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Gazzettino – Marghera, il grande affare delle bonifiche

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29

ott

2014

QUELLE SOSPETTE “TRANSAZIONI AMBIENTALI”

Anche Orsoni sentito dai magistrati: così ho respinto minacce e pressioni

OLTRE IL MOSE – A giugno interrogatorio segreto a Roma di Baita. Un business da 500 milioni

Marghera, il grande affare delle bonifiche

Nuovo filone d’indagine. Nel mirino il ruolo del ministero dell’Ambiente e quello del Cvn

PORTO MAGHERA – Bonifiche nell’area industriale e l’ingegner Piergiorgio Baita

«Contatti con il mondo politico imprenditoriale e bancario»

MILANO Azienda controllata dal clan Galati aveva ottenuto due subappalti. «Controlli insufficienti»

Si è aperto un nuovo filone nelle inchieste riguardanti il Consorzio Venezia Nuova, la costruzione del Mose e, soprattutto, le bonifiche a Porto Marghera. Non si tratta degli interventi di risanamento ambientale che hanno fatto finire nei guai l’ex ministro Altiero Matteoli, indagato per corruzione e nei cui confronti il Tribunale dei ministri ha inviato richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera dei Deputati. È un capitolo del tutto inedito, che punta al cuore del Ministero. Se ne sta interessando l’autorità giudiziaria della capitale che mesi fa ha interrogato Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani Costruzioni, grande accusatore dei politici per i soldi pagati dal Consorzio. Le sue dichiarazioni hanno già contribuito a far finire in carcere l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan e l’ex assessore Renato Chisso. Ora aprono uno squarcio sul ruolo che il consorzio Venezia Nuova, con il presidente Giovanni Mazzacurati, ha avuto nella gestione dell’immenso capitolo delle bonifiche nella Laguna di Venezia.
Dal 2006 in poi, il Ministero dell’Ambiente ha incassato quasi una cinquantina di “transazioni ambientali” con i proprietari (in particolare aziende) di terreni di Porto Marghera. Complessivamente sono state raggiunte cifre imponenti, che superano i 500 milioni di euro. Ma proprio di quelle operazioni, in apparenza virtuose, avrebbero parlato due personaggi entrambi coinvolti nell’inchiesta Mose. Uno è Baita, l’altro l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni.
In gran segreto Baita è stato convocato a Palazzo Clodio a giugno, dopo che era scattato il blitz in Veneto con una trentina di arresti. A marzo il procuratore di Roma Pignatone aveva richiesto al pm di Udine, Viviana Del Tedesco, gli atti riguardanti la bonifica della Laguna di Grado e Marano, nell’ipotesi che si trattasse di un grande bluff per portare in Friuli decine di milioni di euro. Ma c’è di più. Roma ha acceso un faro sulla gestione del Ministero dell’Ambiente all’epoca in cui uno dei direttore generali era Gianfranco Mascazzini, indagato proprio a Roma assieme all’ex commissario straordinario della bonifica di Marano, Gianni Menchini e ad almeno un’altra quindicina di persone.
Perché il pm Alberto Galanti ha interrogato Baita? Per saperne di più sulla gestione delle bonifiche a Porto Marghera da parte del CVN. Il nome di Mazzacurati, padre-padrone del Mose, era infatti comparso anche nell’inchiesta friulana, ma la sua posizione è stata archiviata qualche mese fa. L’interesse di Mazzacurati alla bonifica friulana sembrava in qualche modo richiamare il ruolo che il Consorzio ha avuto nelle bonifiche a Marghera, uno dei 57 Siti di Interesse Nazionale (Sin) analogo a quello di Grado-Marano.
Per le bonifiche a Venezia sono arrivati molti soldi, provenienti dalle transazioni ambientali e finiti al Ministero dell’Ambiente. A gestirne una buona parte è stato il Consorzio in quanto soggetto attuatore. Baita avrebbe spiegato che per le bonifiche il ruolo del CVN è identico a quello rivestito per il Mose. Un potere assoluto nella gestione degli appalti. Baita avrebbe spiegato come funzionava – concretamente – il meccanismo delle “compensazioni ambientali” che sarebbe all’origine della disponibilità finanziaria per il Consorzio e per il sistema delle imprese che vi fanno parte.
Baita avrebbe anche aggiunto che qualche azienda non avrebbe voluto perseguire la via della compensazione con il Ministero, perché significava sborsare milioni di euro, in cambio del libero utilizzo delle aree, anche a fini di compravendita. Alle conferenze di servizi, deputate a esaminare i piani di risanamento, si trovava puntualmente proprio Mascazzini. I verbali di Baita racconterebbero, quindi, del ruolo dominante del potente direttore generale del Ministero a Marghera, ma anche dell’interessamento del Consorzio alla bonifica della Laguna di Grado e Marano.
Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia, invece era stato interrogato prima di finire in carcere per i finanziamenti ricevuti da Mazzacurati. E avrebbe delineato un quadro a tinte fosche del ruolo che il Ministero avrebbe avuto nel perseguire le “transazioni ambientali”, ricorrendo a forme più o meno velate di pressione. Il Comune di Venezia si sarebbe rifiutato di accondiscendere ai diktat di Mascazzini. Anche perché non sempre era provata l’esistenza di un inquinamento tale da indurre enti pubblici o imprese private a pagare milioni di euro per ottenere il via libera del Ministero.

Giuseppe Pietrobelli

 

GIUSTIZIA E SOCIETA’

di Ennio Fortuna

Condanna senza colpa? Lo scandalo Mose e i patteggiamenti

Molti lettori mi invitano a spiegare nel modo più semplice possibile le caratteristiche del patteggiamento. Secondo alcuni di essi in questi ultimi giorni gli interventi e le interviste di illustri magistrati, di autorevoli docenti e di famosi avvocati, spesso in contrasto l’una con l’altra, avrebbero reso ancora più oscuro il senso di quest’istituto nato con il nuovo codice con lo scopo di accelerare il corso della giustizia. Alcuni lettori ironizzano sul fatto che i difensori degli imputati (quasi tutti) avrebbero sostenuto addirittura che il patteggiamento richiesto dai clienti miri a favorire la giustizia, quasi che il conto sia per loro esclusivamente in perdita. I clienti sarebbero innocenti e comunque mancherebbe la prova del reato, e il patteggiamento, a questo punto, sarebbe un atto di pura generosità. Naturalmente gli avvocati fanno il loro mestiere e di norma lo fanno assai bene, e ovviamente anche nell’occasione in discorso mettono in luce gli aspetti di maggiore convenienza per i loro difesi. Ma questo non deve precludere la possibilità di capire il più e il meglio possibile il senso del ricorso al patteggiamento.
Certo, l’istituto è per sua natura ambiguo, al confine tra la condanna e l’oblazione volontaria, e già questo spiega le difficoltà.Ma quale è la differenza più importante tra la pena concordata con il Pm e la condanna vera e propria? A prima vista deve dirsi che la condanna presuppone l’accertamento della colpevolezza mentre il patteggiamento ne prescinde. Il codice sul punto è inequivocabile. Nel giudizio il giudice pronuncia la condanna per il reato contestato se l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, nel patteggiamento invece la pena è applicata esclusivamente sulla base dell’accordo con l’accusa, sempre però che il giudice lo ritenga corretto e adeguato, altrimenti l’operazione è bocciata. Nel primo caso c’è l’accertamento della colpevolezza, nell’altro non si accerta nulla perché di norma non c’è il giudizio. E’ ovvio però che l’accusato, in generale, patteggia solo o soprattutto se sa che nell’eventuale giudizio sarebbe condannato o rischierebbe la condanna. Non a caso anche qui il codice è lapidario. Salva diversa disposizione, la sentenza di patteggiamento è equiparata alla condanna, così si esprime l’art.445 del codice di rito. In altri termini chi patteggia è condannato. Il codice però non dice che il patteggiante è colpevole, e non può dirlo proprio perché il patteggiamento prescinde dal giudizio e quindi dall’accertamento della colpa. In pratica l’istituto realizza una finalità importante, tenacemente perseguita dal codice: esclude il giudizio, almeno di norma, prescinde dalla colpa e dal suo accertamento, ma garantisce una condanna attenuata e sollecita. I vantaggi, inequivocabili, sono del patteggiante (che esce dal processo con una condanna mitigata dall’attenuante speciale) ma anche dell’accusa che realizza il suo scopo di ottenere subito la condanna dell’accusato senza passare per un dibattimento faticoso, con il rischio della prescrizione.
Ci sono ancora due riflessioni: il patteggiamento è precluso se l’imputato è manifestamente innocente. In tal caso il giudice deve assolvere nel merito, ancorché vi sia richiesta concordata di applicazione della pena. Infine, e il rilievo si riferisce soprattutto al caso di Venezia, la condanna patteggiata può escludere l’applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, ma non la confisca. Il delitto di corruzione non prevede pene pecuniarie, l’unica sanzione irrogabile è la reclusione, anche se concordata. L’accordo tra accusa e difesa per il pagamento e la confisca di rilevanti somme di denaro presuppone perciò logicamente che un reato sia stato commesso perché la confisca è possibile o obbligata solo per le cose che ne sono il mezzo, il prodotto, il profitto o il prezzo. In definitiva chi patteggia la condanna non può essere palesemente innocente, ha interesse diretto all’accordo con l’accusa, e se concorda anche la confisca, tanto più se è contestato un illecito che prevede solo sanzioni detentive, finisce con il riconoscere o quanto meno non nega la sussistenza del reato che ne ammette o impone l’applicazione.

 

L’ex assessore Renato Chisso tornato a casa dall’ospedale

VENEZIA – Renato Chisso è tornato a casa dall’ospedale dove era stato ricoverato il 17 ottobre. Lo rende noto il suo legale di fiducia Antonio Forza che sottolinea come Chisso sia ancora notevolmente provato per la vicenda, per la sua cardiopatia e per il periodo di detenzione a Pisa iniziato il 4 giugno scorso quando è scattata l’operazione della Guardia di Finanza coordinata dalla Procura di Venezia che ha portato all’arresto di 34 persone.
L’ex assessore regionale alle Infrastrutture era tornato a casa, a Favaro, il 13 ottobre, in seguito all’accordo per il patteggiamento a 2 anni e 6 mesi tra Procura e Difesa. Quello stesso giorno il Gip Roberta Marchiori avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di scarcerazione per motivi di salute, decisione che è stata anticipata dal patteggiamento e che comunque sarebbe stata negativa. I periti del Gip infatti avevano scritto nella loro relazione che il carcere di Pisa era perfettamente attrezzato per curare Renato Chisso, il quale, dunque, poteva restare in carcere. Dopo 4 giorni passati a casa, ecco il ricovero all’Angelo e ora il ritorno nella sua abitazione di Favaro dove continuerà la terapia farmacologica. Intanto Chisso attende che si fissi la data dell’udienza per il patteggiamento. Il Gip Massimo Vicinanza, non ha ancora fissato l’udienza dove accetterà o meno il patteggiamento tra Chisso e la Procura e quello del segretario di Chisso, Enzo Casarin.

 

Il patron: «Tutti ci guardano con sospetto, costretti a cercare lavori all’estero»

Carmine Damiano: il danno all’ immagine dell’azienda è stato molto rilevante

PADOVA – La Mantovani, dopo aver girato pagina, presenta i conti a Piergiorgio Baita, l’ex ad che con le sue confessioni sui fondi neri creati a San Marino ha fatto scattare l’inchiesta Mose. Gli avvocati dell’azienda della famiglia Chiarotto hanno depositato nella sezione civile del tribunale di Venezia una richiesta di risarcimento esorbitante: 37 milioni di euro.

«Non so se Baita abbia tutti questi soldi, non mi pare così ricco e mi sono sorpreso quando ho visto la citazione, i conti li fanno gli avvocati e le sentenze le scrivono i giudici. E’ un atto dovuto» spiega Romeo Chiarotto «nei confronti di un manager infedele, che ha gravemente danneggiato l’immagine della Mantovani. A me interessa salvare i 1300 posti di lavoro, purtroppo quando partecipiamo ad una gara non ci vedono bene. Il settore delle grandi opere è in crisi, all’Expo di Milano stiamo costruendo la piastra che sarà la base su cui sorgeranno i 90 padiglioni: il cantiere ci è stato consegnato con un anno di ritardo e per rispettare la tabella di marcia si lavora giorno e notte, sabato e domenica. Ce la faremo».

Ma quei 37 milioni di risarcimento per i danni d’immagine e la «perdita di chance» come sono stati calcolati? Carmine Damiano, chairman della Mantovani, ripercorre tutte le tappe del nuovo corso: l’azione di responsabilità civile nei confronti di Baita è stata approvata dal Cda e dall’assemblea dei soci nel 2013 e conclude un percorso all’insegna della trasparenza. Prima tappa: l’acquisizione del 5% delle quote detenute dall’ex ad Baita, poi il nuovo Cda con il cambio della guardia e l’ingresso di Carmine Damiano, infine l’avvio dell’azione di responsabilità civile per ottenere il risarcimento per la pubblicità negativa e per gli appalti persi dalla Mantovani. Su quei 36,9 milioni di euro chiesti a Baita ci sono anche i 6 milioni di euro che l’azienda ha dovuto versare all’Agenzia delle entrate, dopo l’accertamento di evasione fiscale scoperto dalla Gdf. «Questa vicenda dei fondi neri creati da Baita a San Marino non mi va giù, gli azionisti non ne sapevano nulla, io firmavo i bilanci e basta. Cosa ne penso dello scandalo del Mose? Hanno infangato l’opera di ingegneria idraulica più importante del mondo. Noi non abbiamo corrotto nessuno né pagato tangenti, siamo vittime della spregiudicatezza di Baita, un eccellente manager, che ha fatto diventare grande la nostra azienda: lui ha fatto tutto di testa sua e sapeva che la Gdf ogni 3-4 anni controllava i nostri bilanci con un lavoro certosino perché restavano in azienda 2-3 mesi», spiega Romeo Chiarotto. E lo scandalo Mose? «Rispetto le sentenze, noi siamo entrati nel Consorzio Venezia Nuova nel 2003 con una piccola quota rilevata da Impregilo: noi e la Mazzi. Insomma, vent’anni dopo l’avvio della grande opera uscita dalla mente geniale di Giovanni Mazzacurati. Lo dico con orgoglio: i cassoni della bocca di porto di Treporti sono stati posati sul fondale alla perfezione, con una tolleranza di 3 mm. Tutti restano a bocca aperta, ci sono missioni ed esperti che arrivano da Cina, Indonesia, Kuwait in visita e non tollero che si «sputtani» un capolavoro di altissima tecnologia idraulica», dice Chiarotto. Il Mose tra un paio d’anni finirà, l’Expo di Milano pure: quali sono le prospettive della Mantovani? «Stiamo lavorando molto con l’estero, negli Emirati Arabi e nei paesi ad alto rischio sismico: le nostre tecnologie sono tra le migliori al mondo. E in Turchia, Cina, Corea, Venezuela, Portogallo e Grecia abbiamo ottime chance. A me preme una cosa sola: salvare i 1300 posti di lavoro e le loro famiglie e chiudere con l’incubo Baita».

Albino Salmaso

 

Gazzettino – Mantovani presenta il conto a Baita

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27

ott

2014

SCANDALO MOSE, AZIONE DI RESPONSABILITÀ

La Mantovani presenta il conto a Piergiorgio Baita per lo scandalo Mose. Il gruppo inizia un’azione di responsabilità e chiede all’ingegnere un risarcimento di 37 milioni di euro per sanzioni fiscali, danno d’immagine e perdita di opportunità economiche. La replica: «Mai sottratto nulla, i fatturati sono cresciuti».

Danni d’immagine Mantovani chiede 37 milioni a Baita

MOSE – Azione di responsabilità dell’azienda contro l’ex presidente finito nel ciclone di false fatturazioni e tangenti

«Risarcisca 37 milioni di euro per sanzioni fiscali, danno d’immagine e perdita di opportunità economiche»

PADOVA – Passi per i 6 milioni di euro che la Mantovani dovette sborsare, circa un anno fa, per le imposte evase, le sanzioni fiscali e gli interessi maturati, a seguito dello scandalo delle false fatturazioni orchestrate dall’ingegnere Piergiorgio Baita. Ma gli altri 31 milioni di euro, tra danni d’immagine e appalti mancati, sono davvero una cifra imponente. Eppure che Romeo Chiarotto e i suoi figli prima o poi avrebbero presentato il conto al presidente della società, lo si sapeva da un pezzo. Si attendeva soltanto di conoscere il quantum. Adesso la cifra di 37 milioni è diventata di pubblico dominio, visto che una ventina di giorni fa Baita si è visto recapitare un atto di citazione da parte della Mantovani.

Da una parte il patriarca del gruppo padovano, dall’altra l’ingegnere brillante e capace – come un prestigiatore – di moltiplicare gli appalti, e quindi fatturati e guadagni della società. «Ma noi siamo parte lesa» ha sempre dichiarato Romeo Chiarotto da quando, nel marzo 2013, si spalancarono le porte del carcere per Baita. Lo aveva ripetuto anche a luglio dello stesso anno, quando le confessioni di Baita avevano fatto finire in carcere Giovanni Mazzacurati, il padre-padrone del Consorzio Venezia Nuova. Lo ha ribadito lo scorso giugno, quando la retata della Finanza ha portato in galera una trentina di persone, per lo scandalo politico-giudiziario più grande che abbia colpito il Nordest.

Il 4 giugno gli investigatori della Finanza erano andati a perquisire anche le abitazioni del patron della Chiarotto e del figlio Giampaolo (entrambi nel cda del Consorzio Venezia Nuova), che però non sono mai stati indagati. Il 5 giugno l’ultraottantenne Romeo Chiarotto aveva dichiarato con una determinazione che già faceva presagire l’iniziativa giudiziaria di questi giorni. «Noi, come Mantovani e come famiglia, siamo completamente fuori dalle indagini. Lo dico perché nonostante tutto quello che abbiamo chiarito e anche pagato sulla nostra pelle, la Mantovani continua ad essere associata a dei corruttori. Ricordo che abbiamo reciso i contatti con l’ingegner Baita da un anno e mezzo. Del resto non sapevamo niente. Se avessi capito che si emettavano fatture da San Marino, l’avrei impedito. Era logico che prima o poi sarebbe emerso».

E riferendosi alle inchieste milanesi sull’Expo, dove la Mantovani ha acquisito un appalto di grande rilevanza, aveva aggiunto: «Il Gip di Milano ha parlato di un gruppo criminale ma non si riferiva a noi, ma ai filibustieri di cui si fidava Baita». Guerra aperta, anche perchè Mantovani aveva pagato 6 milioni di euro nel 2013 ed è impegnata a far lavorare 1500 persone, 400 nella Fip di Selvazzano (che realizza le cerniere del Mose), 400 nella Mantovani e 700 nei cantieri dell’Expo, dove si lavora in due turni di dieci ore al giorno, anche il sabato e la domenica.

Nella maxi-richiesta di risarcimento confluiscono tutti i tre filoni delle inchieste che ruotano attorno a Baita. Il primo è quello delle false fatturazioni (marzo 2013), il secondo quello dell attività del Consorzio Venezia Nuova e di Mazzacurati (luglio 2013), il terzo quello del Mose. Una parte dell’atto che introduce l’azione di responsabilità nei confronti di Baita, in quanto amministratore considerato infedele, si riferisce però a notizie giornalistiche. Lo sostiene Alessandro Rampinelli, il penalista che assiste Baita assieme al civilista Ruggero Sonino. «L’ingegner Baita esclude in modo categorico di aver mai creato o voluto creare danni alla Mantovani. Non ha mai sottratto nulla alla società. E ora, da dichiarazioni di Romeo Chiarotto, abbiamo anche la conferma che sotto la sua amministrazione i fatturati siano enormemente cresciuti».

La citazione calcola non solo i soldi sborsati con il Fisco, ma anche la perdita di opportunità imprenditoriali a causa delle inchieste riguardanti la gestione da parte di Baita. Ma soprattutto insiste sul danno di immagine per un gruppo di primo piano in Italia.

G. P.

 

Gazzettino – Vitalizio a Galan? No, anzi si’.

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25

ott

2014

Il presidente del Consiglio veneto cerca di spegnere il caso, ma la sua nota si rivela una conferma: per la legge l’ex governatore, una volta decaduto da deputato, potrà incassare l’assegno regionale

Giancarlo Galan, quando non sarà più parlamentare, percepirà il vitalizio della Regione per i suoi quindici anni di consigliere e governatore del Veneto, come peraltro ha fatto nei primi due mesi del 2013, prima di entrare a Montecitorio. Galan prenderà il vitalizio anche se ha patteggiato – anzi, proprio perché ha patteggiato – una pena di 2 anni e 10 mesi e una multa di 2,6 milioni di euro per lo scandalo del Mose. Lo dice – anche se forse l’intendimento era un altro – il presidente del consiglio regionale del Veneto, Clodovaldo Ruffato, che ieri, appresa della volontà del gruppo dell’Idv di sollevare un caso politico sulla vicenda, ha diffuso una nota “rasserenante”. Peccato che la stessa nota, pur densa di riferimenti di normativi, confermi la prossima futura erogazione del vitalizio. A meno che – mai dire mai – Ruffato, magari in applicazione dell’agognata autonomia del Veneto, non riesca a modificare la legge statale e il Codice penale e a stabilire che il patteggiamento equivale a una condanna. Perché la legge citata da Ruffato dice proprio questo: chi è «condannato in via definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione» non prende il vitalizio. Ma chi ha patteggiato? Era, del resto, il tema che intendeva sollevare l’Italia dei valori e che ieri ha effettivamente formalizzato con la presentazione di una interrogazione, ricordando di essere stato il primo gruppo in Veneto ad affrontare la questione dei vitalizi (ma sulla trasparenza anche Ruffato rivendica il primato: «È un cavallo di battaglia della mia presidenza in Consiglio»).

Comunque, ieri il capigruppo dell’Idv, Antonino Pipitone, ha chiesto di fare chiarezza: «La politica deve affrontare una seria riflessione sul fronte vitalizi-patteggiamento, magari modificando la legge attuale. E’ eticamente corretto che un politico, eletto per amministrare la cosa pubblica e che poi ha patteggiato una pena per accuse legate al proprio ruolo, possa godere del vitalizio, ottenuto proprio per il suo mandato elettivo? Magari inserendola nel dibattito sulla natura giuridica dell’istituto del patteggiamento – ha insistito Pipitone – ma la questione va affrontata. Secondo noi, il patteggiamento dovrebbe prevedere la perdita dei privilegi che spettano ai politici e dei ruoli istituzionali, a cominciare proprio dal vitalizio».

A stretto giro è arrivata la risposta di Ruffato. «Allo stato attuale nessun politico o consigliere coinvolto in pesanti vicende giudiziarie sta percependo un vitalizio regionale». Oggi. Ma domani? Ad esempio, se Giampietro Marchese, che per la vicenda del Mose ha patteggiato 11 mesi e 20mila euro e si è dimesso da consigliere regionale del Pd, chiedesse di riavere il vitalizio per i precedenti mandati – vitalizio che ha percepito anche nel 2013 prima di tornare a Palazzo Ferro Fini al posto di Andrea Causin – cosa gli si dirà? Ruffato cita la legge regionale 47/2012 e la legge statale 231/2012 che rimanda agli articoli 28 e 29 del Codice penale che escludono l’erogazione dell’assegno vitalizio a chi sia condannato in via definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione. Il punto è che su condanna e patteggiamento il giudizio etico non ha una equivalenza giuridica. Tant’è che i giuristi sulla questione danno interpretazioni opposte. È per questo che la “tranquillizzante” nota di Ruffato si rivela nei fatti una conferma.

Da registrare, infine, il battibecco a distanza tra il presidente del Ferro Fini e il capigruppo dell’Idv. Recita la nota di Ruffato: “Lavoriamo sulle leggi, sui fatti e sulle cose concrete che i cittadini veneti si attendono e non perdiamo tempo dietro ad argomenti che probabilmente servono per ottenere visibilità sui giornali, ma che non hanno alcun motivo politico di esistere. Soprattutto quando sono superati dai fatti e dalle leggi esistenti”.

Replica di Pipitone: “In quanto a ricerca di visibilità abbiamo solo da imparare. Per il resto, dal presidente del consiglio regionale, che di certo tutela tutti i gruppi (anche quelli piccoli e di opposizione), su patteggiamento e vitalizi attendiamo una risposta ufficiale alla nostra interrogazione che è stata depositata solo in tarda mattinata. Non che utilizzi le anticipazioni dei giornali per delle esternazioni”. Ma sul punto, Pipitone insiste: «Le questioni che abbiamo aperto non sono “perdite di tempo”. Sono argomenti molto seri. E gradiremmo una risposta ufficiale. Nello specifico, se Ruffato tira in ballo la legge regionale 47/2012, nessuno meglio di lui potrà spiegare che è il recepimento copia-incolla del decreto Monti, attuato al volo altrimenti Roma chiudeva alcuni rubinetti di stanziamento. Proprio questo è uno dei nostri quesiti. La legge Monti (e quindi la lr 47/2012 del Veneto) parlano di “condannato in via definitiva”. Ma chi ha patteggiato rientra in questo novero o no? Non abbiamo inoltre visto, all’indomani del 16 ottobre (udienze di accoglimento dei patteggiamenti), nessuna spiegazione ufficiale sul tema, mentre l’opinione pubblica continua a basarsi, per il vitalizio, sull’elenco apparso sul sito del Consiglio regionale il giorno dopo la nostra richiesta di trasparenza del 6 agosto. Secondo noi i veneti meritano chiarezza e trasparenza. E risposte ufficiali».

lda Vanzan

 

Pipitone (Idv) va all’attacco della Regione. In ballo anche gli assegni di Chisso e Marchese

VENEZIA – Giancarlo Galan riceverà il vitalizio da ex consigliere regionale per i suoi 15 anni di presidente della regione, oppure quando la sentenza di patteggiamento sarà definitiva decadrà da deputato, come prevede la legge Severino, e perderà anche il vitalizio da parlamentare e da ex consigliere regionale? Il quesito, più che giuridico, sta diventando fonte di risse in consiglio regionale perché Antonino Pipitone ha sollevato il caso: «Non è giusto pagare i vitalizi a chi è stato condannato». E in ballo non c’è solo Galan, ma anche Renato Chisso, ex assessore, sospeso dalla giunta veneta grazie alla legge Severino e in attesa di patteggiare la sua pena, e poi Giampiero Marchese, ex consigliere regionale Pd che si è dimesso dopo aver patteggiato con la procura di Venezia. I casi sono tre. Ma la domanda che tutti si fanno è assai intricata: il patteggiamento equivale ad una sentenza di condanna? I difensori degli imputati dicono di no, i pm e i gip invece pensano l’esatto contrario. Ma cosa accadrà nel concreto? Solo con la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici scatta la decadenza da parlamentare o consigliere regionale. Ruffato mette in chiaro che Galan ha ricevuto il vitalizio della Regione, dopo i 55 anni, quando non era più ministro né deputato: un periodo molto breve perché nel 2013 è stato rieletto a Montecitorio e il vitalizio veneto si è interrotto. Ora tutti attendono che il patteggiamento diventi sentenza definitiva: la decisione del gip Galasso può essere impugnata dai difensori o dal procuratore generale Calogero e in tale caso a decidere sarà la Cassazione. Tra qualche giorno scadono i termini e quindi si capirà con quali tempi la sentenza Galan diventerà definitiva. Il presidente del consiglio regionale risponde all’Idv e precisa che il Veneto è una «delle primissime regioni che hanno recepito il decreto legge 174.2012 Monti con la legge regionale 47. Voglio quindi assicurare i cittadini sul fatto che allo stato attuale nessun politico o consigliere coinvolto in pesanti vicende giudiziarie sta percependo un vitalizio regionale». La legge a cui si riferisce Ruffato è «Disposizioni per la riduzione e il controllo delle spese… (21 dicembre 2012, n. 47)». Ruffato si riferisce nello specifico all’ articolo 7 nella quale si precisa che «è esclusa, ai sensi degli articoli 28 e 29 del Codice penale, l’erogazione dell’assegno vitalizio in favore di chi sia condannato in via definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione» (comma 2). Inoltre il titolare dell’assegno vitalizio «è tenuto a certificare l’insussistenza di condanne in via definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione e, in caso di sopravvenute condanne in via definitiva per delitti contro la pubblica amministrazione, è tenuto a darne comunicazione entro cinque giorni, fatta salva la possibilità di procedere in via d’ufficio» (comma 3). Tra commi e codici c’è da impazzire: «La trasparenza del nostro operato in tema di vitalizi è assolutamente evidente», conclude Ruffato.

L’Idv non è però soddisfatta e torna alla carica: non si deve pagare mai.

L’ultima mossa però la decideranno gli avvocati Ghedini e Franchini: un loro ricorso in Cassazione contro il patteggiamento, consentirebbe a Galan di restare deputato fino alla sentenza definitiva. Con l’indennità intera pagata da Roma . Sarà così?

Albino Salmaso

 

Gazzettino – A Galan il vitalizio regionale

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24

ott

2014

Idv all’attacco: è giusto pagarlo ai politici coinvolti nel caso Mose?

Il patteggiamento e il problema dell’interdizione dai pubblici uffici

L’ex governatore, quando decadrà da deputato, incasserà l’assegno da ex consigliere veneto

Se un politico patteggia la pena, perché deve continuare a prendere il vitalizio? Perché devono essere i veneti a contribuire a pagare la multa concordata con i giudici?
Il tema tiene banco in consiglio regionale del Veneto e riguarda, per ora, l’ex governatore Giancarlo Galan, uscito dal procedimento dello scandalo del Mose dopo aver patteggiato una pena di 2 anni e 10 mesi e il pagamento di una multa di 2,6 milioni di euro. A Palazzo Ferro Fini se ne parla anche perché Galan, governatore e consigliere regionale per quindici anni, è uno dei 226 titolari di vitalizi erogati dalle casse della Regione. Tanto che, prima ancora che esplodesse lo scandalo delle dighe mobili, non era passato inosservato il fatto che parecchi ex che nel frattempo avevano avuto altri incarichi politici, figurassero nell’elenco dei titolari di “pensione”. Tant’è, il gruppo consiliare dell’Italia dei valori è deciso a sollevare il caso politico. Ossia: è etico che un politico, eletto per amministrare la cosa pubblica e che patteggia una pena per accuse legate al suo ruolo di amministratore, continui a godere del vitalizio, vale a dire quella “pensione” ottenuta in virtù del precedente mandato elettivo?
Val la pena ricordare che quello dei vitalizi è un cavallo di battaglia dell’Idv. È partita da questo gruppo consiliare la richiesta di rendere noti i nomi dei titolari di assegni vitalizi e di reversibilità – e dallo scorsa estate i nomi sono pubblicati nel sito “Trasparenza” del consiglio regionale. Tra l’altro, l’elenco, riferito al 2013, riporta anche i nomi di Giancarlo Galan, divenuto parlamentare nel marzo di un anno fa (ha preso il vitalizio per i due mesi prima di andare a Roma), e di Flavio Zanonato, che prima di diventare eurodeputato era ministro. Il cumulo non è possibile in alcuni casi: la legge regionale numero 9 del 1973 dice che l’assegno è “sospeso se il titolare viene eletto al parlamento nazionale, al parlamento europeo o ad altro consiglio regionale” e specifica che “l’assegno è ripristinato con la cessazione dell’esercizio dei relativi mandati”. Dunque, posto che attualmente Galan non può percepire il vitalizio perché gode già dell’indennità di parlamentare, la “pensione da politico” tornerà ad essergli erogata quando cesserà il mandato di deputato. E su questo tema, appunto, è decisa a puntare i piedi l’Idv: è (o sarà) pagato il vitalizio ai politici coinvolti nella vicenda del Mose? E l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, che implica anche la perdita di stipendi e pensioni a carico di enti pubblici, può valere anche per i casi di patteggiamento?
E sul patteggiamento di Galan, ieri a “La Zanzara” su Radio 24 è intervenuto anche l’ex sindaco di Padova ed europarlamentare del Pd, Flavio Zanonato: «Galan? Non ci tengo che le persone stiano in carcere, voglio solo conoscere la verità dei fatti. Ma normalmente una persona innocente vuole andare fino in fondo per dimostrare la sua innocenza, io sarei andato fino in fondo». All’obiezione che Galan non si sente colpevole e che voleva uscire dal procedimento perché non ce la faceva più di stare in carcere, Zanonato ha ribattuto: «Il patteggiamento sospende il giudizio e non è una sentenza di colpevolezza, ma è una specie di scusa quella di dire che usa il patteggiamento perché non ce la fa più».

Alda Vanzan

 

Gazzettino – Controlli antimafia ai cantieri del Mose

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24

ott

2014

Il presidente di Mantovani: «Tutto in regola come a luglio»

Ieri mattina, vedendo le auto delle forze dell’ordine e addirittura della Direzione investigativa antimafia parcheggiate all’interno dei cantieri del Mose a Punta Sabbioni, qualcuno potrebbe aver pensato a un nuovo blitz della Procura. L’inchiesta sulle tangenti si sta invece avviando alla conclusione e quasi tutti gli indagati principali hanno scelto il patteggiamento per uscire il più velocemente possibile. Quello di ieri era un accertamento periodico in base al protocollo di legalità firmato in prefettura a Venezia per prevenire i tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nel settore dei contratti pubblici e delle aziende private. Oltre alla Fincantieri e alle società concessionarie autostradali, anche il Consorzio Venezia Nuova aveva chiesto la certificazione antimafia e questo implica anche dover sottostare a diverse ispezioni. «Un controllo di routine» – commentano dalla Prefettura.
Ieri, di buon mattino, si sono presentati a Punta Sabbioni carabinieri, guardia di finanza, Dia e Ispettorato del lavoro. È stato fatto un lungo sopralluogo nell’area di lavoro e sono stati controllati gli uffici. Lo scopo era acquisire elementi informativi aggiornati sulla titolarità e l’effettiva presenza delle aziende operanti nel cantiere, volti a verificare il rispetto delle norme contrattuali, delle norme di sicurezza, della tutela della salute dei lavoratori, del rispetto dell’ambiente, e della trasparenza dei movimenti finanziari sui lavori e servizi garantiti dalle ditte appaltatrici, subappaltatrici e contraenti.
«Da quanto sono a conoscenza – ha spiegato Carmine Damiano, presidente della Mantovani del dopo era Baita – nessun rilievo è stato mosso al termine del controllo svolto dal gruppo interforze. Siamo a posto – ha aggiunto – così come avevano dimostrato i precedenti controlli fatti in altri cantieri della società il 10 e 11 luglio scorsi. Oggi più che mai Mantovani è un’azienda che opera nel pieno rispetto delle leggi».
Non solo controlli necessari. «Siamo noi stessi – ha concluso – a sollecitarli, rimanendo a completa disposizione delle autorità competenti».

M.F.

 

Una cinquantina di uomini del gruppo interforze ieri mattina a Punta Sabbioni

Il presidente della Mantovani: «Nessun rilievo è stato mosso dopo le verifiche»

CAVALLINO – Cinquanta uomini del gruppo interforze coordinato dalla prefettura e composto da carabinieri, guardia di finanza, uomini della Direzione investigativa antimafia e dell’Ispettorato del lavoro hanno bussato ieri mattina al cantiere per la costruzione del Mose alla bocca di porto del Lido, a Punta Sabbioni, per controlli anti-mafia. Sono verifiche di tipo amministrativo nel corso delle quali gli uomini della Dia controllano ed eventualmente chiedono copia di atti e contratti per verificare che non ci siano infiltrazioni di tipo mafioso che potrebbero portare a misure di interdizione. Il gruppo interforze ha l’obiettivo di acquisire elementi informativi aggiornati sulla titolarità e l’effettiva presenza delle aziende operanti nel cantiere, volti a verificare il rispetto delle norme contrattuali, le norme di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori, di rispetto dell’ambiente, e la trasparenza dei movimenti finanziari sui lavori e servizi garantiti dalle ditte appaltatrici, sub-appaltatrici e contraenti. Gli uomini della Dia sono arrivati a Punta Sabbioni verso le 10 bloccando l’ingresso al cantiere di lungomare Dante Alighieri. L’ispezione è proseguita fino alla tarda mattinata. «Da quanto sono a conoscenza nessun rilievo è stato mosso oggi al termine del controllo svolto dal gruppo interforze nel cantiere del Mose gestito dalla Mantovani alla bocca del Lido», ha fatto sapere in una nota, il presidente della Mantovani, Carmine Damiano, ex questore di Treviso. «Nessun rilievo durante l’ispezione», ha aggiunto, «così come negativi erano stati i controlli fatti in altri cantieri della società il 10 e 11 luglio scorsi. Oggi più che mai Mantovani è un’azienda che opera nel pieno rispetto delle leggi».

(f.fur.)

 

Nuova Venezia – Le pietre del Mose

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23

ott

2014

La Procura attende notizie dalla Croazia

I legali di Galan smentiscono: «Non ha mai avuto cave»

Pipitone (Idv) chiede a Zaia di scavare in questa storia»

VENEZIA – Le notizie arrivate dall’Istria sul conto degli affari che Giancarlo Galan avrebbe avuto in Croazia, riassunte nelle rivelazioni del deputato dei Democratici istriani Damir Kajin, hanno fatto drizzare le orecchie ai pubblici ministeri e agli investigatori del Nucleo di Polizia tributaria di Venezia. Notizie seccamente smentite, ieri, dai difensori dell’ex presidente del Veneto, gli avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini. Gli inquirenti sono impazienti di ricevere le informazioni che hanno chiesto attraverso le rogatorie anche alle autorità di Zagabria, oltre che a quelle della Svizzera, dell’Austria, della Slovenia, della Moldavia e dell’Ucraina. Avrebbero, infatti, richiesto non solo accertamenti sull’esistenza o meno di conti correnti o cassette di sicurezza intestate a Galan o ai parenti in banche di quei Paesi, ma anche l’esistenza di partecipazioni societarie. E il deputato istriano sostiene nelle sue dichiarazioni che Galan sarebbe stato socio occulto in una ditta alla quale sarebbe stato concesso dalle autorità croate di estrarre massi da una cava, massi che sarebbero stati utilizzati per le dighe alle bocche di porto del Lido, Malamocco e Chioggia. Da tener presente che la verifica fiscale della Guardia di finanza alla cooperativa San Martino, verifica dalla quale è partita l’indagine sul Mose, ha messo in luce che i massi acquistati in Croazia venivano pagati un terzo in più del loro valore e che quelle cifre erano poi trasferite all’estero e sarebbero andate a formare i fondi neri per versare le tangenti. «Le dichiarazioni rese dal deputato istriano Damir Kajin, riportate nell’articolo, meritano una smentita radicale, appaiono esercizio di pura fantasia e sono palesemente diffamatorie», affermano invece gli avvocati difensori di Galan. «L’onorevole Galan», proseguono, «non è mai stato titolare né diretto né indiretto di cave di pietra in Istria, né, tantomeno, ha ottenuto la concessione delle stesse attraverso pretese attività illecite, e si rivolgerà, quindi, all’Autorità giudiziaria per esperire tutte le azioni che riterrà opportuno a tutela della verità». Chiede chiarezza sulla vicenda il consigliere regionale di Italia dei Valori Antonio Pipitone. «Da dove provengono», chiede il politico IdV, «le pietre utilizzate per realizzare il sistema di dighe mobili lagunare? Chiediamo al presidente della Regione Zaia se voglia fare accertamenti e verifiche, visto che questa vicenda riguarderebbe il suo predecessore a Palazzo Balbi. Siamo consci che il Mose è un’opera statale, ma gli intrecci dell’inchiesta con il cammino della Regione, in questi mesi, non sono purtroppo mancati. Per questo – conclude Pipitone – e per contribuire a fugare ogni dubbio domandiamo a Zaia se, per quanto di sua competenza, voglia scavare in questa storia di massi, navi e dighe».

Giorgio Cecchetti

 

Senato, incardinata procedura su Matteoli

ROMA. Nella seduta di ieri della Giunta per le Immunità del Senato è stata incardinata la procedura nei confronti di Altero Matteoli, il senatore di Forza Italia, ex ministro delle Infrastrutture, coinvolto nell’inchiesta bonifiche di Marghera. Il relatore, secondo quanto si apprende, sarà il presidente della Giunta Dario Stefàno (Sel). Il Tribunale dei ministri di Venezia ha chiesto alla Giunta l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex titolare del dicastero. L’ipotesi è che l’esponente forzista abbia ricevuto denaro per una serie di bonifiche ambientali dei siti inquinati di Mestre. Circostanze che l’ex ministro ha sempre smentito chiedendo che il Senato conceda l’autorizzazione ai magistrati. Tra una decina di giorni, sempre secondo quanto si apprende, il senatore dovrebbe venire ascoltato dalla Giunta.

 

Deputato accusa

«Era di Galan la cava di pietre per il Mose»

Un deputato istriano accusa: «Ha guadagnato 50 milioni, corrompendo i funzionari». Proposta la revoca dell’onorificenza

«La cava di pietre per il Mose era di Galan»

POLA (Croazia) «Avere una casa a Rovigno era il sogno della mia gioventù. Mio padre ci portava me e mio fratello a pescare “riboni” sin da quando avevamo 8 o 9 anni. E io ho sempre detto che me la sarei presa, una casa a Rovigno, se ne avessi avuto la possibilità. Ce l’ho fatta nel 2000». A raccontarlo, tempo fa, confidando il suo legame speciale con l’Istria e l’intera Croazia, Giancarlo Galan. L’ex doge del Veneto travolto dallo scandalo del Mose e dal turbinio di mazzette in laguna. Ma quel legame speciale, che risale all’infanzia e che si è concretizzato nell’acquisto della casa a Rovigno ma anche di un appartamento a Lussino e (pare) di diversi terreni, ora rischia di rivelarsi un boomerang: l’ex doge che sta scontando nella villa di Cinto Euganeo gli arresti domiciliari, dopo il patteggiamento, viene pesantemente messo sotto accusa proprio nella sua amata Istria. Un deputato di peso, Damir Kajin, fondatore e leader dei Democratici istriani, muove un attacco ben più circostanziato spiegando che Galan ha ottenuto la concessione di una cava di pietra, quella di Castelnuovo (Rakalj), dal 2006 al 4 maggio 2011. La cava, che si trova sulla costa orientale dell’Istria, si è rivelata un affare d’oro: l’ex governatore del Veneto, aggiunge il deputato, vi ha estratto enormi quantità di pietra che ha fatto trasportare a Venezia proprio per il progetto Mose. Kajin fornisce addirittura i numeri. Numeri da capogiro: «3.800 navi sono salpate da Castelnuovo alla volta della laguna ciascuna con un carico di 3mila tonnellate di pietra». Subito dopo il deputato, un tempo membro di spicco della Dieta istriana, lancia la “bomba” e afferma che Galan avrebbe ottenuto la concessione in maniera illecita con la complicità di funzionari del Comune di Marzana e della Regione istriana. Non basta: Kajin aggiunge che, grazie allo sfruttamento della cava, l’ex governatore avrebbe messo in tasca «circa 50 milioni di euro». C’è poi un’altra cava sul mare, quella di Antenal a Cittanova, che avrebbe fornito altra pietra per il Mose. Il deputato istriano non teme smentite o querele tanto da invitare la magistratura croata a verificare le sue affermazioni che potrebbero compromettere i “complici” istriani di Galan. Una cinquantina di funzionari regionali e locali, sempre secondo Kajin, avrebbero infatti seguito il berlusconiano di ferro in speculazioni e magheggi, intascando ciascuno una media di due milioni di euro (affermazioni gravissime, tutte da dimostrare, che vanno prese per quelle che sono accuse di un deputato di un paese straniero, considerato che Galan, essendo in questo momento agli arresti non può comunicare con l’esterno e quindi non può nemmeno difendersi dalle accuse. Non si può escludere che Galan venga tirato in mezzo a logiche di scontro politico croato, ndr). I media croati, mentre rivelano che operava in Istria tramite la società Franica registrata proprio a Rovigno, ricordano che Galan vantava rapporti ai massimi livelli con il potere croato: era molto amico dell’ex premier Ivo Sanader e dell’ex presidente della Regione istriana Ivan Jakovcic. Non basta. I “rumors” si spingono oltre e sostengono che Galan, quando veniva in Istria, si dava alla bella vita: ricchi banchetti e festini “hard”. Voci tutte da dimostrare, ma voci, accuse, insinuazioni stanno causando le prime reazioni: il presidente dell’Assemblea regionale dell’Istria, Valter Drandic, ha avviato la procedura per la revoca dello Stemma della Regione istriana conferito a Galan nel 2007 a titolo di riconoscimento per il suo contributo al rafforzamento dei rapporti tra l’Istria e il Veneto e per il suo appoggio alla Croazia nel cammino verso l’Ue. A proporre lo Stemma era stato Jakovcic, un grande amico, appunto.

(p.r.)

 

Boldrini ai 5Stelle: «Non posso costringere l’ex doge a dimettersi»

L’ex doge ha dimostrato in questi anni di non amare esclusivamente l’Istria, avendo pure un occhio di riguardo verso un’isola particolarmente gradita ai veneti, quella di Lussino. Stando a quanto confermato dallo stesso Galan, a Lussino possiede infatti la porzione indivisa di un immobile di cui è proprietario assieme a Paolo Venuti e Luigi Rossi Luciani. Il primo è il suo commercialista, anche lui finito in carcere, Rossi Luciani è l’ex presidente degli industriali del Veneto. L’abitazione lussignana, così ha spiegato l’ex governatore, è stata acquistato quattro anni fa per una cifra di circa 60 mila euro. Galan ha precisato di possedere la parte meno pregiata dell’immobile e cioè la porzione che non ha la vista mare. A prescindere da viste panoramiche o meno, Galan non ha mai perso l’occasione di fare puntate a Lussino e di aiutare il capoluogo isolano in campo culturale. Tre anni fa, in veste di ministro per i Beni e le Attività culturali, ha inaugurato la nuova sede della Comunità degli italiani e la sezione in lingua italiana dell’asilo infantile “Cicala”, eventi di importanza storica per i connazionali dell’isola. In qualità di governatore del Veneto, anni addietro Galan donò 100mila euro per i lavori di riassetto di Palazzo Quarnero, scelto quale dimora dell’Apoxyomenos o Apossiomene, la statua bronzea del primo secolo avanti Cristo, rinvenuta negli anni ’90 sui fondali lussignani. Galan diede un tangibile contributo alla valorizzazione del patrimonio storico–culturale. E a proposito di cultura il M5S ha inviato una richiesta alla presidente della Camera, Laura Boldrini, di «rappresentare al presidente Galan la richiesta di dimissioni dall’incarico di presidente della Commissione Cultura della Camera», «visto che ha chiesto un patteggiamento nell’inchiesta Mose». «Ci chiediamo come sia possibile che un deputato posto agli arresti domiciliari possa ancora ricoprire il ruolo di presidente di una commissione». Boldrini nella sua risposta di lunedì sottolinea che «a norma dell’art.3 del decreto legislativo 235 del 31 dicembre 2012, non appena riceverà la comunicazione dall’autorità giudiziaria di una sentenza definitiva di condanna, potrà assumere, ove ne ricorrano i presupposti, le conseguenti decisioni di sua competenza in ordine agli effetti di tale sentenza». Ma che, al momento, «la rinuncia alla carica di presidente di commissione non può che discendere dalle autonome determinazioni del deputato Galan».

 

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