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Commissariare il Consorzio è stato un passo importante ma prevenire a 360 gradi è impossibile «Il killer è dentro abiti perfetti»

«A volte ho più rispetto per i casalesi che per i colletti bianchi». Una provocazione che fa ancora più effetto se a pronunciarla è un magistrato che ha dedicato gran parte della sua vita professionale a combattere la Camorra e che ora si trova a dover fare i conti, con cadenza quasi quotidiana, con la rete di malaffare che sconvolge la vita economica dell’Italia.

Sono le parole con cui si apre “Il male italiano. Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese” (Rizzoli, pp 198), libro-intervista di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione, con Gianluca Di Feo, giornalista dell’Espresso.

È un viaggio nel cuore della corruzione («il peccato capitale della democrazia») che parte dall’Expo di Milano, attraversa la Venezia del Mose e arriva a Roma, dove «l’odore del potere» si sente ovunque.

Ma chi sono i colletti bianchi cui si riferisce Cantone? Politici, burocrati, imprenditori, faccendieri che mostrano una maschera, «dietro la quale si nasconde una persona pronta a fregarsene della legge e della collettività per il proprio tornaconto, che si tratti di accumulare soldi o potere».

Vent’anni dopo Tangentopoli nulla sembra infatti essere cambiato. Da quando è stato nominato presidente dell’Anac, nel marzo dell’anno scorso, Cantone si è infatti spesso imbattuto negli stessi protagonisti di allora: i Greganti, i Maltauro e i Frigerio a Milano, Piergiorgio Baita a Venezia.

Solo il meccanismo della corruzione si è evoluto: se vent’anni fa erano le mazzette, magari nascoste dentro scatole di cioccolatini, ora il sistema è più sofisticato e pervasivo, capace di entrare nel cuore di quelle istituzioni che, al contrario, dovrebbero fare da argine al malaffare.

L’esempio certamente più emblematico è il Mose di Venezia, la grande diga che una volta in funzione dovrebbe difendere la laguna dalle acque alte, ma che nel corso degli anni si è trasformata in una grande mangiatoia, capace di inghiottire miliardi di euro di soldi pubblici. Uno scandalo che Cantone si è trovato a dover affrontare in prima persona, arrivando a commissariare il Consorzio Venezia Nuova grazie ai poteri che il governo Renzi gli ha affidato dopo gli arresti per l’Expo. Una vera rivoluzione in laguna, se si considera che per trent’anni nessuno era mai riuscito a mettere in discussione l’immenso potere del concessionario unico.

«È una vicenda molto più inquietante, più grave di quello che si è scoperto su Expo», scrivono Cantone e Di Feo, «grazie a questi denari da Venezia la corruzione si è insinuata ovunque, non c’è istituzione locale o nazionale che non sia stata coinvolta nelle indagini, con accuse a esponenti di tutti gli schieramenti politici».

Ed è proprio prendendo spunto da quanto accaduto in laguna che Cantone indica una possibile via d’uscita da questo labirinto di corruzione in cui l’Italia sembra essersi persa.

«Ma è solo un problema di norme?», si chiede il magistrato, «faccio fatica a crederlo. Anche cambiando, come auspico, le regole sugli appalti, mi pare difficile si riesca a impedire il ripetersi di situazioni così incancrenite, in cui sono invischiati controllati, controllori, ceto politico: un’intera classe dirigente, compresi appartenenti alle forze dell’ordine e a organismi di controllo, è stata coinvolta negli intrallazzi o ha chiuso gli occhi. È evidente quindi che per uscirne bisogna fare scelte chiare sul piano della discontinuità, politica e culturale».

E il primo seme è stato gettato proprio nella laguna di Venezia con il commissariamento del Consorzio, sei mesi dopo la grande retata del 4 giugno 2014. Grazie alle indagini della magistratura si è messo mano a un sistema che, grazie al fiume di denaro che gli era garantito dalla Legge Speciale, era diventato politicamente incontrollabile, un “mostro giuridico” come l’aveva efficacemente definito Massimo Cacciari.

Qualcosa dunque si è finalmente iniziato a fare, ma la battaglia è ancora lunga e Cantone non lo nasconde: «Nella corruzione non è possibile la prevenzione a trecentossessanta gradi, perché se le pratiche vengono preparate bene, è difficilissimo accorgersi che c’è qualcosa sotto: insomma puoi sempre cucire un abito perfetto, dentro il quale però è nascosto il killer».

La differenza con i casalesi è che ora i killer indossano il colletto bianco.

Giorgio Barbieri

 

l’autore

Dal processo ai Casalesi agli scandali delle Grandi Opere

Raffaele Cantone, napoletano classe 1963, è dal marzo dell’anno scorso presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione. In precedenza, dal 1999 al 2007, è stato alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, dove si è occupato anche delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi, riuscendo a ottenere la condanna all’ergastolo dei più importanti capi: su tutti Francesco Schiavone, detto “Sandokan”, Francesco Bidognetti e Walter Schiavone.

Ha poi raccontato la sua esperienza di magistrato nel libro autobiografico “Solo per giustizia”, pubblicato nel 2008 da Mondadori.

Nel marzo dell’anno scorso Matteo Renzi l’ha nominato presidente dell’Anac e in questa veste si è dovuto occupare dei principali scandali legati alla realizzazione delle Grandi Opere: Expo e Mose su tutti. Nel nuovo ruolo aveva infatti esordito con la richiesta al prefetto di Milano (che l’ha accolta) di commissariare l’impresa vicentina Maltauro, finita nelle indagini per corruzione in relazione alla realizzazione dell’Expo a Milano. Non era mai accaduto. Successivamente la sua attenzione si è spostata sulle aziende venete indagate per i lavori del Mose di Venezia. A fine ottobre 2014 ha chiesto e ottenuto dalla Prefettura di Roma il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per i lavori della Salvaguardia di Venezia.

(g.b.)

 

MESTRE – La coop che non può “accogliere” Chisso

EX ASSESSORE – Sta scontando ai domiciliari la pena legata al caso Mose

LA POSSIBILITA’- La coop si era resa disponibile a inserirlo nella segreteria

IL CASO – E’ una delle strutture operative della Caritas. Secondo il gip non ci sono i presupposti

È la cooperativa “Il Lievito” di Mestre la società che aveva offerto un lavoro all’ex assessore regionale alle Infrastrutture del Veneto, Renato Chisso. La cooperativa, che opera della galassia della Caritas veneziana, si era resa disponibile ad inserire l’esponente politico di Forza Italia nella propria struttura di segreteria, avvalendosi della sua attività per organizzare e gestire alcuni progetti con finalità sociale.

Chisso, attualmente in custodia cautelare agli arresti domiciliari, nell’ambito dell’inchiesta sul cosiddetto “sistema Mose” (ha patteggiato due anni e 6 mesi ed è in attesa della parola finale della Cassazione) si sarebbe dovuto occupare, tra l’altro, di tenere i rapporti con le pubbliche amministrazioni per la gestione dei progetti, nonché di trovare i finanziamenti, anche europei, per la realizzazione degli stessi.

Per poter uscire di casa e recarsi al lavoro, Chisso ha necessità di un permesso speciale, in quanto la misura cautelare dei domiciliari non gli consente alcun movimento e gli vieta di avere contatti con persone diverse dai suoi familiari.

Il sostituto procuratore Stefano aveva dato parere favorevole all’istanza presentata dal difensore dell’ex assessore, l’avvocato Antonio Forza, ma il giudice per le indagini preliminari Massimo Vicinanza l’ha respinta, ritenendo che in questo momento non vi siano i presupposti per consentire a Chisso di uscire per lavorare. Seppure si tratti di un’attività per fini sociali. Le motivazioni del gip saranno disponibili soltanto nei prossimi giorni.

La copperativa “Il Lievito” si occupa, tra le altre cose, dell’accoglienza dei profughi che, dallo scorso 17 febbraio, sono ospitati al Centro di soggiorno “Morosini” degli Alberoni, al Lido di Venezia. Ma questo è soltanto l’ultimo dei molti progetti in cui è impegnata. Gestisce da alcuni anni la comunità educativa Mamma Bambino Casa Santa Chiara, che ospita donne con figli dai 0 ai sei anni; si occupa di attività per bambini e di progetti europei rivolti ai giovani. É impegnata, infine, nel promuovere iniziative, con l’ausilio di volontari, per il recupero sociale nelle aree di marginalità.

Gran parte delle attività sono inserite nei programmi della Caritas veneziana, diretta da don Dino Pistolato. Sul progetto di inserimento dell’ex assessore Chisso all’interno della cooperativa “Il Lievito” non è stato possibile raccogliere alcuna dichiarazione, in quanto don Pistolato si trova in questi giorni in Israele.

 

Gazzettino – Mose, negati a Chisso i lavori sociali

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5

apr

2015

IL CASO – L’ex assessore aveva chiesto di poter svolgere attività in una cooperativa legata alla Caritas

Il giudice ha respinto l’istanza: «Visti gli ingenti guadagni illeciti, manca la necessità»

Niente lavoro per l’ex assessore regionale alle infrastrutture del Veneto, Renato Chisso. Il giudice per le indagini preliminari Massimo Vicinanza ha rigettato l’istanza presentata dal difensore dell’ex amministratore pubblico, l’avvocato Antonio Forza, che aveva chiesto per lui il permesso di lasciare gli arresti domiciliari durante il giorno per prestare attività per una cooperativa che opera nell’orbita della Caritas di Venezia.

Chisso avrebbe dovuto assumere un ruolo amministrativo, gestendo per conto della coop i rapporti con le istituzioni al fine di promuovere una serie di progetti a fini sociali. La difesa aveva ottenuto il parere favorevole della Procura, ma il gip ha ritenuto che non vi siano i presupposti per concedere all’ex assessore, in questo momento, il permesso per svolgere un’attività lavorativa.

Il provvedimento non è stato ancora reso noto: la difesa ha spiegato che, secondo il giudice, Chisso non ha necessità di lavorare, alla luce delle ingenti somme di denaro che avrebbe incassato illecitamente nel corso degli ultimi anni (accusa che l’ex assessore nega con decisione).

Probabilmente ha influito anche la tipologia di incarico previsto, a contatto con rappresentanti della pubblica amministrazione (anche a livello europeo) per gestire vari progetti e reperire i necessari finanziamenti per attuarli.

In sede di patteggiamento per il reato di corruzione, nel novembre dello scorso anno, lo stesso gip Vicinanza ha applicato a Chisso la pena di due anni sei mesi e 20 giorni di reclusione, confiscandogli la somma di due milioni di euro, pari ad una parte delle mazzette che avrebbe percepito.

Nel corso delle indagini, la Guardia di Finanza non è riuscita a sequestrare nulla all’ex assessore, a parte poche migliaia di euro su un conto corrente. La confisca potrà essere eseguita in futuro sui beni eventualmente rinvenuti, o di cui l’ex assessore entrerà nella disponibilità.

La difesa di Chisso ha presentato ricorso contro la sentenza di patteggiamento (come previsto dalla legge) e il caso è in attesa di trattazione in Cassazione. Nel frattempo l’ex amministratore è in custodia cautelare agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Favaro Veneto: in questo modo, quando la sentenza diventerà definitiva, gli resteranno pochi mesi di pena da scontare e non rischierà di finire nuovamente in carcere. Il Tribunale di sorveglianza potrebbe infatti concedergli di trascorrere il rimanente in affidamento ai servizi sociali.

La stessa sorte aspetta l’ex presidente della Regione Veneto, Giancarlo Galan, il quale al momento è più fortunato dell’ex compagno di partito: rispetto a lui sta scontando i domiciliari in una sontuosa villa sui Colli Euganei, con libertà di movimento anche all’esterno, nel bel parco che circonda l’immobile, e la possibilità di avere ospiti. Quasi sempre ai detenuti ai domiciliari è vietato perfino uscire nel terrazzino di casa.

Lo stesso Chisso non può intrattenere rapporti con altre persone, eccezion fatta per i familiari.

Gianluca Amadori

 

Non intendo patteggiare dimostrerò la mia innocenza dalle accuse Non ho nulla da temere e sono state effettuate 213 intercettazioni telefoniche illegittime

Casson: ora c’è il via libera al tribunale dei ministri.

Filippin: gesto esemplare

VENEZIA – Neppure è stato necessario votare: il Senato ha preso atto del voto favorevole della Giunta per le autorizzazioni a procedere. Ora la Procura di Venezia potrà indagare sul conto dell’ex ministro dei Lavori pubblici Altero Matteoli, ora senatore di Forza Italia.

A chiederlo è stato lo stesso esponente politico azzurro: «Sono qui a chiedere che sia data l’autorizzazione e invito ad evitare qualsiasi iniziativa che possa far sorgere ombre. Non voglio uscire da questa vicenda perché non c’è stata l’autorizzazione a procedere ma andando a processo e sottoponendomi alla giustizia».

E ancora ha ribadito in aula: «Mi difenderò con forza perché non ho nulla da temere, voglio uscirne a testa alta…Non patteggerò mai, non si patteggia ciò che non si è commesso. Voglio difendermi nel processo, non dal processo», ha concluso, «continuando a godere della stima e della fiducia di coloro che mi conoscono».

«Veramente in giunta per le autorizzazioni a procedere», contesta il senatore del Pd Felice Casson, componente della giunta del Senato, «i difensori di Matteoli hanno sviluppato una forte resistenza con argomentazioni giuridiche che ci sono sembrate infondate, visto che la maggioranza ha poi votato per l’autorizzazione a procedere. Ieri, il Senato si è limitato a prenderne atto».

Diversa la valutazione di un’altra componente veneta della Giunta, la senatrice del Pd Rosanna Filippin: «Ho apprezzato molto le parole del senatore Matteoli: la sua volontà di non opporsi alla proposta della giunta e di voler andare a processo per difendere la sua innocenza, senza prescrizioni o immunità, sono un atto esemplare per un politico indagato ed accusato. Altri purtroppo non hanno fatto lo stesso», sostiene la democratica, «e hanno scelto strade diverse, arrivando poi a quel patteggiamento che lo stesso Matteoli ha definito come una dichiarazione di colpevolezza per chi lo fa».

Matteoli non ha comunque rinunciato a polemizzare con i pubblici ministeri veneziani Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, affermando: «Sono state effettuate in modo del tutto illegittimo ben 213 intercettazioni telefoniche sulla mia utenza telefonica, per le quali mai è stata avanzata richiesta di autorizzazione al Senato. Varie sentenze della Corte costituzionale hanno stabilito che possono essere utilizzate, senza autorizzazione, le intercettazioni indirette di un parlamentare solo se esse sono sporadiche e casuali», aggiunge, «non mi pare che 213 intercettazioni si possano considerare sporadiche e casuali».

Nessuna dichiarazione ufficiale dalla Procura, ma gli investigatori ricordano che le 213 intercettazioni riguardano i telefoni degli imprenditori Erasmo Cinque, rimano ed esponente dello stesso partito di Matteoli, Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, e Patrizio Cuccioletta, ex presidente del Magistrato alle acque. Inoltre, la richiesta di autorizzazione del loro utilizzo va avanzata naturalmente solo dopo aver ottenuto quella di poterlo indagare concessa ieri.

Matteoli è accusato di corruzione: «Gli ho dato sull’ordine di 300, 400 mila euro da due a tre volte» ha raccontato Mazzacurati, «li ho dati personalmente a Matteoli in contanti nel 2013. Ho consegnato i soldi una volta al ministero a Roma e in qualche altro posto, non c’erano testimoni» afferma. E ancora: «Con quei soldi ha finanziato la sua campagna elettorale e in cambio avrei ottenuto che venivano accelerato i tempi dei finanziamenti delle varie tranches di lavori del Mose di Venezia».

Giorgio Cecchetti

 

appropriazione indebita e falso

VENEZIA – Nonostante abbiano patteggiato la loro pena per frode fiscale in Italia, sono finiti sotto inchiesta per gli stessi fatti anche a San Marino e, ieri mattina, Claudia Minutillo, l’ex segretaria veneziana di Giancarlo Galan, è stata interrogata per due ore dal commissario della Legge (il nostro pubblico ministero) di San Marino Antonella Volpinari. All’interrogatorio era presente il suo difensore, l’avvocato Mirko Dolcini.

Nei giorni scorsi lo stesso magistrato aveva interrogato anche Piergiorgio Baita, ex presidente della «Mantovani», e William Colombelli, console sanmarinese in Italia e amministratore della società «Bmc Broker».

I tre hanno patteggiato una pena per frode fiscale, trovando l’accordo con il pubblico ministero di Venezia Stefano Ancilotto: un anno e dieci mesi di reclusione per Baita, un anno e quattro mesi ognuno per Minutillo e Colombelli.

Questo, però, non ha evitato che i tre finissero sotto inchiesta a San Marino, dove sono indagati i primi due per appropriazione indebita e per falso, il terzo anche per riciclaggio. La vicenda è quella delle false fatture rilasciate dalla «Bmc Broker» di Colombelli alla «Mantovani» di Baita e ad «Adria Infrastrutture» di Minutillo. Decine di milioni di euro, buona parte dei quali poi tornavano nelle casse dell’ingegnere veneziano, che li utilizzava come fondi neri per pagare le tangenti ed altro. Proprio questi fatti a San Marino vengono considerati appropriazioni indebite e falsi.

Oggi, intanto, la presidenza del Senato ha messo all’ordine del giorno la discussione e la votazione della richiesta avanzata da parte della Procura di Venezia della richiesta di autorizzazione a procedere per l’ex ministro dei Lavori pubblici Altero Matteoli, attuale senatore di Forza Italia. È accusato di corruzione: a parlare di lui è stato l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati, il quale ha riferito che in più di un’occasione è andato a Roma, nella sede di Porta Pia del ministero, ha consegnare migliaia di euro all’allora ministro Matteoli. Già il Tribunale dei ministro di Venezia ha dato il via libera, sostenendo che non si tratta di una persecuzione ma che le prove sono solide, poi è stata la Giunta per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama a votare perché sia concessa l’autorizzazione, ora tocca all’assemblea dei senatori.

Giorgio Cecchetti

 

SAN MARINO – L’ex segretaria di Galan interrogata ieri per due ore

Ha risposto alle domande del Commissario della legge della Repubblica del Titano ricostruendo il sistema della “retrocessione” di somme di denaro all’impresa Mantovani

Interrogatorio di due ore, ieri mattina a San Marino, per Claudia Minutillo, l’ex segretaria del presidente della Regione Veneto, Giancarlo Galan, finita sotto accusa in qualità di amministratrice della società “Adria Infrastrutture” nell’inchiesta sulle false fatturazioni milionarie dell’impresa di costruzioni Mantovani spa.

Assistita dagli avvocati Mirko Dolcini e Carlo Augenti, Minutillo ha risposto alle domande del Commissario della Legge, Antonella Volpinari, confermando quanto già dichiarato ai magistrati veneziani che, partendo da quelle false fatture, hanno scoperto l’esistenza di un diffuso sistema corruttivo attorno ai lavori per la realizzazione del Mose.

Nelle scorse settimane gli inquirenti di San Marino avevano interrogato anche gli altri protagonisti della vicenda giudiziaria: Piergiorgio Baita, ex amministratore delegato della Mantovani e William Colombelli, ex console di San Marino e titolare della Bmc Broker, la società che emise fatture a fronte di operazioni inesistenti, per poi “retrocedere”, cioè restituire alla stessa Mantovani, gran parte degli importi ricevuti, fatta salva una percentuale per l’attività di mediazione svolta.

Nell’inchiesta veneziana tutti hanno già patteggiato pene comprese tra un anno e due mesi e un anno e dieci mesi di reclusione, con la sospensione condizionale. E ora si trovano a dover rispondere di nuove accuse, formulate dall’autorità giudiziaria di San Marino, che ipotizza, tra gli altri, il reato di ricilaggio. Complessivamente la Mantovani fino al 2010 utilizzò San Marino per “produrre” false fatture per oltre 8 milioni di euro e ottenere una consistente provvista in nero, in parte utilizzata per pagare tangenti.

La Minutillo, arrestata nel 2013, confessò subito le proprie responsabilità e da allora ha iniziato a collaborare con la Procura di Venezia, contribuendo a fare luce sul cosiddetto “sistema Mose” e fornendo numerosi particolari sul ruolo di Galan e dell’allora assessore regionale ai trasporti Renato Chisso, entrambi usciti dal processo con il patteggamento della pena.

Gianluca Amadori

 

I LEGALI DELL’EX SINDACO DI VENEZIA: «MAZZACURATI INAFFIDABILE»

VENEZIA – Per i difensori dell’ex sindaco le accuse contro Giorgio Orsoni devono essere archiviate. Questa la richiesta avanzata ieri dagli avvocati milanesi Francesco Arata e Carlo Tremolada ai pubblici ministeri Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, che nei prossimi giorni dovranno formulare le loro richieste al giudice veneziano Andrea Comez dopo aver depositato gli atti.

Numerosi i motivi a sostegno delle loro tesi. Prima di tutto il fatto che il principale accusatore Giovanni Mazzacurati già nei primi interrogatori resti nel luglio-agosto 2013 era «stremato, per nulla lucido e tanto meno affidabile». Secondo il neurologo che lo ha poi avuto in cura avrebbe cominciato a manifestare «chiari sintomi di progressivo deficit di memoria sin dall’aprile 2013». Per questo i due legali sostengono che la Procura avrebbe dovuto chiedere l’incidente probatorio per l’ingegnere ancor prima del suo trasferimento in California.

Per quanto riguarda le dichiarazioni accusatorie di Federico Sutto, stretto collaboratore di Mazzacurati, nell’istanza si legge che si tratta di affermazioni surreali e stravaganti. Sottolineano che fino all’interrogatorio del 23 ottobre 2014 mai aveva dichiarato di aver consegnato buste con denaro a Orsoni. Questo «improvviso cambio di rotta» sospettano i due difensori, «potrebbe essere riconducibile a personali esigenze difensive», visto che poche settimane dopo ha patteggiato una pena di due anni di reclusione con la sospensione condizionale.

Nel merito delle accuse, poi, rilevano che Sutto racconta di aver incontrato il futuro candidato sindaco alla vigilia del Natale 2009 dopo il concerto di Natale in Basilica di San Marco e in quell’occasione di aver avuto da lui il nome del suo mandatario elettorale e il numero del conto corrente per i finanziamenti della campagna elettorale: Ma Orsoni fu proclamato candidato del centro sinistra ben un mese dopo, il 25 gennaio 2010. Infine, nel documento si ricorda che per coloro che inizialmente erano stati indicati come destinatari finali dei finanziamenti per il partito, cioè i parlamentari Pd Davide Zoggia e Michele Mognato, la stessa Procura ha chiesto l’archiviazione delle accuse di finanziamento illecito (i due avvocati sottolineano che se i fondi fossero stati destinati al candidato sindaco personalmente non sarebbe penalmente rilevante perché la legge non prevede che per le elezioni comunali e provinciali vengano dichiarati i finanziamenti elettorali).

Giorgio Cecchetti

 

Gazzettino – Evasione fiscale, indagato Galan

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27

mar

2015

MOSE/ DICHIARAZIONE INFEDELE DEI REDDITI

Nuova tegola su Galan: indagato per evasione fiscale sulle tangenti

Nuova tegola per l’ex governatore Giancarlo Galan. La Procura di Rovigo l’ha iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di infedele dichiarazione dei redditi, in pratica evasione fiscale sulle tangenti. Secondo i magistrati, si tratta di somme non versate per oltre dieci milioni, introiti legati alle mazzette intascate tra il 2007 e il 2010.

 

Evasione fiscale, indagato Galan

Scandalo Mose, nuove accuse dalla Procura di Rovigo all’ex governatore dopo l’accertamento della Finanza: somme non versate per oltre dieci milioni di euro, introiti legati alle mazzette intascate tra il 2007 e il 2010

Infedele dichiarazione dei redditi. È con quest’ipotesi accusatoria che la Procura della Repubblica di Rovigo ha iscritto nel registro degli indagati l’ex governatore del Veneto, il deputato forzista Giancarlo Galan, attualmente agli arresti domiciliari dove sta scontando la pena di due anni e dieci mesi, patteggiata per le mazzette legate alla realizzazione del Mose.

Ed è proprio da Venezia che sono partite le nuove accuse per Galan: nel corso dei due accertamenti fiscali compiuti dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria del comando lagunare tra ottobre 2014 e il gennaio scorso gli sono stati contestati redditi non dichiarati su cui non sarebbero state versate le imposte. In altri termini Galan non avrebbe pagato le tasse sulle tangenti. Il primo accertamento fiscale riguardava gli anni 2005 e 2006. Per questo biennio l’ex governatore veneto non rischia nulla sul piano penale. Il reato risulta ampiamente coperto dai termini della prescrizione. Diverso il ragionamento per le successive dichiarazioni dei redditi, quelle relative agli anni 2007-2008-2009-2010.

Sulla scorta di quanto accertato dalle Fiamme gialle, il pubblico ministero polesano Andrea Girlando ha aperto un’indagine a carico del parlamentare di Forza Italia ipotizzando la violazione dell’articolo 4 della normativa fiscale, il decreto legislativo n. 74 del 2000, l’unica norma tributaria in vigore nel nostro Paese. La competenza spetta alla Procura di Rovigo in quanto Galan risiede a Cinto Euganeo, comune che ricade nella giurisdizione dell’Agenzia delle Entrate di Este. In base agli atti dell’inchiesta Mose Galan avrebbe intascato dall’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati una tangente da un milione di euro all’anno.

Gli vengono contestati dalla Finanza come proventi di attività illecita anche le somme investite nell’acquisto della villa di Cinto oltre ad una dazione da 200mila euro, giustificata come finanziamento per una campagna elettorale di Forza Italia. A conti fatti Giancarlo Galan avrebbe intascato complessivamente mazzette per 10 milioni 831mila e 200 euro. Sono poco meno della metà dell’ammontare complessivo delle tangenti (quasi 24 milioni di euro) individuate dalle Fiamme gialle a conclusione della maxi inchiesta sul Mose, attraverso la bellezza di tredici accertamenti fiscali.

Tutte le mazzette vengono automaticamente tassate come redditi delle persone fisiche, sulla base delle aliquote Irpef vigenti all’epoca della commissione dei vari illeciti. Sarà evidentemente applicata l’aliquota massima del 43% trattandosi nella stragrande maggioranza dei casi di persone con redditi superiori ai centomila euro annui. La Guardia di finanza ha calcolato in oltre dieci milioni di euro complessivi, sanzioni a parte, i tributi oggetto di attività di recupero da parte dell’erario.

Politici e funzionari destinatari delle mazzette si ritroveranno a doversi difendere in due ambiti: oltre al contenzioso di natura tributaria dovranno affrontare un procedimento penale. Non avendo indicato nelle dichiarazioni dei redditi annuali le tangenti incassate dovranno rispondere di dichiarazione infedele. Un reato che prevede comunque pene di modesta entità. Galan potrebbe cavarsela con un ulteriore patteggiamento, in continuazione con i due anni e dieci mesi concordati nell’autunno scorso con la Procura lagunare.

Luca Ingegneri

 

TANGENTI – Sotto la lente il “sistema Mantovani” per il quale a Venezia alla fine del 2013 hanno patteggiato quattro persone tra cui l’ex amministratore delegato

Interrogato Baita. Fatture false, inchiesta anche a San Marino.

Anche l’autorità giudiziaria della Repubblica di San Marino sta indagando sul sistema delle false fatturazioni realizzate fino al 2010 dall’impresa di costruzioni Mantovani spa di Padova per creare i fondi neri necessari a pagare “mazzette”.

Nei giorni scorsi il Commissario della Legge Antonella Volpinari ha iniziato gli interrogatori dei principali protagonisti della vicenda giudiziaria, che a Venezia si è già conclusa a fine 2013 con quattro patteggiamenti, a pene comprese tra un anno e due mesi e un anno e dieci mesi di reclusione, con la sospensione condizionale. A San Marino i reati ipotizzati sono quelli di false dichiarazioni alla pubblica autorità, appropriazione indebita e riciclaggio. Secondo gli inquirenti le somme circolate nel “tourbillon” di false fatturazioni si avvicinano ai 10 milioni di euro.

Il primo ad essere ascoltato è stato Piergiorgio Baita, ex amministratore delegato della Mantovani, il quale ha parlato per oltre due ore, fornendo la stessa ricostruzione già data al sostituto procuratore di Venezia, Stefano Ancilotto. Il legale che lo ha assistito durante l’interrogatorio, l’avvocato Pier Luigi Bacciocchi, ha dichiarato alla stampa di San Marino che «Baita ha reso ampia collaborazione alle richieste dei giudici». A Venezia, nel dicembre del 2013, Baita ha patteggiato la pena di un anno e dieci mesi di reclusione dopo aver versato di tasca propria 400mila euro al Fondo unico di giustizia.

Venerdì scorso è stata poi la volta di William Colombelli, ex console di San Marino e titolare della Bmc Broker, la società che emise fatture a fronte di operazioni inesistenti, per poi “retrocedere”, cioè restituire alla stessa Mantovani, gran parte degli importi ricevuti, fatta salva una percentuale per l’attività svolta. Colombelli a Venezia ha già patteggiato un anno e quattro mesi.

Il prossimo interrogatorio previsto è quello di Claudia Minutillo, già segretaria dell’allora Governatore del Veneto, Giancarlo Galan, chiamata in causa in qualità di ex amministratore della società Adria Infrastrutture del gruppo Mantovani. Per le false fatture anche Minutillo ha già patteggiato a Venezia la pena di un anno e quattro mesi di reclusione.

Nel frattempo, ieri mattina a Venezia, un altro imputato nell’inchiesta sul cosiddetto “sistema Mose” ha definito la sua posizione con il patteggiamento della pena. Il commercialista padovano Francesco Giordano, difeso dal’avvocato Carlo Augenti, già consulente fiscale dell’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, ha chiesto e ottenuto l’applicazione di un anno di reclusione (pena sospesa) dopo aver versato 40mila euro.

L’accusa mossa nei suoi confronti è quella di aver predisposto un falso contratto di collaborazione a favore dell’ex segretario regionale della Sanità veneta, Giancarlo Ruscitti.

Gianluca Amadori

 

Dal Pd veneziano siluro alla Serracchiani

PORTO E POLEMICHE – La vice Renzi non considera strategico lo scalo lagunare

EMANUELE ROSTEGHIN «La vera sfida è all’Europa bisogna unire l’Alto Adriatico»

Simionato: «Sbaglia a fomentare la concorrenza con Trieste»

L’ex vicesindaco «Non possiamo essere relegati a scalo di serie B»

Bordate alla Serracchiani. Il Pd veneziano all’attacco

«Non c’è porto senza Venezia e non c’è Venezia senza porto. Chi tenta di dire il contrario è fuori strada». Sandro Simionato, ex vice sindaco ed esponente di spicco del Pd veneziano dice a Debora Serracchiani che le sue idee in laguna non passeranno. La vice segretaria nazionale del Partito democratico e governatrice del Friuli Venezia Giulia non perde l’occasione per dire che tra i porti più importanti d’Italia c’è Trieste e non Venezia, e che il nuovo port offshore al largo di Malamocco non si deve costruire. Il fatto è che, senza il porto in mare aperto, lo scalo veneziano è destinato un po’ alla volta a morire perché già oggi le navi più grandi in circolazione per il mondo non riescono ad entrare a causa dei fondali dei canali, che sono stati scavati ma oltre la profondità di 12 metri non si può andare, e perché le dighe del Mose impediscono l’operatività 365 giorni l’anno.

«Il Pd territoriale è assolutamente contrario a quel che dice la Serracchiani e mi auguro che il Governo ne tenga conto – continua Simionato che è anche candidato al Consiglio regionale del Veneto nelle file dei Democratici -. È profondamente sbagliato continuare a fomentare la concorrenza tra i porti italiani perché bisogna avere una visione più ampia della tenuta dell’intero sistema portuale italiano e, per quel che ci interessa, di quello dell’Alto Adriatico. Casomai si deve parlare della concorrenza con i porti del nord Europa. E in quest’ambito chiudere il porto di Venezia o relegarlo a scalo di serie B, come vorrebbe la Serracchiani, è controproducente per tutti».

E lo stesso Emanuele Rosteghin, segretario comunale del Pd, conferma che il Partito è tutto con il porto: «La sfida vera è fare sinergia tra i porti dell’Alto Adriatico perché ciascuno di questi ha caratteristiche specifiche, e devono fare massa critica, con al centro Venezia, per affrontare la competizione con i porti del nord Europa».

La vice di Matteo Renzi nel Pd, una settimana fa al meeting dei Giovani di Confindustria del Nordest Trieste ha anche detto che, in un periodo di scarse risorse, bisogna “rammendare l’esistente”. Gli operatori portuali veneziani e i Sindacati le hanno già risposto per le rime. E Sandro Simionato ribadisce che «non si può frenare chi, come Venezia, ha già fatto grossi investimenti per ammodernare il proprio scalo e per prepararsi ad affrontare il futuro». Mentre altri scali, come Trieste, gli investimenti hanno appena cominciato a farli.

L’ex vice sindaco, oltretutto, ricorda che il porto commerciale di Venezia «ha un ruolo fondamentale nella strategia europea dei trasporti, ed è al pari importante per le aziende del Veneto. Parlare, quindi, solo di ricucitura del’esistente mi sembra senza senso. E quel che sto dicendo è indipendente dal discorso sulle grandi navi turistiche, che è un’altra questione altrettanto urgente e essenziale da affrontare».

 

Nuova Venezia – Mose, Mazzacurati non si presenta in aula

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26

mar

2015

L’udienza slitta al 22 aprile, il rebus dell’audiocassetta con la sua deposizione. Matteoli: si vota il 1 aprile

MESTRE – Tutto rinviato al 22 aprile. Naturalmente, ieri pomeriggio, l’ingegnere Giovanni Mazzacurati non si è presentato, come del resto aveva anticipato il suo difensore, l’avvocato Giovanni Battista Muscari Tomaioli, presentando una voluminosa documentazione medica sull’impossibilità dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova di partire dalla California per raggiungere l’aula bunker di Mestre.

Neppure i due indagati, l’ex sindaco Giorgio Orsoni e l’ex parlamentare europea Pdl Lia Sartori si sono presentati, ma c’erano i loro avvocati, che avevano chiesto l’interrogatorio del grande accusatore attraverso l’incidente probatorio. I difensori hanno chiesto al giudice Alberto Scaramuzza, che aveva accolto la loro richiesta, del tempo per visionare la documentazione sanitaria e soprattutto la cassetta registrata lo scorso settembre, quando il Tribunale dei ministri di Venezia ha chiesto una rogatoria negli Stati Uniti e un giudice californiano aveva interrogato Mazzacurati. Allora le domande vertevano sulle accuse che l’ingegnere aveva lanciato, durante i primi interrogatori davanti ai pubblici ministeri Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, contro l’ex ministro e ora parlamentare di Forza Italia Altero Matteoli.

Il giudice Scaramuzza l’ha chiesta e ottenuta dalla Procura per farsi un’idea sulle condizioni di salute di Mazzacurati e, dunque, per avere più strumenti per decidere. Ora, anche i difensori di Orsoni e Sartori vogliono quella cassetta. I pm Ancilotto e Buccini non si sono opposti e il giudice ha rinviato al 22 aprile, concedendo documenti e cassetta agli avvocati. Quel giorno dovrà decidere se nominare un medico legale che valuti le carte presentate dal difensore dell’ex presidente del Consorzio, in modo che sia quest’ultimo a dire che a causa dell’età avanzata, della depressione e della grave patologia cardiaca non solo Mazzacurati non può affrontare il lungo viaggio transoceanico, ma non è addirittura più un testimone attendibile.

Oppure potrebbe anche affermare che la documentazione medica presentata è sufficiente per sostenere che l’ingegnere non può affrontare il trasferimento, così i verbali dei suoi interrogatori resi ai pubblici ministeri saranno acquisiti agli atti del fascicolo processuale e non rimarranno semplicemente tra le carte dei pubblici ministeri.

La prossima scadenza del procedimento per la corruzione per il Mose è dunque quella dell’1 aprile a Palazzo Madama: quel giorno, infatti, il Senato dovrà votare per concedere o meno alla Procura veneziana l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Ambiente e attuale senatore Altero Matteoli.

Giorgio Cecchetti

 

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