segnali e quindi non viene individuata dalle apparecchiature di “bonifica”. La cimice “silente” registra tutto e invia la registrazione, chessò?, alle 3 del mattino, quando tutti dormono e nessuno è pronto ad intercettare il segnale. Quindi, se la si cerca, non la si trova perché non trasmette nessun segnale, è un apparecchio “in sonno”.
Spiati, controllati, “monitorati”. I p.m. lo sapevano che quando si ha a che fare con i Vip, le inchieste sono sempre difficili. «L’avvocato dice che non possiamo fare la perquisizione perché qui oltre all’abitazione c’è anche lo studio dell’avvocato Orsoni e lo studio di un avvocato non si può perquisire. Che facciamo dottore?»
«Effettuate la perquisizione».
Intanto, erano arrivate le 6 del mattino di quel 4 giugno 2014 che avrebbe inaugurato la “Retata Storica”, il blitz che avrebbe portato alla luce il più grande caso di corruzione che si fosse mai registrato in Italia. Finalmente era arrivata la telefonata che metteva fine alla lunga notte.
A quel punto Stefano Ancilotto aveva indossato maglietta e calzoncini, aveva infilato le Asics ed aveva iniziato a correre. Un’ora, il tempo giusto per fare il pieno di endorfine e lasciar andare i ricordi. Gli piaceva correre anche se la vera passione è sempre stato il tennis. Che, però, è uno sport ancora più traumatico della corsa. Gli scatti improvvisi, le voleè, le corse a rete, gli avevano procurato un sacco di guai muscolari, ma siccome dello sport non si può fare a meno se vuoi mantenere in forma anche la mente, si era buttato sulla corsa. E un po’ alla volta aveva iniziato a piacergli. Però la vecchia passione per la racchetta ogni tanto saltava fuori, prepotente, e così aveva deciso di alternare la corsa alle partite a tennis.
Anche quella mattina Ancilotto aveva messo le cuffiette. La musica, a basso volume, gli permetteva di concentrarsi meglio, via un piede e sotto l’altro, via una falcata e sotto l’altra. I passi di corsa che scandivano i passaggi dell’inchiesta. Ma chissà perché quella mattina, mentre iniziava il riscaldamento, gli erano venuti in mente gli abusivi del Tronchetto. Non era stato un processo semplice, ma avere a che fare con i malavitosi hai i suoi vantaggi. «Tecnicamente un processo contro un malavitoso è un processo facile, più facile comunque di un processo come questo, dove hai a che fare con gente molto influente. Un mafioso lo incastri con un’impronta digitale, il Dna, la pistola, a questi gli trovi i soldi in casa e ti possono trovare centomila giustificazioni di quei quattrini. Sono processi difficili, molto più difficili di quelli contro la malavita organizzata. Che poi, a Venezia, è quel che è, siamo sinceri. Forti, d’accordo, ma un mese di lavoro dei malavitosi al Tronchetto non parifica la cresta che viene fatta su una paratoia del Mose, che costa 250 mila euro e viene fatta pagare al contribuente 800 mila euro. La quantità di soldi che gira è enormemente più grande nel caso dei reati dei colletti bianchi, non c’è proporzione. E le condanne sono difficili da ottenere».
Gli abusivi del Tronchetto invece erano stati condannati e i beni sequestrati. E quello era stato il primo vero processo contro la malavita organizzata che si era insediata a Venezia. Non che le cose fossero poi andate come voleva lui, Ancilotto, che avrebbe preteso almeno dal Comune un atteggiamento diverso, più deciso nei confronti della malavita organizzata e cioè che prendesse lo spunto per fare un repulisti vero dell’isola artificiale. E invece era tutto rimasto come prima. Del resto era da oltre mezzo secolo ormai che l’ex banda del Brenta, quella di Felice Maniero, teneva sotto controllo il flusso dei turismo organizzato a Venezia. Si era superata la vetta dei 20 milioni di presenze annue e buona parte dei quattrini che i turisti portavano a Venezia finiva nelle mani dei malavitosi. Il processo aveva portato alla luce le connivenze, ma soprattutto il malcostume di lasciar perdere, di lasciar fare, di far finta di niente. Anche in questa inchiesta sul Mose era saltato fuori che c’era un sacco di gente che faceva finta di nulla o che, addirittura, spintonava per salire sul carro dei mazzettari. Messa in ginocchio la banda del Tronchetto comunque aveva voglia di occuparsi d’altro e alla fine del 2009 era venuto a fagiolo l’inserimento nel pool che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione. A Venezia non erano mai state fatte inchieste su questo versante e l’ultima grande retata risaliva agli anni di Tangentopoli, quattro vite fa, quando lui aveva appena fatto il concorso in magistratura mentre ancora faceva il praticante nello studio dell’avvocato Mauro Pizzigati, a Mestre. «Era il 1995. Sono entrato in magistratura con il concorso dei cosiddetti giudici ragazzini, bandito subito dopo la morte di Falcone e Borsellino – ricordava Ancilotto – Nel 1996 ero in Sicilia e ci sono stato fino al 2003, tra Siracusa e Catania. E’ lì che mi sono fatto le ossa, con le inchieste sulla mafia».
Altri tempi, come in altri tempi era partita questa inchiesta sul Mose.

10 – Continua (Le precedenti puntate sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto, il 6 e il 7 settembre)

 

E per qualcuno le mazzette diventavano stipendio extra

«Il Consorzio Venezia Nuova determinava il fabbisogno di soldi neri in modo chiamiamolo organizzato in questo modo: l’ing. Mazzacurati si rapportava con le quattro realtà principali del Consorzio, ovvero le tre imprese maggiori più il gruppo delle cooperative rosse, che, pur non avendo una quota rilevante ,era molto rilevante negli equilibri generali (…)» Il racconto è di Piergiorgio Baita, verbale del 28 maggio 2013. Il presidente e amministratore delegato della Mantovani spiega ai pubblici ministeri che indagano sul Mose, come funziona il meccanismo. «Il Consorzio Venezia Nuova ha di questi fabbisogni, il cosiddetto “fabbisogno sistemico”, cioè il pagamento periodico, a tempo, di tutta una serie di persone, cresciuta sempre di più negli anni. Il pagamento episodico ma regolare, cioè la firma della convenzione, la registrazione alla Corte dei Conti, la necessità di fare arrivare dei soldi alla Corte dei Conti. Il pagamento di particolari episodi e le cosiddette emergenze».
“Fabbisogno sistemico” significa che alcune persone – Presidente del Magistrato alle acque piuttosto che giudice della Corte dei conti – erano sul libro paga del Consorzio e ricevevano una sorta di stipendio, indipendentemente da quello che facevano o non facevano. Per i politici è diverso. «Ogni campagna elettorale era un salasso – si lamenta Baita – L’ing. Mazzacurati proponeva un budget per ogni campagna elettorale, politiche, regionali, comunali, un budget di fondi neri da coprire pro quota».

 

Nuova Venezia – I pm: “Chisso puo’ restare in carcere”

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

12

set

2014

Scandalo Mose

Per la Procura di Venezia la vita di Renato Chisso non è in pericolo. Secondo i pm l’ex assessore regionale, arrestato il 4 giugno nell’inchiesta “tangenti Mose”, può restare in carcere, contrariamente a quanto sostiene il suo avvocato.

Nordio, Ancilotto, Buccini e Tonini esprimono parere contrario alla scarcerazione

Intanto il Comune nomina un avvocato per tutelare Venezia nel processo Mose

La Procura: «Resti in cella. Chisso non è in pericolo»

VENEZIA – Per la Procura di Venezia la vita del detenuto Renato Chisso non è in pericolo, le sue condizioni di salute non sono incompatibili con il carcere e, pertanto, l’ex assessore regionale arrestato il 4 giugno nell’ambito dell’inchiesta “tangenti Mose” può restare nella sua cella a tre brande, nel carcere di Pisa, in attesa dello sviluppo delle indagini. Ieri, i pubblici ministeri Stefano Ancillotto, Stefano Buccini, Paola Tonini e il procuratore aggiunto Carlo Nordio hanno depositato il loro parere negativo all’istanza di scarcerazione presentata dal difensore di Chisso. Forte di una consulenza firmata dai medici Marzilli, Pietrini e Di Paolo dell’Università di Pisa, l’avvocato Antonio Forza sostiene – al contario – che l’ex assessore regionale sia in serio pericolo di vita a causa di una coronaria ancora ostruita dopo l’infarto che l’ha colpito nel 2013. Giovedì, la Procura aveva così incaricato il medico legale Antonello Cirnelli, lo psichiatra Amodeo Sossio, il cardiologo Cosimo Perrone di visitare Chisso. Per i tre medici, le sue condizioni di salute sono compatibili con la detenzione e non rischiano di peggiorare a causa di questa e che, in ogni caso, il carcere di Pisa è dotato di una struttura medica e cardiologica di eccellenza. Quanto poi alla sua situazione psichiatrica, i medici hanno sì riscontrato una “lieve depressione”, ritenendola per altro comune alla gran parte delle persone in stato di detenzione. Da qui, il parere negativo alla scarcerazione espresso dalla Procura. La parola finale spetta ora al giudice per le indagini preliminari Antonio Liguori, che avrà cinque giorni per esprimersi: potrà accogliere l’istanza, respingerla oppure ricorrere alla valutazione di un proprio perito. Intanto, il commissario straordinario del Comune di Venezia, Vittorio Zappalorto, ha deliberato la nomina dell’avvocato Fabio Niero nel procedimento che potrebbe «vedere l’Amministrazione nella veste di persona offesa e danneggiata, sia per le risorse che appaiono essere state indebitamente sottratte alla salvaguardia della città sia per il danno all’immagine causato dalla rilevanza mediatica della vicenda». Primo passo per la costituzione di parte civile, nell’inchiesta che oltre alla partita tangenti Mose, riguarda anche l’indagine per finanziamento illecito ai partiti, che vede indagato anche l’ex sindaco Giorgio Orsoni. «Il Comune intende seguire in tutte le sue fasi i vari procedimenti, sia quelli che possono definirsi con patteggiamento, sia quelli che seguiranno il rito ordinario», osserva l’avvocato Niero, «evidenzieremo il danno subito dal Comune, sia all’immagine sia oggettivo, rappresentando sia i cittadini – che hanno ricevuto un danno non indifferente, perché sono stati sottratti soldi alla comunità – sia il prestigio della città, leso dal fatto vi sono stati compiuti reati non indifferenti».

Roberta De Rossi

 

SCANDALO MOSE – I pm si oppongono alla scarcerazione: condizioni di salute compatibili con la detenzione

Un giudizio contrario alla scarcerazione dell’ex assessore regionale Renato Chisso. Ad emetterlo è stata la Procura della Repubblica di Venezia alla luce dell’esito della consulenza di tre medici che si sono recati mercoledì nel carcere di Pisa dove l’ex assessore regionale si trova rinchiuso in seguito all’inchiesta sul Mose. Ad effettuare la visita sono stati tre specialisti (il medico legale Antonello Cirnelli, il cardiologo Cosimo Perrone e lo psichiatra Amodeo Sossio).
Ieri mattina i magistrati che indagano sugli appalti del Mose hanno letto la relazione dei medici ed alla fine hanno espresso un parere contrario alla scarcerazione di Chisso, sostenendo, in pratica, che le sue condizioni di salute e i suoi problemi cardiaci non sono incompatibili con la detenzione in carcere (restando in cella non ci sarebbero rischi maggiori rispetto ad altre soluzioni).
Secondo quanto appurato dai consulenti della Procura, infatti, la carcerazione alla quale è stato sottoposto il politico non ha complicato o peggiorato le sue condizioni di salute. A tal proposito era stato scelto il carcere di Pisa proprio perchè particolarmente attrezzato per seguire i problemi dei detenuti cardiopatici e secondo la Procura si tratta di un centro d’eccellenza e all’avanguardia. Per i medici dell’accusa, quindi, non ci sarebbero collegamenti diretti tra la detenzione e i problemi di salute evidenziati dall’avvocato Antonio Forza che difende l’ex assessore. Anche la segnalazione di sintomi di un possibile esaurimento nervoso non è stata confermata, visto che i tre specialisti hanno segnalato solamente una lieve flessione dell’umore che, secondo l’accusa, è facilmente riscontrabile in persone che sono soggette a un regime carcerario. Un quadro finale, quindi, diverso da quello delineato dagli specialisti dell’Università di Pisa che erano stati nominati a suo tempo dall’avvocato Forza secondo i quali il politico soffre di una forte depressione e rischia un nuovo infarto.
Ieri sera la consulenza e il parere negativo alla scarcerazione, con le firme dei pm Ancilotto, Tonini, Buccini e dal procuratore aggiunto Carlo Nordio, sono stati trasmessi al gip Liguori il quale è chiamato a decidere su questo rovente caso.
A questo punto, a meno che questa perizia non venga giudicata palesemente infondata, è praticamente certo che, prima di ogni decisione, il giudice si avvalga a sua volta delle consulenze di altri medici, da lui stesso nominati.
Se così fosse, e quest’ultimo elemento non fa che confermare la tensione e anche la delicatezza del caso, per approdare ad una scelta definitiva sarebbero quasi una decina i medici chiamati a confrontarsi sulla salute dell’ex assessore regionale della giunta Galan. In ogni caso il gip ora ha cinque giorni di tempo per decidere.

Gianpaolo Bonzio

 

Gazzettino – I Pm sulle tracce del tesoro di Chisso

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

9

set

2014

VENEZIA – Si cercano in Svizzera, Moldavia e Lussemburgo i soldi dell’ex assessore

Intanto il difensore ha presentato l’istanza di scarcerazione per gravi ragioni di salute

I difensori di Renato Chisso, sempre più in allarme per le sue condizioni di salute, tornano alla carica per ottenerne la scarcerazione. Intanto le indagini della Procura alla ricerca di un presunto “tesoro” che l’ex assessore potrebbe aver nascosto all’estero si intensificano. Indagini complesse, legate alle rogatorie internazionali, che potrebbero essere vanificate da un inquinamento delle prove. É uno dei fronti caldi dell’inchiesta sul giro di corruzione cresciuto attorno al Mose. A Chisso, accusato di aver incassato tangenti, dopo il blitz del 4 giugno scorso non venne trovato alcun particolare bene patrimoniale. In conto corrente aveva appena 1.500 euro.
Di qui le ricerche degli inquirenti nei paradisi fiscali: dalla Svizzera, alla Moldavia, al Lussemburgo. Dove, ipotizza la Procura, Chisso e il suo ex segretario Enzo Casarin, pure lui ancora in carcere, potrebbero aver nascosto i proventi del sistema corruttivo. Magari con un sistema di prestanomi. Piste a cui gli investigatori della Guardia di finanza, coordinati dai pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini, stanno lavorando febbrilmente. I tempi per questo tipo di verifiche, però, sono lunghi. E c’è il timore che i diretti interessati, una volta tornati in libertà, possano vanificare le ricerche.
Ora, però, la difesa di Chisso insiste per la scarcerazione. É da giorni che l’avvocato Antonio Forza denuncia l’aggravarsi dello stato di salute del suo assistito. E ieri ha consegnato in Procura l’istanza di ritorno in libertà per motivi di salute: «Per accelerare – spiega il legale – abbiamo deciso di presentarla direttamente al procuratore aggiunto, Carlo Nordio, perché dia il suo parere e poi la trasmetta al gip». Colpito da un infarto un anno fa, a giugno Chisso venne rinchiuso nel carcere di Pisa, proprio perché struttura attrezzata per seguire i cardiopatici. A inizio agosto la Procura chiese una relazione e il carcere pisano ribadì la compatibilità dello stato di salute di Chisso con la detenzione. Diversa, però, la valutazione della difesa, forte anche del recente consulto di un cardiologo di fiducia. «Non riteniamo idonee le cure che può offrire la struttura ospedaliera del carcere di Pisa, anche alla luce del grave quadro emerso dagli esami – insiste Forza – e inoltre per noi vale il principio che uno possa curarsi là dove ritiene di avere il meglio per la propria salute ed incolumità».
Ora la Procura dovrà dare il suo parere, poi la decisione spetterà al gip. Intanto, sul caso Chisso, si muove anche la politica. Il presidente del Consiglio regionale del Veneto, Clodovaldo Ruffato, ha preannunciato un’iniziativa affinché l’assemblea domandi alle autorità giudiziarie una «verifica puntuale e urgente delle condizioni di salute del consigliere, volte a comprendere se il suo stato attuale è compatibile con la reclusione». Se ne parlerà domani, in conferenza dei capigruppo.

 

Nuova Venezia – “Mose, subito una commissione”

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

9

set

2014

Casson: bisogna avere il coraggio di valutare lo smantellamento

Cambiare il modo di fare politica, rompere il muro di silenzio sulla corruzione e istituire una commissione scientifica che valuti davvero se sia il caso di bloccare la realizzazione del Mose. Sono questi gli imperativi emersi nell’incontro sulle grandi opere moderato da Pietrangelo Pettenò, con ospiti il senatore Pd Felice Casson e il giornalista Renzo Mazzaro, autore del libro «I padroni del Veneto», giunto alla decima edizione. Che cos’è cambiato dal 4 giugno, quando la città ha realizzato cosa ha causato l’indagine sul Mose, che indirettamente ha coinvolto anche il sindaco, arrestato quel giorno? La risposta sembra essere un secco no. Il Consorzio Venezia Nuova continua a lavorare, tanto che perfino l’Accademia dei Lincei ha invitato il direttore Hermes Redi a un convegno su luci e ombre di Venezia, organizzato il giorno dell’anniversario della storica alluvione. Il dibattito si è soffermato ad analizzare un sistema di corruzione emerso in Veneto, ma con radici profonde che raggiungono Roma dove per anni la destra e la sinistra non si sono mai opposte alla realizzazione del Mose. A questo proposito Casson ha ripercorso gli ostacoli trovati negli anni nelle sale di potere della capitale. «Bisogna avere il coraggio», ha ribadito Casson, «di istituire davvero una commissione che valuti se smantellare il Mose. La prima volta la commissione di impatto ambientale aveva dato parere negativo. Vogliamo trovarci con milioni di manutenzione da versare per l’opera senza sapere se ne vale davvero la pena?». Mazzaro più volte ha fatto riferimento al silenzio di imprenditori che, dopo lo scandalo Mose, non hanno proferito parola. Per il giornalista la corruzione che ha regnato in Veneto negli ultimi 20 anni è frutto di due fattori: «L’onnipotenza tecnica rappresentata da Consorzio Venezia Nuova e l’onnipotenza politica hanno portato al delirio che abbiamo scoperto, venuto fuori in un contesto dove non c’erano più regole».

(v.m.)

 

L’INCHIESTA – Nel mirino le imprese “coinvolte”

I pm pronti a presentare il conto della corruzione: stimato in 80 milioni il giro delle mazzette

VENEZIA – Nel mirino l’illecito arricchimento favorito dalle tangenti dei manager

Mose, ora rischiano di pagare anche le aziende della “cricca”

MOSE – I cantieri delle dighe mobili alla bocca di porto di Malamocco all’estremo sud del Lido di Venezia

Inchiesta Mose: dalla retata alla stangata storica. Ora che alcuni degli indagati arrestati poco più di tre mesi fa si apprestano a patteggiare, magistrati e finanzieri si preparano ad aggredire un altro fronte. Quello non meno importante del ristoro delle tasche dei cittadini per anni saccheggiate dal sistema tangenti costruito dentro e fuori il Consorzio Venezia Nuova. È la fase due: il recupero dei soldi pubblici utilizzati o elargiti illecitamente. E per attuarla servono i conti. Milionari visto che la stima per difetto del totale del giro di denaro sporco, tra fondi neri e mazzette distribuite da Mazzacurati e compagni, sfiorerebbe la cifra stratosferica di 80 milioni di euro. È questo l’importo indicato nell’allegato alla richiesta di sequestro preventivo presentata dai pm titolari dei fascicoli sul Mose. Importo che non contrasta con i “soli” 9 milioni scritti nell’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip Alberto Scaramuzza, lo scorso 31 maggio ed eseguita il 4 giugno, e proposti per il sequestro nei confronti dei presunti colpevoli in base alle rispettive disponibilità accertate scandagliando i conti e i patrimoni ufficialmente dichiarati.
Adesso quindi a tremare non sono più i singoli bensì le società coinvolte. L’orientamento della Procura veneziana è di procedere ai sensi del Decreto legislativo 231 del 2001. Esso sancisce il principio che in aggiunta alla responsabilità della persona fisica che realizza l’eventuale fatto illecito è prevista la responsabilità in sede penale dell’impresa per alcuni reati commessi nell’interesse o a vantaggio della stessa, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione. Quindi, una volta definite le responsabilità in sede giudiziaria, a pagare e versare quanto dovuto all’Erario non saranno solo i vari Tomarelli, Morbiolo, Falconi, Boscolo Bacheto, Baita, Minutillo ma, se passerà la linea dei magistrati, a dover aprire il portafoglio saranno anche, e in misura assai più consistente, le società che quei manager rappresentavano: da Condotte a Coveco, da Sitmar Sub a Cooperativa San Martino e Coedmar, da Mantovani ad Adria Infrastrutture. Solo per fare alcuni nomi.
Il ragionamento del legislatore è semplice: hai alle dipendenze delle figure apicali che hanno compiuto reati per il tuo tornaconto? Se sì, tu società devi tirare fuori i soldi e risarcire. E serve a poco dichiarare che si è stati costretti a pagare obtorto collo dal “grande burattinaio” – così lo ha definito Paola Tonini, il Pm che lo ha incastrato – al secolo Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, che ha ideato e imposto ai soci il meccanismo della sovrafatturazione-retrocessione allo scopo di creare, dirottando parte dei finanziamenti statali, i fondi neri per le mazzette. Altrimenti non si poteva lavorare… si poteva però denunciare. Così come l’eventuale strategia di prendere le distanze dal dirigente additato quale “infedele”, in tale contesto apparirebbe poco credibile.
Le sanzioni pecuniarie previste sono alquanto pesanti e si calcolano sulla base degli importi che hanno generato l’illecito arricchimento e, si badi bene, non sulle somme evase. Infine, va sottolineato che tutte queste procedure non si sommano, ma procedono una dopo l’altra e si salderanno con quella di competenza della magistratura contabile, la Corte dei Conti, che dovrà contestare a tutti gli interessati – sulla base delle risultanze dell’indagine – il danno erariale. Danno che non dovrebbe essere solo quello patrimoniale causato dallo sperpero di denaro pubblico per mazzette, corruzione, consulenze inutili e spese folli e ingiustificate compiute dalla cosiddetta “cricca” del Mose. In ballo ci potrebbe essere pure il “danno all’immagine” causato dal discredito gettato sulla Pubblica amministrazione.

 

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

I “trucchi” dei pm per mantenere il segreto sui numeri intercettati

I vertici della Finanza volevano sapere, ma non tutto fu rivelato

L’ombra dei servizi e i telefoni “avvelenati” Il gioco dei magistrati

Alle 4 del mattino del 4 giugno 2014 la luce è già accesa in casa di Stefano Ancilotto. Il p.m. dell’inchiesta sul Mose è sveglio, ma non perché soffra di insonnia. Ed è presto anche per andare a correre. È stata una telefonata ad interrompergli il riposo. Sapeva che sarebbe stata una giornata campale quella di mercoledì 4 giugno, ma sperava che non cominciasse così presto. «Tengo il telefono acceso, comunque», aveva detto, ma era più scaramanzia che un eccesso di precauzione. Del resto era tutto pronto e sapeva che poteva fidarsi degli uomini con i quali aveva lavorato a stretto contatto di gomito per 4 anni. Dunque, perché preoccuparsi? Non c’è motivo – diceva a se stesso – ma anche senza motivo era meglio tenere il cellulare a portata di mano. Aveva imparato che nelle inchieste è meglio non abbassare mai la guardia. Mentre spegneva la luce, la sera prima, gli era venuto in mente di quante volte avevano dovuto giocare d’astuzia in questa inchiesta sul Mose. Come quando avevano fornito ai vertici della Finanza i numeri dei telefoni sotto intercettazione. Cos’era? Giugno 2010, quando era iniziata la verifica fiscale al Consorzio Venezia Nuova. Le Fiamme gialle avevano iniziato i controlli e il giorno dopo, guarda un po’, il generale Spaziante, il numero due della Guardia di finanza, aveva chiamato il generale Walter Manzon, il comandante di Venezia.
Il colonnello Nisi, che stava conducendo le indagini sul Mose, imbarazzato, aveva spiegato ai p.m. dell’indagine – Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini – che non sapeva come far fronte alle richieste dei superiori. Come faceva a dire di no a Manzon, da cui dipendeva gerarchicamente in linea diretta? E come faceva Manzon a dire di no a Spaziante?
I NUMERI “AVVELENATI” – «Bene, colonnello, perché non glieli diamo questi numeri di telefono? Se li vogliono, glieli diamo, siamo persone gentili, noi».
Nisi era rimasto interdetto. Aveva guardato Stefano Ancilotto con aria interrogativa.
«Solo che non forniamo tutti i numeri, ma solo alcuni, diciamo quelli più ovvi e non certo i telefoni intestati a Pinco Palla che però vengono utilizzati dagli indagati. Loro pensano di metterci nel sacco e invece vediamo se siamo più bravi noi. Stenda un elenco dettagliato di tutti i telefoni che abbiamo sotto controllo e poi vediamo».
Il foglio a quadretti era stato diviso in due, di qua i cellulari e i numeri di telefono fisso che potevano essere dati in pasto alle “spie” della Mantovani e del Consorzio Venezia Nuova, dall’altra i numeri che dovevano restare “coperti”. Ancilotto ne aveva aggiunto qualcuno nella colonna dei numeri “visibili”, che gli sembravano troppo pochi.
«Perché non dobbiamo sottovalutarli».
Il trucco aveva funzionato. Ancilotto lo aveva capito ascoltandoli al telefono mentre si prendevano gioco di lui, della sua inchiesta, dei suoi colleghi, della Procura di Venezia. «Una bella idea, quell’elenco di numeri avvelenati. Alla resa dei conti stanno lavorando per noi» – si era detto Ancilotto. Era abituato a queste partite a scacchi. Quando iniziava una inchiesta lui sapeva che doveva mettersi dalla parte dell’indagato per cercare di anticipare le mosse. Lo aveva imparato nel periodo in cui aveva fatto il praticantato come avvocato. E se non aveva mai perso un processo da p.m. era proprio perché giocava d’anticipo.
Del resto due dei tre pubblici ministeri di questa inchiesta sul Mose vengono dalle inchieste sulla criminalità organizzata e quindi se ne intendono di depistaggi e “spie”. Stefano Ancilotto fa parte della schiera dei “giudici ragazzini”, come li chiamò Cossiga, assunti dopo le stragi di Falcone e Borsellino e mandati in Sicilia a fare i conti con la mafia. Da quell’esperienza arriva Ancilotto. A Venezia aveva istruito il maxi processo contro intromettitori e motoscafisti del Tronchetto. Da sempre l’isola artificiale, che è la porta principale di ingresso del turismo organizzato a Venezia, è saldamente nelle mani della criminalità organizzata veneziana. Che ai vecchi tempi rispondeva a Felice Maniero, il genio del crimine del Nordest.
Il processo in cui Ancilotto era pubblico ministero si era chiuso nel 2009 con 17 condanne e 3 assoluzioni per un totale di 67 anni e 10 mesi di galera. Per alcuni imputati era scattata anche l’aggravante del metodo mafioso e quella era stata una grande vittoria proprio del p.m. Per la prima volta infatti a Venezia venivano applicate le aggravanti dell’utilizzo di metodi mafiosi. Poi arriverà un altro Tribunale, in Appello, a rimangiarsi la decisione del Tribunale di primo grado, ma per allora Ancilotto sarà già passato al settore della Procura che si occupa di pubblica amministrazione.
Anche Paola Tonini è un p.m. che ha avuto a che fare con la criminalità organizzata. E proprio con la banda del Brenta di Felice Maniero. Centinaia di malavitosi erano finiti in galera nel 1995 dopo le confessioni di Faccia d’angelo, ma i processi sarebbero durati altri 10 anni e poi, anche processati e condannati, molti malavitosi erano tornati al lavoro di sempre, l’unico che sapevano fare. Molti erano finiti sotto la scure di Paola Tonini.
E sia Ancilotto che Paola Tonini nei giorni immediatamente precedenti al 4 giugno 2014 quante volte avranno pensato che era stata fino alla fine una indagine lunga e difficile, questa sul Mose. Una indagine con troppi personaggi eccellenti e con troppi funzionari dello Stato corrotti. E, dunque, nemmeno gli arresti potevano filare via lisci. Ecco perché la mattinata di lavoro del p.m, Stefano Ancilotto comincia nel cuore della notte. Poco dopo le 3, quando i 200 uomini messi in campo per il blitz che avrebbe portato in galera 34 persone, inizia a prendere la sua fisionomia, ecco a Padova il primo intoppo.
I SERVIZI SEGRETI – I finanzieri che erano andati a perquisire la sede dell’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna, cioè i servizi segreti, si erano trovati di fronte a qualche problema. «Non potete entrare. Non potete fare alcuna perquisizione. Questi sono uffici dei Servizi di sicurezza italiani». I finanzieri non si erano lasciato intimidire. Avevano chiamato Stefano Ancilotto. «Non vi muovete. Vi richiamo».
«Guardi che questo sta invocando il segreto di Stato».
Ancilotto si era consultato con Carlo Nordio, il procuratore aggiunto di Venezia. Nordio è un veterano delle inchieste sulle mazzette, visto che faceva parte del pool di magistrati che nel 1992 aveva condotto le indagini sulla tangentopoli veneta. Alto, flemmatico, un magistrato che sembra preso di sana pianta dalle aule del Regno Unito di Sua Maestà, Nordio aveva preso il telefono. A Roma erano rimasti di sasso e il funzionario del Servizi segreti che era stato buttato giù dal letto aveva chiesto tempo. «D’accordo, però noi la perquisizione la dobbiamo fare» – gli aveva detto Nordio. Nordio era stato diplomatico, ma fermissimo ed aveva fatto capire chiaramente che la Procura di Venezia non si sarebbe fermata. E se a qualcuno fosse saltato in mente sul serio di utilizzare il segreto di Stato, forse era meglio che fosse cosciente che si esponeva al ridicolo. Il giorno dopo i quotidiani e le televisioni di tutto il mondo si sarebbero riempiti di articoli sulla corruzione, ma anche sulle connivenze dello Stato. Che copre i ladri. Come si fa ad invocare il segreto di Stato in un caso evidente di tangenti e di corruzione? L’abilità diplomatica e la fermezza di Carlo Nordio avevano risolto il problema. Ma perché i Servizi?

LA PAURA DI ESSERE SPIATI – Nemmeno un fascicolo lasciato in ufficio e niente mail

È stata una inchiesta “monitorata”, cioè “spiata” fin dall’inizio questa sul Mose. Ecco perchè ad un certo punto i tre p.m. decidono tutti insieme di non lasciare i fascicoli in ufficio. Se li erano divisi e ogni sera se li portavano a casa. Perchè sapevano di essere spiati. E allora, meglio evitare guai, no? – si erano detti i tre p.m. dell’inchiesta Mose.
Negli uffici della Procura del resto c’è un via vai continuo e comunque i Servizi certo non hanno problemi ad entrare e a fare razzia. E magari a rimettere tutto a posto, senza lasciare traccia. C’è un veneziano che lavora per loro. È in grado di aprire qualsiasi porta e di rinchiuderla senza lasciare tracce. Fa Giorgio di nome ed è un genio delle casseforti. Gira il mondo a studiare tutte le chiusure possibili ed immaginabili e nessuna porta gli ha mai resistito.
«È solo una questione di tempo – dice – una serratura mi può resistere per un minuto o per un’ora, ma prima o poi… Era stato contattato sia dalla banda di Felice Maniero sia da quella dei grandi ladri veneziani capeggiati da Vincenzo Pipino, ma aveva detto di no. Solo che ai Servizi segreti non poteva rifiutare un favore. E chissà se qualcuno dei Servizi segreti lo ha contattato anche stavolta, per il caso Mose. Comunque, meglio non rischiare. Comunque, meglio esagerare in precauzioni. Non si sa mai.
E così gli incontri tra i magistrati del pool Mose avvengono in corridoio o in giardino. Fanno quattro passi insieme, sotto la Procura, e parlano fitto. Si scambiano opinioni, prendono accordi, si dividono il lavoro da fare. Lontani da orecchie indiscrete.
«E per mesi e mesi abbiamo smesso di utilizzare l’e-mail e anche di parlare al telefono».

 

LE TRE TOGHE – L’estroverso, la Lady di ferro e il “ragazzino”

Uno è estroverso e pronto alla battuta – Stefano Ancilotto – l’altra è introversa, con un carattere di ferro – Paola Tonini; il terzo – Stefano Buccini – affiancato ad inchiesta già iniziata, è il più giovane. Sono i magistrati della procura di Venezia protagonisti di questa inchiesta giudiziaria (coordinata dal procuratore Luigi Delpino e dal procuratore aggiunto Carlo Nordio). Hanno lavorato con il colonnello della Guardia di finanza Renzo Nisi, un uomo rimasto sempre in ombra, ma senza di lui l’inchiesta non sarebbe mai arrivata da nessuna parte. I quattro “eroi” di questa storia hanno caratteri e profili professionali diversi, ma hanno lavorato come una squadra, riuscendo a portare alla luce uno scandalo di tangenti senza precedenti.

 

9 – Continua (Le precedenti puntate sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto e il 6 settembre)

 

In campo anche un pool di principi del foro

PERQUISIZIONE – A caccia di informazioni nella sede degli 007. Interviene Carlo Nordio

In campo non ci sono solo i migliori p.m., ma anche i migliori avvocati. L’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan, si è affidato agli avvocati Franchini e Ghedini. Nicolò Ghedini è famoso per aver difeso, peraltro con alterne sfortune, Berlusconi. Antonio Franchini invece è semplicemente riconosciuto come il più bravo di tutti. Dal suo studio esce anche Alessandro Rampinelli, giovane e bravissimo, che difende Piergiorgio Baita. Poi c’è Giovanni Battista Muscari Tomaioli, un mago del codice penale, che è il legale di Giovanni Mazzacurati assieme all’avv. Biagini. L’ex assessore regionale, Renato Chisso, si è affidato ad Antonio Forza, un vecchio lupo delle aule giudiziarie, abilissimo anche nel costruire indagini difensive per smontare le tesi dell’accusa. L’ex segretaria ed attuale grande accusatrice di Galan, Claudia Minutillo, si è affidata all’avvocato Carlo Augenti di Padova, un professionista che ha mostrato grandi doti anche nei processi contro la Mala del Brenta. Da non dimenticare, anche se difende un imputato minore, Emanuele Fragasso Junior, il legale dell’ex presidente del Magistrato alle acque Maria Giovanna Piva, che è anche il professore universitario che ha formato buona parte degli avvocati e dei giudici che si occupano di Mose. Fra i grandi avvocati del caso Mose infine c’è il romano Franco Coppi, legale dell’ex europarlamentare Lia Sartori.

 

Per l’ex ministro. Entro ottobre l’archiviazione o la richiesta al Senato

VENEZIA – Su una “corsia riservata” dell’inchiesta Mose sta viaggiando l’ex ministro Altero Matteoli. Le imputazioni a suo carico sono al vaglio del Tribunale dei ministri, che accomuna le funzioni della Procura e del Gip. Questo Tribunale si prepara ad ascoltare (forse per rogatoria) Giovanni Mazzacurati, che è negli Usa, in quanto i legali di Matteoli hanno già chiesto l’incidente probatorio. L’iter dovrebbe chiudersi entro ottobre, con l’archiviazione o la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato, dove Matteoli presiede la commissione Lavori pubblici. L’ex ministro del governo Berlusconi è accusato di aver partecipato alla «grande spartizione» attraverso un’impresa romana di suo riferimento, infilata di forza nei lavori del Mose. Anzi due imprese, perché la prima non è stata ai patti e l’ha sostituita. Salvo litigare anche con la seconda e imporre di nuovo la prima. È toccato alla Mantovani tenersi questi scomodi compagni di banco. Ecco come ha ricostruito la vicenda l’ingegner Piergiorgio Baita nell’interrogatorio del 17 giugno 2013 davanti ai pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini. D. Sappiamo che la Mantovani aveva rapporti poco chiari con l’imprenditore romano Erasmo Cinque e la sua società So.Co.Stra.Mo. R. La costante è il legame tra Erasmo Cinque e il ministro Altero Matteoli. D. All’epoca ministro delle Infrastrutture? R. No, dell’Ambiente. Stiamo parlando del 2003-04. È lui che dà il via al cosiddetto “protocollo Marghera” che prevedeva un patteggiamento ambientale con i proprietari delle aree contaminate. Pagando una quota proporzionale all’estensione dell’area, il proprietario veniva sollevato dai danni ambientali e il Ministero avrebbe proceduto alla messa in sicurezza delle aree. I proprietari erano un’ottantina ma le maggiori transazioni hanno riguardato Edison, Eni ed Enel. Parliamo di oltre 600 milioni pagati per la bonifica. Dovendo spendere questi soldi, il Ministero ha prospettato all’ingegner Mazzacurati, che poi ce ne ha riferito, la possibilità di affidarli al Consorzio Venezia Nuova. D. Scusi, in che modo? R. I proprietari delle aree pagano, i soldi confluiscono sul conto del Ministero che li può spendere in due modi: mettendo in gara i lavori oppure, come ha fatto, inserendo questi fondi come lavori aggiuntivi del Cvn. Quindi senza bisogno di fare gare. A condizione però che i lavori venissero affidati alla So.Co.Stra.Mo di Erasmo Cinque. Ma c’era un problema. D. Quale? R. L’impresa di Cinque non era socia del Consorzio e non poteva essere direttamente assegnataria. Pertanto i lavori sono stati assegnati a Frisia Impregilo, cui noi siamo subentrati, con il vincolo di subappaltarli a Erasmo Cinque. Noi abbiamo preso Cinque in Ati, perché Mantovani ha i requisiti per fare la bonifica, Erasmo Cinque non ha niente. Poi Cinque ci ha risubappaltato la sua parte dei lavori, in cambio di una percentuale tra 6,5-7%. D. Cioè, la ditta di Cinque prende i lavori e poi ve li ridà perché non è in grado di farli? R. Proprio così. Poi Matteoli diventa ministro delle Infrastrutture e deve aver litigato con Cinque perché ci presenta Gualtiero Masini della Teseco, che si propone di liberare il Consorzio da Cinque. D. O meglio di eliminare la tangente del 6% perché voi non lo vedevate mai. R. No no, di eliminare Cinque, non la tangente. Quella rimane. Arriva Masini e si propone di fare un progetto – che a proposito di cartiere è veramente un capolavoro – di lavaggio terra a Marghera. Il progetto è un fascicolo colorato, del valore di circa 8 milioni di euro. Naturalmente, in cambio di questo non c’è più bisogno di dare lavoro a Erasmo Cinque. Così il Consorzio, invece di dare i lavori a Cinque, dà l’incarico a Teseco di fare questo progetto per 7 milioni e mezzo. L’incarico lo dà Thetis. Solo che Masini probabilmente… non gira tutto quello che deve girare, perché dopo un po’ Matteoli si fa di nuovo vivo. D. Si fa vivo con chi? R. Con Mazzacurati, è l’unico che ha rapporti diretti con Matteoli. E dice che bisogna riprendere Erasmo Cinque. Così avviene e ripartiamo con il meccanismo fino al 2010-2011. D. La cosa inizia nel 2003? R. Sì, con Erasmo Cinque, in una prima fase attraverso Fisia Impregilo, fino al 2005-2006. Dopo c’è un periodo in cui c’è Masini e non c’è Erasmo Cinque, non si fanno lavori ma tanti bei progetti. D. Tipo quelli della Bmc di San Marino, chiaramente… R. Sì, un po’ più colorati. D. A fronte di queste prestazioni voi pagate? R. Il Consorzio paga 7 milioni e mezzo. D. Consorzio o Mantovani? R. Thetis, su incarico del Consorzio, paga questi 7 milioni e mezzo, pensando che i lavori sarebbero scaturiti. Invece il progetto, essendo solo carta colorata, non si è mai tradotto in lavori. Poi Mazzacurati mi richiama, mi fa rincontrare Erasmo Cinque e riprendiamo il discorso senza più Fisia. D. Ma sempre con il 6%? R. Era diventato 7,5%. C’è stato un aggravio perché il Consorzio doveva recuperare i 7 milioni e mezzo nel frattempo pagati per niente a Masini.

Renzo Mazzaro

 

SPECIALE MOSE

Un fiume di denaro per “comprare” i vertici del Magistrato alle acque

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

L’EURODEPUTATA – Lia Sartori, finanziamenti illeciti per 225mila euro

LE CONTESTAZIONI – Alla donna di ferro uno “stipendio” annuale di circa 400mila euro

Secondo l’accusa centinaia di migliaia di euro a Maria Giovanna Piva, Patrizio Cuccioletta e all’ex giudice Vittorio Giuseppone per mettersi a disposizione del Consorzio Venezia Nuova

È agli arresti domiciliari dal 2 luglio, dopo la decadenza da europarlamentare. Lia Sartori, 67 anni, vicentina, esponente di spicco di Forza Italia, già presidente del Consiglio regionale del Veneto, è accusata di finanziamento illecito per aver ricevuto nel 2009 un contributo elettorale di 25mila euro da parte del Consorzio Venezia Nuova, soldi provenienti da false fatturazioni, e formalmente corrisposta dal Co.Ve.Co; nonché di altri contributi pari a 200mila euro, di cui 50mila a lei consegnati personalmente da Mazzacurati il 6 maggio 2010.
La Sartori respinge ogni addebito e annuncia di volersi difendere con ogni mezzo, «affinché la propria immagine pubblica e privata rimanga specchiata».

 

Quel fiume di denaro per “comprare” i vertici del Magistrato acque

I FAVORI – Al manager romano un aereo privato dal Cvn per andare al convegno

Il loro compito era quello di controllare i lavori per la realizzazione del Mose: invece, secondo la Procura, avrebbero svenduto la propria carica, mettendosi a disposizione del Consorzio Venezia Nuova in cambio di denaro. Sotto accusa sono finiti due presidenti succedutisi al vertice del Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta, nonché un giudice all’epoca in servizio alla sezione controllo della Corte dei conti del Veneto, Vittorio Giuseppone.
Maria Giovanna Piva aveva fama di essere una donna di ferro, tutta d’un pezzo; dura e inflessibile. Ora è accusata di corruzione in relazione all’attività svolta dal 26 luglio del 2001 al 30 settembre del 2008. La procura le contesta di aver ricevuto uno “stipendio” annuale di circa 400mila euro (di cui 200 versati da Baita), nonché di aver avuto l’incarico di collaudaure alcune opere dell’ospedale di Mestre, ricevendo compensi per complessivi 327mila euro. Le somme illecite sarebbero state percepite dal 2006 al 2012 in cambio di atti contrari a doveri d’ufficio. In particolare alla dottoressa Piva viene contestato di aver delegato Maria Brotto, responsabile della progettazione del Mose per conto del Consorzio Venezia Nuova, e altri dipendenti del Cvn, alla predisposizione formale e sostanziale di atti del Magistrato alle acque, omettendo la dovuta vigilanza, e operandosi per accelerare l’iter di approvazione dei vari interventi. Come dire che il controllato predisponeva i documenti che il controllore doveva poi firmare.
L’ex presidente del Magistrato alle acque respinge con decisione ogni addebito e, nel corso dell’interrogatorio successivo all’arresto, dichiara che nel corso della sua attività si era messa in posizione di forte contrasto con il Consorzio Venezia Nuova, in particolare per quanto riguarda la scelta relativa alle “cerniere” delle paratie mobili: potrebbe essere questo il motivo del suo coinvolgimento nell’inchiesta. Una sorta di ritorsione, insomma. A puntare il dito contro di lei vi è, però, anche la confessione resa dal successore, Patrizio Cuccioletta, il quale ha raccontato ai pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini che Giovanni Mazzacurati gli disse di aver pagato anche la Piva. Dopo 20 giorni di carcere, dal 23 giugno, la lady di ferro è agli arresti domiciliari E il 3 settembre è tornata in libertà per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva.
Romano, in pensione da tre anni, Patrizio Cuccioletta, è accusato di corruzione in relazione all’attività svolta dal 1 ottobre del 2008 al 31 ottobre del 2011 al Magistrato alle acque. La Procura lo accusa di aver percepito uno “stipendio annuale” di circa 400mila euro (di cui 200mila versato pro quota da Baita); di aver incassato una ulteriore somma di 500mila euro, versata tra il 10 dicembre 2012 e il 15 gennaio 2013 su un conto estero intestato alla moglie; di aver procurato un contratto di collaborazione a progetto con il Cvn per la figlia Flavia, dal 12 settembre 2007 all’11 settembre 2008 per un importo di 27.600 euro. Successivamente la figlia fu assunta da Thetis spa, società vicina al Consorzio. Inoltre gli viene contestato di aver procurato nel 2012, al fratello Paolo Cuccioletta, un contratto di 38mila euro tramite Co.Ve.Co, pagato con fondi del Cvn, nonché di aver beneficiato personalmente, o attraverso i familiari di pranzi e alloggi in ristoranti e alberghi di lusso, oltre a voli con aerei privati. I presunti pagamenti illeciti sarebbero proseguiti dal 2007 al 2013.
I legami tra Cvn e Cuccioletta erano così stretti che, pur di consentire al presidente del Magistrato alle acque di partecipare ad un convegno, Mazzacurati gli mise a disposizione un aereo privato per andare a Venezia e tornare la sera stessa a Malaga (dove si trovava in vacanza) al modico costo di oltre 20 mila euro.
Arrestato nel blitz del 4 giugno, Cuccioletta resiste poco: dopo 12 giorni ammette tutto davanti agli inquirenti: «Quando tornai a Venezia nel 2008 a ricoprire il ruolo di Presidente del Magistrato alle acque di Venezia, l’ing. Mazzacurati mi disse che mi avrebbe corrisposto una somma di circa 200 mila euro all’anno e che alla fine del mio mandato mi avrebbe consegnato un riconoscimento finale ammontante ad alcuni milioni di euro».
Nel verbale del 16 giugno incastra Luigi Neri e Federico Sutto, i due “postini” di Mazzacurati, gli uomini che il presidente del Cvn utilizzava spesso per la consegna delle mazzette e che finora si sono trincerati dietro il più assoluto silenzio. «Io imbarazzato accettai quanto promessomi e fin da subito iniziai a ricevere un paio di consegne di denaro all’anno effettuate dai più stretti collaboratori di Mazzacurati. Ricordo in particolare che presso la mia abitazione si recarono tre volte il signor Neri tra il 2008 e il 2009 e successivamente il dottor Sutto tra il 2010 e il 2011, portandomi in contanti le somme promesse».
Il racconto di Cuccioletta non è finito: «Dopo il mio pensionamento ricevetti su un conto estero l’accreditamento di somme per quasi 500 mila euro… Tale somma rappresenta il riconoscimento finale promessomi dal Mazzacurati… ammetto di aver ricevuto dal Mazzacurati altri favori quali il pagamento di cene, vacanze e di aver sollecitato a quest’ultimo incarichi a mio fratello Paolo e l’assunzione di mia figlia».
In cambio il Magistrato alle acque non creava mai problemi al Cvn: «non ricordo del respingimento di riserve presentate dal Consorzio», ha precisato Cuccioletta.
Del suo predecessore, la dottoressa Piva, aggiunge che Mazzacurati si adoperò per farle avere «importanti collaudi di opere pubbliche». Ma aggiunge che tra i due ci fu un violento scontro in relazione alla questione tecnica delle “cerniere” del Mose a seguito del quale Mazzacurati chiese «la sostituzione della Piva e la mia nomina». Versione che coincide con quella fornita ai magistrati dalla stessa Piva.
In questo filone, assieme ai due ex presidenti del Magistrato alle acque, risultano indagati anche Mazzacurati e i suoi più stretti collaboratori, Luciano Neri e Federico Sutto; […………….], consigliere di Cvn, Piergiorgio Baita (Mantovani) e il responsabile amministrativo della sua società, Nicolò Buson; Stefano Tomarelli (Condotte), Pio Savioli (direttivo del Cvn), Gianfranco Boscolo Contadin, Mario e Stefano Boscolo Bacheto (Coop San Martino), Nicola Falconi (Bo.Sca), Andrea Rismondo (Selc Sc), Maria Teresa Brotto (responsabile progettazione Mose)
Il terzo pubblico ufficiale accusato di corruzione è il romano Vittorio Giuseppone, un magistrato in servizio fino al 2013, prima alla Corte dei conti di Venezia, sezione controllo, e poi passato alla sezione centrale di Roma. La Procura gli contesta di aver percepito, tra il 2000 e il 2008, uno “stipendio” annuale oscillante tra 300mila e 400mila euro consegnati con cadenza semestrale, nonché di aver ricevuto non meno di 600mila euro tra 2005 e 2006: il tutto per accelerare le registrazioni delle convenzioni da cui dipendeva l’erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e ammorbidire i controlli di competenza della Corte sui bilanci e gli impieghi delle somme erogate al Cvn. Giuseppone, in pensione da più di un anno, è tornato in libertà a metà agosto. In questo filone risultano indagati anche Mazzacurati e il suo collaboratore Luciano Neri; […………………], Piergiorgio Baita (Mantovani) e il responsabile amministrativo della sua società, Nicolò Buson, Stefano Tomarelli (Condotte), Pio Savioli (direttivo del Cvn), Gianfranco Boscolo Contadin, Mario e Stefano Boscolo Bacheto (Coop San Martino).

8 – Continua (Le precedenti puntate sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto)

 

MOSE – I PROBLEMI DEL SISTEMA

Mi riferisco all’intervento di Antonio Gesualdi, il 30 agosto scorso, relativo al Mose. Sono un ingegnere in pensione della Snamprogetti-Saipem, società ben note anche nel mondo offshore, che per una decina di anni si è occupato delle problematiche offshore e quindi con qualche competenza in materia. Sarebbe utile che questo signore andasse a leggersi la relazione che una società di modellistica francese ha stilato anni fa su invito – se non ricordo male – dell’allora sindaco Cacciari, nella quale vengono rilevate alcune criticità del sistema, quali ad esempio il fatto che le paratoie si sollevino contro il verso della marea, la possibilità che in alcune condizioni di frequenza dell’onda possano entrare in risonanza con problemi sul dimensionamento delle cerniere, e così via. Questo giusto per dire che non è tutto così scontato come sembra di capire dal citato intervento.

Giovanni Zanon

 

GIAMPIETRO MARCHESE – Soldi anche al Pd, tramite il consorzio Coveco

Il 4 giugno finisce in carcere, poco meno di due mesi più tardi, pur continuando a respingere ogni accusa, concorda con la procura il patteggiamento di 11 mesi di reclusione. Giampietro Marchese, 56 anni, già consigliere regionale, a lungo segretario organizzativo del Pd e ancora nel consiglio di amministrazione della Fondazione Rinascita 2007 che amministra e possiede una settantina di immobili del vecchio Pci per un valore vicino ai 3 milioni di euro, è accusato di finanziamento illecito per un contributo di 58mila euro ricevuto nella campagna elettorale del 2010, formalmente versato da Co.Ve.Co (33mila) e da società Selc Sc (25mila); in realtà messi a disposizione da Cvn attraverso false fatturazioni. La Procura gli contesta poi altri finanziamenti di 4-500mila euro, nonché un’assunzione fittizia alla società Eit, per un ammontare di 35mila euro.
L’interrogatorio a seguito del quale gli vengono revocati gli arresti domiciliari, a fine luglio, viene considerato dalla Procura un tassello importante per l’inchiesta: la prova che i contributi agli esponenti politici sono finiti per anni non soltanto a chi stava al governo della Regione, ma anche all’opposizione. E, dunque, un importante riscontro a quanto raccontato finora dai principali accusatori. Ciò anche se le ammissioni di Marchese sono soltanto parziali: da un lato sostiene che i 58mila euro ricevuti “in bianco” dal Coveco sono regolari. Dall’altro, per quanto riguarda i finanziamenti “in nero”, precisa di aver ricevuto solo 150mila euro da Pio Savioli (ovvero dal Coveco, la componente “rossa” del Consorzio Venezia Nuova) a fine campagna elettorale 2010 per coprire le spese effettuate in eccesso, negando di aver mai ricevuto soldi da Mazzacurati.

 

 

Copyrights © 2012-2015 by Opzione Zero

Per leggere la Privacy policy cliccare qui