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Nuova Venezia – Mose, primo si’ all’arresto di Galan

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

11

lug

2014

Mose, primo sì all’arresto di Galan

Dopo la Giunta martedì decide l’aula. «Non sono sorpreso. È un voto politico»

Galan, arresto più vicino

Inchiesta Mose, voto schiacciante alla Giunta di Montecitorio: 16 a favore e 3 contro

La Russa: non c’è il “fumus persecutionis” Il caso del leghista veronese Bragantini: dice sì alla relazione poi abbandona la seduta

PADOVA Inchiesta Mose, arriva un primo verdetto chiaro: con 16 voti a favore e solo 3 contrari la Giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati ha dato il via libera alla richiesta d’arresto nei confronti dell’onorevole Giancarlo Galan, (Fi). «L’esito non era per nulla scontato ed è maturato dopo un’attenta analisi dei documenti processuali da cui emerge che non esiste il fumus persecutionis da parte della magistratura», ha commentato il presidente Ignazio La Russa che si è astenuto, come la prassi vuole. Il deputato milanese, cresciuto in An con Fini, poi nel Pdl e oggi in Fratelli d’Italia, ha giocato un ruolo di arbitro super partes: dopo aver concesso una proroga ai 21 «commissari» per leggere le 16 mila pagine d’accusa e le tre memorie difensive depositate da Galan, ieri alle 13,20 è passato alle dichiarazioni di voto e le hachiuse alle 15,22. A favore della richiesta d’arresto hanno votato Pd, M5S, lista per l’Italia, Sel e Scelta civica mentre i tre no sono di Chiarelli (Fi),Leone (Ncd) e Di Lello (Psi). Matteo Bragantini, unico rappresentante della Lega Nord, deputato veronese, haannunciato il suo sì alla relazione di Mariano Rabino, ma al momento di alzare la manonon c’era e quindi risulta assente. Martedì 15 luglio sarà l’Aula di Montecitorio a decidere il destino del deputato di Forza Italia, dopo tre ore di dibattito eun voto che si annuncia segreto: all’orizzonte non si profila nessun rinvio perché la strada tracciata sembra la stessa seguita con Francantonio Genovese, il deputato Pd arrestato un paio di mesi fa e subito messo agli arresti domiciliari dopo aver reso un ampio interrogatorio ai magistrati sulla gestione dei fondi comunitari. Secco il commento di Mariano Rabino, commissario-relatore, di Scelta civica-lista Monti: «Ho dato il mio parere favorevole alla richiesta d’arresto di Galan, perché i cittadini sono tutti uguali di fronte alla legge, i parlamentari non si possono difendere con lo scudo dell’immunità che è stata ampiamente dimezzata. L’inchiesta della procura di Venezia non ha guardato in faccia nessuno: assessori regionali, politici, manager, dirigenti pubblici, generali della Guardia di finanza sono finiti in cella. Siamo di fronte a 35 richieste di arresto, una delle quali riguarda anche un deputato e non si vede perché egli debba godere di un privilegio. Io sono convinto che vada completamente abolita l’immunità parlamentare e ci vuole pure una rivisitazione della carcerazione preventiva. Ma in fatto di giustizia, la penso come il procuratore Carlo Nordio: la prescrizione si combatte con i processi rapidi e il parlamento non può porre ostacoli, ma deve favorire il cammino della giustizia. Questo è il nostro compito. La richiesta del gip Scaramuzza è arrivata il 4 giugno alla Camera dei deputati e il nostro compito era valutare l’esistenza del fumus persecutionis : dopo aver letto gli atti mi pare che l’inchiesta della magistratura di Venezia sia solida, fondata su pilastri che reggono molto bene. Così la pensano 16 commissari su 21. Auguro all’onorevole Galan di difendersi nel processo con la stessa grinta e tenacia che ha manifestato in queste settimane. Capisco il suo stato d’animo, la rabbia e l’amarezza: ieri abbiamo chiuso il primo tempo della partita, il secondo si gioca martedì alla Camera. Nelle vesti di relatore chiederò all’aula di votare il sì all’arresto» conclude Rabino. A difendere l’ex ministro della Cultura e governatore del Veneto per 15 anni si sono trovati in tre: Gianfranco Chiarelli (Fi), Antonio Leone (Ncd) e Marco Di Lello (Psi) che ha giocato l’ultima carta e ha chiesto alla Giunta di rinviare gli atti alla magistratura di Venezia alla luce della novella legislativa entrata in vigore lo scorso 26 giugno. Si tratta del dl 92-2014 che con la riforma dell’articolo 275 del cpp voluta dal ministro Orlando esclude l’arresto in caso di previsione di condanne fino a 3 anni. Leone e Chiarelli hanno sostenuto che tra sconti e benefici Galan, che ora rischia 5 anni, potrebbe scendere sotto quella fatidica soglia. Immediata la replica di Sofia Amoddio, (Pd): il dl 92 non era stato varato al momento della richiesta d’arresto del deputato di Forza Italia e non è retroattivo. In ogni caso è compito esclusivo del giudice «valutare se applicare la misura della custodia cautelare in carcere » nel caso in cui «all’esito del giudizio la pena detentiva da eseguire non sarà superiore ai tre anni». Nessuna interferenza con la magistratura, ha detto l’onorevole Amoddio, che ha balenato un ’ ipotesi più dura: «La continuazione dei reati e l’entità della somma presuntivamente percepita possono far ritenere che la pena possa essere superiore ai tre anni». Una frase che ha fatto infuriare Leone (Ndc): «Altro che Pd garantista, oggi si scrive un’altra pagina vergognosa del Parlamento, la fotocopia dell’arresto di Genovese».

Albino Salmaso

 

la parabola

L’ex portaborse di Biondi diventato doge di Venezia

VENEZIA Si fa presto a dire dalle stelle alle stalle. Dal parlamento alla galera. L’angoscia del momento ha fatto venire una tromboflebite a Giancarlo Galan, costringendolo a un ricovero in ospedale. La settimana scorsa si è procurato una frattura al perone. Le disgrazie non arrivano mai sole. L’ex presidente fatica a capacitarsi di quello che gli sta succedendo. Bisogna capirlo: come si fa a smontare in due e due quattro dal senso di onnipotenza maturato in vent’anni? «Adesso parlo io», ha fatto sapere alla nazione la settimana scorsa. Un brivido di indifferenza ha percorso la penisola: la sua parola contro quella di Giovanni Mazzacurati, di Piergiorgio Baita, di Claudia Minutillo. Bella autodifesa, con gente che ha già patteggiato e altri che stanno cercando di farlo. E con una montagna di riscontri in mano ai magistrati. È vero che la responsabilità penale è certa solo dopo il terzo grado, se non arriva prima la prescrizione. La vicenda umana merita rispetto, aggiungiamo pure, ma sul giudizio politico non ci si può confondere. Per 15 anni la spesa pubblica in Veneto è stata in mano a un ristretto gruppo di persone, che l’ha gestita a piacimento, in modo insindacabile. Giancarlo Galan si è trovato al vertice del gruppetto di liberali e socialisti emersi da Tangentopoli come classe dirigente del Veneto. Pensare che negli anni ’80 aveva detto addio alla politica, mollando il ministro liberale Alfredo Biondi, di cui era assistente parlamentare, per seguire Marcello Dell’Utri a Publitalia. Braccia strappate alla Fininvest, quando Berlusconi decide di «scendere in campo» con il partito leggero costruito con uomini delle sue aziende. Giancarlo si ritrova eletto alla Camera nel 1994, poi subito candidato a presidente del Veneto nel 1995. Vince di misura contro il centrosinistra che sbaglia candidato (puntava su Ettore Bentsik) e la Lega marciava da sola. La prima legislatura è difficile, ma ci sono già tutti i nomi dei protagonisti: Lia Sartori, con la quale si cementa una collaborazione che farà parlare di matriarcato, Fabio Gava, Renato Chisso, Enrico Marchi che prende la rincorsa per la Save, Irene Gemmo, Gian Michele Gambato, Vittorio Altieri. Naturalmente Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati. E pochi altri, da Luigi Rossi Luciani a Bepi Stefanel, persone con le quali non sai mai se l’amicizia viene prima degli affari o viceversa. Quando serve tagliare i rapporti, Giancarlo non ci pensa due volte: vedi la vicenda di Paolo Sinigaglia con la Save e Alpieagles. Galan porta in politica un linguaggio nuovo e accattivante, un modo sprezzante di porsi all’attenzione del pubblico, la rissosità con gli avversari ma sempre con l’occhio a favore di telecamera. È rapido, capisce le situazioni al volo, è simpatico ma anche umorale, lascia volentieri il lavoro agli altri ma negli snodi che gli interessano lo trovi sempre. Gli snodi sono quelli delle grandi opere. E gli interessi volano dopo il 2000. Una montagna di denaro pubblico si abbatte sul Veneto: solo dal 2006 al 2009 si stima che il mercato delle opere pubbliche regionali valga 2,5 miliardi. Senza contare il Mose che ne pompa 4,5 a partire dal 2003. Senza il Passante, che doveva costare 650 milioni di euro e invece arriva a 1.260 milioni. Senza le Ferrovie che sull’Alta Velocità in Veneto spendono 2 miliardi. Si comincia a parlare di un partito degli affari, che controlla gli appalti pubblici e li indirizza verso i soliti noti. Accuse circostanziate, interviste che a leggerle oggi sono inquietanti. Esempio: «I sassi della ex Jugoslavia pagati il doppio del costo? ». Chi lo chiedeva era il padovano Frigo, consigliere regionale della Margherita, 12 agosto 2006. E i sassi sono stati davvero pagati il doppio. Fino a che punto arrivava il consociativismo? Delle critiche Giancarlo Galan non si è mai preoccupato. Gli davano fastidio, questo sì. Ma dimenticava tutto andando a pesca. E poi anche a caccia, ultima passione esercitata nella valle di Drago jesolo dell’amico Stefanel. Con Berlusconi il sodalizio, non è mai venuto meno, neanche dopo il siluramento a beneficio di Luca Zaia. Ma chi non vorrebbe essere silurato, passando da presidente di regione a ministro? Alla rielezione del 2005 il nostro giornale gli chiese: dove si vede tra dieci anni? «Farò l’imprenditore » rispose lui. «Mi è sempre piaciuto. Aprirò un B&B sui Colli Euganei». Aveva già adocchiato Villa Rodella. Oggi Galan non ha più voglia di fare il guascone. Le battute non gli vengono bene, gli arrivano frasi livide, del tipo «vorrei solo mezz’ora di impunità per chiudermi in una stanza con la Minutillo». Frase che fa accapponare la pelle, non tanto per quello che lui potrebbe fare alla Minutillo,ma per il disprezzo che dimostra verso il diritto. Galan si è laureato in giurisprudenza, è stato votato dai veneti in tre legislature regionali e in tre tornate nazionali, siede in Parlamento dal quale non intende dimettersi. Sta ai vertici di una società regolata dalle leggi. E vuole mezz’ora di impunità per vedersela con l’ex segretaria? Ma per piacere.

Renzo Mazzaro

 

Martedì pomeriggio il voto della Camera

ROMA. L’ufficio di presidenza della Camera dei deputati conferma che martedì 15 luglio alle ore 17 ci sarà la discussione sulla richiesta di arresto dell’onorevole Giancarlo Galan, presentata dal gip Scaramuzza del tribunale di Venezia. Gli atti saranno trasmessi dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere alla Camera e i 620 deputati ne potranno prendere visione fin da oggi. Certo, leggere 16 mila pagine in 5 giorni è impresa impossibile. Proprio per questo il capogruppo Renato Brunetta aveva chiesto a nome di Forza Italia di far slittare il voto su Galan ad agosto,mal’ufficio di presidenza ha imposto il voto con i tempi contingentati per martedì prossimo. Relatore in aula sarà Mariano Rabino, per Fi parlerà Chiarelli.

 

Nordio: non esultiamo ma è la dimostrazione che l’inchiesta è solida

Il procuratore aggiunto: «Su Galan nessun accanimento»

Mazzacurati: rogatoria negli Usa. Interrogato Cuccioletta

VENEZIA «La decisione della giunta per le autorizzazioni a procedere costituisce un’ulteriore conferma della solidità di un’inchiesta condotta senza pregiudizi e senza accanimenti. Non vi è mai esultanza, davanti alla prospettazione del carcere: soltanto la serena affermazione che la legge è uguale per tutti». Così, il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio – a nome della Procura – ha commentato il “sì” della Giunta della Camera alla richiesta di arresto avanzata dai magistrati per il deputato pdl e ex presidente della Regione Veneto, accusato di essere stato a libro paga del Consorzio Venezia Nuova. Non c’è fumus persecutionis nei confronti di Galan – ha decretato la giunta – perché tutti gli indagati principali dell’inchiesta sono stati arrestati. Dopo le numerose convalide dei provvedimenti cautelari da parte del Tribunale del Riesame, la Procura di Venezia segna ora un altro punto. Rogatoria Usa per Mazzacurati. Sarà interrogato negli Stati Uniti, per rogatoria, Giovanni Mazzacurati, l’anziano ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, accusato di aver inventato e gestito per vent’anni il meccanismo delle sovrafatturazioni, fondi neri, tangenti e prebende per decine di milioni di euro pubblici, attorno al Mose. Il Tribunale dei ministri ne aveva ordinato l’audizione, ieri, nell’ambito del procedimento al termine del quale i tre giudici dovranno decidere se autorizzare la Procura di Venezia a indagare sull’ex ministro dell’Ambiente e Infrastrutture Altero Matteoli per corruzione. Tra gli accusatori – insieme a Piergiorgio Baita – lo stesso Mazzacurati: ieri, il suo avvocato Muscari Tomaioli ha presentato ai giudici un’istanza, per chiedere che l’anziano ex imprenditore sia ascoltato per rogatoria, non potendo tornare dagli Usa per motivi di salute (è da mesi nella villa della moglie a La Jolla, in California: villa che per anni era stata “affittata” per 100 mila euro al Consorzio come sede di rappresentanza oltre oceano). Ieri mattina è stato anche ascoltato l’ex magistrato alle Acque Patrizio Cuccioletta – che ha ammesso di essere stato per anni a libro paga del Consorzio Venezia Nuova (400 mila euro l’anno, gli contesta la Procura) per fare i provvedimenti che il Consorzio voleva e, spesso, stilava – che ai giudici del Tribunale dei ministri ha confermato che a chiedergli di tornare a Venezia come Magistrato era stato lo stesso Matteoli, su sollecito dell’imprenditore Erasmo Cinque. Tra i suoi “incarichi” anche quello di nominare i collaudatori del Mose: «Facevo una turnazione», ha in sostanza detto ieri Cuccioletta, «ma Mazzacurati mi chiese di soprassedere». Stando alle accuse, l’ex ministro ora senatore di Forza Italia, aveva fatto pressioni perché la società dell’imprenditore romano, la «Socostramo», venisse inserita nell’appalto per la bonifica di Porto Marghera, che aveva vinto anche la «Mantovani ». Cinque è sospettato di essere il collettore delle tangenti per Matteoli, che ha con forza respinto ogni addebito.

Roberta De Rossi

 

NESSUNO PRENDE LE DIFESE DELL’EX DOGE

Muro di silenzio dei forzisti veneti

Pipitone (Idv): doveroso il sì parlamentare, l’immunità non è impunità

Da Zaia a Ruffato raffica di no comment sul fronte istituzionale

L’ex portavoce Miracco «Indagine seria, spero ne esca a testa alta»

VENEZIA – Un muro di silenzio. Nel giorno più nero, non si levano voci in difesa di Giancarlo Galan. C’è una corsa a prendere le distanze dal potente caduto in disgrazia, accelerata forse dalla convinzione che le prove a suo carico siano tutt’altro che fantasiose. Muti come pesci i forzisti veneti. Vano anche chiedere commenti al governatore leghista Luca Zaia – più volte bersaglio degli attacchi galaniani ma deciso ad astenersi da ogni replica – così come cadono nel vuoto gli interrogativi rivolti al capogruppo di Forza Italia in Regione, Leonardo Padrin, e al presidente del Consiglio regionale Clodovaldo Ruffato, del Ncd. Evita di parlare anche Franco Miracco, il critico d’arte che fu a lungo il portavoce del presidente berlusconiano («Quello che avevo da dire l’ho già detto»), confermando così quanto affermato in precedenza: «L’indagine della Procura appare seria, mi auguro che, nonostante questo, Galan e Orsoni, che sono stati ai vertici istituzionali della Regione e di Venezia possano difendersi più che bene e che ne escano a testa alta». Così, a spezzare un silenzio diventato assordante è Antonino Pipitone (nella foto), capogruppo regionale dell’Idv: «I deputati della Giunta che hanno approvato la richiesta d’arresto, hanno fatto il loro dovere. Occorre rispettare il lavoro dei magistrati e l’immunità parlamentare serve a proteggere dai reati d’opinione, non a garantire l’impunità. Accanimento? Verdetto politico? Non direi proprio, Galan, al pari degli altri cittadini, avrà modo di far valere le sue ragioni nelle sedi competenti, e d’altronde mi pare che negli ultimi tempi l’indirizzo del Parlamento vada esattamente in questa direzione: verificare l’esistenza di un fumus persecutionis ed in caso negativo consentire alla giustizia di fare il suo corso». Pipitone, poi, solleva un’altra questione riguardante lo scandalo del Mose, quella dei compensi erogati contemporaneamente ai consiglieri arrestati (Renato Chisso di FI e Giampietro Marchese del Pd) che, nonostante la sospensione dalla carica, percepiscono tuttora l’80% dell’indennità lorda mensile, ed ai loro sostituti sui banchi dell’assemblea veneta, Francesco Piccolo e Alessio Alessandrini. «In questo caso la legge Severino ha creato un corto circuito normativo », attacca Pipitone «con il risultato che i contribuenti veneti oggi pagano 62 consiglieri e non 60. Rimaniamo allibiti da questo intreccio di norme statali e regionali che, alla fine, fa pagare ai cittadini una follia legislativa ». Oggi, a Padova, gran consulto dell’Idv sugli intrecci tra politica ed affari nella tangentopoli veneta con il segretario nazionale del partito Ignazio Messina.

Filippo Tosatto

 

«Brentan, nessuna prova della tangente»

Il Tribunale della libertà: però il manager fece pressioni su Baita perché non ricorresse contro Sacaim

VENEZIA I giudici del Tribunale della Libertà alleggeriscono la posizione dell’ex amministratore delegato di Autostrade Venezia-Padova, Lino Brentan, accusato dalla Procura di aver pilotato l’appalto per le opere di mitigazione della Terza corsia (base d’asta,18 milioni) escludendo le offerte più vantaggiose e facendosi pagare una tangente per riammettere gli esclusi come subappaltatori. Per il Riesame, è provato che l’ex amministratore di Autostrade Venezia-Padova abbia fatto pressioni su Piergiorgio Baita (presidente di Mantovani) e Mauro Scaramuzza (Fip Industriale) perché non impugnassero al Tar l’assegnazione dei lavori alla Sacaim, ricambiandoli con l’ottenimento delle opere in subappalto. Non c’è invece prova che abbia incassato la tangente da 65 mila euro che secondo la Procura avrebbe preteso dallo stesso Scaramuzza. Così il Tribunale del Riesame motiva la sua decisione di liberare Brentan dagli arresti domiciliari, obbligandolo solo a risiedere nel comune di Campolongo. Per i giudici, le offerte di Mantovani e Fip (meno 41,17%) erano assolutamente al di sotto della soglia di anomalia: del tutto «legittima e regolare», dunque, la decisione di escluderle. Come pure l’offerta della Ati Consorzio Stabile Consta (-35,83%), anch’essa incongrua, assegnando i lavori a Sacaim (-31%). Per il Riesame è invece certo che Brentan sia intervenuto per evitare ricorsi al Tar. Racconta l’ingegner Angelo Matassi, della commissione tecnica: «Chiesi (a Brentan) se i lavori fatti in subappalto dalle imprese escluse nella medesima gara potevano essere un problema; lui mi ammonì seccamente dicendomi di stare tranquillo e che la cosa andava bene così». Ma ci sono 2,5 milioni e mezzo che non tornano: svaniti. Baita ai pm aveva raccontato: «Brentan (…) mi ha spiegato che poi avremmo comunque fatto il lavoro in subappalto per Sacaim allo stesso prezzo a cui avevamo vinto e potevamo astenerci dal fare ricorso». La differenza? «2 milioni e mezzo», risponde Baita, secondo il quale i soldi sarebbero «rimasti nelle mani di Sacaim perché tecnicamente incassava dalla Padova-Venezia». Brentan «fu chiaro» – racconta Scaramuzza – «disse: “Non rompete le scatole, tanto se fai ricorso al Tar non concluderai niente… e roviniamo un rapporto: guarda se ti conviene”». I giudici ritengono invece non vi sia riscontro all’accusa mossa a Brentan di aver incassato – in una sorta di catena delle mazzette – 65 mila euro da Scaramuzza dei 200 mila che quest’ultimo avrebbe preteso da Nievo e Ido Benetazzo per sub-subappaltare loro le opere. Soldi che Scaramuzza ha detto di tenere nascosti in «una cassetta, antro, buco nel mobile ricavato dal muro del bagno, da cui io carico e pesco a seconda delle necessità».

Roberta De Rossi

 

i giudici del riesame

«Su Artico indizi insufficienti»

La scarcerazione del dirigente regionale: nessuna violazione di legge

TREVISO Sono racchiuse in diciotto pagine le motivazioni che hanno portato i giudici del Riesamea stracciare l’ordinanza di custodia cautelare che aveva portato dietro le sbarre Giovanni Artico (nella foto), ex sindaco di Cessalto e ora funzionario della Regione. Ventitré giorni trascorsi nel carcere di Ravenna dopo lo scoppio del caso Mose, con l’accusa di corruzione. Le stesse intercettazioni che avevano fatto scattare le manette ai polsi di Artico hanno convinto i giudici del Riesame ad annullare tutto: «Quadro indiziario insufficiente », ma anche nessuna violazione della legge. Secondo i giudici, nel comportamento di Artico non sarebbero ravvisabili nemmeno violazioni deontologiche. Il Riesame, esaminando le prove, ha stabilito che «non emerge alcun atteggiamento diretto a vanificare la funzione demandatagli ». Secondo i giudici, Artico sarebbe estraneo al meccanismo corruttivo che viene contestato dai pm della Procura di Venezia. A portarlo in carcere erano proprio state le intercettazioni telefoniche: conversazioni tra l’ex segretaria di Giancarlo Galan Claudia Minutillo, l’ex numero uno della Mantovani Piergiorgio Baita, l’ex assessore alla mobilità della Regione Veneto Renato Chisso e l’addetta stampa del Consorzio Venezia Nuova Flavia Faccioli. Proprio Chisso avrebbe confidato a Minutillo che Artico era l’uomo da contattare per accelerare i “favori” alla Mantovani. Ad alleggerire la posizione di Giovanni Artico è stato Piergiorgio Baita: in merito all’assunzione della figlia dell’ ex primo cittadino di Cessalto alla Nordest Media (di cui Claudia Minutillo era legale rappresentante) ha affermato come non ci sia stato nessun accordo corruttivo. I giudici nell’ordinanza sottolineano infatti che, anche se la figlia di Artico è stata effettivamente assunta dalla Nordest Media, non sono stati compiuti «atti contrari ai doveri d’ufficio». Lo stesso ex sindaco, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, aveva respinto ogni accusa, escludendo qualsiasi accordo contrario alla legge. Fabiana Pesci

 

FIUME DI SOLDI SU CUI FARE CHIAREZZA

di FRANCESCO JORI

Questione di punti di vista, anche nel senso letterale del termine. Non vi è chi non veda un intento persecutorio nell’indagine condotta contro di me, sostiene Giancarlo Galan. All’opposto, non vi è chi non veda perché gli avrebbe dovuto essere concesso ciò che è stato negato a tanti altri, parlamentari compresi: alla manciata di pagine delle memorie difensive sue e di altri imputati che si proclamano estranei al Nilo di tangenti originato dal Mose, la magistratura ne contrappone160 mila frutto di oltre quattro anni di indagini, riscontri incrociati, intercettazioni, confessioni plurime. E in ogni caso, c’è un punto centrale da sottolineare: con il suo voto a schiacciante maggioranza (16 contro 3), ieri la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera non ha stabilito che Galan sia colpevole; ha semplicemente dato via libera a una richiesta di arresto. Comunque un semplice parere, visto che la decisione spetta all’aula: cosa che avverrà alle 5 del pomeriggio di martedì. Non saranno le fatidiche “cincos de la tarde”, né ci sarà nessuna arena su cui inscenare un sanguinoso duello. Se pure dovesse varcare le soglie del carcere, l’esperienza dell’ex governatore del Veneto sarebbe molto diversa da quella dei 14 mila detenuti italiani in attesa di primo giudizio. Anche perché ad attenderlo non ci sarebbe una cella magari sovraffollata come quasi tutte, ma verosimilmente l’infermeria: le disgrazie, si sa, non vengono mai sole; tant’è che all’ex governatore del Veneto è accaduto di fratturarsi tibia e perone potando non una poderosa quercia ma una semplice rosa, così da trovarsi con la gamba ingessata. Il che potrebbe anche schiudergli le porte degli arresti domiciliari, nell’ormai ben nota dimora sui Colli Euganei che non ricorda propriamente lo Spielberg. Ma non è questo il punto. Che Galan finisca o no in prigione, potrà appassionare al massimo gli sparuti e opposti manipoli di garantisti e giustizialisti. La questione centrale è stabilire chi abbia beneficiato dell’alluvione di soldi scatenata in Veneto dal Mose ma presumibilmente anche da altre opere pubbliche; e che, proprio come nel caso del Nilo, ha fertilizzato le terre non solo della politica ma pure della pubblica amministrazione, dell’impresa privata e di svariati professionisti, arrivando a lambire perfino i sagrati della Chiesa: esemplari in tal senso le decisioni annunciate l’altro ieri dal patriarca di Venezia. Nel caso specifico, si tratta di capire se e quali siano state le responsabilità di Galan: uno dei tanti indagati, anche se tra i più ingombranti visto il ruolo di dominus esercitato per quindici lunghi anni. In questo senso, la risposta di ieri della giunta e quella di martedì prossimo della Camera sono comunque marginali: a contare sarà la pronuncia finale della magistratura. Sulla quale purtroppo grava già, però, una venefica zona d’ombra: il lavacro della prescrizioneche rischia di mettere al riparo quasi tutti gli imputati, considerando che essa scatta dalla data in cui i reati sono stati commessi, anziché da quella in cui sono stati accertati. Proprio di questo tratta il punto 9 del pacchetto di riforma della giustizia annunciato nei giorni scorsi dal premier Renzi, che giustamente l’ha definita «una questione di civiltà ». Se e quando passerà, varrà comunque a futura memoria; oggi rappresenta per troppi un comodo salvagente. Certo, per il presente c’è sempre la possibilità di rinunciare alla prescrizione, per chi è convinto di essere innocente e vittima di un’ingiustizia. Ma c’è da credere che a quel provvidenziale gavitello si aggrapperanno a frotte. Finendo così per concorrere ad alimentare il massimo di inciviltà: colpa manifesta, nessun colpevole. Anzi, molti impuniti beneficiari.

 

decisione del gip entro il fine settimana

I pm milanesi: nuovo arresto di Meneguzzo La Procura di Milano rinnova la richiesta di arresto per Roberto Meneguzzo, amministratore della Palladio Finanziaria, accusato di essere il mediatore di contatto e tangenti tra il Consorzio Venezia Nuova e Marco Milanese, ex braccio destro dell’allora ministro delle Finanze Tremonti. Tangente da 500 mila euro per riaprire la partita dei fondi al Mose che languivano, che Giovanni Mazzacurati da detto di aver consegnato a Milanese, dentro una scatola di biscotti, nella sede della Palladio: questa parte dell’inchiesta è così passata a Milano. I magistrati veneziani avevano arrestato Meneguzzo il 4 giugno, concedendogli poi il 21 giugno i domiciliari, dopo un tentativo di suicidio. Sulla misura cautelare chiesta dai pm Pellicano e Orsi – che dovranno rinnovarla anche per Milanese – deciderà il gip De Marchi entro il fine settimana.

 

Expo, commissariato l’appalto Maltauro

«E ora piena operatività del cantiere»

Il presidente dell’autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, ha inviato ieri al prefetto di Milano, Francesco Paolo Tronca, il provvedimento di richiesta di commissariamento della società Maltauro, relativamente alla gara di appalto delle cosiddette architetture di servizio di Expo 2015. Il provvedimento è stato pubblicato sul sito dell’autorità nazionale anticorruzione. La società Expo spa, in una nota, aggiungeva ieri pomeriggio che si era da poco concluso un incontro di lavoro «molto proficuo» tra il commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, e il presidente dell’autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. Nell’incontro «sono state definite le linee guida per l’azione nei prossimi mesi – si legge nella nota diffusa a seguito del vertice in modo tale da garantire da subito la piena operatività sul cantiere e in tutte le attività connesse all’esposizione universale».

 

L’INTERROGATORIO – Cuccioletta: «La mia nomina? La suggerì Mazzacurati a Matteoli»

«La mia nomina? La consigliò Mazzacurati». Lo dice l’ex presidente del Magistrato alle acque sentito dai giudici nell’ambito del procedimento contro l’ex ministro Altero Matteoli.

Altero Matteoli accusato di aver incassato soldi per la bonifica di Marghera

L’INTERROGATORIO Cuccioletta (Magistrato alle acque) sentito nel procedimento contro l’ex ministro dell’ambiente

«La nomina? Mazzacurati mi indicò a Matteoli»

Ancora un’udienza del Tribunale dei ministri per far luce sull’inchiesta che riguarda Altero Matteoli, l’ex ministro dell’Ambiente e dei Trasporti del governo Berlusconi, nell’ambito degli accertamenti sul Mose. Secondo la Procura lagunare Matteoli, che ha sempre respinto ogni addebito, avrebbe percepito somme di denaro illecite per la bonifica di alcune zone dell’area industriale di Porto Marghera.
Ieri mattina il Tribunale dei ministri aveva convocato l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati. A presentarsi è stato, invece, solo il suo legale, l’avvocato Giovan Battista Muscari Tomaioli il quale ha depositato un’istanza che certifica l’impedimento del suo assistito alla luce di alcuni problemi di salute. A questo punto Mazzacurati, che attualmente si trova in California, potrebbe essere sentito in rogatoria sia attraverso gli inquirenti americani sia attraverso gli investigatori italiani. Era stato proprio Mazzacurati ad affermare di aver corrisposto somme di denaro all’ex ministro Matteoli in seguito ad alcuni favori ricevuti. Nel corso di un interrogatorio l’ex amministratore della Mantovani, Piergiorgio Baita, aveva detto che c’era un accordo affinché certi interventi fossero subappaltati a determinate aziende. Tra queste la Socostramo che fa capo a Erasmo Cinque, costruttore romano che è stato consigliere del ministro Matteoli.
E il Tribunale dei ministri – composto dal presidente Monica Sarti e da Priscilla Valgimigli e Alessandro Girardi – ha sentito anche l’ex presidente del Magistrato alle acque, Patrizio Cuccioletta. Quest’ultimo avrebbe sostanzialmente confermato quando aveva già dichiarato a suo tempo ai magistrati lagunari quando disse che i collaudatori del Mose erano quasi sempre scelti da Mazzacurati. Formalmente la nomina era dello stesso Cuccioletta, ma spesso avveniva su indicazione e su pressione di Mazzacurati. In alcuni casi era anche capitato che, a seguito della turnazione dei vari soggetti, qualche collaudatore fosse escluso: spesso veniva reinserito se risultava in qualche modo vicino a Mazzacurati. Cuccioletta, che è stato presidente fino al 2011, avrebbe anche riferito che la proposta di approdare in laguna per far parte del Magistrato alle acque gli era stata avanzata dall’ex ministro Matteoli, probabilmente su indicazione diretta dello stesso Mazzacurati. Le udienze del Tribunale dei ministri dovrebbero concludersi il prossimo settembre.

 

L’INCHIESTA L’ex governatore: «Una scelta politica. Provo sconcerto e amarezza: sono innocente»

«Galan può essere arrestato»

Il sì della Giunta per le autorizzazioni con 16 voti a 3: non c’è persecuzione. Martedì la decisione dell’aula

LA PRONUNCIA – Sedici voti contro tre. Così la Giunta per le autorizzazioni liquida la pratica-Galan. Sarà comunque l’aula di Montecitorio, martedì, a decidere sull’arresto dell’ex governatore veneto.

LA REAZIONE «Amarezza e sconcerto». Sul caso-Mose, Galan continua a proclamarsi innocente. A suo avviso è stato un voto condizionato dagli «orientamenti politici».

IL DEPUTATO «Fiducioso che i colleghi d’aula si pronuncino secondo coscienza»

L’AVVOCATO «Abbiamo già smontato alcuni fatti: dalle firme false alla villa restaurata»

«Sono innocente, provo amarezza: è un voto politico»

Non sono bastati l’”adesso parlo io”, l’autodifesa di un’ora e mezzo davanti ai colleghi della Camera, le tre memorie dei suoi difensori. Se sperava di dimostrare che contro di lui è stata orchestrata una persecuzione, sono state assemblate versioni compiacenti e interessate di callidi corruttori pronti a dir tutto per uscire di galera, accuse fasulle diventate l’architrave di un inchiesta-flop, Giancarlo Galan ieri ha dovuto ricredersi. Si va al voto in aula con un parere favorevole all’arresto. Martedì sarà per lui il giorno più lungo di una vita finora ricca e potente.
È ormai sera quando l’ex governatore del Veneto rompe il silenzio. Si affida a un comunicato, centellinato con i suoi difensori, gli avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini. «Purtroppo l’esito del voto di oggi (ieri per chi legge, ndr) della Giunta per le Autorizzazioni a procedere era stato ampiamente annunciato da numerose (incaute e poco istituzionali) dichiarazioni». Evidente il riferimento all’intervista di ieri del relatore Mariano Rabino. Galan adombra ordini di scuderia che avrebbero orientato il voto. «Ho voluto credere fino in fondo che valutare in merito alla libertà di una persona, che valutare l’applicazione della massima misura cautelare, prescindesse da orientamenti politici. Così non è stato, non posso che prenderne atto, con amarezza e sconcerto». Eppure lascia aperto uno spiraglio, non fosse altro che per riflesso di sopravvivenza. «Resto fiducioso che i colleghi d’aula abbiano letto la documentazione che ho prodotto e votino secondo coscienza, personale».
Potrà l’assemblea di Montecitorio, dove la maggioranza di Pd e M5S è schiacciante, rovesciare in modo clamoroso, magari con la copertura del voto segreto, l’indicazione della Giunta? Appare improbabile. Galan lo sa, ma non rinuncia a dichiararsi vittima. «Io sono innocente, un politico innocente, non smetterò di ripeterlo semplicemente perché è la verità».
L’onda d’urto degli elogi parlamentari alla solidità dell’inchiesta comunque va rintuzzata. Ci pensa l’avvocato Franchini: «Un discorso è l’indagine nel suo complesso, la situazione è ben diversa in relazione alla posizione dell’onorevole Galan. Non ci sono riscontri obiettivi di alcun genere, solo dichiarazioni generiche che neppure si incrociano tra loro». Un esempio? «La Minutillo dice di non aver mai consegnato una lira, perchè lo faceva Baita. Baita dice che lo faceva la Minutillo. Mazzacurati ha detto di non aver mai dato nulla a Galan, perchè lo faceva Sutto attraverso l’assessore Chisso». Il difensore aggiunge: «Abbiamo già smontato alcuni fatti specifici con documenti e prove: il versamento di 50 mila euro a San Marino con una firma falsa e la ristrutturazione della villa di Giancarlo Galan, che Baita dice di aver pagato. Abbiamo portato le fatture che dimostrano come i pagamenti siano stati fatti nel 2006 e 2007 dal presidente Galan, ben prima del 2011, data indicata da Baita».

Giuseppe Pietrobelli

 

NORDIO «La decisione conferma la solidità dell’inchiesta»

LA RUSSA «Il risultato non era scontato. C’è stata grande attenzione»

IL RELATORE «Ho sentito il peso della decisione, ma non c’è persecuzione»

Galan, primo sì all’arresto

Con 16 voti a favore contro 3 la Giunta per le autorizzazioni dà il via libera. Martedì il caso in aula

VENEZIA – A questo punto il tentativo di evitare il carcere si fa dannatamente stretto per Giancarlo Galan, l’uomo politico che fu più potente (e più a lungo) in Veneto. Non è tanto il voto largamente favorevole espresso ieri pomeriggio dalla Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati, a fare da apripista alla decisione che sarà presa martedì dall’aula. Era atteso, previsto, quasi scontato nel ramo del Parlamento dove il Pd (con i Cinque Stelle) ha una maggioranza schiacciante. A colpire sono le motivazioni illustrate dal relatore Mariano Rabino di Scelta Civica, e fatte proprie da altri deputati. Non si sono limitati a dire che non esiste fumus persecutionis, ovvero il sospetto di un’indagine costruita per colpire un parlamentare e limitarne l’esercizio di rappresentanza del popolo sovrano. Da Montecitorio è venuta una presa di posizione netta sulla validità della maxi istruttoria costruita dalla Procura di Venezia, che si è avvalsa del lavoro investigativo della Guardia di Finanza.
Lo hanno capito al volo i magistrati di piazzale Roma. In serata il procuratore aggiunto Carlo Nordio ha diffuso un comunicato. Conciso, ma eloquente. «La decisione assunta dalla Giunta della Camera dei Deputati costituisce un’ulteriore conferma della solidità di un’inchiesta condotta senza pregiudizi e senza accanimenti». E siccome si profila la carcerazione del politico di Forza Italia che ha governato il Veneto per tre mandati, quasi quindici anni, segue un’aggiunta non rituale. «Non vi è mai esultanza davanti alla prospettazione del carcere. Soltanto la serena affermazione che la Legge è uguale per tutti».
Che la partita fosse chiusa, almeno davanti alla Giunta, Galan lo ha capito quando di buon mattino ha letto un’intervista di Mariano Rabino, il relatore del suo caso. Aveva anticipato che il suo parere sarebbe stato favorevole all’arresto per episodi di supposta corruzione. Perchè non esiste persecuzione. «Umanamente mi dispiace e sento il peso e la gravità del ruolo. Di Galan mi piace il modo appassionato e fuori dagli schemi di fare politica, ma la mia valutazione è politica, non etica o giudiziaria: in questo caso ritengo non ci sia “fumus persecutionis”».
Rabino, parlando alla Giunta, si è spinto più in là. «Siamo chiamati solo a esprimere un giudizio su un eventuale intento persecutorio. Questa è l’unica cosa che dobbiamo valutare, non se un deputato è colpevole o innocente. Ma sono convinto che l’inchiesta è credibile e non ha guardato in faccia nessuno. Se Galan non fosse deputato, sarebbe già trattenuto in carcere». Ha elogiato Finanza e magistratura. «La prospettazione dei fatti offerta dagli organi inquirenti nasce da iniziative investigative tutt’altro che sporadiche e isolate. Il procedimento giudiziario è strutturato in forma estremamente complessa e articolata. Si può escludere che l’inchiesta sia affetta da una manifesta infondatezza o da un distorto uso dei mezzi giudiziari così evidente da configurarsi come persecutoria». Il relatore ha anche ricordato come lo stesso Gianfranco Chiarelli, deputato di Forza Italia, pur sostenendo il voto contrario all’arresto di Galan, abbia «definito l’indagine “solida, fatta bene, appoggiata a pilastri che reggono”».
Dopo gli interventi si è passati al voto. Innanzitutto la Giunta ha respinto con 14 voti contro 4 una richiesta presentata dal socialista Marco Di Lello che puntava a rispedire al Tribunale veneziano la richiesta in base alle norme contro le manette facili. Poco dopo il voto sul parere riguardante l’arresto. I voti a favore sono stati 16: oltre al relatore di Scelta Civica, i deputati di Pd e M5S . Solo tre i contrari: Forza Italia, Psi e Nuovo Centro Destra. Il presidente della giunta, Ignazio La Russa, non ha votato. Ma prima di andarsene ha commentato: «Il risultato non era scontato, c’è stata una grande attenzione da parte dei commissari nell’analizzare il caso». E di sicuro lo hanno fatto in tempi velocissimi, visto che l’ordinanza del gip fu eseguita nei confronti degli altri indagati poco più d un mese fa.

G. P.

 

I Pm: rinnovate i domiciliari per Meneguzzo

MILANO – I pm di Milano Roberto Pellicano e Luigi Orsi hanno chiesto la rinnovazione della misura cautelare per Roberto Meneguzzo, l’amministratore delegato di Palladio finanziaria finito in carcere il 4 giugno scorso nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Venezia sul Mose e la cui posizione, assieme a quella dell’ex parlamentare Marco Milanese e dell’ex generale della Gdf Emilio Spaziante, è stata trasmessa per competenza territoriale ai magistrati milanesi. Sulla richiesta di custodia cautelare per il finanziere vicentino accusato di corruzione, che lo scorso 21 giugno, dopo aver tentato il suicidio in carcere, ha ottenuto i domiciliari, dovrà decidere il gip di Milano Carlo Ottone De Marchi e dovrebbe farlo entro la fine della settimana.

 

RIESAME – Per Brentan accuse confermate solo in parte

VENEZIA – Secondo il Tribunale del riesame, che ha concesso l’obbligo di dimora a Lino Brentan, solo una parte delle accuse nei suo confronti è confermata. Per l’ex amministratore della società autostrade di Venezia e Padova, il Tribunale del riesame ritiene che effettivamente c’è stata una sorta di induzione rivolta a Piergiorgio Baita e Mauro Scaramuzza a rinunciare a presentare il ricorso al Tar alla luce dell’esclusione di Mantovani e Fip dall’appalto per le opere di mitigazione della terza corsia della tangenziale di Mestre. In questo caso l’appalto venne aggiudicato alla Sacaim, ma secondo la Procura ci fu una sorta di accordo per consentire alle ditte escluse di trovare una collocazione nel subappalto. «I termini di natura concussiva per induzione – scrive il Tribunale – emergono con nettezza». Non ci sarebbero invece indizi di colpevolezza, infine, su un ipotetico versamento, da Scaramuzza a Brentan, di 65mila euro.

 

La mossa del Pd: il Parlamento indaghi sul Mose

L’OBBIETTIVO «Valutare eventuali criticità normative sull’opera e la gestione»

Iniziativa del Pd: i deputati veneti chiedono che la Commissione Ambiente avvii un’indagine conoscitiva sulle dighe veneziane

LE RICHIESTE – Nel mirino: stato d’avanzamento dei lavori ed esigenze finanziarie

«Mose, indaghi il Parlamento»

Avrebbero potuto chiedere una commissione di inchiesta, come per l’antimafia o il ciclo dei rifiuti. Ma, al di là dei tempi lunghi – serve una legge, campa cavallo – avrebbero rischiato di intralciare il lavoro della magistratura. Cosa che ai deputati veneti del Pd non passa minimamente per la testa. Anzi. Però vogliono capire cos’è successo a Venezia, dove l’inchiesta ha spazzato via l’amministrazione di centrosinistra. Vogliono sapere come è stato possibile che il Mose abbia generato una corruzione e un malaffare nauseanti. E, posto che le dighe mobili vanno completate, come ha detto il premier Matteo Renzi l’altro giorno quand’è calato in laguna, c’è da fare chiarezza sul concessionario unico, sulle gare, sulla gestione futura dell’opera. Insomma, il Pd veneto non intende fare da spettatore.

È così che i diciannove deputati veneti del Partito democratico, capitanati dal vicepresidente del gruppo a Montecitorio Andrea Martella e dal segretario regionale del partito Roger De Menech, hanno deciso di chiedere alla commissione Ambiente presieduta da Ermete Realacci di deliberare una indagine conoscitiva sul Mose. Che, appunto, non è una commissione di inchiesta, ma è uno strumento più veloce e forse anche più efficace dal punto di vista politico. Perché se la magistratura deve fare il suo lavoro, è altrettanto giusto – dicono i democrats veneti – che anche le istituzioni si interroghino sul sistema del Mose e sul sistema “politico-affaristico” che ha coinvolto le imprese interessate nella realizzazione delle dighe mobili.
Il documento rivolto a Realacci è chiarissimo: «Chiediamo di porre all’ordine del giorno dell’Ufficio di presidenza della Commissione la richiesta di deliberare un’indagine conoscitiva in merito alla realizzazione dell’infrastruttura strategica denominata Mose, con particolare riferimento alle attività poste in essere dal Consorzio Venezia nuova, e delle imprese ad esso collegate, allo stato di avanzamento dei lavori, al quadro finanziario delle risorse finora impiegate, di quelle già stanziate e di quelle occorrenti per la conclusione definitiva delle opere».
Il motivo viene così spiegato: «Ottenere non solo un quadro complessivo relativo alla realizzazione e alla gestione dell’infrastruttura, e un cronoprogramma delle opere ancora da realizzare, ma anche per valutare possibili iniziative normative che si dovessero rendere necessarie alla luce degli sviluppi dell’indagine stessa».
Senza contare che oggi il Mose deve essere completato, ma domani qualcuno dovrà farlo funzionare. E qui il documento non lascia dubbi: «La richiesta di svolgere un’indagine conoscitiva muove anche dalla necessità di comprendere quali siano le prospettive che il Mose declinerà per il futuro della città di Venezia». Di più: bisognerà «valutare eventuali lacune o criticità normative relative agli aspetti di funzionamento e gestione dell’infrastruttura idraulica». Se la commissione Ambiente presieduta da Realacci accoglierà la proposta dei democrats veneti, a settembre l’indagine conoscitiva potrebbe già entrare nel vivo. A partire dalle «audizioni dei soggetti interessati e delle autorità di governo competenti».

Alda Vanzan (ha collaborato Giorgia Pradolin)

 

L’ACCUSA SCANDALO MOSE – In 18 pagine le motivazioni del Riesame: non ci fu alcun tentativo di corruzione

«L’arresto di Artico? Un errore»

I giudici: «Lo scagionano le stesse intercettazioni della Procura»

Più che incastrare Giovanni Artico, le intercettazioni che hanno fatto scattare le manette nei confronti dell’ex sindaco di Cessalto sembrano inchiodare alle loro responsabilità, secondo l’accusa, l’ex segretaria di Giancarlo Galan Claudia Minutillo, l’ex numero uno della Mantovani Piergiorgio Baita, l’ex assessore alla mobilità della Regione Veneto Renato Chisso e l’addetta stampa del Consorzio Venezia Nuova Flavia Faccioli. Almeno questo è quanto emerge dalle motivazioni del tribunale del Riesame di Venezia che ha deciso di annullare l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa a carico dell’ex primo cittadino di Cessalto e ora funzionario della Regione Veneto.
I giudici del Riesame, esaminando le fonti di prova, hanno stabilito che «non emerge alcun atteggiamento diretto in termini concreti a vanificare la funzione demandatagli». In altre parole Giovanni Artico, difeso dall’avvocato Rizzardo Del Giudice, non avrebbe mai violato non solo la legge, ma addirittura quella che potrebbe essere definita “deontologia professionale”. Le 18 pagine redatte dal tribunale del Riesame di fatto riabilitano sia la persona che l’operato di Artico, definendo «insufficiente il quadro indiziario» che lo ha portato a passare 23 giorni rinchiuso nel carcere di Ravenna per l’ipotesi di reato di corruzione nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti del Mose. In sintesi, secondo il Riesame, Artico non c’entra nulla con il meccanismo corruttivo contestato dai pm veneziani. Come detto all’inizio, le presunte prove portate dai pubblici ministeri per chiedere l’arresto di Artico, si basano sostanzialmente sulle intercettazioni telefoniche di Claudia Minutillo, Piergiorgio Baita e Renato Chisso. Proprio quest’ultimo avrebbe detto alla Minutillo che sarebbe stato Artico l’uomo da contattare per accelerare i “favori” alla Mantovani. A “scagionare” Artico è stato Piergiorgio Baita il quale, in merito all’assunzione della figlia dell’ex primo cittadino di Cessalto alla Nordest Media (legalmente rappresentata dalla Minutillo) che afferma come non ci sia stato nessun accordo corruttivo. I giudici affermano infatti che, anche se la figlia di Artico è stata effettivamente assunta dalla Nordest Media, non sono stati compiuti «atti contrari ai doveri d’ufficio».

 

IL TRIBUNALE DEL RIESAME

«Su conti esteri le mazzette di Chisso, così fanno tutti»

VENEZIA «Irrilevanti». Così il Tribunale del Riesame bolla le analisi patrimoniali presentate dall’avvocato Forza per dimostrare che l’ex assessore Renato Chisso non poteva aver incassato mazzette milionarie dal Consorzio Venezia Nuova, non avendo beni, vivendo nella vecchia casa del padre, guidando sempre la stessa vecchia auto, mentre ad esempio la sua accusatrice Claudia Minutillo si era comprata una villa da 17 stanze. Per il Riesame «l’assessore Chisso si era messo a completa disposizione degli interessi dei privati» e i soldi ricevuti in cambio secondo l’accusa possono essere tranquillamente in qualche banca oltreconfine: «L’indagato ha operato in un contesto in cui portare i soldi all’estero sembra costituire la regola, non l’eccezione, come confermano i casi di Baita, Buson, Cuccioletta e Voltazza, via via accertati ed è certo assai improbabile che un assessore regionale tenga i soldi frutto di corruzione in un conto corrente, a nome proprio o a quello dei suoi familiari, presso una banca nel territorio della Repubblica ». Contro Chisso – sottolinea il Riesame – non solo le accuse di Mazzacurati di aver “stipendiato” l’assessore con 200-250 mila euro l’anno sin dagli Novanta, ma alcuni pagamenti diretti dei quali si sono autoaccusati altri protagonisti dell’inchiesta e per questo «credibili». Come i 250 mila euro consegnato da Baita al laguna Palace e i 150 mila portati dal segretario di mazzacurati, Sutto, a Palazzo Balbi nel febbraio 2013, sotto gli occhi dei finanzieri. O quando Minutillo ha raccontato agli investigatori che Chisso riceveva regolarmente fondi neri «ma che si era anche lamentato che Mazzacurati gli corrispondeva somme di danaro solo alle feste comandate». Chisso che – ricorda l’imprenditore Mirco Voltazza – temeva che il suo segretario Enzo Casarin «incaricato delle riscossioni “per suo conto”, facesse il furbo e che in qualche occasione avesse tenuto per sé parte dei soldi concordati ». Un’ordinanza che suona anche come una“pietra tombale” nei confronti di un futuro, eventuale ricorso di Giancarlo Galan contro l’ordinanza che lo vorrebbe in carcere. Scrivono i giudici: «All’epoca Galan era il governatore del Veneto e Chisso era comunque a lui subordinato», «il destinatario finale dei 900 mila euro relativi alla delibera Mose era sicuramente Galan (…) nessuna confusione, solo una procedura macchinosa, visti gli intermediari implicati». (r.d.r.)

 

La Corte dei Conti al Cvn «Basta lavori senza gara»

Il Consorzio insiste nel sostenere che il sistema del concessionario unico è legittimo

In realtà la bocciatura arrivò già nel 2009: «Violato il principio della concorrenza»

La lettera al governo in cui si chiede di completare il Mose confutata da una relazione dei magistrati

«Difficile trovare un gestore “altro” dallo stesso concessionario»

MESTRE Nella lettera inviata al premier Matteo Renzi per chiedere di non sospendere i lavori delMose e di non abbandonare il progetto delle dighe mobili, il Consorzio Venezia Nuova sottolinea come l’affidamento dell’intervento al Consorzio stesso sia legittimo anche senza gara d’appalto. In realtà la Corte dei Conti, in una relazione del 2009 sostiene il contrario. Scrive il Cvn: «Il rapporto concessorio tra il Consorzio e il ministero delle Infrastrutture- Magistrato alle Acque di Venezia è legittimo ». È la replica a quanti (sempre più numerosi) ne chiedono l’abbandono in favore di un sistema concorrenziale di gare d’appalto. «Lo dicono le leggi, l’Unione Europea, la Corte dei Conti, il Consiglio di Stato, l’Avvocatura dello Stato e il Tar del Veneto». Ma non è così. Quantomeno la Corte dei Conti non avalla questa tesi. Anzi. Nel paragrafo 3, della relazione “La legislazione per la tutela e la salvaguardia della laguna e della città di Venezia e le sue criticità”, a pagina 14, sulla legge 798/1994 (legge speciale per Venezia e sue modifiche che consentirono l’affidamento dei lavori al consorzio unico), si legge: «Tale disposizione risultò, sin dalla sua emanazione, in contrasto, oltre che con i principi generali che il Trattato comunitario detta in materia di concorrenza, anche conla direttiva Cee in materia di procedure e aggiudicazione di appalti di lavori pubblici del 1971, allora vigente. Peraltro, il legislatore sancì la possibilità e non l’obbligo del ricorso a tale forma di affidamento ». La Corte dei Conti è poi esplicita nelle conclusioni della relazione. Si legge a pagina 48: «L’obbligo derivante dalle direttive comunitarie del rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza, che si realizza attraverso l’affidamento dei contratti con gare pubbliche, non risulta ancora osservato per una delle opere più significative in corso di realizzazione dallo Stato italiano (il Mose, ndr), pur in presenza: di disposizioni legislative nazionali sopravvenute volte al superamento dell’affidamento a trattativa privata della concessione de qua; di un lungo contenzioso con la Commissione europea, risoltosi nel 2002 con un compromesso, che ha aperto al mercato, seppure parzialmente, le attività di realizzazione della salvaguardia della laguna e che ha scongiurato il deferimento alla Corte di giustizia da parte della Commissione stessa; dell’esortazione della Corte dei Conti all’affidamento degli interventi secondo le procedure concorsuali – il che deve andare a valere su tutti gli interventi ancora da progettare (siamonel 2009 ndr), con particolare riferimento a quelli collegati alla realizzazione del Mose -; della clausola della convenzione generale, che prevede la possibilità del recesso unilaterale dell’amministrazione; dell’obbligo, comunque, di disapplicare disposizioni legislative nazionali in contrasto con la normativa comunitaria da parte delle amministrazioni». La Corte dei Conti, inoltre, osserva come questo “monopolio” non sia destinato a terminare con la conclusione dei lavori. Si legge ancora nelle conclusioni: «Né la conclusione dei lavori, prevista per il 2012 (nel 2009 la data era ancora questa, i lavori in realtà termineranno nel 2016 ndr), sembra destinata a sciogliere l’anomalia delle attribuzioni di funzioni in capo al concessionario senza procedure di evidenza pubblica, dal momento che, recentemente, sono state affidate allo stesso la gestione e la manutenzione dell’opera. È facile prevedere, stante la situazione di monopolio protrattasi per oltre un ventennio, che sarà difficile, in avvenire, trovare un gestore “altro” dallo stesso concessionario ». Insomma la Corte dei Conti, non è di certo convinta che l’affidamento al consorzio unico sia legittimo.

Carlo Mion

 

L’INTERVENTO

Sistema Mose, meglio fare tutte le verifiche

Ingegneri Vincenzo Di Tella, Gaetano Sebastiani, Paolo Vielmo

Anzitutto ringraziamo la “Nuova Venezia” per aver citato la vicenda giudiziaria (maggio 2007),un vero e proprio attacco definito dai nostri avvocati “intimidatorio” che, come si sa, si è concluso con la nostra piena assoluzione. Ci accusava di“campagna diffamatoria, livelli molto gravi di accanimento mediatico, ostinata crociata contro il sistema Mose, il Consorzio e i suoi tecnici, nonché contro tutti gli organi pubblici che hanno studiato e approvato il progetto”. Ci accusava di“una grave e ingiusta diffamazione a suo danno, di una violazione dei suoi diritti alla personalità, all’integrità professionale, alla reputazione economica e all’integrità patrimoniale”. L’atto di accusa si concludeva chiedendo al Tribunale la nostra condannaa risarcire tutti i danni prodotti. Chiedeva inoltre la pubblicazione, a cura dell’Attore e a spese dei Convenuti, cioè nostre, dell’emananda sentenza – per due volte – a caratteri doppi del normale, e con i nomi delle parti in grassetto, sui quotidiani locali, nazionali e su alcuni periodici. Il documento dell’accusa si concludeva tentando di quantificare il danno subito. “…Il risarcimento del danno da riconoscere… al Consorzio, dovrebbe secondo noi essere liquidato in un importo molto rilevante,che tenga adeguatamente conto: dell’importanza e della visibilità anche internazionale del sistema Mose e delle aziende consorziate; delle cifre in gioco nel progetto;come ordine di grandezza del risarcimento ci limitiamo a ricordare come sia frequente nei casi accertati di diffamazione la richiesta delle centinaia di migliaia o anche milioni di euro, a fronte di una sola pubblicazione diffamatoria:mentre qui ci troviamo di fronte a una capillare e insistita campagna diffamatoria che si è sviluppata con più di 60 lettere ai giornali, articoli e interventi pubblicati sulla stampa e in Internet. Il“danno” quindi non viene quantificato,mane viene indicato l’ordine di grandezza in milioni di euro. Ricordiamole conclusioni della sentenza del Tribunale di Venezia (novembre 2011): “Se questo è il contenuto fondamentale delle numerose lettere ai giornali, non sembra che sia stata raggiunta la soglia minima della diffamazione: più semplicemente si registra la presenza dell’opinione dissenziente. Ciò che più conta, tuttavia, ai fini di causa, è la totale assenza di affermazioni gratuite: questo è un punto essenziale, perché se vi è critica giustificata dall’ argomentazione, non vi è spazio per l’offesa alla reputazione altrui”. “Per questi motivi, il Tribunale di Venezia così provvede: 1) rigetta la domanda proposta dall’attore perché infondata; 2)condanna il Consorzio a rifondere le spese di lite…”. Leggiamo sulla“Nuova Venezia” diuna nota del CVN diretta al capo del governo, nella quale si tenta ancora di scindere le responsabilità sui possibili fatti corruttivi relativi alla gestione delle risorse economiche assegnate al progetto, che sono al vaglio della Magistratura che farà il suo corso, dalla validità tecnica del progetto stesso, che viene ancora presentato come“sano” e “orgoglio della tecnologia e dell’ imprenditoria italiana”. Noi pensiamo che così non sia. Nella nota del CVN si fa riferimento a… “Cinquant’anni di confronti aspri, dibattiti pubblici, sperimentazioni, progetti e controprogetti”, ma questa dialettica non c’è mai stata al di fuori della struttura stessa delCVN,del Magistrato Alle Acque, dei Comitati tecnici di Magistratura e gruppi di Esperti incaricati dallo stesso MAV di “risolvere” tutte le critiche al progetto Mose e “valutare” le alternative a questo proposte. A noi risulta invece che quando al Comune di Venezia ci fu la presentazione dei progetti alternativi il CVN e il MAV,invitati dal sindaco,non erano presenti e quando su invito del sindaco fui presente al tavolo tecnico del Ministero in cui si doveva discutere dell’alternativa basata sulla Paratoia a Gravità, in previsione del Comitatone del 2006, non ci fu data neppure la possibilità di parlare e di confutare le obiezioni risibili, senza fondamento tecnico specifico e in alcuni casi contraddittorie fatte al nostro progetto che, vorrei ricordare dall’analisi di Principia risulta perfettamente funzionante mentre per il Mose non è stato possibile condurre le simulazioni dinamiche richieste dal Comune di Venezia dovuta alla presenza di fenomeni di instabilità dinamica. La presenza di tale fenomeno fisico, in certe condizioni gravose di moto ondoso,può portare alla perdita di efficacia della barriera e al limite al collasso strutturale di una o più paratoie. Anche tralasciando le 12 criticità strutturali presenti nel Mosee individuate dalla commissione comunale di Venezia nel 2006 a cui non è mai stata data risposta, riteniamo che sia oggi estremamente rischioso proseguire nel progetto Mose, senza aver chiarito questo fondamentale problema della dinamica delle paratoie, e ci permettiamo di suggerire al presidente del Consiglio di promuovere una verifica da parte di esperti tecnici qualificati sui suoi aspetti giudicati critici e noti già da molti anni. Auspichiamo che le decisioni sul progetto Mose non siano condizionate dalla grandissima quantità delle risorse già spese e chiediamo di verificare che esso abbia avuto tutte le verifiche necessarie, a comprovarne la funzionalità e la sicurezza, prima di proseguire conle opere e che questa verifica sia finalmente resa pubblica e posta nella disponibilità di tutti i cittadini che ne avessero interesse, come d’uso in tutti i paesi democratici.

 

L’arresto di Galan in Aula già martedì

Voto alla Camera previsto il 15 luglio, oggi si esprime la Commissione dove prevale la maggioranza Pd-M5S: «Non c’è fumus persecutionis»

La conferenza dei capigruppo: a Montecitorio dibattito di tre ore, poi la parola passerà ai deputati

PADOVA Inchiesta Mose e caso Galan: si procede a passi spediti verso il voto in aula alla Camera, previsto per martedì 15 luglio. Ieri Pd e M5S hanno annunciato il loro sì alla richiesta d’arresto presentato dalla Procura di Venezia nei confronti del deputato di Forza Italia. Oggi ci sarà il voto a scrutinio palese con chiamata nominale della Giunta delle autorizzazioni a procedere, presieduta dall’onorevole Ignazio La Russa, e tra 5 giorni si pronuncerà l’assemblea di Montecitorio. I dieci consiglieri democratici e i tre grillini, hanno ribadito di non aver ravvisato il fumus persecutionis nelle 16 mila pagine inviate dai magistrati ai 21 «commissari» che per un mese hanno letto e riletto il capo di imputazione e le tre memorie difensive presentate da Giancarlo Galan. Si può quindi dare il via libera, come nel caso dell’onorevole Fracantonio Genovese. Decisamente contrari alla richiesta d’arresto invece Forza Italia e Ncd, come spiega Antonio Leone: «Il fumus è oggettivo. Galan ha chiesto di essere ascoltato dalla Procura di Venezia, ma gli hanno chiuso la porta in faccia. Le garanzie processuali non sono state rispettate, abbiamo ricevuto una nuova memoria difensiva in cui il deputato padovano fa riferimento all’architetto Zanaica che può documentare con precisione gli anni in cui la villa di Cinto Euganeo è stata restaurata: la memoria avvalora la tesi della prescrizione del reato o comunque di una pena inferiore ai due anni, in sintonia con i patteggiamenti della Minutillo e di Baita che sono stati addirittura inferiori. Perché far provare l’onta del carcere all’onorevole Giancarlo Galan? Io sono contrario, ma temo la maggioranza schiacciante di Pd e M5S»,spiega Leone. Ieri, dopo gli interventi di Sofia Amodio (Pd), Giulia Grillo (M5S) ha preso la parola Giovanni Chiarelli, Fi, relatore di minoranza, che dopo aver ribadito il suo no all’arresto, ha chiesto un ulteriore rinvio legato ai tempi di conversione del decreto legge 92-2014 e all’applicazione dell’articolo 275, co 2-bis del codice di procedure penale. Si tratta della norma, assai osteggiata dalla magistratura, che consente di non applicare la custodia cautelare o gli arresti domiciliari «qualora il giudice procedente ritenga che la pena detentiva da irrogare possa essere contenuta in un massimo di tre anni». La richiesta di Chiarelli rischia di cadere nel vuoto perché l’applicazione del decreto legge 92-2014 «non è materia della Camera, ma di esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria: la Giunta delle autorizzazioni deve pronunciarsi solo sul fumus persecutionis», ha spiegato in aula e poi scritto nel suo parere l’onorevole Mariano Rabino (Sc), relatore del caso. «Galan sostiene di aver ricevuto la notifica dell’avviso di garanzia un anno dopo l’avvio delle indagini e di non essere mai stato ascoltato dai magistrati veneziani: oggi il voto in Giunta chiuderà il primo tempo della partita», conclude Rabino. Il secondo tempo, quello vero, viene annunciato alle 16,43 con un flash dell’Ansa che mette fine a tutte le discussioni: «L’ aula della Camera voterà il 15 luglio alle ore 17 sulla richiesta di arresto nei confronti di Giancarlo Galan (Fi): lo ha deciso la conferenza dei capigruppo di Montecitorio. La votazione sarà preceduta da un dibattito di tre ore». L’ex ministro ha appreso la notizia nella sua villa di Cinto: qualche giorno fa mentre potava una rosa è caduto, si è rotto il perone e ha una gamba ingessata. Da lì non si può muovere. L’improvvisa accelerazione sui tempi viene confermata dal presidente Ignazio La Russa: «Abbiamo già ottenuto una proroga di 30 giorni per esprimere un parere sulla richiesta di arresto nei confronti di Galan, non possiamo chiederne due. Oggi saranno concessi 5 minuti a testa a chiunque voglia esprimere il suo parere nelle dichiarazioni di voto, perché credo che la scelta dovrebbe essere individuale e non legata al gruppo di appartenenza ».

Albino Salmaso

 

 

Gazzettino – Consiglieri arrestati, ma retribuiti

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10

lug

2014

MOSE – La Giunta per le autorizzazioni vota la richiesta di arresto. L’ex governatore: non ho potuto difendermi

Galan, è il giorno del giudizio

Intanto si scopre che a Chisso e Marchese, i due consiglieri regionali arrestati e sospesi, è garantito l’80% dello stipendio

IL VOTO – Per Giancarlo Galan oggi è il giorno del giudizio: la giunta per le autorizzazioni si esprime sulla richiesta di arresto. L’ex governatore intanto accusa: «Non ho potuto difendermi».

IL RIFIUTO «Chiedo ai Pm di essere sentito: è un mio diritto, ma non lo fanno»

DIFESA ALL’ATTACCO «Nell’ottobre dello scorso anno non gli fu notificata la proroga delle indagini»

GIORNO DECISIVO – La Giunta della Camera oggi vota sulla richiesta di arresto dell’ex governatore

MONTECITORIO – I numeri sono sfavorevoli: in 13 già per le manette

ROMA – Sulla carta i pareri favorevoli all’arresto di Galan sono prevalenti nella Giunta delle autorizzazioni. Al di là della proposta del relatore Mariano Rabino (Scelta Civica) l’orientamento è per l’insussistenza di ogni ipotesi di “fumus persecutionis” nei confronti dell’ex Governatore veneto. A favore ci sono già 13 voti, sui 21 componenti della Giunta, ovvero i deputati del Pd e del Movimento Cinque Stelle che fanno blocco sulla stessa linea. Ieri Forza Italia ha giocato la carta delle nuove disposizioni contenute nel decreto sulla custodia cautelare, secondo cui non ci può essere carcere preventivo per gli imputati che rischiano una condanna fino a tre anni.

 

VILLA RODELLA – La casa dell’ex doge sui Colli Euganei iscritta come bene sequestrato

LO STIPENDIO – Per legge i consiglieri arrestati, come Chisso e Marchese, mantengono l’80% dell’indennità (oltre 5mila euro al mese) che viene dimezzata, invece, ai dirigenti.

VENETO Ai due dirigenti sospesi era stato invece dimezzato lo stipendio come previsto dal contratto

Consiglieri arrestati, ma retribuiti

A Chisso e Marchese l’80% dell’indennità: oltre 5mila euro al mese. Paga piena per i due sostituti

Due pesi, due misure? I fatti sono i seguenti: in Veneto i dipendenti regionali, anche se sono altolocati e ricoprono il ruolo di dirigenti, quando vanno in galera vengono immediatamente sospesi dall’incarico ed è una sospensione che costa loro cara: lo stipendio viene dimezzato. Anche i politici che finiscono in gattabuia ci rimettono dal punto di vista economico, ma meno: continuano a prendere l’80 per cento dell’indennità di carica. I veneti, in compenso, pagano per tutti. Perché oltre alle indennità (ridotte, ma pur sempre sostanziose) dei consiglieri sospesi, devono pagare anche quelle (piene) dei consiglieri supplenti. Per farla breve: le buste paga dei politici a Palazzo Ferro Fini adesso non sono più 60, ma 62. E non si sa neanche per quanto tempo.
A Palazzo allargano le braccia: effetti della legge Severino, dicono. Trattasi della nuova normativa che ha esteso i casi di sospensione per gli amministratori locali coinvolti in procedimenti penali. Una volta la sospensione scattava per vicende di mafia. Adesso, con il decreto legislativo 235 del 2012, è estesa a più casi e per applicarla non si aspetta il giudizio e nemmeno la condanna: appena si finisce in carcere o agli arresti domiciliari o anche se c’è il più semplice obbligo di firma, si viene sospesi. In Regione Veneto è successo per quattro persone, due dipendenti e due consiglieri. Ma con effetti diversi dal punto di vista retributivo. e pure sostitutivo.
Immediatamente dopo l’arresto, i dirigenti Giovanni Artico e Giuseppe Fasiol sono stati sospesi dal governatore Luca Zaia. Che non li ha sostituiti: i rispettivi incarichi sono stati attribuiti ad altri colleghi. Successivamente Artico e Fasiol sono tornati liberi e sono rientrati al lavoro, ma durante il periodo della sospensione hanno avuto lo stipendio ridotto come stabilito dal contratto di lavoro (articolo 9: “al dirigente sospeso dal servizio sono corrisposti un’indennità alimentare pari al 50% dello stipendio tabellare, la retribuzione individuale di anzianità o il maturato economico annuo, ove spettante, e gli eventuali assegni familiari”.
Cosa succede invece per i consiglieri regionali? La legge Severino dice che nel periodo di sospensione i soggetti sospesi non sono computati al fine della verifica del numero legale, né per la determinazione di qualsivoglia quorum o maggioranza qualificata. Ma specifica: “Fatte salve le diverse specifiche discipline regionali”. E la specifica disciplina della Regione Veneto dice due cose: la prima è che i consiglieri sospesi devono prendere l’80% dell’indennità di carica e la seconda è che devono essere sostituiti dai supplenti. Più semplicemente: Renato Chisso (tuttora in carcere) e Giampietro Marchese (ora ai domiciliari) sono stati sospesi dalla carica di consigliere regionale lo scorso 4 luglio (un mese dopo gli arresti) con decreto del premier Matteo Renzi, notificato al consiglio regionale per il tramite della Prefettura martedì scorso. Per il periodo della sospensione, in base a alla legge regionale 5/1997, Chisso e Marchese percepiranno “un assegno pari all’indennità di carica lorda ridotta di un quinto”. Non avranno l’indennità di funzione e nemmeno il rimborso spese, ma solo i quattro quinti dello stipendio base lordo di 6.600 euro e cioè 5.280 euro al mese. I loro “supplenti”, Francesco Piccolo e Alessio Alessandrini, subentrati ieri, avranno invece lo stipendio pieno. Ma c’era bisogno dei supplenti? Forse no, ma la norma (la legge statale 108/68 da cui dicende la legge regionale 5/2012) dice di sì. E così a Palazzo Ferro Fini si pagano 62 stipendi con 60 consiglieri effettivi.
Ps: anche a Montecitorio i deputati arrestati continuano a prendere l’indennità. Ieri i grillini hanno protestato, ma la legge è chiara.

Alda Vanzan

 

Veneto Banca, un faro sui conti degli indagati

TREVISO – (mzan) Da giorni in Veneto Banca è in corso un’accurata ricerca negli archivi. Mission: individuare ogni operazione intrattenuta con società o persone coinvolte nello scandalo Mose. «Con il presidente del collegio sindacale – spiega il presidente della Popolare montebellunese, Francesco Favotto – ho chiesto al servizio “audit” una ricognizione analitica di tutti i rapporti attivati da soggetti citati negli atti giudiziari e negli articoli giornalistici». Una forma di tutela preventiva. L’istituto trevigiano è socio di Palladio, la holding del finanziere Roberto Meneguzzo, arrestato. E il nome di Veneto Banca era stato indicato anche per alcuni prestiti all’ex governatore Galan.

 

IL RIESAME – I giudici spiegano perché hanno rimesso in libertà l’ingegner Fasiol (Regione Veneto): quella di Baita e Minutillo era più un’aspettativa che un’intesa vera e propria

«Pensavano di corrompere il funzionario con una nomina prestigiosa»

MESTRE – Non si sentivano solo onnipotenti, come dice Claudia Minutillo. Vivevano anche in un mondo in cui l’onestà semplicemente non era prevista. Un mondo in cui uomini e donne si dividevano tra coloro che erano già corrotti e quelli che lo sarebbero stati. Questo si capisce leggendo l’ordinanza del Tribunale del riesame che ha scarcerato il funzionario regionale Giuseppe Fasiol. Un provvedimento che spiega meglio di qualsiasi altro come funzionava il mondo “alla Baita”. Sono Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo infatti che incastrano l’ing. Fasiol. La Minutillo spiega alla Procura che Silvano Vernizzi, il funzionario regionale alle Infrastrutture più alto in grado, era mal visto da Baita, che lo considerava un nemico. Dunque, la Mantovani sceglie di investire su Giuseppe Fasiol come interlocutore privilegiato offrendogli l’incarico di collaudatore del Mose e facendogli capire che «sarebbe stato lui la persona di riferimento ed il futuro segretario regionale alle Infrastrutture», una volta tolto di mezzo Vernizzi. Fin qui le accuse. Che il Tribunale del riesame smonta, facendo passare Fasiol dal carcere alla libertà – anche se resta indagato. Perchè, scrive il Riesame «analizzando il tenore degli interrogatori resi da Minutillo e Baita si osserva che le espressioni usate da entrambi denotano non tanto un intervenuto e operante accordo corruttivo intercorso tra il Gruppo Mantovani ed il funzionario Fasiol quanto piuttosto il radicato convincimento soggettivo dei predetti Baita e Minutillo (definibile più come una aspettativa che altro) secondo cui il Gruppo Mantovani conferendo una utilità del calibro della nomina in commissione collaudo Mose al Fasiol stesso, lo avrebbe per forza di cose “fidelizzato”, per usare la terminologia della Minutillo. Ossia, in altri termini se lo sarebbe definitivamente e stabilmente ingraziato pro futuro». Insomma i due – Baita e Minutillo – hanno fatto un investimento su Fasiol, ma il patto scellerato non è mai stato siglato – dice il Riesame. Almeno non da Fasiol, anche se gli altri due erano convinti che se lo sarebbero comprato come avevano comprato tutti, fino a quel momento. Un delirio di onnipotenza, questo c’è scritto nelle righe dell’Ordinanza che scarcera Fasiol. E questa scarcerazione è però anche la prova provata che i giudici veneziani – checchè se ne dica – non sono affatto appiattiti sulle decisioni della Procura.
La Procura aveva chiesto e ottenuto dal Gip l’arresto di Fasiol. Il Riesame lo ha rimandato a casa: “Gli indizi di colpevolezza ci sono, ma non sono gravi”. Significa che i fatti si prestano ad interpretazioni diverse e per ora il riesame ha ha detto che non sono campati in aria tutti i dubbi avanzati dall’avv. Marco Vassallo che difende Fasiol. Il caso Fasiol però va letto anche all’incontrario e cioè che l’impianto accusatorio della Procura regge più che mai, anche quando subisce qualche colpetto sulle posizioni minori, quello delle “scartine”. E dunque quando il Riesame dice che uno deve stare in galera, vuol dire che gli indizi sono una caterva. Dunque, in una maxi inchiesta come quella ci sta anche il caso Fasiol, che permette di constatare che esiste un evidente bilanciamento tra Procura e Tribunale del riesame. Non solo, risulta evidente proprio dal caso Fasiol che Baita e Minutillo vivevano in un mondo in cui si dava per scontato che con i soldi si potesse comprare tutti. O quasi perchè, come ricorda Giovanni Mazzacurati parlando dell’ing. Setaro, per 9 anni Magistrato alle acque, soldi non ne ha presi. Come mai? «Alcuni non li vogliono proprio».

M. D.

 

SCANDALO MOSE Al polo educativo voluto da Scola è arrivato negli anni oltre un milione e mezzo

Il patriarca “chiude” col Consorzio

Moraglia mette la parola fine al finanziamento del Marcianum da parte del Cvn: «Serve un esame di coscienza»

IL RETROSCENA – E il Patriarca disse: basta soldi dal Consorzio

Il Patriarca: basta soldi dal Consorzio Venezia Nuova. Francesco Moraglia ha scritto una lettera al presidente Fabris con la quale segna la fine dei rapporti tra Cvn e Marcianum.

VENEZIA Una lettera segna la fine dei rapporti tra Cvn e Marcianum. Resta invece Mantovani

Il Patriarca: «Servono un serio esame di coscienza e segnali di novità nei rapporti con le istituzioni civili»

SPONSOR E’ stato il principale finanziatore della Fondazione: oltre un milione e mezzo

Moraglia dice addio al Consorzio

La lettera con il sigillo patriarcale è arrivata giusto giusto l’altro giorno. Ed è una missiva che in qualche modo racconta la fine di un’epoca. La firma è autorevole: monsignor Francesco Moraglia. E altrettanto importante è il destinatario: Mauro Fabris, presidente del Consorzio Venezia Nuova.
In mezzo c’è un “addio” consensuale in attesa – ognuno per proprio conto – di ritrovarsi lungo la strada, ma secondo altre formule. Così, il Patriarca di Venezia, nella sua veste di Gran Cancelliere, ha deciso di interrompere il rapporto di collaborazione, ma soprattutto di finanziamento con il Consorzio Venezia Nuova in merito alla Fondazione Marcianum, il “think tank” creato nel 2006 e poi sviluppato a partire dal 2008 dall’allora Patriarca, cardinale Angelo Scola. Una decisione pesante anche perchè il Cvn è stato per anni, sotto la presidenza di Giovanni Mazzacurati, il principale socio “sostenitore” della Fondazione con cospicui stanziamenti che, secondo calcoli approssimativi, può aggirarsi verosimilmente attorno al milione e mezzo di euro in più anni.
Infatti, secondo una sommaria ricostruzione, se nel 2008, l’ammontare della cifra corrisposta al Marcianum da parte del Consorzio ammontava per quell’anno a 250 mila euro, nel periodo successivo dal 2009 al 2013, i soldi offerti sono stati all’incirca 300 mila ogni anno. Insomma, un bel gruzzoletto per poter sviluppare, organizzare e svolgere attività di ricerca, di studio e di organizzazione del pensiero.
«Occorre un serio esame di coscienza» scrive Moraglia al Cvn sottolineando peraltro la necessità di come il «contesto attuale richieda segnali di novità nell’intendere e vivere i rapporti tra le istituzioni civili e quelle ecclesiali».
Una volontà chiara di distinguere i due “mondi” che per molti anni sono andati a braccetto indicando la necessità di ripensare il rapporto tra Marcianum e Cvn. «Un’impostazione che non posso che condividere – sottolinea il presidente Fabris – anche perchè con il Patriarca abbiamo fin dal primo momento ritenuto che fossimo entrambi eredi di una situazione che ci siamo trovati a gestire». E mentre si risolve il rapporto tra Marcianum e Cvn, non c’è dubbio che altre questioni rimangono sul tappeto come quello del rapporto con gli altri soci cosiddetti “sostenitori” del Marcianum tra i quali figura la “Mantovani” che ebbe in Piergiorgio Baita, il suo padre-padrone, finito nell’occhio del ciclone nell’inchiesta Mose. Un altro “pezzo ingombrante” nell’assetto generale della Fondazione Marcianum e che certamente è all’attenzione del Patriarca.
C’è poi il rapporto con la Regione Veneto, per ora non in discussione, che nel corso degli anni ha sostenuto con energia la Fondazione Marcianum. E qui si deve ritornare alla giunta Galan quando nel 2003 giungono i primi 200 mila euro con una successiva oscillazione di cifre negli anni successivi (100 mila nel 2004; 180 mila nel 2005; 190 mila nel 2006; 250 mila nel 2007, nel 2008 e nel 2009 per un totale nel tempo di oltre un milione). Ma non è finita qui. I finanziamenti sono proseguiti anche negli anni successivi, sotto l’amministrazione Zaia con un impegno di spesa annuale dal 2010 al 2013, di 250 mila euro per una somma complessiva attorno al milione di euro.

Paolo Navarro Dina

 

Responsabilità penali ma anche politiche

di Gianluca Amadori

A leggere le cronache di questi giorni (e relativi commenti) sembra esistere soltanto la responsabilità penale. Un fatto diventa censurabile unicamente se viene aperta un’inchiesta da parte della Procura. E, parallelamente, se l’inchiesta penale viene archiviata, qualsiasi comportamente acquisisce una “patente” di correttezza. Ma non è così. Non può essere così. Non tutto (fortunatamente) ha rilievo penale. Ci sono, però, comportamenti che ugualmente sono (e dovrebbero) essere censurabili (e censurati), almeno sul piano politico e, perché no, etico. Due esempi, recentissimi, arrivano dall’inchiesta sul cosiddetto “sistema Mose” e riguardano due esponenti politici di primo piano coinvolti, anche se con profili e accuse ben diverse.

Per un momento dimentichiamo le accuse penali – tanto più che entrambi vanno considerati innocenti fino a sentenza definitiva – e proviamo a concentrarci sul piano strettamente politico.
Che valutazione dare di un presidente della Regione che aveva acquisito a titolo personale quote della società che si proponeva come partner principale della stessa amministrazione regionale per realizzare opere in project financing? Giancarlo Galan forse riuscirà a dimostrare di non essere un corrotto, ma come può giustificare ai cittadini quell’interesse privato sicuramente incompatibile con la carica pubblica? Nella sua appassionata difesa ha spiegato di non aver mai fatto affari tramite quella società: giustificazione che la dice lunga sul modo di intendere (e di mescolare) pubblico e privato. Dovrebbe bastare questa circostanza – ammessa dallo stesso Galan nella memoria presentata al Parlamento – per formulare una pesante riserva sul suo comportamento politico.
E cosa dire del sindaco dimissionario di Venezia? Di Giorgio Orsoni, stimato e capace professionista, sorprendono le motivazioni di quel finanziamento elettorale da lui sollecitato (pur credendolo regolare) al presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati. Lo stesso sindaco ha ammesso davanti ai pubblici ministeri di aver percepito l’inopportunità di ottenere contributi da un soggetto coinvolto in opere così importanti in città: ciò nonostante, cedendo alle pressioni del Pd, si decise di rivolgersi all’amico Mazzacurati.
Se non lo avesse fatto, ha spiegato, avrebbe dovuto provvedere di tasca propria alle spese elettorali. Sul fronte penale il sindaco riuscirà forse a dimostrare la sua estraneità alle accuse. Nel frattempo, sul piano politico non ne esce bene. Tanto più se si considera che il Cvn, in quanto soggetto che gestisce denaro pubblico, per legge non può finanziare esponenti politici.
Del livello politico, però, pare non interessarsi nessuno. Tutti preferiscono aspettare l’inchiesta penale di turno per esprimere valutazioni sul (presunto) amministratore infedele, e al tempo stesso per contestare ai magistrati indebite ingerenze. È uno dei motivi per cui la politica sta perdendo credibilità e autorevolezza: perché dimostra di non essere in grado di rivendicare (e mettere in atto) quei necessari valori di trasparenza, pulizia, correttezza nella gestione della cosa pubblica.

 

LA REPLICA – Ecco perché gli avvocati Longo e Rubini rinunciarono alla difesa di Baita

Egregio Direttore,
con riferimento all’articolo a firma di Maurizio Dianese pubblicato il 6 luglio u.s. dal titolo: “Baita: volevano che mi operassi per rinviare l’interrogatorio”, nel prendere atto delle dichiarazioni rese dall’ing. Baita nel corso dell’interrogatorio del 17 giugno 2013 al Pubblico Ministero, ritengo doveroso, nell’interesse degli avvocati Piero Longo e Paola Rubini, puntualizzare quanto segue:
– l’unico incarico conferito ed espletato dai consulenti della difesa consisteva nella verifica della compatibilità con il regime carcerario delle condizioni di salute dell’ing. Baita affetto da cardiopatia ipertensiva con possibile evoluzione ipocinetica e probabile ischemia coronarica e non certo quanto affermato dall’ing. Baita stesso;
– tale situazione clinica era stata segnalata ai difensori dal cardiologo di fiducia dell’ing. Baita il quale era stato visitato poco prima di essere arrestato il 28 febbraio 2013 e per tale ragione era già stato programmato un check up, non potuto effettuare a causa del sopravvenuto arresto, atto a slatentizzare una probabile ischemia coronarica, come peraltro risulta dalla documentazione agli atti del fascicolo processuale;
– la consulenza tecnica redatta su richiesta della difesa escludeva, come comunicato all’interessato dagli avvocati Longo e Rubini, l’incompatibilità con il regime carcerario e consigliava unicamente dei controlli clinici atti ad escludere una coesistente patologia ostruttiva a livello coronarico o carotideo, come già aveva segnalato il cardiologo di fiducia dell’ing. Baita;
– ciò stante, in occasione del colloquio in carcere del 23 aprile 2013, gli avvocati Longo e Rubini prospettarono all’ing. Baita l’opportunità di sottoporsi ad interrogatorio avanti il Pubblico Ministero e l’ing. Baita fu d’accordo;
– l’interrogatorio fu quindi immediatamente concordato con il Pubblico Ministero Dr. Ancilotto per il successivo 10 maggio;
– effettivamente in tale data l’ing. Baita venne sentito alla presenza dei suoi difensori i quali all’esito, comunicarono al proprio assistito l’indisponibilità del Pubblico Ministero, insoddisfatto dei contenuti, a dare parere favorevole ad un affievolimento della misura carceraria allora in atto;
– di comune accordo con l’ing. Baita, quindi, si decise di chiedere un ulteriore interrogatorio al Pubblico Ministero, concordato con il De. Ancilotto per il successivo 24 maggio 2013;
– due giorni prima di tale incombente, come detto deciso in accordo con i difensori, l’ing. Baita comunicò all’avv. Rubini la sua intenzione di mutare strategia difensiva e di voler collaborare con l’Autorità Giudiziaria, chiamando in correità taluni soggetti che, come a lui ben noto, erano da anni tutelati dall’avv. Longo con la collaborazione dell’avv. Rubini, il che ebbe come conseguenza ineludibile, a termini di codice deontologico, la rinuncia al mandato defensionale degli stessi.
Questo e non altro il succedersi e la consistenza dei fatti: tutto il resto, in primis le dichiarazioni del Baita, che, solo in ragione del pregresso rapporto professionale e del suo comprensibile stato di prostrazione psicologica per la detenzione allora in atto, non meritano azioni giudiziarie, ma non ultime le illazioni sottintese ai titoli (in prima pagina ed a pagina 2) nonchè al contenuto dell’articolo di Maurizio Dianese, sono pura e interessata fantasia.
Distinti saluti.

Avv. Gianni Morrone

 

TANGENTI: il RIESAME

«Chisso asservito agli interessi del Consorzio»

«Chisso asservito agli interessi dei privati che lo pagavano». Ecco le motivazioni del Riesame.

«Chisso del tutto asservito agli interessi del Consorzio»

Così il Riesame ha rigettato la richiesta di scarcerazione: «Subordinazione totale»

E nei confronti del capo segretaria Casarin: «Concreta reiterazione del reato»

VENEZIA «Una subordinazione totale, al punto che non è il privato che si reca in Regione a fare le sue rimostranze ma è l’assessore che va nell’ufficio dell’imprenditore e qui viene accusato di inerzia e di scarso peso politico». E ancora. «Un asservimento delle sue funzioni agli interessi dei privati che lo pagavano». Così l’ex assessore regionale Renato Chisso per i giudici del Riesame di Venezia che, nei giorni scorsi, avevano respinto la richiesta di scarcerazione presentata dai suoi difensori. Così tanto e così male. Nelle motivazioni del Riesame- che avevano rigettato anche il ricorso presentato dal suo più stretto collaboratore, Enzo Casarin (gli unici due respinti) – l’ex assessore ne esce a pezzi. Secondo i giudici del Riesame «la gravità dei fatti, l’intensità del dolo e la pluralità delle singole dazioni succedutesi negli anni» rendono necessaria la misura della custodia in carcere, «l’unica in grado di impedire efficacemente la riterazione di simili episodi». «Una misura più attenuata non avrebbe uguale efficacia poichè verrebbe affidata per l’esecuzione a un soggetto di cui è stata sperimentato il continuo disprezzo della legge e l’ostinata inosservanza per le disposizione dell’autorità nè sussitono ragioni di ordine sanitario che ne impongano l’attuazione ». Renato Chisso, spiega ancora il Riesame presieduto da Angelo Risi, «rimane pur sempre consigliere in grado di continuare a mantenere condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo e qualità di quelle commesse ». «Come si vede le dichiarazioni di Minutillo, Baita e Mazzacurati, pur divergenti su taluni particolari, indicano in modo unico che non occasionalmente, ma nel corso degli anni, l’assessore Chisso ha ricevuto continui versamenti di denaro da parte di vari soggetti tutti legati al Consorzio Venezia Nuova». La Minutillo spiega inoltre che Chisso «era sempre a disposizione». Lei e Baita non dovevano andare in Regione a chiedere favori ma era lui che si recava nella sede di Adria Infrastrutture per prendere ordini. Non se passa meglio il capo della sua segreteria Enzo Casarin «il cui potere di influenza accumulato in questi anni rende tuttora concreto il pericolo di una reiterazione del reato». La massima misura cautelare, «vista l’intensità del dolo dimostrata, rimane dunque l’unica in grado di fronteggiare veramente tale pericolo». E tutti e due, quindi, restano dentro.

(m.pi.)

 

Ex assessore e Marchese sospesi: ma potranno ritornare in Consiglio

‘A subentrare, finché dureranno le restrizioni alla libertà personale, saranno Piccolo e Alessandrini

VENEZIA – Nel basket i giocatori gravati da più falli vengono richiamati in panchina per evitarne la precoce espulsione, salvo tornare sul parquet in una fase successiva della gara. Sostituzione temporanea, si chiama. Come quella comminata a Renato Chisso e Giampietro Marchese, gli esponenti dell’assemblea regionale incriminati nell’ambito della nuova tangentopoli veneta; l’uno esponente di Forza Italia, già assessore a Infrastrutture e mobilità, è tuttora detenuto; l’altro, consigliere ed ex tesoriere del Pd, si trova ai domiciliari. Ieri il prefetto di Venezia,Domenico Cuttaia, ha trasmesso alla segreteria generale di Palazzo Ferro-Fini il decreto del Presidente del Consiglio che sancisce la sospensione di entrambi dalla carica consiliare. Una misura prevista dall’articolo 8 del testo legislativo n. 235 del 31-12-2012, la cosiddetta “Legge Severino”, che al comma 4 impone appunto la sostituzione degli eletti finché a loro carico esistano restrizioni alla libertà personale – carcere, arresti domiciliari, obbligo di soggiorno e di firma – salvo reintegrarli nella funzione non appena le limitazioni vengano meno. Tant’è. Oggi il presidente del Consiglio regionale, Clodovaldo Ruffato, riunirà l’Ufficio e procederà alla sostituzione a tempo della coppia, cui subentreranno i primi tra i non eletti. Sulla poltrona di Chisso siederà così Francesco Piccolo, di Dolo, già assessore in Regione che nel 2010 ha raccolto 2182 preferenze; Alessio Alessandrini, democratico di Portogruaro (2913 voti personali) succederà invece a Marchese. La circostanza non trova precedenti istituzionali. Chisso, con un telegramma inviato il giorno stesso dell’arresto, si è dimesso da assessore della giunta di Luca Zaia, non però da consigliere. Analoga la scelta di Marchese, che si è limitato ad aderire al gruppo misto. Il mandato dei loro successori, perciò, avrà una durata indefinita: a scandire l’inedito stand-by saranno i provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

Filippo Tosatto

 

LE RIVELAZIONI DI MILANESE: il regalo fatto alla lega

Quella delibera del Cipe di cui faceva parte Galan

«Fondi bloccati fra il 2008 e il 2010 poi Tremonti decise la settima tranche»

VENEZIA I fondi per la settima tranche del Mose, tenuti in congelatore nel 2009 dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti per ostacolare il suo rivale Giancarlo Galan, sarebbero stati sbloccati l’anno successivo, a seguito dell’elezione di Luca Zaia a governatore del Veneto. Tremonti, infatti, avrebbe puntato a rinsaldare l’intesa con il Carroccio, in vista di una sua possibile candidatura a presidente del Consiglio del ministri. A sostenerlo, nell’interrogatorio di garanzia reso dopo tre notti in isolamento passate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta,) è il già onorevole pidiellino Marco Milanese, 55 anni il prossimo 8 settembre, già consigliere politico di Tremonti, arrestato il 4 luglio nell’ambito dell’inchiesta sul Mose. Zaia puntualizza. Ieri, a margine dell’incontro che ha avuto con il premier Matteo Renzi in occasione di Digital Venice, è arrivata, nettissima, la presa di distanza di Zaia dalle dichiarazioni di Milanese. Per le persone che, secondo la Procura di Venezia utilizzavano le opere del Mose per creare fondi neri «io ero un problema, non una risorsa», ha puntualizzato seccamente il governatore del Veneto, «questa è una vicenda che non mi riguarda, né nei modi né nei tempi, e anch’io l’ho appresa dai giornali». La quinta tranche . Il 31 gennaio 2008 (giusto una settimana prima dello scioglimento delle Camere) il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), presieduto da Romano Prodi, approvò la quinta tranche dei fondi per il Mose: 400milioni. La sesta tranche. Il 13-14 aprile 2008 si tennero le elezioni Politiche che riportarono Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Il 18 dicembre 2008 il Cipe, presieduto da Berlusconi, stanziò per ilMose800milioni di euro. Successivamente il flusso degli stanziamenti si arrestò. Le Regionali del 2010. Le elezioni Regionali del 28-29 marzo videro il trionfo di Luca Zaia, catapultato dagli elettori a Palazzo Balbi. Il 16 aprile Zaia passò il testimone di ministro delle Politiche agricole e forestali a Giancarlo Galan. La delibera Cipe. Il 13 maggio 2010 il Cipe, pilotato per l’occasione dal vicepresidente Giulio Tremonti, approvò la delibera 31/2010 che prevede la «riprogrammazione del fondo infrastrutture ex decreto legge 111/2008, convertito dalla legge 133/2008, articolo 6-quinquies». È in pratica il provvedimento che sblocca i fondi per il Mose. «Era stato però deciso tutto prima», ha affermato Milanese, già tenente colonnello della Guardia di Finanza, con all’attivo una trentina tra encomi ed elogi, nell’interrogatorio di garanzia, «non potevo, né potevo fare pressioni». La settima tranche. I fondi per la settima tranche del Mose vennero però deliberati dal Cipe nella seduta del 18 novembre 2010. «Con le delibere approvate oggi dal Cipe», poteva affermare con orgoglio l’allora ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, «si aprono i cantieri di opere pubbliche per 21 miliardi di euro». Per quanto riguarda il Mose la settima tranche riguardava il finanziamento della prosecuzione delle opere civili alle bocche di porto (50 milioni di euro), la prosecuzione dei cassoni di fondazione e di spalla delle quattro barriere (110 milioni), la prosecuzione della fornitura e della posa in opera delle opere meccaniche ed elettromeccaniche (40 milioni di euro), gli interventi collegati e connessi (30 milioni di euro). In totale 230 milioni di euro. Quel giorno il Cipe accolse anche la proposta del ministro delle Politiche agricole Giancarlo Galan (che del Comitato faceva parte a pieno titolo) per destinare 100 milioni al settore agroalimentare. Anche l’onorevole Renato Brunetta, allora ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione poteva esprimere la sua «grande soddisfazione peruna decisione che assicura la prosecuzione delle lavorazioni in corso in un’infrastruttura strategica e che richiedono continuità operativa».

(c.bac.)

 

IL PREMIER IN VENETO »LE PROTESTE DEI COMITATI

In prima linea contro Mose e grandi navi

Corteo all’Arsenale contro il Consorzio e per chiedere a Renzi di allontanare i giganti del mare dal Bacino di San Marco

VENEZIA «Nessuna Soluzione Contorta», in tutti i sensi. È questa l’indicazione dei comitati ambientalisti che ieri mattina si sono radunati davanti all’Arsenale Militare per tentare di incontrare Matteo Renzi, presente al Digital Venice alle Tese, dall’altro lato del bacino. Un contatto in un certo senso c’è stato, ma solo tramite il capo del cerimoniale di Stato Ilva Sapora che ha riferito ai delegati Marta Canino e Armando Danella che il premier ha assicurato di leggere tutta la documentazione e di dare una risposta perché «anche lui vuole trasparenza ». Solo una mezza conquista per la carica dei duecento abbondanti che speravano in un incontro ravvicinato con il Presidente del Consiglio. Sono le 10 di mattina, ma il caldo afoso non risparmia nessuno. Considerando che è periodo di vacanza e che è un giorno lavorativo, i manifestanti non si lamentano del numero delle presenze dicendosi soddisfatti. I comitati sono in prevalenza «Ambiente Venezia», capeggiato da Armando Danella, i «No Grandi Navi» e «No Mose», diretti da Tommaso Cacciari e Marta Canino, Italia Nostra con Cristiano Gasparetto e Andreina Zitelli, ex componente della commissione di valutazione impatto ambientale del Mose. Tra i manifestanti l’ex consigliere comunale Beppe Caccia, Chiara Marri della Municipalità e Salvatore Lihard, ambientalista. Per il resto tantissimi giovani che cantano e ripetono alcuni leit motiv della giornata, in particolare «basta con la concessione unica » «fuori le navi dalla laguna». Non si sa ancora se la polizia farà entrare tutti in Arsenale,mail corteo sulle undici avanza lungo la fondamenta, fino ad arrivare a un faccia a faccia con la polizia a una distanza di circa un paio di metri. I rappresentanti dei comitati chiedono che una delegazione vada a consegnare al premier alcuni documenti che spiegano la posizione degli ambientalisti sulla laguna, dalle Grandi Navi al Mose. Alla fine, dopo una breve contrattazione tra cittadini e forze dell’ordine, la polizia fa passare tutti i portavoce, eccetto Cacciari che rimane fuori con il corteo. Il gruppo entra, ma arrivati alle Gaggiandre la selezione prosegue. Soltanto due possono attraversare il bacino e provare a incontrare Matteo Renzi. Si decide per la Canino e Danella, due generazioni che si stanno passando il testimone. Mentre i portavoci vanno verso le Tese, gli storici ambientalisti precisano qual è l’urgenza: «Il Consorzio Venezia Nuova continua a dire che i lavori sono giunti all’85%, ma mancando un progetto esecutivo non si di preciso dove siamo arrivati. Noi chiediamo una moratoria affinché venga istituita una commissione di inchiesta sull’impatto del Mose». Dopo una decina di minuti Canino e Danella fanno ritorno, riportando le parole dela Sapora. I punti chiesti sono cinque: nessuna decisione del Comitatone prima delle elezioni comunali, scioglimento del concessionario unico, blocco lavoro delle bocche di porto del Lido, sospensione finanziamenti CIPE per trasferirli per tutelare la città e no allo scavo del Contorta. A questo proposito, qualche giorno fa, Sandro Trevisanato, presidente di VTP, ha fatto sapere che, a causa delle continue proteste, Venezia non sarà più leader del Mediterraneo, con una perdita di circa 200 mila passeggeri, diretti verso Trieste.

Vera Mantengoli

 

MOSE/ IL GIUDICE: ECCO PERCHÈ DEVE STARE IN CARCERE

«Chisso era del tutto asservito agli interessi di Baita e Consorzio»

«Era completamente a disposizione degli interessi dei privati…». Cioè di chi dice di avergli versato le tangenti per il Mose. Per questo i giudici del tribunale del riesame hanno tenuto in carcere l’ex assessore veneto Renato Chisso. Che, da parte sua, respinge le accuse sostenendo di non aver intascato un euro.

Nel febbraio 2013 Sutto fa il “postino” della somma, ma è intercettato

Ecco perché il Riesame l’ha tenuto in cella: «Era a completa disposizione»

LE MOTIVAZIONI «Solo la custodia in carcere può impedire la reiterazione dei reati»

LA DIFESA «Mai preso un euro Usato come fattorino per Galan? Poco credibile»

LA RICOSTRUZIONE DEI GIUDICI – La consegna di 150mila euro documentata e confermata

«L’assessore Chisso asservito agli interessi di chi lo pagava»

(gl.a) Le principali fonti di prova per le presunte mazzette contestate a Renato Chisso sono le dichiarazioni di chi sostiene di aver pagato: Claudia Minutillo, Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati. Ma c’è anche un episodio “registrato” in diretta dagli inquirenti: la consegna di 150mila euro che l’allora assessore regionale avrebbe ricevuto il 7 febbraio del 2013 dalle mani di Federico Sutto, uno dei più stretti collaboratori del presidente del Consorzio Venezia Nuova.
In quel periodo la Guardia di Finanza era al lavoro da tempo con pedinamenti, servizi di osservazione, intercettazioni ambientali e telefoniche. Ed è grazie a questa attività che le Fiamme gialle seguono minuto per minuto gli accordi e gli incontri tra Sutto e il responsabile amministrativo della Mantovani, Nicolò Buson, nonché quelli tra il consigliere del Cvn per conto del Coveco, Pio Savioli e il responsabile della cooperativa San Martino, Stefano Boscolo Bacheto, impegnati a definire la consegna delle somme che le varie società aderenti al Consorzio devono versare per contribuire ad “oliare” i politici. Il 31 gennaio viene fissato un incontro per il 6 febbraio, nel corso del quale Boscolo consegna 150mila euro a Savioli (lo ha confessato l’imprenditore dopo l’arresto). Lo stesso giorno Buson promette 10mila euro a Sutto, prima tranche di una somma dovuta da un’altra società.
LA CONSEGNA – Il 7 febbraio Savioli incontra Sutto, gli consegna i 150mila euro e ne promette altri 100 per il successivo marzo; mezz’ora dopo Sutto incontra Buson. E nel pomeriggio telefona alla segretaria di Chisso che, dopo aver sentito l’assessore, gli dice di passare subito. «L’incontro avviene – scrivono i giudici del Tribunale del riesame – i soldi sono consegnati e lo conferma la telefonata del giorno dopo, quando Savioli, parlando con Rismondo, riferisce di aver consegnato “150” al partito della Brotto (l’ingegnere del Cvn che si occupa della progettazione del Mose, ndr), cioè al Pdl».
SUBORDINAZIONE TOTALE – Un colloquio intercettato il 31 gennaio è la dimostrazione, secondo i giudici, del rapporto di sudditanza di Chisso nei confronti della di Piergiorgio Baita e del Consorzio Venezia Nuova. L’assessore si reca nell’ufficio di Claudia Minutillo, ad Adria Infrastrutture, ed è la Minutillo «che conduce il discorso, indica i temi, chiede conto dei “ritardi”… detta l’ordine delle priorità che l’assessore deve osservare», mentre Chisso «senza replicare subito acconsente: va bene, ok”». Agli atti c’è anche un sms inviato alla Minutillo, nel quale l’assessore dichiara di essersi comportato in un certo modo per “dovere di squadra”. «La subordinazione finisce per diventare una palese immedesimazione negli interessi del Gruppo Mantovani», spiegano i giudici.
MAZZACURATI – Nel memoriale e negli interrogatori sostenuti in Procura ha spiegato che per il Consorzio Venezia Nuova era essenziale garantire la prosecuzione dei lavori per il Mose «e per questo si rivolgeva “al Governatore (Galan), a Chisso” e poi all’occorrenza, andava “dal dottor Letta (Gianni)”; questi rapporti privilegiati con Galan e Chisso avevano un costo, che Mazzacurati ha sommariamente quantificato in “un milione di euro l’anno”…. i maggiori versamenti erano in favore di Galan, mentre all’assessore Chisso veniva corrisposta annualmente la somma di 200-250mila euro; i pagamenti a quest’ultimo erano iniziati alla fine degli anni ’90 ed erano proseguiti sino all’inizio del 2013…»
Mazzacurati ha raccontato di essersi occupato personalmente di alcune consegne; delle altre si sarebbe occupato Sutto.
MINUTILLO E BAITA – Il racconto dell’ex segretaria di Galan, fatto nel marzo del 2013, costituisce un riscontro alle confessioni di Mazzacurati, avvenute nel successivo luglio. La Minutillo riferisce di aver saputo da Baita che a Chisso i soldi arrivavano tramite Sutto, Enzo Casarin e dallo stesso Mazzacurati, quando l’assessore di recava a pranzare assieme a lui all’hotel Monaco, a Venezia. Minutillo ha raccontato che fu lo stesso Chisso a confidarle gli avvenuti pagamenti, «lamentando che Mazzacurati gli corrispondeva somme solo alle feste comandate». Baita, per finire, «ha ribadito la continuità dei versamenti a Chisso».
CONTI ALL’ESTERO – La difesa dell’assessore ha contestato l’indeterminatezza delle dazioni e sostiene che la prova dell’innocenza di Chisso sta nelle stesse indagini patrimoniali della Finanza, che non ha trovato neppure un euro all’assessore. Ma per il Riesame questo elemento non ha alcun rilievo: «Portare soldi all’estero sembra costituire la regola, non l’eccezione… – scrivono i giudici – ed è certo assai improbabile che un assessore regionale tenga i soldi frutto di corruzione in un conto corrente a nome proprio o a quello dei suoi familiari, presso una banca sita nel territorio della Repubblica».

 

’INTERROGATORIO – L’ex deputato del Pdl non ha mai parlato di Zaia nella sua deposizione

IL RICORDO «La Padania fece una pagina sul Mose: era un obbiettivo del Carroccio»

IL SOSPETTO SU CONTI ALL’ESTERO «È improbabile che i soldi siano su un proprio conto»

IL SEGRETARIO «Casarin ha continuato a trafficare con le tangenti come negli anni ’90»

«L’assessore Chisso si era messo a completa disposizione degli interessi dei privati… Tenuto conto della gravità dei fatti, dell’intensità del dolo, della pluralità delle singole dazioni succedutesi negli anni, la misura della custodia in carcere è di conseguenza l’unica in grado di impedire efficacemente la reiterazione di episodi simili». Lo scrive il Tribunale del riesame nelle motivazioni – depositate ieri – dell’ordinanza con cui ha confermato il carcere per l’ex assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso. In 17 pagine, scritte dal relatore Patrizia Montuori, sono elencati i gravi indizi raccolti dai pm Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini: «Il quadro indiziario a carico dell’indagato è solido ed esauriente e questo sia in ordine alle dazioni di denaro conferite negli anni all’assessore Chisso, sia in relazione ai singoli episodi contestati, sia infine all’asservimento delle sue funzioni agli interessi dei privati che lo pagavano».
Chisso, assistito dall’avvocato Antonio Forza, nega di aver mai percepito un solo euro dal Consorzio Venezia Nuova, sostenendo che chi lo accusa di aver preso mazzette non racconta la verità. Ma secondo i giudici «non ha spiegato perché mai queste persone avrebbero dovuto accusare ingiustamente una persona con cui erano stati in stretti e amichevoli rapporti fino a pochi mesi prima…»
Contro l’assessore vi sono le confessioni di Claudia Minutillo, ex segretaria dell’allora presidente della Regione, Giancarlo Galan; dell’ex presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita e dell’ex responsabile amministrativo della stessa società, Buson; dell’ex presidente del Consorzio, Giovanni Mazzacurati. «Le loro dichiarazioni sono credibili – scrivono i giudici – perché provengono da persone che quei comportamenti e quelle azioni conoscevano direttamente, avendovi spesso partecipato: la generale attendibilità dipende infine dal fatto che non solo si sono completate a vicenda, ma che, soprattutto, hanno confermato, arricchendolo di nuovi particolari, il quadro di quella complessa trama criminosa che gli inquirenti avevano già in gran parte delineato ed accertato».
A fornire ulteriori elementi di riscontro hanno contribuito l’ex vicepresidente del Cvn, Roberto Pravatà e l’imprenditore Mirco Voltazza, l’uomo che Baita aveva assoldato per attività di “spionaggio” in modo da ottenere in anticipo informazioni sulle inchieste che lo riguardavano. A Chisso la Procura contesta anche di aver fatto da tramite per le consistenti somme di denaro che Mazzacurati e Baita sostengono di aver versato all’allora governatore Galan – un milione di euro all’anno – in cambio del suo appoggio al progetto Mose. La difesa ha eccepito sostenendo che «è poco credibile che un assessore venga usato come fattorino». Ma il Tribunale rileva che dagli atti emerge l’esistenza di «una procedura macchinosa»: per la consegna dei soldi sarebbero stati utilizzati in più occasione degli intermediari «e Chisso è correttamente indagato in questo episodio come concorrente nel delitto di corruzione a Galan».
Tra gli intermediari delle mazzette viene indicato anche il segretario di Chisso, Enzo Casarin: per lui è stata confermata la misura cautelare in carcere sia per l’esistenza di gravi indizi, sia per i precedenti penali per corruzione e concussione, reati per i quali fu condannato nell’ambito della Tangentopoli del Veneto. «Malgrado questi gravissimi precedenti – sottolineano i giudici – è stato scelto da Chisso quale capo della sua segreteria ed in tal modo ha potuto così continuare a trafficare con le tangenti, così come aveva fatto all’inizio degli anni ’90».

Gianluca Amadori

 

«Mazzacurati mi perseguita…»

Milanese al gip: «Tremonti voleva favorire la Lega, ma non ne poteva più dell’ingegnere e me lo affidò»

«L’ingegnere Mazzacurati mi perseguita, mi rompe le scatole, continua a telefonarmi… pensaci tu». Giulio Tremonti, arrotando la “erre” con lo “stile” che lo contraddistingue, si rivolse con questo tono a Marco Milanese, suo consulente al ministero dell’Economia. Era il 2010 e il presidente del Consorzio Venezia Nuova era sulle spine perché non arrivavano i soldi per far avanzare il progetto del Mose. Per questo, presentatogli dal manager vicentino Roberto Meneguzzo della Palladio, Mazzacurati aveva contattato il ministro dell’Economia, che allora accarezzava il sogno di diventare premier al posto di Berlusconi. E che per questo coltivava con cura i rapporti con la Lega, partner di governo importante, capace di lanciare Luca Zaia ai vertici della Regione Veneto, dopo i tre lustri di governo di Giancarlo Galan, cordialmente detestato da Tremonti.
Per il ministro, Mazzacurati divenne una specie di tormento. Così ha raccontato Milanese, ora detenuto su decisione del gip di Venezia Alberto Scaramuzza, a causa di 500mila euro che gli sarebbero stati consegnati (da Mazzacurati) per ottenere lo sblocco dei milioni necessari per far avanzare i lavori del Mose. In un’autodifesa alquanto minimalista, l’ex deputato di Forza Italia, assistito dall’avvocato Bruno Larosa, ha inquadrato in una chiave squisitamente politica la storia di quel finanziamento. Negando, ovviamente, di avere incassato alcunchè. Egli teneva i rapporti con Mazzacurati soltanto perché glielo aveva chiesto Tremonti, che voleva evitare scocciature, ma che non poteva permettersi sgarbi in un territorio come il Veneto dove la Lega era sempre più potente, dopo la vittoria di Zaia.
A Milanese, interrogato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il gip non ha chiesto nulla sui rapporti di Tremonti con i vertici del Carroccio, nè se egli avesse referenti leghisti anche a Venezia, oltre che a Milano. L’inchiesta riguarda, infatti, un episodio specifico di supposta corruzione. Casomai quelle domande verranno poste a Tremonti quando dovesse essere interrogato come persona informata dei fatti dai magistrati milanesi che erediteranno la tranche investigativa che riguarda il “tangentone” da 500mila euro. Milanese ha però ricordato una curiosità significativa. «A quell’epoca il quotidiano leghista “La Padania” pubblicò una pagina intera in cui sponsorizzava il Mose, la cui realizzazione diventava in qualche modo un obiettivo politico del Movimento: lo rivendicava come un successo». Così ha detto, più o meno testualmente. E di Zaia non ha mai parlato.
Intanto a Venezia si commenta questa ricostruzione del Mose come sponda di Tremonti per ingraziarsi la Lega e coltivare ambiziosi progetti personali. Zaia mette le cose in chiaro: «È una vicenda che non mi riguarda, né nei modi, né nei tempi e anch’io l’ho appresa dai giornali. È anche vero che, dalle intercettazioni, viene fuori che il sottoscritto non era visto come una risorsa, bensì come un problema»

 

Faccia a faccia con la polizia, poi in due vengono ammessi all’incontro col premier

Sono arrivati in 200 ma solo 2 sono riusciti ad avvicinarsi al premier Renzi. Nessun disordine o scontro alla manifestazione dei centri sociali, delle associazioni ambientali e dei movimenti contro le grandi navi e il Mose che ieri mattina si son dati appuntamento all’Arsenale per chiedere udienza a Matteo Renzi, ospite del Digital Venice. Bandiere e trombette in mano, intenti annunciati al megafono e striscioni appesi sul ponte in legno dell’Arsenale, il tutto sorvegliato a vista dagli agenti di Polizia e Carabinieri dall’altra parte della riva. C’era anche Beppe Caccia che ha sottolineato: «Renzi deve ascoltare i comitati che da vent’anni a questa parte hanno sempre avuto ragione». Il corteo, tra slogan e musica, si è avvicinato all’entrata delle corderie all’Arsenale che porta alle Gaggiandre, dove, dall’altra parte del bacino, si stava inaugurando l’evento che da lì a poco avrebbe visto la manifestazione del capo di Governo. Al campiello della Tana però, i manifestanti hanno trovato la strada sbarrata da un cordone di agenti in tenuta antisommossa. Le forze dell’ordine a difesa dell’Arsenale hanno subito notato le intenzioni pacifiche dei manifestanti, in tenuta estiva e sprovvisti di caschetti. Così, sono iniziate le trattative tra il leader dei centri sociali Tommaso Cacciari e lo schieramento di sicurezza.
Ad una delegazione di sei persone è stato concesso di addentrarsi nella darsena grande per raggiungere il premier e consegnare il dossier e la lettera dei comitati sulla questione del Mose e della grandi navi in laguna. Ad entrare: Marta Canino, Chiara Buratti, Armando Danella, Luciano Mazzolin, Cristiano Gasparotto e Andrea Zitelli. Una volta giunti alle Gaggiande però, solo Danella e Canino sono stati trasportati dall’altra parte della riva con la navetta, raggiungendo le Tese dove li attendevano il prefetto Domenico Cuttaia, il questore Vincenzo Roca e Ilva Sapora, direttrice del dipartimento Cerimoniale a cui è stata consegnata la documentazione e ha assicurato una risposta da parte del premier. Nella lettera che accompagnava il dossier, firmata dall’associazione Ambiente Venezia e dal Comitato No Grandi Navi, la richiesta di indire elezioni anticipate a Venezia, la sospensione momentanea dei lavori del Mose fino alla costituzione di una commissione tecnica per la sua verifica. E ancora: il blocco dei finanziamenti del Cipe all’opera marittima, la revoca immediata della concessione del Consorzio Venezia Nuova e l’individuazione della bocca di porto del Lido per il passaggio delle navi da crociera che ora attraversano il bacino.

 

Nordio: «Nessuna pena per chi denuncia di aver dato tangenti»

Il procuratore aggiunto di Venezia: «Va spezzato il patto che lega chi paga e chi riceve le mazzette»

L’inchiesta: Milanese nega tutto, la Sartori tace.

LA CRITICA «Errato punire chi è coinvolto nella concussione per induzione»

L’ALLARME «C’è il rischio di prescrizione, fare i processi velocemente»

LA PROPOSTA Il procuratore aggiunto di Venezia chiede riforme “premiali” per battere il malaffare

Carlo Nordio: «Rendere non punibile chi paga, ma ammette la propria colpa»

LE RAGIONI «Un imprenditore, con la legge attuale, non ha interesse a denunciare il politico»

«Rompere il patto dei corrotti»

«Per combattere la corruzione servono normative e procedure più semplici, competenze ben definite, che non lascino spazio a favori e favoritismi. Ma non solo: è necessario rompere il patto di co-interessenza tra chi paga e chi riceve le mazzette. E l’unico modo per farlo è di rendere non punibili i primi. Sono in molti a non ritenerlo etico, ma questo atteggiamento pragmatico è l’unico che può far emergere gli episodi illeciti».
Il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, ha la sua “ricetta” per far uscire l’Italia dal sistema di corruzione dilagante che da decenni ne sta distruggendo la credibilità. E, dopo gli arresti relativi al “sistema Mose”, torna di attualità: «Per vincere il terrorismo si decise di attuare una legislazione premiale per i collaboratori, e lo stesso è stato fatto per la mafia. Attualmente un imprenditore, anche se concusso, non ha interesse a denunciare il politico che chiede i soldi, perché teme di finire a sua volta sotto inchiesta nel caso in cui la dazione venga configurata come atto di corruzione. La legge Severino in questo senso non aiuta, in quanto ha introdotto la punibilità di chi paga anche nel caso di concussione per induzione. È una strada sbagliata, perché tende a “saldare” i protagonisti dell’accordo illecito. E se nessuno ha interesse a denunciarlo, difficilmente se ne saprà mai nulla».
Dai tempi di Mani pulite a oggi ha accumulato una certa esperienza sul fenomeno…
«La corruzione c’è anche all’estero, ma si realizza su opere pubbliche utili, realizzate a prezzo ragionevole. In Italia, invece, accade che l’opera venga scelta e decisa sulla base dei soldi che devono finire a questo o quel partito. E molto spesso quel lavoro (non sempre necessario) viene a costare più del dovuto».
È accaduto anche nel caso del Mose?
«Non spetta a me dire se le opere di difesa di Venezia dall’acqua alta siano utili o meno: se ne è discusso per decenni. Di sicuro, ora che i lavori sono in dirittura d’arrivo è irragionevole bloccarli. Dall’inchiesta emerge che quelle opere si sarebbero potute realizzare con minor spesa e che vi sono stati sprechi nell’ambito di un’azione del Consorzio Venezia Nuova finalizzata ad acquisire consensi. Gli episodi oggetto d’inchiesta sono di natura penale, mentre per i contributi elargiti in modo lecito vi è un problema di natura etica. Un’azienda può sicuramente fare beneficenza, ma con i propri utili, non aumentando i costi a carico dello Stato. Tra chi ha percepito tali contributi, nessuno si è mai domandato da dove provenissero e se gravavano sulle casse pubbliche?»
Ci sono analogie con Mani pulite?
«Sì, ma anche differenze: da quanto emerge, oggi ci sono più soldi e, oltre ai politici, sono coinvolti gli organismi di controllo. Inoltre, in passato il sistema era più “blindato” e gran parte delle tangenti servivano per finanziare i partiti; adesso gran parte dei soldi finivano nelle tasche di qualche persona che agiva per proprio conto».
Sono previsti sviluppi dell’inchiesta principale?
«Delle indagini in corso non posso parlare, ma in generale questo tipo di indagini tendono a clonarsi, a generare nuovi filoni. Ma, innanzitutto, è necessario chiudere rapidamente i filoni già emersi: il processo deve essere fatto il più velocemente possibile, anche per dare agli indagati la possibilità di difendersi»
È concreto il rischio prescrizione?
«Il rischio c’è, soprattutto se il Parlamento confermerà il provvedimento in base al quale, nell’arco di poco più di un anno, saranno mandati in pensione tutti i magistrati al compimento dei 70 anni (invece che 75, ndr): in questo modo saranno “decapitati” i vertici di tutte le procure e i tribunali, con gravi problemi di gestione degli uffici. In via generale la prescrizione è una garanzia per il cittadino. È necessaria però una riforma dell’attuale sistema: certi reati – come la corruzione, ma anche le evasioni fiscali, le violazioni ambientali – sono difficili da scoprire e quando ci si riesce non c’è tempo per punire i responsabili. Bisognerebbe, dunque, far decorrere i termini di prescrizione da quando avviene l’iscrizione nel registro degli indagati, invece che dal momento della commissione del reato. Una riforma semplice, che eviterebbe l’attuale spreco di risorse per indagini destinate a restare solo sulla carta. Ma al legislatore sembra non interessare la giustizia. E quando vi mette mano lo fa in modo schizofrenico, senza prevedere le conseguenze dei provvedimenti adottati. L’ultimo esempio è quello della “svuota carceri” che impedisce la custodia cautelare se la condanna prevista è entro i 3 anni; legge approvata contestualmente all’obbligo di arresto in flagranza di reato. Di conseguenza, un minuto dopo che la polizia ha arrestato, il giudice è obbligato a scarcerare…»

Gianluca Amadori

 

L’EX PARLAMENTARE «Le accuse contro di me inventate per giustificare un acquisto immobiliare»

STRATEGIE DI DIFESA – Invocata l’applicazione della norma libera-carceri per pene sotto i tre anni

DAL GIUDICE – Davanti al gip due indagati eccellenti della maxi-inchiesta su lavori pubblici e mazzette

Lia Sartori sceglie il silenzio

Milanese: «Tangenti mai»

Interrogatorio di garanzia per l’ex eurodeputata vicentina. I difensori: «Vuole difendersi da persona libera». L’ex consulente di Tremonti accusa Mazzacurati

VENEZIA – Silenzio per l’ex eurodeputata vicentina Amalia Sartori; due ore di risposte e precisazioni per l’ex deputato Marco Milanese, il quale ha respinto con decisione ogni accusa di corruzione.
Ieri è stata la giornata degli interrogatori nell’inchiesta sul cosiddetto “sistema Mose”. La Sartori, agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Vicenza per finanziamento illecito ai partiti, davanti al gip di Vicenza si è limitata a fornire nome e cognome, alla presenza dei suoi difensori, gli avvocati Pierantonio Zanettin e Alessandro Moscatelli. Nei giorni scorsi i legali avevano dichiarato che la loro assistita non vedeva l’ora di parlare per chiarire la sua posizione: probabilmente lo farà prossimamente davanti ai pm veneziani Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini. La Sartori, già presidente del Consiglio regionale del Veneto, è accusata di aver ricevuto dall’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, contributi per 200 mila euro in “nero” e 25 mila euro regolarmente registrati.
I suoi difensori hanno presentato istanza di revoca degli arresti domiciliari utilizzando le stesse argomentazioni già usate da Giancarlo Galan per chiedere di non essere arrestato, ovvero appellandosi alla nuova norma “svuota carceri”, che impedisce l’emissione di ordinanze di custodia cautelare (in carcere) se si prevede che l’indagato sarà condannato ad una pena non superiore ai 3 anni. «L’onorevole Sartori intende difendersi dalle contestazioni degli inquirenti soltanto da persona libera», hanno spiegato i suoi legali.
L’ex consulente politico del ministro Giulio Tremonti, Marco Milanese, ha invece risposto alle domande del gip di Napoli per circa due ore, all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), dove si trova recluso da venerdì scorso con l’accusa di aver incassato, nella primavera del 2010, una tangente di 500mila euro da Mazzacurati, per assicurare al Cvn lo sblocco da parte del Cipe di alcuni finanziamenti – 400 milioni di euro – per la prosecuzione dei lavori del Mose.
Secondo quanto riferito dal suo difensore, avvocato Bruno Larosa, l’ex parlamentare si è lamentato del fatto che l’ordinanza di custodia sia stata emessa da un giudice incompetente (la “mazzetta” sarebbe stata pagata a Milano e gli atti sono già stati inviati alla locale Procura, ma il gip di Venezia ha disposto ugualmente l’arresto per motivi di urgenza) e ha chiesto di poter ascoltare le registrazioni delle intercettazioni che lo coinvolgono e su cui si fondano le esigenze cautelari. Milanese ha negato di aver ricevuto tangenti sostenendo, tra l’altro, di non aver potuto interferire nel finanziamento di 400 milioni di euro e di non aver avuto alcun ruolo nelle procedure.
Alla domanda del giudice sui motivi per i quali l’imprenditore Mazzacurati lo avrebbe accusato, Milanese ha detto di non poter esprimere alcun giudizio in merito. Ma ha ricordato che da alcune notizie di stampa emergerebbero intercettazioni in cui Mazzacurati si riferisce all’acquisto di un appartamento in piazza di Spagna a Roma di 250 metri quadri affermando che sapeva «come fare uscire fuori i soldi dal Consorzio». L’ipotesi prospettata da Milanese è che Mazzacurati avrebbe sostenuto falsamente di aver versato tangenti per giustificare i soldi presi dal Consorzio per acquistare l’appartamento. L’avvocato Larosa ha chiesto al gip la scarcerazione dell’ex deputato Pdl.
Le indagini sull’episodio di presunta corruzione di Milanese riguardano anche il manager vicentino Roberto Meneguzzo, amministratore di Palladio Finanziaria che, secondo i magistrati, avrebbe fatto da intermediario tra Mazzacurati e Milanese. Le indagini avviate a Venezia saranno proseguite ora dai pm di Milano, Roberto Pellicano e Luigi Orsi. E sempre a Milano, entro 20 giorni, dovranno essere rinnovate le procedure per ottenere la prosecuzione della misura cautelare in carcere a carico di Milanese.

Gl.A.

 

VENEZIA – Italia Nostra: «Fermare l’ultimazione dell’opera»

VENEZIA – Un appello al premier Matteo Renzi affinché non si assuma la responsabilità «di portare a compimento un’opera che presenta gravissime criticità strutturali e una complessità gestionale elevata» è stato lanciato da Italia Nostra, sezione di Venezia, da sempre contraria al Mose. «È vero che sono ormai stati stanziati moltissimi soldi. Interrompendo l’opera e riconvertendola, tuttavia, si risparmierebbero circa 60 milioni annui di manutenzione: tutti gli impianti sono subacquei e di difficile gestione, al contrario di altre opere di più recente concezione». Italia Nostra chiede una commissione di scienziati indipendenti che si esprima sui rischi per la Laguna veneziana.

 

SCANDALO MOSE Accoglie “l’invito” del Patriarca e si dimette da procuratore

Mazzacurati, S. Marco non è per sempre

Poche righe ma chiarissime che hanno il senso di un rapporto di collaborazione che si è improvvisamente rotto.
E tocca al Patriarcato di Venezia annunciare in modo stringato l’addio di Giovanni Mazzacurati al posto nella Procuratoria di San Marco che da anni, l’ex patron del Consorzio Venezia Nuova deteneva per nomina diretta del Ministero dell’Interno in seno alla “fabbrica” marciana. Nella lettera il Patriarcato chiarisce fino in fondo la propria posizione senza nascondere – tra le righe – una dura critica al ruolo emerso di Mazzacurati in tutta la vicenda svelata dall’inchiesta della Magistratura sul Mose.

 

LA CURIA «L’ingegnere ha accolto l’invito del Patriarca»

L’INTERCETTAZIONE – L’ex sindaco lo tranquillizzò «Siamo entrambi procuratori…»

E Mazzacurati si dimette da procuratore di S. Marco

Poche righe ma chiarissime che hanno il senso di un rapporto di collaborazione che si è improvvisamente rotto. E tocca al Patriarcato di Venezia annunciare in modo stringato l’addio di Giovanni Mazzacurati al posto nella Procuratoria di San Marco che da anni, l’ex patron del Consorzio Venezia Nuova deteneva per nomina diretta del Ministero dell’Interno in seno alla “fabbrica” marciana. E, sia pure in poche righe, il Patriarcato chiarisce fino in fondo la propria posizione senza nascondere – tra le righe – una dura critica al ruolo emerso di Mazzacurati in tutta la vicenda svelata dall’inchiesta della Magistratura sul Mose.
«Si informa – mette subito le mani avanti il Patriarcato – che l’ingegner Giovanni Mazzacurati, a cui era stata rivolta formale richiesta a suo tempo dal Patriarca, mons. Francesco Moraglia, ha rassegnato le dimissioni dalla Procuratoria di San Marco». Una decisione in qualche modo che è il segno dei tempi e quindi dell’«imbarazzo» della Chiesa veneziana su una vicenda che aveva visto lo stesso Patriarca Moraglia scendere in campo, anche con durezza, in una intervista pubblicata sul settimanale diocesano “Gente Veneta” laddove sottolineava ad esempio «Non posso nascondere – spiegava il vescovo di Venezia – che in questi primi due anni in città ho dovuto affrontare o sto affrontando anche taluni passaggi non facili e non indolori, con decisioni ostacolate e non sempre capite, ma che si rivelano, soprattutto con il passare del tempo e alla luce dei fatti, opportune ed anzi, in alcuni casi necessarie. Spero che chi si opponeva o si oppone, più o meno apertamente, oggi capisca che il Patriarca agiva e sta agendo per il bene di tutti e di ciascuno».
Insomma parole fin troppo chiare e che possono ben dare il senso della situazione, e di come la Chiesa veneziana stia vivendo, anche con tristezza, questo momento particolarmente delicato della storia della città. Ora, con l’addio di Mazzacurati, la Procuratoria vede la presenza del Primo Procuratore, l’ex sindaco Giorgio Orsoni, don Gianni Bernardi, Antonio Bianchini, Irene Favaretto, Dino Sesani. E proprio sull’incarico a Giorgio Orsoni ora rischia di concentrarsi l’azione del Patriarcato, visto anche i trascorsi, in parte anche burrascosi, tra l’ex sindaco di Venezia e l’ex presidente del Cvn negli anni passati alle quali si aggiungono le intercettazioni “Siamo entrambi Procuratori…” che sono agli atti dell’inchiesta della magistratura veneziana sui rapporti tra politica, Consorzio e sistema Mose. E non è escluso che, in virtù della decisione di Mazzacurati, si punti anche ad un riassetto complessivo. Una situazione non certo facile da gestire, che attualmente vede ancora Orsoni in prima linea a capo della Procuratoria, l’organo che ha competenze di tutela, amministrazione e manutenzione della Basilica marciana.

P.N.D.

 

Mose e grandi navi, “assalto” a Renzi

Italia Nostra, lavoratori del Consorzio, Porto, Cruise Venice: fioccano gli appelli al premier

Sarà una giornata importante. E campale. Di mezzo non ci sarà solo l’avvio ufficiale del vertice europeo sul Digitale, iniziato ieri un po’ in sordina, ma che oggi raggiungerà il proprio clou. Sarà anche un appuntamento delicato non solo per la presenza del premier Matteo Renzi a Venezia che alle Tese dell’Arsenale in mattinata, attorno alle 10.30, si incontrerà con il vicepresidente della Commissione europea Neelie Kroes (in streaming sul sito www.digitalvenice.eu), ma anche per la presenza delle associazioni ambientaliste e del comitato No Navi alla Porta dei Leoni in campo dell’Arsenale da dove potrebbe snodarsi un corteo che cercherà di raggiungere l’area delle Gaggiandre, proprio di fronte alle Tese per un’iniziativa di protesta sui temi noti: scioglimento del Consorzio Venezia Nuova, stop ai lavori del Mose e il no allo scavo del Sant’Angelo Contorta. E in questo clima, con qualche timore sull’ordine pubblico, va aggiunto che l’arrivo di Renzi in laguna ha “scatenato” una vera e propria raffica di “lettere aperte” al suo indirizzo come quella del presidente dell’Autorità portuale, Paolo Costa come riportiamo in altra parte del Gazzettino e che sostanzialmente chiede garanzie per il porto e la possibilità di dare un nuovo futuro alla città.
Ma sono soprattutto i dipendenti del Consorzio a scendere in campo: «la nuova dirigenza – dicono – intende recuperare credibilità, effettuando una riduzione dei costi, ma questa operazione non può e non deve significare riduzione del personale; non siamo disposti ad essere uno dei capri espiatori per ridare credibilità all’azienda. Sappiamo che il Mose è “un cantiere a finire” ma c’è sempre stato prospettato un futuro in cui, tra l’avviamento dell’opera e la manutenzione, ci sarebbe stato un utilizzo del personale del Consorzio. Non c’è alcun motivo di mandarci a casa prima del tempo in vista di una spending review più strumentale che reale. Dietro ai protagonisti dello scandalo, c’è la vita di 120 dipendenti con le loro famiglie e i tanti problemi economici di tutti i giorni che adesso, senza nessuna colpa, rischiano di pagare a caro prezzo con il posto di lavoro».
E va all’attacco in senso opposto Italia Nostra che in una missiva indirizzata all’ex sindaco di Firenze, ha rilanciato la propria battaglia contro il Mose. «Stimatissimo Presidente – dice l’associazione – non si assuma la responsabilità di portare a compimento un’opera che presenta gravissime criticità strutturali e una complessità gestionale elevata. Istituisca la commissione, invocata da anni, per valutare tutti i rilievi fatti in molti anni in più ambiti. Dica no al Mose».
E ancora su un’altra barricata è intervenuto il Comitato Cruise Venice sulla questione delle Grandi Navi: «Noi chiediamo con forza – sottolinea il presidente Davide Calderan – che vengano fatte scelte coraggiose, che si dia corso a soluzioni alternative al passaggio delle grandi navi nel Bacino di San Marco. Le misure che nel 2015 vedranno applicazione (limite delle 96 mila tonnellate ndr) segneranno il crollo di un efficiente sistema produttivo. Vi sarà una perdita di traffico del 60 per cento e di 4500 occupati, di cui 2500 a livello locale. Chiediamo che si proceda al più presto a realizzare una via d’accesso alternativa alla Marittima che tuteli i traffici commerciali e crocieristici».

 

CHIOGGIA – Viaggio dentro il ventre del Mose

PROSSIMO BLOCCO IL 16 E IL 17 LUGLIO

Per la posa del terzo cassone la navigazione sarà bloccata per 48 ore anche la prossima settimana

A 20 METRI DI PROFONDITÀ – Un tunnel tra Sottomarina e Ca’ Roman

Il tunnel che collegherà Sottomarina con Ca’ Roman è formato da due gallerie larghe tre metri e alte cinque, e lungo 360 metri.

“Viaggio” all’interno dei cassoni che si stanno posando nella bocca di porto

Dentro il ventre del Mose

Polemiche e inchieste della Magistratura a parte, continuano come da programma i lavori di ultimazione del Mose, la più grande infrastruttura progettata dall’ingegneria italiana per la salvaguardia della laguna dalle acque alte eccezionali. Dopo la messa in opera del cassone di spalla nord e degli altri due cassoni di soglia (ne mancano ancora 4 di soglia e quello di spalla sud) sono già 120 i metri del tunnel perfettamente all’asciutto a 20 metri di profondità che parte dalla parte nord a Ca’ Roman e che poi si congiungerà con la parte sud di Sottomarina.
Quando ci si affaccia all’entrata della scala dalla quale si accede a questo tunnel sottomarino, sembra quasi di trovarsi di fronte a degli effetti speciali: da un lato il mare che sembra quasi di toccare con mano e, al centro, questa enorme apertura che sprofonda per l’altezza equivalente di un edificio di almeno sei piani, con gli operai tutti al lavoro con i loro caschi in testa . Il tunnel che collegherà Ca’ Roman con Sottomarina sotto il livello del mare è formato in realtà da due gallerie larghe circa tre metri e alte cinque. Ogni cassone è di 60 metri e saranno sei (esclusi quelli di soglia), creando una specie di “metropolitana” di 360 metri. Un tunnel che sembrerebbe veramente poter essere adibito anche al passaggio di persone e biciclette, come aveva proposto tempo fa più di qualche esponente politico dell’isola di Pellestrina.
A Ca’ Roman, oltre a tutta la struttura dei cassoni sui quali andranno poi montate le paratoie, ci sono poi le due conche di navigazione che potranno essere utilizzate dal naviglio minore quando le paratoie saranno alzate e chiuderanno il porto, oltre al grande bacino che è stato creato per la realizzazione degli enormi cassoni di cemento armato.
Le operazioni per il varo, lo spostamento e l’installazione del terzo cassone di soglia sono previste per il 16 e 17 luglio con il blocco completo della navigazione per altre 48 ore. L’intero cantiere di Sottomarina-Ca’ Roman è completato all’80% e, dopo l’installazione dei cassoni, rimarrà tutta la componente tecnica delle paratoie che, salvo altri problemi, verrà completamente realizzata nel 2016.

 

Sms di Milanese: il triangolo della mazzetta

Il consigliere di Tremonti informò così Meneguzzo e Mazzacurati dell’arrivo di 400milioni dal Cipe

VENEZIA Marco Milanese, arrestato nella vicenda Mose, avrebbe ricevuto la presunta tangente da 500 mila euro il 14 giugno 2010 nella sede di Milano di Palladio finanziaria alla presenza del suo Ad Roberto Meneguzzo e di Giovanni Mazzacurati, allora presidente del Consorzio Venezia Nuova, in un incontro a tre. La tangente – come ricostruiscono i pm della Procura di Venezia – serviva ad accelerare l’ingresso della «pratica»Mose al Cipe per ottenere i finanziamenti per la continuazione delle opere di difesa di Venezia dalle acque alte eccezionali; una cifra inizialmente di 230 milioni di euro poi salita a 400 milioni. Secondo l’ordinanza del Gip di Venezia Alberto Scaramuzza la dazione sarebbe testimoniata da «quattro riscontri » di quello che è un incontro «a tre tra Meneguzzo, Mazzacurati e lo stesso Milanese». Il primo elemento è «l’agenda informatica di Mazzacurati, da cui risulta partenza il 14 giugno 2010 da Venezia alle 8.30 per Milano con ritorno la stessa giornata». Il secondo è quello che indica come ci siano «due telefonate» intorno a mezzogiorno e mezzo dello stesso giorno «partite dal cellulare di Mazzacurati che hanno attivato celle telefoniche» in zone vicine alla «sede della Palladio finanziaria » con investigazioni che testimoniano l’arrivo di Mazzacurati in quell’ufficio. A ciò si aggiungono i tabulati del telefono di Meneguzzo che indicano che l’Ad di Palladio finanziaria è nel suo ufficio lombardo. Il pagamento era stato accelerato dopo che la Guardia di finanza aveva effettuato dei controlli al Cvn e Milanese non figurerebbe nell’ordinanza con elementi probatori – anche se viene citato come presente – probabilmente perché all’epoca dei fatti ancora parlamentare del Pdl e quindi «protetto» dall’immunità sul fronte di eventuali intercettazioni. Marco Milanese, ex ufficiale della Guardia di Finanze poi sottosegretario all’Economia e consigliere politico dell’ex ministro Giulio Tremonti avrebbe avuto così un ruolo decisivo nel persuadere Tremonti a cambiare la ripartizione dei fondi Cipe mentre a saldare materialmente la sua «ricompensa» avrebbe provveduto Piergiorgio Baita.

 

IMPUTATI FORZISTI

Galan: giovedì il voto sull’arresto

Oggi Lia Sartori davanti al giudice

VENEZIA Settimana decisiva per Giancarlo Galan: mercoledì e giovedì la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera discuterà e voterà la richiesta di arresto del parlamentare di Forza Italia avanzata dalla Procura di Venezia. Il padovano, che continua a ribadire la propria innocenza, si appella al decreto svuota-carceri e manda a dire: «Mi sento come Enzo Tortora. Come lui vengo accusato da persone assolutamente inaffidabili, che hanno degli interessi per agire come hanno fatto al carcere “non sono mai rassegnato. Vorrei essere giudicato come un uomo.Non come il politico Galan, non come il fedelissimo di Berlusconi o l’amico di Dell’Utri». La commissione, tuttavia, è chiamata a pronunciarsi esclusivamente sull’esistenza o meno del fumus persecutionis nei suoi confronti ed un sì all’arresto appare probabile. Oggi intanto il giudice Alberto Scaramuzza interrogherà Lia Sartori, già europarlamentare forzista,da sei giorni agli arresti domiciliari nel suo appartamento nel centro di Vicenza; è accusata di illecito finanziamento, avrebbe incassato 225 mila euro da Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, per le sue campagne elettorali. «Non ho nulla a che vedere con le ipotesi di reato», ha dichiarato al suo collegio difensivo composto dagli avvocati Zanettin, Moscatelli e Coppi.

 

IL RUOLO DEL COMMERCIALISTA VENUTI E QUELLO DI SANDRA PERSEGATO

Nuovo esposto del M5S sugli appalti nel Veneto

VENEZIA I parlamentari veneti del M5S, prima firmataria la deputata Silvia Benedetti, hanno presentato un esposto alla Procura di Venezia relativi agli appalti veneti. La denuncia, successiva a sei atti ispettivi, parte dal commercialista Paolo Venuti, revisore dei conti molto attivo in Veneto, presente con varie cariche in decine e decine di società da Banca Padovana Credito cooperativo a Padova fiere spa a Concessioni autostradali venete ad Adria Infrastrutture, controllata dalla Mantovani che aveva come presidente Piergiorgio Baita, tra l’altro vicepresidente di Adria. «Qui inizia la lunga catena di collegamenti che passando per Sandra Persegato arriva fino a Paolo Berlusconi, attraverso decine di società con sedi in giro per il mondo», afferma Benedetti «presso lo studio di Venuti ha infatti il domicilio fiscale proprio la moglie di Galan, che è amministratore unico della Margherita srl, a sua volta collegata ad Adria». «Margherita srl è stata fondata nel 2008», si legge nell’esposto «e ha tra i fondatori anche la Comunità Incontro Onlus di don Pietro Gelmini. Un intreccio inestricabile che collega tra di loro gli attori dell’ impalcatura delle indagini della magistratura veneta. Perché continuare ad assegnare a queste società, evidentemente compromesse, le grandi commesse pubbliche del Veneto? Il cosiddetto “sistema Mantovani”, che comprenderebbe anche un sistema di spionaggio delle indagini venete allo scopo di proteggere gli affari poco puliti, era già attivo.Le persone erano sempre le stesse». «L’attività ispettiva», scrivono i parlamentari del Movimento 5 Stelle «si concludeva con la richiesta di valutare l’opportunità di sospendere l’attività dei cantieri interessati, in attesa che le indagini fornissero un quadro più chiaro sul presunto sistema».

 

«Serve subito un’alternativa ecosostenibile»

I Comitati chiedono un incontro con il premier Renzi che domani sarà a Venezia per il Digital Venice

Una delegazione del Comitato No Grandi Navi sarà presente in Arsenale e potrebbe essere ricevuta dal premier Renzi (o da un suo delegato) nel corso della sua partecipazione- lampo, martedì mattina, a Digital Venice 2014. L’appuntamento è fissato per le 10, in campo dell’Arsenale, al quale seguirà un corteo autorizzato fin dentro l’Arsenale, attraverso l’ingresso della Biennale e fino alle Gaggiandre. La manifestazione si concluderà così proprio di fronte alla Torre di Porta Nuova, dove il premier Matteo Renzi sarà in teleconferenza in occasione di Digital Venice 2014. Obiettivo della protesta è quello di presentare al presidente del Consiglio un documento in cinque punti per chiedere: la fine della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova; una moratoria dei lavori alle bocche di porto; «un’ispezione tecnica sui lavori del sistema Mose affidata a una authority indipendente, che studi la possibilità di riconversione del sistema, mediante una variante in corso d’opera»; stop al progetto di scavo del canale Contorta dell’Angelo o di altri canali; grandi navi fuori dalla laguna e realizzazione di un nuovo avamporto alla bocca di porto del Lido. Mentre il Comitato si prepara in vista di martedì, il portavoce Silvio Testa interviene in merito alle parole roventi del presidente di Vtp Sandro Trevisanato sul fuggifuggi della Costa a Trieste: «Se Costa Crociere va a Trieste la colpa non è di chi a Venezia si è opposto a un crocerismo incompatibile proponendo da subito soluzioni alternative ambientalmente sostenibili, rapide da realizzare, che garantirebbero lavoro, indotto, il futuro della Marittima, ma di chi si è ostinato per tre anni a sostenere l’indifendibile avanzando “soluzioni” devastanti per la laguna e per la città. Senza dimenticare i sindacati».

 

Tangenti, indagini sul tram

Nuovi fronti dopo il Mose: anche ospedale e Passante

Tram, ospedale e Passante. La procura guarda a Mestre

Dopo aver aperto il capitolo Veneto Strade con i documenti sequestrati a Baita ora nel mirino dei magistrati c’è l’Ati con la Mantovani che ha realizzato il metrobus

VENEZIA Oltre al Mose. Ora l’attenzione degli inquirenti, che hanno spazzato via il comitato politico d’affari governato dal duo Baita-Mazzacurati, si sposta su altre grandi opere realizzate a Venezia negli ultimi dieci anni: passante di Mestre, ospedale dell’Angelo e tram. Inevitabile che questo avvenisse.Una scelta obbligata per i sostituti Stefano Ancillotto, Paola Tonini e Stefano Buccini e per gli uomini della Guardia di Finanza. Anche perché, durante le indagini iniziate tre anni fa e che hanno portato in carcere oltre 35 persone tra politici, amministratori e imprenditori, più di un indagato, a iniziare da Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita, ha spiegato che le imprese da far lavorare erano scelte a tavolino e politici e amministratori compiacenti venivano ricompensati con “mazzette” o con sponsorizzazioni e incarichi a parenti e amici vari. Questo valeva per destra e sinistra, a seconda di chi c’era nei posti dove si decideva. Regola valida per tutte le grandi opere pubbliche. Sul Passante di Mestre la Procura di Venezia ha già messo le mani, lo scorso anno, dopo aver trovato documenti relativi a “Veneto Strade”, nella società sanmarinese che Baita ha usato allo scopo di procurarsi fatture false e creare così “fondi neri”: l’analisi dei documenti sequestrati continua. Stessa analisi ora inizia per tram e ospedale di Mestre che sono un affare da 388 milioni di euro: 168 milioni il tram e i restanti 220 l’ospedale. Entrambe le opere sono state realizzate da Associazione temporanea d’imprese. E guarda caso molte delle società che vi partecipano sono coinvolte nell’inchiesta Mose. A cominciare dalla “Mantovani” di Piergiorgio Baita. La domanda è ovvia: Se le regole imposte da Baita e Mazzacurati valgono per il Mose, perché non dovrebbero essere imposte, stessi protagonisti e stesso periodo, per le altre grandi opere? La risposta ora la cercano i magistrati. Il progetto definitivo del tram (linee Favaro Veneto-Mestre- Venezia e Mestre-Marghera) è stato aggiudicato nel 2004 (in seguito alla gara d’appalto bandita dalla giunta di Paolo Costa) all’Associazione Temporanea d’Imprese di cui fanno parte la mandataria Gemmo, la Lohr Industrie, Metropolitana Milanese Spa, Net Engineering Spa, Studio Altieri Spa, Sacaim, Impresa Costruzioni Ing. Mantovani e Clea Impresa Cooperativa di costruzioni generali. Il tram è entrato in funzione il 20 dicembre 2010. Tra il 2004 e il 2005, la realizzazione del tratto Favaro-Mestre ha subito uno stop, non previsto, perché erano finiti i soldi. Mancavano all’appello 10 milioni di euro poi arrivati dallo Stato. Mentre si attende l’entrata in funzione del proseguimento fino a Marghera e si attende, il prossimo anno, di arrivare a piazzale Roma, ora si accendono i riflettori della magistratura.

Carlo Mion

 

È lo stesso mezzo Translohr di Padova

La rete tranviaria di Mestre è una rete di trasporto pubblico, in parte attiva e in parte in corso di realizzazione. Il tracciato delle due linee previste si svilupperà tra Mestre, Marghera e Favaro Veneto, collegandosi al terminal di piazzale Roma attraverso il ponte della Libertà. Dal dicembre 2010 è attiva la linea T1, che utilizza parte del percorso della prevista linea T1 e parte del percorso della prevista linea T2. L’attuale non è una tranvia di tipo classico, bensì utilizza un sistema guidato di tipo Translohr a una sola rotaia. Ciò ha fatto sì che il sistema venga chiamato in vari modi per differenziarlo dalla tecnologia del tram classico su rotaia, a seconda delle fonti. Dal punto di vista giuridico il Translohr è assimilato a un veicolo tranviario anche se viaggia su gomma. Sistema uguale a quello di Padova. La progettazione e la costruzione della rete tranviaria è affidata a PMV-Società del Patrimonio per la Mobilità Veneziana, nata dalla scissione da ACTV nel 2003, al fine di gestire le infrastrutture del trasporto pubblico. La gestione della tranvia è invece affidata ad ACTV, l’attuale gestore del trasporto pubblico in tutto il territorio comunale di Venezia, in virtù di una convenzione.

 

l’ex consigliere dell’ex ministro dell’economia: non ho mai preso un euro

Un sms di Milanese dopo l’ok Cipe «Ma era Giulio a gestire tutto»

PADOVA – Con un sms al finanziere Roberto Meneguzzo, Marco Milanese avverte che «c’è la norma per il Mose» al Cipe. Il messaggino, del 24 maggio 2010, segna di fatto la comparsa del nome del consigliere dell’allora ministro Giulio Tremonti nell’inchiesta Mose. Milanese è stato arrestato l’altro ieri per corruzione. Il suo interessamento per garantire fondi alla prosecuzione dell’opera, tanto caldeggiato da Giovanni Mazzacurati, presidente di Cvn, tramite Roberto Meneguzzo, gli avrebbe portato una «mazzetta» di 500mila euro versata il 14 giugno 2010, pochi giorni dopo il via libera del Cipe. Il messaggino è tra le intercettazioni della Guardia di finanza che indagava su Cvn. A versare la tangente al braccio destro dell’ex ministro Giulio Tremonti è stato il re del Mose, Giovanni Mazzacurati, come scrive il gip Alberto Scaramuzza nell’ordinanza di arresto dell’ex parlamentare Pdl. Un provvedimento dettato dall’urgenza per la «pericolosità sociale eccezionalmente elevata e un intenso pericolo di reiterazione dei reati ». Ma prima di vedersi stringere la manette ai polsi, l’ex deputato Marco Milanese ha raccontato la sua verità a Valeria Pacelli, giornalista del «Fatto» che l’ha incontrato in un bar a Roma il 18 giugno scorso. Ecco i passaggi salienti del suo racconto: «Io non ho preso un euro, facevo solo da segretario. Giovanni Mazzacurati si era messo d’accordo con Giulio Tremonti e non aveva bisogno di pagare me. Va bene la casa di Giulio, va bene l’orologio, ma pure il Mose no. Io non dormo più perché penso che qualcuno domani mattina può venirmi a prendere», previsione che si è avverata con qualche settimana di ritardo. Da giovedì Milanese si trova in una cella del carcere di Santa Maria Capua Vetere, lo stesso che ospita il colonnello della GdF Fabio Massimo Mandella, arrestato per un’inchiesta della procura di Napoli in cui Milanese è accusato di corruzione. Ma torniamo alle delibere Cipe per il Mose. «Tutti sanno che i lavori non si possono fermare… Il ministro che decideva era Tremonti, il viceministro con la delega al Cipe Gianfranco Micciché, Vincenzo Fortunato fa l’ordine del giorno e poi io mi prendo i soldi. Non capisco. L’unico problema era che il ministero delle Infrastrutture aveva un miliardo a disposizione e voleva altri 400 milioni da Tremonti, che invece ha rassicurato Mazzacurati e gli ha detto: stai tranquillo, i soldi per il Mose ci sono, ci dobbiamo mettere d’accordo con Matteoli. Perché soldi in più non gliene do. Non c’era bisogno di corrompere. Soldi non ne abbiamo presi, né io né Tremonti. E a Roberto Meneguzzo dicevo di non rompere i coglioni, lui era pressante, chiamava… Io facevo il segretario, ero delegato a dire “non si preoccupi’’ e per questo mi sarei preso 500 mila euro? Non è possibile » spiega Milanese al «Fatto quotidiano». Segue poi un elenco di lamentazioni. «Mi viene da piangere, devo stare attento a comprare le cose. Guadagnavo 50 mila euro al mese nel 2006, non ero nessuno e facevo il professionista. Ora devo vivere grazie alla mia compagna. Ho avuto accertamenti bancari, stavo comprando una casa con il mutuo, è tutto bloccato. Vi pare corretto dopo 35 anni di servizio per l’amministrazione? Mi hanno chiesto di patteggiare 1 anno e mezzo per tutti i processi ma non voglio essere considerato un colpevole» conclude Milanese (r.r.)

 

L’interrogatorio di mazzacurati che si vergogna a pronunciare la parola corruzione

«Ho incontrato due volte a Roma il ministro Tremonti nel suo ufficio»

I rapporti con il generale Spaziante e Matteoli che premeva per la Socostramo

Era Galan a gestire gli incarichi per i collaudi delle opere realizzate a Venezia

VENEZIA Si vergogna l’ingegnere Giovanni Mazzacurati a pronunciare la parola «corruzione». Preferisce l’eufemismo «spese », per indicare il sistema corruttivo che ha messo in piedi, con il quale paga tutti quelli che possono ostacolare il Mose. Con il soldi delle tasse, ovviamente, non con i suoi. «Spese è un termine generico», lo incalzano i pm. «E’un modo di esprimersi», risponde lui. «Ce lo chiarisca», insistono quelli. «Effettivamente era una cosa illecita, nel senso che…». Ma non riesce ad andare avanti. «Nel senso che lei metteva a conoscenza le persone, quando retrocedevano le somme al Consorzio, del perché le retrocedevano e questi erano perfettamente informati?». «Sì, era per questi scopi». Sembra di essere dal dentista: bisogna cavargli le parole di bocca con le pinze. Succede nell’ultimo interrogatorio del «grande burattinaio». E’ il 9 ottobre 2013, i pm Paola Tonini e Stefano Ancilotto vogliono riscontrare tutte le ammissioni fatte in precedenza. Mazzacurati parla di Tremonti, Milanese, Meneguzzo, Lia Sartori, Spaziante, Cuccioletta, la Piva, Paolo Costa, Matteoli e del sistema dei collaudi sul quale l’ultima parola era di Giancarlo Galan. Lo assiste l’avvocato Giovanni Muscari Tomaioli.

D. Lei ha incontrato il ministro Tremonti?
R. Sì, due volte, al ministero. Sempre dasoli.
D. Chi le aveva procurato l’appuntamento?
R. Meneguzzo, mi sembra, senza Milanese.
D. Ha incontrato anche Lia Sartori?
R. Sì, mi aveva detto che aveva bisogno di fondi. L’ho incontrata quattro volte, tra il 2006 e il 2010. Ogni volta le portavo 50.000 euro. Mi telefonava lei, non c’era bisogno di intermediari perché ci conoscevamo da tempo.
D. Com’è entrato in contatto con il generale Spaziante?
R. Attraverso il dottor Meneguzzo. C’era anche Milanese. Con Milanese e Spaziante mi sono rivisto altre volte. Eravamo noi tre al residence Ripetta di Roma, quando ho consegnato i soldi al generale.
D. E’ da Spaziante che ha saputo di essere intercettato?
R. Sì, mi ha detto lui che i telefoni del Consorzio erano controllati.
D. Le ha detto anche il nome del pubblico ministero che faceva l’indagine?
R. Non mi ricordo se è stato lui.
D. Per trovare i 500 mila euro di Spaziante lei a chi si è rivoto?
R. Generalmente utilizzavo il canale di Baita.
D. Non si è rivolto anche a Flavio Boscolo, quando lo incontra a Roma il 26 maggio, a piazza Mincio?
R. Perché ci desse 500 mila euro? Era una cifra troppo grossa per lui.
D. No, gli parla della necessità di trovare questa somma e gliene chiede una parte.
R. E’ probabile. Flavio Boscolo è una persona che conosco da tantissimi anni, se c’era necessità mi rivolgevo anche a lui. Poi la cosa veniva gestita da Luciano Neri.
D. Boscolo sapeva a che cosa serviva il denaro?
R. Sì, certo. Flavio era una delle persone a cui ci si rivolgeva, per importi che non superavano i 100 mila euro.
D. Anche Neri era informato?
R. Neri era vicedirettore del Consorzio,a lui dicevo più cose che a Federico Sutto.
D. Per le consegne all’assessore Chisso provvedeva lei di persona o attraverso Sutto?
R. In entrambi i modi. Quando davo la busta a Sutto, la portava senza fare domande.
D. Ma si rendeva conto che non era un panettone e neanche la borsa della spesa…
R. Sì, sì,ma Neri per esempio era uno che chiedeva quanti soldi c’erano dentro.
D. Avete preso nel Consorzio la Socostramo di Erasmo Cinque, poi l’avete allontanata, poi ripresa.
R. Sì, perché io ero molto insoddisfatto.
D. Chi vi ha ordinato di prenderla?
R. Matteoli. Mi chiamò a colazione a Roma, assieme a Cinque. Ci teneva molto che Cinque lavorasse, il fatto è che questa azienda non lavorava, questo era il problema. Quando ha introdotto Baita, le robe sono andate a posto perché il lavoro lo faceva Baita e loro si mettevano d’accordo in un altro modo.
D. Oltre ai compensi in denaro ai Magistrati alle Acque, avete affidato anche collaudi alla Piva, Cuccioletta e D’Alessio?
R. Non mi ricordo quali.
D. Ma ricorda se erano dati come una forma indiretta di remunerazione?
R. Non li abbiamo mai conteggiati così. Certo era un modo per fare un favore. Alla Piva sono stati dati dei collaudi abbastanza importanti, a Cuccioletta non ricordo per quanto.
D. Non sa se a qualcuno di loro è stato dato il collaudo dell’ospedale All’Angelo di Mestre, anche se era fuori dalla competenza del Magistrato alle Acque?
R. No.
D. Quando facevate avere questi collaudi, presso chi bisognava intervenire perché l’incarico fosse affidato?
R. Se erano di competenza regionale, si faceva da Galan. Altrimenti bisognava risalire un po’, al ministero.
D. Per quelli regionali chiedevate direttamente a Galan?
R. Eh, sì.
D. Per la vicenda della turbativa d’asta, lei ha avuto rapporti preliminari con Paolo Costa al fine di predisporre il bando di gara?
R. Non mi ricordo. Con Paolo Costa ho trattato molto per quanto riguarda ilMose…
D. Ma sulle gare bandite dall’Autorità Portuale, lei aveva contatti con Paolo Costa?
R. Sicuramente sì.
D. Di che tipo?
R. Ma non… di tipo diverso da…
D. Parliamo della vicenda per cui lei ha avuto l’ordinanza di custodia cautelare: ci sono stati accordi preliminari tra lei e Costa?
R. L’unica stranezza che feci notare era che fissavano la disponibilità di un certo mezzo… mi sembrava una roba illecita indicarlo.
D. A chi fece questa osservazione?
R. L’abbiamo fatta come Consorzio

Renzo Mazzaro

 

Domani sarà interrogata Amalia Sartori

Sarà interrogata domani Amalia Sartori, 66 anni, di Vicenza, da mercoledì agli arresti domiciliari. È accusata di illecito finanziamento: secondo la procura di Venezia, avrebbe incassato 225 mila euro da Giovanni Mazzacurati, presidente del Cvs, per le sue campagne elettorali da eurodeputata di Fi e Pdl. Sartori, accompagnata dagli avvocati Zanettin, Moscatelli e Coppi, respinge con decisione le accuse.

 

L’INTERVENTO

di Carlo Giacomini – Docente Iuav

Caso Mose e Cvn, perché è illegittima la concessione

Molti, a Venezia e nell’intero Paese, per eliminare alla radice il centro di tanti comportamenti devianti,propongono di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova, credendo forse, in buona fede e data la dimensione e importanza del Mose- e dell’intera Salvaguardia di Venezia e della sua laguna -, che il Consorzio sia pubblico o partecipato dal pubblico, oppure istituito e/o regolato da norme di natura pubblica. Purtroppo quel Consorzio è privatissimo, di totale proprietà privata dei suoi soci, e regolato tutto e solo dalle norme del diritto privato; ed è quindi impossibile (e inutile) pensare di sopprimerlo condecisione pubblica di natura meramente politica. Più appropriatamente, alcuni discutono e propongono di revocarne la concessione unica (e senza gara) di studi, piani, progetti e lavori (tutto insieme!), concessione di cui il Consorzio, dal 1984, in modo del tutto privilegiato ha goduto e lucrato (e continua a godere e lucrare) ricchissimi frutti ma senza motivo né merito e a spese (costosissime) della laguna e della città, e del pubblico erario. Idea e proposta che sarebbe corretta, se non fosse che quella concessione, come anche gli interessati sanno benissimo (e però tacciono), per legge è… già invalidata. E dal 1995. In quell’anno infatti, conilcomma1 dell’articolo 6 bis del decreto legge 1995 nº 96 (nel testo modificato dall’allegato dell’articolo 1 c. 1 della legge di conversione 1995 nº 206, entrato in vigore l’1giugno 1995e tuttora vigente), il Parlamento, dopo aver valutato dieci anni di esperienze (già allora negative) di quel sistema concessionale (voluto e deciso nel 1984 dal Presidente Craxi, vice Forlani, e dal ministro Nicolazzi coni colleghi De Michelis e Signorile) e dopo averne ricevuti giudizi negativi già allora sferzanti della Corte dei Conti, ha dichiarato «abrogati i commi terzo e quarto dell’articolo 3 della legge1984n º 798». Ha cioè abrogato proprio quei commi di legge coni quali, per l’attuazione delle opere statali di riequilibrio e salvaguardia della laguna( opere alle Bocche – barriere mobili comprese -, marginamenti, rinforzi, difese del litorale, interventi di riequilibrio e ripristino, apertura delle valli da pesca, e allontanamento del trasporto di petroli e derivati) era stata autorizzato il ricorso a una“concessione…a trattativa privata”. Tralasciando qui ilnon secondario dettaglio che anche nel 1984, “a trattativa privata” non equivaleva “a senza gara” (come invece qualcuno volle intendere, mistificando la legge), ciò che più conta è che dal 1995nonesiste più alcuna norma che consenta atti e disposizioni attuative di concessione a privati e che, quindi, quella concessione del 1984 è ormai dal1995 priva di ogni legittimazione e legittimità. Tanto che quella stessa legge del 1995 non ha chiesto e non ha previsto la necessità di alcun atto di revoca, a quel punto già allora ormai superfluo (in quanto ogni nuovo provvedimento di ulteriore concreto affidamento o finanziamento in concessione sarebbe ormai semplicemente privo di ogni copertura di legge, e quindi illegittimo e annullabile, se non già nullo). In altre parole, della revoca nonc’era e non c’è bisogno, perché quella concessione è, dall’1 giugno 1995, già abrogata e inefficace, avendo perduto il precedente appoggio di legge sulla quale si era basata. Tanto che la stessa legge del 1995 si è preoccupata solo di disporre la norma transitoria di sistemazione di quel (poco) che,con quella concessione, era già arrivato a esecuzione e attuazione tra il 1984 e il 1995: lo stesso Parlamento, conilcomma2 di quello stesso articolo di decreto legge, ha infatti disposto che “restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle disposizioni (abrogate)”. Disposizione doverosa riguardo agli impegni formali già perfettamente vincolanti assunti verso il privato. Ma,si badi bene, appunto solo per gli impegni formali già contrattualmente assunti verso il privato e già perfezionati e vincolanti al 31 maggio1995. Sono fatti salvi, quindi, solo gli impegni già oggetto di regolare atto di convenzione operativa già dotata di copertura finanziaria, ratificata e perfezionata entro il 31 maggio1995, sulla base delle leggi e deid ecreti di finanziamento promulgati ed emessi non oltre il 31 maggio1995. Diversamente da come il concessionario, e non pochi ministri e presidenti del Consiglio (e del Magistrato alle acque, e pure qualche magistrato amministrativo), inconsapevoli o conniventi, hanno voluto credere e leggere (ma forzosamente e senza giustificazione giuridica), tale disposizione transitoria non può valere da illimitata “tana libera tutti”; non può valere cioè come recupero della possibilità di affidamento in concessione anche oltre il 31 maggio1995, di ogni opera e intervento che per qualche appiglio esplicativo, narrativo o logico taluno cerchi di far apparire, a posteriori,come effetto o in connessione con le (poche) opere regolarmente e perfettamente già concesse (con tanto di atti stipulati,impegnativi e vincolanti) prima di quella abrogazione. In altre parole, il “fatti salvi” e il “restano validi” può essere applicato solo per gli impegni perfezionati e assunti direttamente ed espressamente con le convenzioni n. 6393, 6479, 6745, 7025, 7138, 7191, 7295, 1568, 1685, 7322 e 7395, sottoscritte tra il 1984 e il 1993, finanziate dalle leggi 171/1973, 798/1984, 910/1986, 67/1988, 360/1991 e 139/1992, per un importo complessivo massimo di 953,989 milioni di euro (al lordo delle quote riservate, su quegli importi, ai Comuni e alla Regione). E non invece per quanto taluna autorità ha voluto affidare in concessione (senza copertura di legge) conl e decine di convenzioni sottoscritte successivamente al 31 maggio1995 e finanziate tutte da leggi successive al 31maggio 1995 (ancorché fosse o sia stato fatto apparire logicamente connesso o materialmente integrato con qualche parte già in precedenza regolarmente concessa e finanziata). In pratica può esserci legittimazione e regolarità giuridico- amministrativa solo per gli interventi (e i relativi pagamenti) concessi e definiti in modo perfetto e completo fino al 31 maggio1995, per un valore, tutt’al più, nel complesso, di poco meno di un miliardo di euro (ma da ridurre delle quote di Regione e Comuni).Mentre erano e sono privi di copertura di legge e quindi legittimità tutti gli affidamenti in concessione, tutte le decine di convenzioni (e tutti i relativi pagamenti) sottoscritte dopo l’1 giugno1995 e appoggiate (ancorché illegittimamente) su leggi successive a quella data. Sino a oggi per ulteriori oltre 7,7 miliardi di euro (di cui 5,5 circa per il Mose, progetto approvato finanziato e convenzionato dopo il 2002). E questo, tanto più dopo il persino precedentecomma10 dell’articolo 12 della Legge 537 del 1993 (entrato in vigore l’1 gennaio 1994 e tuttora vigente), che aveva sancito che per tutti gli interventi della Salvaguardia di Venezia e della sua laguna“gli studi, le sperimentazioni, le pianificazioni, le progettazioni di massima, i controlli di qualità dei progetti esecutivi e delle realizzazioni delle opere, i controlli ambientali (anche mediante ispezioni), la raccolta dati e l’informazione al pubblico devono essere svolti informa unitaria” e quindi, inevitabilmente, attuatio quanto meno diretti e regolati solo dalla pubblica autorità competente, direttamente e senza più possibilità di affidamento“ unitario” in concessione“ unica” a privati. Disposizione efficace e cogente da allora, subito, senza bisogno di ulteriori disposizioni o norme delegate (come invece era necessario per il successivocomma11, che ipotizzava che tali attività e funzioni fossero poi affidate a una nuova società pubblica regionale-statale, per la quale invece espressamente occorrevano ulteriori norme e disposizioni). Tanto che, altrettanto immediatamente,proprio per questo “trasferimento” di cui alcomma10 (“restituzione” dal concessionario all’autorità pubblica concedente e naturalmente competente, di tutte quelle funzioni e attività strategiche, immediatamente cogente, e quindi a prescindere e anche prima e persino anche senza l’attuazione dell’ipotesi del comma11), dall’1 gennaio 1994 ilcomma12 (tuttora vigente) ha disposto che “il corrispettivo per le spese generali previsto dalle concessioni di cui all’articolo 3 della legge 798/1984 è ridotto dal 12 al 6 %”. Ai giudici qualcuno dovrà spiegare perché invece, ignorando queste disposizioni, in tutti questi successivi 20 anni si è voluto ribadire e proseguire con gli affidamenti in concessione al Consorzio Venezia Nuova,per di più riconoscendogli “corrispettivi” ancora del 12%invece che del 6%(per una immotivata regalia a privati, e un sovracosto per il pubblico erario, nel complesso, pari a circa 500 milioni di euro, per la sola differenza tra 12 e 6%, e pari invece a circa mille milioni di euro, considerando l’intero costo dei ‘corrispettivi’ di spese generali di concessione). Cen’è che basta per fermare ogni ulteriore atto amministrativo, liquidazione, finanziamento, collaudo delle opere affidate in concessione al Consorzio Venezia Nuova. Quanto meno fino a che non sarà fatta fino in fondo, nelle ragionerie e nei tribunali, una veritiera “resa di conti”. Nel frattempo di questa sospensione e “resa dei conti”, potremo finalmente verificare, con giudizi veramente esperti e finalmente “terzi”, cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa funziona e cosa non funziona del progetto Mose, come e quanto variarlo e correggerlo in corso d’opera, almeno in quello che ancora possiamo correggerlo.

 

martedì 8 luglio – C’è il premier in Arsenale pronto il corteo “Stop al Mose”

L’invito è “Tutti da Renzi”. L’appuntamento per le 10 di martedì 8, in campo dell’Arsenale, con un presidio «a microfono aperto», seguito da un corteo autorizzato fin dentro l’Arsenale, attraverso l’ingresso della Biennale e fino alle Gaggiandre. La manifestazione si concluderà così proprio di fronte alla Torre di Porta Nuova, dove il premier Matteo Renzi sarà in teleconferenza in occasione di Digital Venice 2014. Obiettivo della protesta – organizzata da il Comitato No Grandi navi, l’associazione Ambiente Venezia e dalla Rete civica contro le grandi opere – è quello di presentare al presidente del Consiglio un documento in cinque punti per chiedere: la fine della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova; una moratoria dei lavori alle bocche di porto; «un’ispezione tecnica sui lavori del sistema Mose affidata a una authority indipendente, che studi la possibilità di riconversione del sistema, mediante una variante in corso d’opera»; stop al progetto di scavo del canale Contorta dell’Angelo o di altri canali; grandi navi fuori dalla laguna e realizzazione di un nuovo avamporto alla bocca di porto del Lido. Lo scopo non è consegnare il documento a qualche portavoce, ma farsi ricevere dal premier. L’invito è esteso «a tutte le associazioni e i comitati della città e del Veneto, anch’esso martoriato da grandi opere e project financing del sistema Galan: «Dobbiamo contrastare quanto sta avvenendo con lo scandalo Mose:far passare il tutto solo come una questione di corruzione e concussione: le malversazioni sono avvenute per sostenere un progetto sbagliato, una grande opera inutile, che serve solo a chi la fa e che ha sottratto e sottrae risorse alla città, reddito e servizi ai cittadini ».

 

Nuova Venezia – Villa di Galan, svelati tutti i lavori

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6

lug

2014

Villa Galan, svelati i segreti

Ecco tutti i lavori realizzati

Impianti nuovi, marmorini, stucchi e affreschi: l’edificio completamente rifatto

L’architetto Zanaica, che fu il direttore del cantiere, già sentito dalla Finanza

VENEZIA «Lui è amico di Gesù che moltiplicava i pani e i pesci. Gli ha insegnato il trucco anche con gli euro». La mordace battuta dell’imprenditore Paolo Sinigaglia, che per trascorsi politici conosce bene il laico Giancarlo Galan, dice tutto il disincanto con il quale è stata accolta la spiegazione pubblica che l’ex presidente del Veneto ha dato delle sue ricchezze. Quella trecentesca villa sui Colli Euganei, per esempio, dove è andato ad abitare. Per anni era stata il cruccio del precedente proprietario, Salvatore Romano, medico condotto e dentista di Lozzo Atestino, che si è svenato per rimetterla in sesto. Senza riuscirci. Dopo il restauro della struttura grezza, il consolidamento dei pavimenti e il rifacimento del terrazzo nella forma originale, cominciavano a scarseggiare i soldi. Per il tetto si era arrangiato alla bell’e meglio. Per l’impianto elettrico aveva provato a fare tutto da solo, passando i fili di notte, attaccando e staccando differenziali. Ne aveva fatto una malattia. Quando Giancarlo Galan acquista il complesso (il rogito dal notaio Franco Cardarelli di Abano è per 750 mila euro) deve rimettere mano a tutto. Non solo rifare l’impianto elettrico, perché manca la certificazione di conformità. Attraverso la Galatea snc, una società poi sciolta tra lui e la moglie Sandra Persegato, commissiona i lavori a un’impresa di Mestrino, la Tecnostudio dell’architetto Danilo Turato. Il quale è uno degli arrestati del 4 giugno. Motivo: sarebbe stato pagato con incarichi affidatigli dalla Mantovani Costruzioni all’epoca dell’ingegner Baita e liquidato con sovrafatturazioni. Secondo la Guardia di Finanza, tra questi incarichi c’era anche il nuovo mercato ortofrutticolo di Mestre e la sistemazione dell’area di via Torino. La Mantovani non tirava fuori il conquibus dai propri utili, bensì dalle opere pubbliche finanziate con i soldi delle tasse. Saranno contenti i mestrini del contributo dato. A seguire giorno per giorno i lavori nella villa Pasqualigo- Rodella-Galan, l’architetto Turato aveva delegato il collega Diego Zanaica, con studio a Lozzo Atestino. Un nome che finora non era circolato. Figurava solo quello di Turato. È Zanaica l’uomo che può elencare al centesimo i costi del restauro per le varie parti della villa: il corpo padronale, la barchessa e la chiesetta. Ed è quello che ha fatto alla Guardia di Finanza di Mestre. Zanaica è l’ultimo testimone ascoltato sulla vicenda della villa di Galan. «Sono stato chiamato e ho detto tutto», taglia corto al telefono. E se ne va in vacanza con la famiglia. A quanto risulta il professionista ha confermato che tutti gli interni di Villa Rodella sono stati radicalmente rifatti. I lavori sono durati quattro anni, non uno solo. Nel 2006 è stato completato il corpo padronale, 800 metri quadrati. Poi è stata rifatta la barchessa, completata nel 2008.Che è un’altra villa, con 750 metri quadrati coperti. Infine la chiesetta. In totale si arriva a 1700 metri. Non è stato un restauro normale. Il precedente proprietario aveva lasciato le pareti intonacate e bianche. Galan ha voluto in tutte le stanze del piano terra della villa le decorazioni in stile di fabbricato veneziano: balzorilievi tirati a stucco e decorati a mano, con marmorino e poi lucidati. Per dare un’idea, decorare con marmorino una parete dritta e non in rilievo, costa 40 euro a metro quadrato. Per una parete affrescata la stima a metro quadrato è almeno dieci volte superiore. Si aggiunga che le stanze di Villa Rodella, come tutti gli edifici storici, hanno altezze di quattro metri e mezzo, non di due e settanta. Poi c’è l’arredamento. I coniugi Galan hanno buon gusto e chiunque al posto loro, potendolo fare, avrebbe scelto il meglio. Lo studio dell’ex presidente per esempio è tutto in boiserie, coperto di pannelli in legno intarsiato. I lampadari delle stanze sono in vetro di Murano, si viaggia a decine di migliaia di euro. I mobili sono di antiquariato vero. I tappeti persiani hanno dimensioni e costi proporzionati, non vorremo mica sfigurare. La barchessa è stata rifatta totalmente. Sono stati tolti i pavimenti e i divisori precedenti, pensati per una clinica odontoiatrica dal dottor Romano. Galan e consorte l’hanno attrezzata a camere per un Bed and Breakfast agrituristico Poi c’è il giardino, la corte incassata con i marmi, un tappeto erboso di non meno di 6000 metri quadrati, piante e fiori. La vulgata per una gestione economica del parco, ha messo in giro che sarebbe affidato a due giardinieri pensionati. Mah, pèzo el tacon del sbrego. Finisce che qualcuno s’inventa che vengono pagati in nero. In realtà la villa ha un personale fisso: sono due filippini e una governante. Ovviamente in regola. Ma anche al netto di eventuale vitto e alloggio, questo personale ha un costo. Insomma, non è bastato ristrutturare la villa, bisogna anche mantenerla. Aggiungiamo l’impianto esterno di videosorveglianza, posizionato sull’intero perimetro della villa, da fare invidia ad una banca. È dotato di telecamere a raggi infrarossi, che percepiscono la presenza, ruotano nella direzione richiesta e inquadrano: scatta lo zoom con la messa a fuoco e la registrazione nella centrale interna di comando del sistema. Quanto è costato tutto questo? L’architetto Zanaica ha parlato per le opere edili di un milione e mezzo di euro, cifra che corrisponde al restauro di un’abitazione normale, indicato mediamente dai professionisti in 1000 euro a metro quadrato. Ma per Villa Pasqualigo- Rodella-Galan ci sono le finiture e tutto il resto. Una stima prudenziale non può andare sotto il 2000 euro a metro quadrato. Il che significa raggiungere i tre milioni e mezzo di euro, nei quali non ci stanno i costi delle altre case e proprietà immobiliari: dall’Appennino Emiliano a Rovigno e a Mali Lussini. Ma per le case in Croazia non c’è ancora un architetto Zanaica chiamato a testimoniare.

Renzo Mazzaro

 

l’interrogatorio dell’ex deputato che risponde ma nega tutto

Milanese: «Mai preso denaro»

Il contrattacco: Mazzacurati usò i soldi per comprare casa a Roma

VENEZIA – Ha scelto di rispondere e di controbattere alle accuse. E soprattutto ha sollevato la questione dell’illegittimità dell’ordinanza che lo ha portato in carcere, in quanto non emessa dal giudice naturale. Marco Milanese, ex deputato del Pdl e braccio destro dell’ex ministro Giulio Tremonti, arrestato venerdì scorso nell’inchiesta Mose, con l’accusa di aver intascato da Giovanni Mazzacurati una mazzetta da mezzo milione di euro, è stato sentito dal gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere per l’interrogatorio di garanzia. Milanese ha risposto per circa due ore alle domande del giudice. L’interrogatorio è avvenuto nel carcere della cittadina in provincia di Caserta. Secondo quanto riferito dal suo difensore, l’avvocato Bruno La rosa, Milanese ha risposto alle domande, anche se ritiene l’ordinanza di custodia cautelare in carcere illegittima. Secondo Milanese, tra le altre cose ex ufficiale della Guardia di Finanza, e il suo legale hanno fatto presente che l’ordinanza di custodia è stata emessa da un giudice incompetente. Infatti secondo l’accusa la mazzetta a Milanese, sarebbe stata consegnata da Mazzacurati all’ex parlamentare, a Milano. Di conseguenza la competenza spetta alla Procura e al Tribunale del capoluogo lombardo. Questa “obiezione” può essere facilmente superata nel momento in cui la Procura meneghina chiede e ottiene un’ordinanza per lo stesso reato nei confronti di Milanese. E in vista di questo il sostituto procuratore di Venezia Stefano Ancillotto, titolare con i colleghi Paola Tonini e Stefano Buccini dell’inchiesta, domani si recherà a Milano per consegnare il fascicolo relativo a Milanese. Durante l’interrogatorio di ieri l’imputato ha chiesto di poter ascoltare le registrazioni delle intercettazioni che lo coinvolgono e su cui si basano le esigenze cautelari sostenute dal gip veneziano che lo ha fatto arrestare. Ma ieri, il giudice campano, non ha potuto esaudire la richiesta in quanto non in possesso delle registrazioni. Milanese ha negato di aver ricevuto tangenti sostenendo tra l’altro di non aver potuto interferire su un finanziamento di 400 milioni di euro e di non aver avuto alcun ruolo nelle procedure relative al Mose. Inevitabile, a quel punto, la domanda del giudice su perché Giovanni Mazzacurati, allora, lo avrebbe coinvolto in questo modo pesante nella vicenda Mose. All’inizio Milanese ha spiegato di non sapere e di capire per quale motivo l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, lo ha tirato in ballo, pur non negando di conoscere bene Mazzacurati. Successivamente l’ex parlamentare ha dato una spiegazione, anche se poco dettagliata e fumosa. Ha ricordato che da alcune notizie di stampa emergerebbero intercettazioni in cui Mazzacurati si riferisce all’acquisto di un appartamento in piazza di Spagna a Roma di 250 metri quadri affermando che sapeva «come far uscire fuori i soldi dal consorzio». L’ipotesi prospettata da Milanese è che Mazzacurati avrebbe sostenuto falsamente di aver versato tangenti a Milanese, per mezzo milione di euro, per giustificare i soldi presi dai conti del consorzio per acquistare l’appartamento. Al termine dell’interrogatorio il suo legale ha chiesto la scarce- Marco Milanese, ex deputato di pdl razione di Milanese.

Carlo Mion

 

Sartori si aggrappa al salvagente deposita una memoria e tace

VICENZA L’interrogatorio è durato un amen. Lia Sartori è arrivata a palazzo di giustizia, a Vicenza, subito dopo mezzogiorno. Si è seduta davanti al giudice Stefano Furlani, che doveva sentirla per rogatoria. Ha depositato una memoria di alcune pagine e cinque minuti dopo si è allontanata sul Suv con cui era giunta a borgo Berga. Formalmente, si è avvalsa della facoltà di non rispondere: «Parlerò con i pubblici ministeri lagunari quando sarò una libera cittadina ». Sartori ha infatti chiesto l’immediata scarcerazione, con la revoca dei domiciliari. Due i motivi. «Il primo è che il giudice ha firmato il provvedimento nell’ipotesi della reiterazione del reato. In realtà, Sartori non solo non è più parlamentare europea, ma si è dimessa da ogni incarico pubblico che ricopriva». Il secondo è il decreto legge numero 92, entrato in vigore il 28 giugno scorso, ha cambiato le carte in tavola. Il provvedimento, chiamato anche “Salva Galan” dalle opposizioni al governo, esclude la misura cautelare se il giudice ritiene che all’indagato, quando ci sarà la sentenza, sarà disposta una pena che possa essere sospesa. Secondo i suoi legali, Sartori rientrerebbe a pieno titolo tra i beneficiari del provvedimento. Poi spiegherà.

 

Assicurazioni sanità

La Corte dei Conti apre un’inchiesta

Nel mirino il brokeraggio di Assidoge ad affidamento diretto

Garantiva 8-10 milioni all’anno: l’ipotesi è danno erariale

A destare sospetti le ricche provvigioni dal 10 fino al 14% ora scese tra 0,7 e 1%

La procura contabile si chiede perché si sia ricorso in esclusiva all’agente di Mirano

PADOVA Si alza il sipario su un altro capitolo della gestione della res publica da parte di Giancarlo Galan finché è stato governatore del Veneto. Stavolta è la Corte dei Conti veneziana a illuminare una delle tante zone grigie del quindicinale regno dell’ex Doge padovano. La Procura generale contabile ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di danno erariale. Nel mirino il mondo delle assicurazioni e la Sanità veneta. In particolare l’azione di Assidoge, la società di broker di Mirano (riconducibile a Giuliano Benetti, morto nel 2012 e ora venduta alla Cervit spa e trasferita a Roma) utilizzata da Galan in affidamento diretto per scegliere le compagnie di assicurazioni che successivamente partecipavano alle gare d’appalto «per la gestione stragiudiziale dei sinistri di Rct delle Aziende Usl ed ospedaliere del servizio sanitario regionale ». Consulenze costate in più di un decennio un fiume di denaro “carsico” (tra premi assicurativi e costi), perché tutt’ora impossibile da quantificare per poca trasparenza e collaborazione da parte dell’ente regionale. Tuttavia, il calcolo è semplice. Il monte assicurativo annuale della Sanità Veneta era (all’epoca) di circa 80 milioni di euro. Assidoge operava (quasi in regime di monopolio) con una provvigionedel10- 14% per cento. Tanto per dare un ordine di grandezza Assidoge nel 2006 era broker di 18 su 22 Usl e 1 su 2 aziende ospedaliere (quella di Padova). Facile ipotizzare che la società di Benetti intascasse per il servizio dagli 8 ai 10 milioni di euro all’anno. La Corte dei Conti veneziana ha chiesto alla Guardia di Finanza di fare chiarezza. Soprattutto dopo che il nuovo Governatore Luca Zaia ha bandito (nel marzo scorso) un concorso anche per la scelta del broker, vinto dall’americana Willis (in cordata con Arena) che offre le stesse prestazioni di Assidoge a un costo stupefacente: solo l’1% del monte assicurativo. L’altra concorrente, Marsh (provvigione dell’ 0,7%) ha ricorso al Tar, che si pronuncerà domani. Ma questa è un’altra storia. Tornando ad Assidoge, la domanda della Procura è: perché la Regione ha usato il broker di Mirano quasi in via esclusiva senza mai affidarsi al mercato? Detto che il Consiglio di Stato ha sentenziato più volte (su questioni simili) che l’affidamento diretto da parte di un ente pubblico per incarichi di brokeraggio è lecito (o, per lo meno, non è vietato), è evidente che le percentuali chieste da Assidoge per il servizio appaiano fuori mercato. Una cosa è certa: semmai la Procura contabile dovesse accertare il danno erariale non potrebbe chiedere alla Regione (che poi si dovrebbe rivalere sull’ex governatore) un risarcimento retroattivo per più di 7 anni. Causa prescrizione. Ma chi era Giuliano Benetti? Assidoge nasce nel 1994. Anno anche della discesa in campo in politica di Galan. Capitale sociale 20 milioni di vecchie lire. Benetti inizia come agente per la Ras, lavorando successivamente anche per i Lloyd’s. Poi il grande salto grazie all’amico Galan. Benetti si avvale di alcuni collaboratori. Tra questi Gianni Pesce, padovano, 70 anni, titolare della Pesce and Partners Insurance di Piazzetta Pedrocchi. Pesce, persona discreta e capace, è conosciuto anche come uno degli organizzatori delle feste annuali in Croazia, dove si ritrovava il gotha della sanità veneta. Appuntamenti che servivano per cementare amicizie e pianificare gli affari. Scriveva Mariano Maugeri sul Sole24Ore solo un mese fa. «La cordata celebrava la sua festa annuale in luglio nel parco nazionale di Brioni, in Croazia, isolotti selvaggi e mare cristallino a un tiro di schioppo da Rovigno, il buen retiro di Galan e molti veneti. Con tanto di organizzatori e sponsor, dalla banca Antonveneta alla valigeria Roncato, e la benedizione di monsignor Liberio Andreatta, amministratore delegato dell’opera romana pellegrinaggi ». Benetti e Pesce fanno prosperare Assidoge che oltre alla Sanità veneta mette le mani anche sui Comuni di Padova e Venezia e su società partecipata dalla Regione. Gli affari vanno a gonfie vele. Nulla e nessuno riesce a scalfire il dominio quasi assoluto. L’incarico è annualmente garantito. Così come il guadagno. Lo spartiacque è l’elezione di Luca Zaia a governatore. Altre agenzie di broker si fanno avanti. Tra queste anche la Hill Insurance riconducibile a broker napoletani e con sede a Gibilterra che fa una proposta a Adriano Cestrone (dg dell’Asl di Padova) e Fortunato Rao (dg dell’Usl 16). Il sospetto è dietro l’angolo: la Hill Insurance recede pur non emergendo nulla di significativo. Assidoge tiene stretto il patto. Fino a marzo scorso. Nel frattempo Giuliano Benetti non c’è più. Assidoge è stata venduta. E la compagna di Pesce, Maria grazia Clede, padovana, ha fondato Assibest srl, società di brokeraggio di Padova, si dice con l’obiettivo di sostituirsi ad Assidoge. Intanto si sono accesi i fari della Corte dei Conti. Non propriamente luci della ribalta.

Paolo Baron

 

Le palancole in ferro rilasciano inquinanti

Sono state infisse dal Magistrato alle Acque con il Consorzio. Lo rivela uno studio ambientale

VENEZIA In laguna sono aumentate le percentuali di metalli pesanti presenti nell’acqua. In particolare nelle aree vicine alla Zona industriale di Marghera. Lo rivela uno studio dell’Ufficio antinquinamento del Magistrato alle Acque. Concluso qualche anno fa con una serie di rilievi e studi, ma mai reso noto. Nel frattempo l’Ufficio è stato depotenziato, e il suo dirigente, Giorgio Ferrari, emigrato a Milano in un’azienda privata. Cosa diceva lo studio? Che se la laguna ha migliorato negli ultimi anni la sua qualità ambientale, anche per i depuratori e la diminuzione delle industrie chimiche, aumenta invece la concentrazione dei metalli pesanti a Marghera. Quale la causa? «Le palancole in ferro», scrivono gli esperti. Per i «marginamenti » dell’area inquinata delle fabbriche chimiche il Magistrato alle Acque con il Consorzio Venezia Nuova ne ha infisse decine di migliaia sui fondali della laguna. Dovevano essere provvisorie, in attesa degli interventi di disinquinamento. Ma si sono trasformate in protezione definitiva. Nel frattempo il ferro è arrugginito, i materiali sono stati aggrediti dalla salsedine e rilasciano inquinanti che vanno a depositarsi sul fondo. Decine di chilometri di «protezione» che in realtà andrebbero protetti dal degrado. Un fenomeno che invece passa abbastanza sotto silenzio. Ma che ha conseguenze disastrose per la qualità delle acque di gronda. Se è vero che il rilascio delle sostanze chimiche pericolose presenti nei terreni è stato bloccato, è anche vero che non si tratta di un sistema a costo zero. Eppure l’intervento era stato definitivo prioritario, e affidato dal Magistrato alle Acque e dal ministero per l’Ambiente con il suo direttore Mascazzini direttamente al Consorzio a partire dalla fine degli anni Novanta. Adesso le palancole invece di fermare l’inquinamento lo producono.

Alberto Vitucci

 

«Renzi sciolga il Consorzio»

Il premier oggi aVenezia. Manifestazione all’Arsenale

«Stop al Mose e a nuovi canali in laguna»

Una lettera aperta per fermare le grandi opere in laguna. Italia Nostra: adesso bisogna revocare la concessione unica

«Renzi fermi il Mose e le grandi opere che la città non vuole. Sospenda i finanziamenti del Cipe al Consorzio Venezia Nuova e istituisca una commissione di esperti indipendenti che dia risposte alle tante domande irrisolte sulle criticità del sistema Mose». Il premier arriva in laguna e comitati e associazioni sono pronti ad accoglierlo per rilanciare la loro richiesta, inascoltata da anni. Una «lettera aperta» al Presidente del Consiglio sarà consegnata dai comitati «Ambiente Venezia e No-Mose », che manifesteranno anche davanti all’ingresso dell’Arsenale dalle 10,30. «Chiediamo di votare subito, per affrontare con un nuovo governo della città tutti i problemi sul tappeto», dice il portavoce Armando Danella, «se Renzi vuole può farlo con un decreto. Nel frattempo vanno sospesi i finanziamenti e i lavori della grande opera e nel frattempo non vanno prese decisioni». Sulla stessa linea anche Italia Nostra, che ieri ha inviato a Renzi una lettera aperta firmata dalla presidente veneziana Lidia Fersuoch. «Quanto è successo a Venezia non ci meraviglia», scrive la presidente a Renzi, «perché da anni ci battiamo contro la concessione unica che ha permesso allo stesso soggetto di progettare, studiare e realizzare le opere. Nel frattempo stando all’inchiesta della Procura il Consorzio Venezia Nuova ha comprato il silenzio di molti, e in particolare di chi doveva controllare come il Magistrato alle Acque, tentando di far tacere gli irriducibili. Adesso occorre finalmente ascoltare i tecnici indipendenti che hanno sempre criticato l’opera. E dar vita a un nuovo Magistrato alle Acque, non più legato alle Infrastrutture ». Stop al Mose, dunque. Perché dopo le rivelazioni dell’inchiesta tutto va rivisto sottouna nuova luce. «Chiediamo rispetto per Venezia», continua la lettera di Italia Nostra, «anche per quanto riguarda la questione grandi navi». «Caro presidente », scrive ancora la Fersuoch, «le chiediamo anche di non imporre alla nostra città una nuova grande opera contro il parere della comunità scientifica e dei cittadini veneziani, come lo scavo di un canale in mezzo alla laguna per farci passare le grandi navi. Non sarebbe compatibile con la tutela della laguna prevista dalla legge». No al Contorta, dunque, grande opera voluta dal Porto per far passare le navi dirette in Marittima senza attraversare San Marco e il canale della Giudecca. Ipotesi che però non va bene neanche ai comitati Ambiente Venezia e “No Grandi Navi”. «Chiediamo di prendere in considerazione», dice Danella, «progetti più economici e compatibili, come il nuovo terminal a San Nicolò, fuori dalla laguna. Così si tutela la laguna e anche l’attività delle crociere». Ipotesi che il Comitato Cruise Venice però non condivide. E il suo presidente Davide Calderan consegnerà a sua volta una lettera al premier Renzi. Chiedendo la «tutela del lavoro e scelte coraggiose che possano difendere il comparto e i posti di lavoro». «Troppe incertezze e troppo tempo perso», scrive, «hanno causato alle nostre attività soltanto danni». Non ultimala scelta della Costa crociere di dirottare alcune grandi navi su Trieste. «La responsabilità», replica Silvio Testa, ex portavoce del Comitato, «è di chi invece di trovare alternative praticabili ha insistito in questi anni con ipotesi distruttive come lo scavo di nuovi canali. Noi non siamo contro le crociere, ma contro le navi incompatibili».

Alberto Vitucci

 

Premier all’Arsenale dalle 10,30. Fuori manifestazione anti-Consorzio

Sarà una toccata e fuga quella di oggi a Venezia del presidente del Consiglio Matteo Renzi in occasione della Digital Venice Week, la manifestazione in programma in laguna fino al 12 luglio che è la prima del semestre italiano di Presidenza dell’Unione Europea. Renzi prenderà parte dalle 10.30 alle 12.30 all’Arsenale a una riunione con il vicepresidente della Commissione europea Neelie Kroes a cui prenderanno parte altri rappresentanti di governi europei, in cui verrà discussa la “Carta di Venezia”, un memorandum sui punti chiave per le strategie sulle politiche digitali in Europa. Ma è probabile che nell’occasione Renzi anticipi anche, a margine, alcuni dei programmi per il semestre italiano di presidenza europea. Ma già nella tarda mattinata o al più tardi nel primo pomeriggio Renzi, dovrebbe lasciare Venezia per tornare subito a Roma. Presenti per la Digital Venice Weekanche i ministri Beatrice Lorenzin, Federica Guida e Marianna Madia. I comitati, riuniti in campo all’Arsenale, manifesteranno invece chiedendo al premier di sciogliere il Consorzio Venezia Nuova e bloccare il Mose.

 

Mostra fotografica di Gianni Berengo Gardin

Il Fai “espone” il problema grandi navi

Anche il Canale della Giudecca proposto tra i Luoghi del Cuore italiani da tutelare

Il Fai – il Fondo per l’Ambiente Italiano – prende decisamente a cuore il problema del passaggio delle Grandi Navi per il Bacino di San Marco e il Canale della Giudecca. Venerdì alle 12 infatti a Villa Necchi Campiglio, a Milano, verrà inaugurata la mostra fotografica «Mostri a Venezia», dedicata proprio alle immagini delle grandi navi da crociera che passano di fronte a Piazza San Marco scattate dal grande fotografo veneziano Gianni Berengo Gardin. Le ventisette fotografie di Berengo Gardin che saranno esposte in mostra ritraggono appunto il quotidiano passaggio delle mastodontiche navi da crociera nel Canale della Giudecca. Un segno forte che il Fai intende lanciare in un momento cruciale per le decisioni del Governo sul problema del passaggio delle Grandi Navi all’interno di Venezia e che coincide anche con l’avvio della nuova campagna del Fondo per la scelta dei Luoghi del Cuore, quelli che cioè gli Italiani amano maggiormente e che sono invitati a votare, proprio per garantirne la tutela. E proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del passaggio delle Grandi Navi da San Marco, il Fai avrebbe già inserito tra i nuovi Luoghi del Cuore che potranno essere indicati dai cittadini anche il canale della Giudecca, per sottolineare così la necessità di difendere – attraverso la principale arteria acquea a fianco del Bacino di San Marco – l’integrità dell’intera Venezia e la sua immagine, messa a repentaglio per molti proprio dal passaggio delle grandi navi da crociera. Un tema caro anche a Ilaria Borletti Buitoni, già presidente del Fai e ora sottosegretario ai Beni Culturali.

 

L’OPINIONE – Silvio Testa- Autore dei libri “E le chiamano navi” e “Invertire la rotta”

Grandi navi, soluzioni devastanti a Venezia

Se Costa Crociere va a Trieste la colpa non è di chi a Venezia si è opposto a un crocierismo incompatibile proponendo da subito soluzioni alternative ambientalmente sostenibili, rapide da realizzare, che garantirebbero lavoro, indotto, il futuro della Marittima, ma di chi come i ministri Clini (arrestato), Passera, Lupi, la Regione col presidente Zaia e l’assessore Chisso (arrestato), il sindaco Orsoni (arrestato), i presidenti dell’Autorità Portuale, Costa, e della Venezia Terminal Passeggeri, Trevisanato, si sono ostinati per tre anni a sostenere l’indifendibile avanzando “soluzioni” devastanti per la laguna e per la città. Senza dimenticare i sindacati. Paolo Costa è uno dei padrini del Mose,mala sua storica predilezione per il progetto non dovrebbe impedirgli di vedere quanto l’odierno frusciare di tangenti e tintinnare di manette sia frutto anche di una procedura totalmente anomala e costellata di forzature politiche come quella di cui fu protagonista egli stesso il 4 aprile del 2003 quando, in Comitatone, guidò la trasformazione del no del consiglio comunale al Mose in un sì subordinato a undici condizioni “impossibili” che avrebbero imposto una radicale revisione del progetto. Infatti gli undici punti caddero nel dimenticatoio già a partire dal giorno dopo, senza che nessuno in città ritenesse di trarne qualche conseguenza. Vogliamo imparare qualcosa dalla lezione? Continuare con le forzature ambientalmente insostenibili e maturate nel clima e nelle logiche che oggi tutti dicono di voler cancellare? Vogliamo scavare il Contorta Sant’Angelo o, peggio, il folle canale dietro la Giudecca, dato che altre soluzioni, come dice Lupi in un’intervista,sono impraticabili perché così sostiene l’Autorità portuale, cioè Costa stesso? Non sarà il caso, invece, di avviare finalmente un percorso aperto, trasparente, partecipato che eviti le forzature e rimetta le scelte in una carreggiata corretta? Se le cose stanno così, è possibile tenere un Comitatone al quale non partecipi il sindaco della città ma un commissario che dovrebbe limitarsi alle scelte di ordinaria amministrazione? È possibile decidere il futuro della città e della laguna fondandosi su quei progetti che incidentalmente e verrebbe da dire quasi per caso sono sul tavolo senza fare un bando che inviti le migliori intelligenze a risolvere il problema delle grandi navi in laguna prendendo in considerazione anche l’estromissione di quelle incompatibili e incardinando le soluzioni nelle procedure ordinarie? È possibile disegnare il futuro della portualità veneziana senza redigere un nuovo Piano regolatore portuale da sottoporre a Valutazione ambientale strategica e a Valutazione di impatto ambientale? Renzi dovrebbe andarci con i piedi di piombo, se non altro perché, fin che Costa non presenta alla città le carte anziché limitarsi alle dichiarazioni, il progetto di scavo del Contorta vede coinvolti nella sua progettazione gli stessi soggetti al centro dello scandalo del Mose: Magistrato alle Acque, Consorzio Venezia Nuova(e studi professionali vicini), Mantovani. La delibera regionale che chiede di incardinare il progetto nella legge obiettivo è dell’assessore Chisso, ancora agli arresti. Tutto ciò non vorrà dire nulla, ma sul fatto che anche quel progetto sia figlio appunto di quel clima e di quelle logiche che ora vanno respinte non ci piove. Non si tratta di togliere dal cesto qualche mela marcia e poi continuare tutto come prima: bisogna cambiare cesto. Voltare pagina. Ripristinare il buon senso, finora asservito al potere delle lobby.

 

l’intervento

di Gianfranco Bettin – Assessore alla Cittadinanza digitale 2010/2014 Comune di Venezia

Renzi e il summit europeo Venezia capitale digitale

‘‘Il ruolo della nostra città è stato conquistato negli anni dall’azienda “Venis” con forti investimenti

Lo scandalo Mose non può cancellare certi risultati

La banda del Mose e la banda larga a fibre ottiche, una cricca di corruttori e corrotti e l’infrastruttura più innovativa sviluppata dalla città in questi anni, si fronteggiano mentre si apre il “Digital Venice 2014”, che vedrà oggi all’Arsenale la presenza di Matteo Renzi. Non è certo per caso che l’importante summit europeo si tiene a Venezia. La città l’ha ottenuto per il suo ruolo d’eccellenza nel contesto digitale italiano ed europeo. Un ruolo conquistato sul campo, insieme alla propria azienda “Venis”, con fortissimi investimenti (circa 14 milioni di euro in pochi anni) che hanno seminato 126 kmdi cavo a 144 fibre ottiche, altri 60 km di cavo a 12/14 fibre per rilegamenti di sedi pubbliche, centinaia di hotspot sia outdoor (oltre 200) che indoor (oltre 70, in biblioteche, sedi civiche, musei, uffici giudiziari ecc.), che hanno consentito la formazione di una eccezionale “comunità civica digitale” (circa 40 mila cittadini residenti e oltre 11 mila city users, coloro che vengono in città per studio o lavoro), centri di alfabetizzazione digitale presenti in tutta la città perché superare il “digital divide” significa sia investire nell’infrastruttura sia promuovere, anche presso i non “nativi digitali” l’uso degli strumenti informatici e della Rete. A questo investimento strutturale, quasi unico nel suo genere in Italia da parte di una amministrazione pubblica, si affianca la più solenne dichiarazione d’impegno, nello stesso Statuto del Comune, a considerare “Internet un’infrastruttura essenziale per il diritto di cittadinanza” e quindi a garantirne l’accesso “in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che lo impediscono, ad adottare “procedure atte a favorire la partecipazione dei cittadini all’azione politica e amministrativa tramite internet” favorendo “la crescita della cultura digitale con particolare riguardo alle categorie a rischio di esclusione”. In coerenza, il Comune, in collaborazione con attivisti digitali e gruppi di partecipazione molto attivi in città (come il gruppo #opendatavenezia e la Consulta delle cittadine) ha approvato un Regolamento sulla pubblicazione, l’accessibilità telematica e il riutilizzo dei dati pubblici (open data) fra i più avanzati d’Italia, che dispone la pubblicazione dei dati presenti nelle banche dati comunali e ne consente il libero utilizzo, oltre a essere socio fondatore di “Free Italia WiFi” la rete nazionale di amministrazioni che – insieme a una rivista come “Wired” e a innumerevoli realtà di base impegnate per la cittadinanza digitale – chiedono una svolta nell’insufficiente politica dei governi nazionali in questo campo, in cui l’Italia è ancora molto indietro in Europa e nel mondo, come ha ricordato qui Claudio Giua. Per questi motivi e con questi titoli Venezia ha chiesto e ottenuto di ospitare l’evento europeo. Matteo Renzi è bene che lo sappia, attento com’è alle potenzialità della Rete, strumento vitale di formazione, comunicazione, trasparenza e democrazia nonché infrastruttura decisiva di sviluppo socio-economico e culturale. Lo scandalo – finalmente scoppiato – e l’indagine della Procura – finalmente giunta a scoperchiare il marcio, in città come, anzi soprattutto, in Regione e nei Ministeri romani – non possono offuscare tutto questo. Se Renzi vuol farci un augurio, nel difficilissimo momento attuale, ci dica non tanto “state sereni” (ironici scongiuri a parte) quanto “state serenissimi”, cioè siate all’altezza delle vostra storia, tra attenzione agli elementi basici dell’ecosistema lagunare (il contrario del Mose) e investimento lungimirante sulle nuove tecnologie. Lo stesso che ci aspettiamo dal governo nazionale.

 

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