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Oltre all’ex presidente del Magistrato alle Acque, scarcerati anche Manganaro, Dal Borgo e Cicero

Marchese del Pd figura tra la decina di indagati che patteggeranno la pena nell’udienza del 16 ottobre.

VENEZIA È tornata ieri in libertà per scadenza dei termini cautelari Maria Giovanna Piva, ex presidente del Magistrato alle Acque di Venezia, accusata di corruzione e agli arresti domiciliari dopo essere finita in carcere il 4 giugno scorso nel corso della maxi inchiesta della Guardia di finanza sulla Tangentopoli legata al Mose. La Piva è accusata di aver ricevuto pagamenti illeciti per centinaia di migliaia di euro: l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova parlò ai pm di un vero e proprio “stipendio” di 400 mila euro. E sempre ieri è finita la custodia preventiva anche per altri tre indagati che si trovavano da tempo ai domiciliari. Si tratta di Vincenzo Manganaro, Luigi Dal Borgo, e Alessandro Cicero, accusati di millantato credito, tornati a loro volta in libertà. Restano invece ancora in carcere sia l’ex governatore Giancarlo Galan, recluso ad Opera e per il quale i termini di custodia scadono a fine ottobre, sia il suo ex assessore Renato Chisso, per il quale la Cassazione ha fissato al 25 settembre la trattazione del ricorso per la remissione in libertà. Infine il capitolo dei patteggiamenti, già accordati per una decina di indagati – tra questi l’ex consigliere regionale Pd Giampietro Marchese – e per i quali l’udienza è stata fissata al 16 ottobre prossimo. Con la fissazione del processo con rito immediato, che si aprirà il prossimo 4 novembre davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano, sono stati invece automaticamente prorogati i termini di custodia cautelare, che altrimenti sarebbero scaduti ieri, per l’ex generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante e per l’ex Ad di Palladio Finanziaria Marco Meneguzzo, che è ai domicilari). Nei loro confronti e anche nei confronti di Marco Milanese, ex parlamentare del Pdl ed ex braccio destro di Giulio Tremonti in carcere dal 4 luglio (è stato arrestato un mese dopo gli altri), i pm milanesi Luigi Orsi e Roberto Pellicano, titolari del filone di inchiesta trasmesso lo scorso giugno per competenza nel capoluogo lombardo dai magistrati veneti, pochi giorni fa hanno chiesto il giudizio immeditato. Richiesta che è stata accolta dal gip Natalia Imarisio. Al centro di questa tranche di indagine ci sono due episodi di corruzione. In uno, secondo l’accusa, Milanese, sarebbe stato il destinatario di una mazzetta da 500 mila euro che il Consorzio Venezia Nuova gli avrebbe fatto avere tramite Meneguzzo. Il secondo episodio contestato ha al centro un’altra presunta mazzetta da 500 mila euro che sarebbe stata versata sempre da Mazzacurati e sempre tramite Meneguzzo, per corrompere Spaziante in merito a verifiche fiscali.

 

Gazzettino – Mose, processi entro 50 giorni

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3

set

2014

L’INCHIESTA – Mose, il 16 ottobre prima udienza. In aula 10 indagati

L’INCHIESTA – Udienza preliminare fissata il 16 ottobre, dieci imputati intenzionati a patteggiare

Oggi scadono i termini di custodia: libera l’ex presidente del Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva

C’è chi sarà giudicato col rito immediato, e sarà questione di settimane; chi è pronto a patteggiare, e la prima udienza, per questo, è già stata fissata per il 16 ottobre; e chi affronterà il processo normale, ma anche in questo caso sarà questione di qualche mese, non di più. Si tirano le fila, in questa ripresa dell’attiva giudiziaria dopo la pausa estiva, nell’inchiesta sul Mose – Consorzio Venezia Nuova. La Procura, con i pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini, punta a stringere i tempi. E la prima novità è l’udienza preliminare che il presidente Giuliana Galasso ha fissato in questi giorni per chi ha chiesto di patteggiare la pena.
Il 16 ottobre davanti al giudice dell’indagine preliminare compariranno ben dieci indagati, tutti con un accordo già trovato con la Procura. Pene attorno a uno, due anni, in molti casi con sostanziose somme di denaro da versare. Nella lista si sono la coordinatrice del Mose, Maria Teresa Brotto, il presidente del Coveco, Franco Morbiolo, l’ideatore del meccanismo delle false fatturazioni della Mantovani […….], nonché quello del fondo “Neri”, Luciano Neri. E ancora l’ex consigliere regionale Pd, Giampietro Marchese, quel Gino Chiarini che finse di essere un procuratore, Manuele Marazzi, referente di Baita, gli imprenditori Mario Boscolo Bacheto, Dante e Gianfranco Boscolo Contadin. Fin qui i convocati del 16 ottobre. Ma altri potrebbero seguire la stessa strada, a cominciare dall’ex presidente del Magistrato alle acque, Patrizio Cuccioletta, che aveva chiesto di patteggiare subito dopo l’interrogatorio-confessione.
Oggi intanto scadono i primi termini di custodia per una serie di imputati, essendo passati tre mesi dal blitz del 4 giugno scorso. É il caso dell’ex presidente del Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva, accusata di corruzione, a cui saranno revocati gli arresti domiciliari, così come dei tre romani accusati di millantato credito, Vincenzo Manganaro, Alessandro Cicero e Luigi Dal Borgo. Per la corruzione, la norma in materia di carcerazione preventiva è stata modificata nell’ottobre del 2012, quando la soglia è stata alzata da 3 a 6 mesi. Quindi se è pacifico che la Piva, a cui vengono contestati fatti antecedenti al 2012, torni libera, più dubbio è il caso di altri imputati. Ad esempio, la difesa di Enzo Casarin, l’ex segretario di Renato Chisso, sostiene che le accuse si fermano a prima dell’entrata in vigore della nuova legge. E per questo ha presentato richiesta di scarcerazione. Per Chisso, che invece ha contestazioni anche recenti, i difensori attendono gli esiti di alcuni esami medici con l’obiettivo di chiedere una scarcerazione per motivi di salute.
Tra chi resta in carcere, perché ci è entrato più tardi, c’è Giancarlo Galan, che conteggiando i tre mesi dovrebbe uscire il 21 ottobre. A questo punto la Procura resta intenzionata a percorrere la strada del rito abbreviato per i detenuti, da fissare prima del 21 ottobre, cioè fra 50 giorni. Un primo processo senza il filtro dell’udienza preliminare, con nomi come Galan e Chisso. Contemporaneamente i pubblici ministeri si preparano a chiudere le indagini anche per gli altri che confluiranno in un secondo processo, dopo il filtro dell’udienza preliminare. Tra questi, dopo il patteggiamento rifiutato dal gip, anche l’ex sindaco Giorgio Orsoni.

Roberta Brunetti

 

PIVA, GIà a CAPO DEL MAGISTRATO alle acque

VENEZIA – L’inchiesta Mose viaggia sotto quota periscopica. Accusa e difesa sono alle prese con la montagna di carte che documentano la grande abbuffata: i pm per aumentare i riscontri, gli avvocati per cercarne i punti deboli e demolirli. Domani scadono i termini della carcerazione preventiva (tre mesi dal 4 giugno) per il «gruppo degli spioni», i romani del settimanale «Il Punto» Alessandro Cicero e Vincenzo Manganaro e l’ingegner bellunese Luigi Dal Borgo, collegato a loro per una parte delle imputazioni. E per l’ingegnere Maria Giovanna Piva, che fu a capo del Magistrato alle Acque dal 26 luglio 2001 al 30 settembre 2008. Erano gli anni di fuoco del Consorzio Venezia Nuova, quando il sistema delle retrocessioni ideato dal “grande burattinaio” Giovanni Mazzacurati marciava a pieno regime. Con le fatture gonfiate dalle ditte il Consorzio pagava mezzo mondo, a cominciare dai controllori. In testa il Magistrato alle Acque, cui spettava il controllo diretto sul Mose. «Alla Piva avrò fatto una dazione dell’ordine di 200 mila euro ogni sei mesi, questa era più o meno la cifra», ha riferito Mazzacurati negli interrogatori dell’estate 2013, dopo l’arresto. A queste «dazioni» partecipavano le imprese, solo la Mantovani contribuiva con altri 200 mila euro l’anno. Per la Piva, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip Alberto Scaramuzza, saltava fuori un secondo stipendio di 400 mila euro l’anno. Una cifra analoga andava a Patrizio Cuccioletta, subentrato alla Piva, che ha ammesso, chiedendo il patteggiamento. La Piva invece ha negato tutto il 2 luglio scorso, davanti al Tribunale del Riesame. Il quale non le ha creduto. In ogni caso il secondo stipendio non bastava. Al Magistrato alle Acque, ciliegina sulla torta, era usuale attribuire incarichi di collaudo di opere pubbliche. Extra stipendio primo ed extra secondo, come gratifica. «Non li abbiamo mai conteggiati come forma di remunerazione, era un modo per fargli un favore», spiega Mazzacurati nell’interrogatorio del 9 ottobre 2013, facendo i nomi dei beneficiari: la Piva, Cuccioletta e Ciriaco D’Alessio, arrivato a Venezia nel novembre 2011. Noterella biografica: D’Alessio era già stato arrestato per concussione nella Tangentopoli del 1993. Incassava bustarelle per sé e le smistava all’allora ministro Gianni Prandini. Lui si salvò con la prescrizione, non altrettanto Prandini. «Quando facevate avere questi collaudi, a chi chiedevate il favore?», domandano i pm veneziani a Mazzacurati. «Se erano di competenza regionale si faceva con Galan», risponde Mazzacurati «altrimenti bisognava risalire al ministero». «Lo chiedevate direttamente a Galan?». «Eh sì». Si arriva così al collaudo del nuovo ospedale di Mestre, che è di competenza regionale. La gratifica “tocca” a Maria Giovanna Piva. La cifra in ballo è dell’ordine di 350 mila euro. E cosa fa la Piva? Tira per le lunghe così da andare in pensione prima della conclusione del collaudo, evitando una norma che l’avrebbe costretta a lasciare all’amministrazione metà dell’onorario. Lo rivela Piergiorgio Baita nell’interrogatorio del 30 ottobre 2013 al tenente colonnello Roberto Ribaudo e al maresciallo Andrea Paternoster della GdF di Mestre, delegati dal pm Stefano Ancilotto. «Sono a diretta conoscenza dei fatti», dice Baita «perché all’epoca ero vicepresidente della società concessionaria, la Veneta Sanitaria Finanza Progetto spa». In questa società la Mantovani continua ad avere il 20 per cento, gli altri soci sono Astaldi, Aerimpianti, Gemmo, Cofathec, Aps, Mattioli e Studio Altieri. Continua Baita: «L’individuazione dei membri della commissione di collaudo spettava al direttore dell’Usl 12 Veneziana, dottor Antonio Padoan. Ricordo che il collaudo venne ritardato in quanto l’ingegner Piva non intendeva chiudere le procedure sino al momento del suo pensionamento, per evitare di dover retrocedere la metà del compenso. Ciò in quanto all’epoca era entrata in vigore una norma in base alla quale i dipendenti pubblici che avessero ricevuto l’incarico di effettuare collaudi avrebbero dovuto retrocedere il 50% del compenso all’amministrazione di appartenenza. L’ingegnere Piva chiese di posticipare la liquidazione del compenso sino al suo pensionamento, per non dover retrocedere nulla».

Renzo Mazzaro

 

Le nuove norme del governo si applicano anche al processo per il Mose. Procura veneziana ottimista

VENEZIA. Niente interviste, i pubblici ministeri che coordinano le indagini sul Mose, Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini, non rilasciano dichiarazione neppure sulle linee guida rese note dal governo sulla riforma della Giustizia, in particolare sulla prescrizione, che sono le norme che di più a questo punto interessano il loro procedimento. Ma lasciano trasparire un certo ottimismo, per il procedimento a Giancarlo Galan, Renato Chisso e agli altri che sceglieranno di farsi processare in aula senza utilizzare patteggiamento o abbreviato, significa conquistare due anni in più, nel caso di condanna, per il processo d’appello. È proprio in Corte d’appello, non solo nel Veneto, che i processi finiscono infatti in prescrizione e le linee guida governative prendono dentro anche il procedimento per il Mose, visto che le nuove norme scatteranno per i processi per i quali non è stata emessa ancora la sentenza di primo grado.

«Certo», spiega Lorenzo Miazzi, giudice in Corte d’appello e componente dell’Associazione nazionale magistrati del Veneto, «se parliamo di un singolo processo, magari importante, si guadagnano due anni in appello, però è una norma che rinvia la prescrizione non che la evita». Miazzi è molto critico, sostiene che per cambiare davvero le cose sarebbe necessario intervenire sull regole d’accesso all’appello, quello di secondo grado e in Corte di Cassazione, per limitare i ricorsi che ora sono una vera e propria valanga rispetto al numero dei magistrati. E per spiegare come funziona fa un esempio: per versare acqua in una bottiglia si usa un imbuto: l’acqua sono i processi che arrivano e l’imbuto la Corte d’appello: se si versa più acqua di quello che può contenere l’imbuo e lasciar passare il suo beccuccio, l’acqua esce (i processi prescritti). Se si alzano le pareti dell’imputo non cambia granchè perché il beccuccio fa passare la stessa quantità d’acqua. Per evitare la prescrizione sarebbe necessario limitare l’arrivo di migliaia di fascicoli in Corte d’appello, insomma fermare l’acqua che si versa. «Ma il governo su questo non ha detto una parola» conclude Miazzi, «e così per alcuni processi, quelli importanti, la prescrizione scatterà due anni dopo, ma in generale non si tratta di una norma che porterà dei vantaggi».

Giorgio Cecchetti

 

LO SPECIALE

Galan, dalla villa al carcere. Il tramonto dell’ultimo doge

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

Paolo Venuti, commercialista e prestanome

LA DIFESA DELL’ASSESSORE «Il mio tenore di vita è davanti agli occhi di tutti»

L’ex governatore del Veneto indagato per corruzione con l’assessore Chisso

Per l’accusa erano a libro paga del Consorzio Venezia Nuova. Ecco le cifre

«Non ho il maggiordomo, non possiedo nemmeno una casa se non quella che ho ereditato da mio padre e nella quale sono sempre vissuto, faccio 15 giorni di ferie all’anno con gli amici, non possiedo barche né macchine di lusso. Il mio tenore di vita è sotto gli occhi di tutti e non è il tenore di vita di un miliardario». Renato Chisso respinge ogni accusa fin dal primo interrogatorio, sostenuto in carcere a Pisa il 6 giugno 2014, due giorni dopo l’arresto. Assistito dall’avvocato Antonio Forza, risponde punto su punto alle contestazioni della Procura: «Mai portato soldi a Galan; mai ricevuto quattrini da Baita. Entrambi raccontano il falso. E sono fantasie anche quelle di Claudia Minutillo che racconta di aver fatto da prestanome al sottoscritto in varie società».

La Procura lo ritiene l’uomo chiave dell’inchiesta a carico di Galan. Il commercialista padovano Paolo Venuti è indicato come il prestanome dell’ex Governatore, l’uomo che si occupava di gestire i suoi affari e i suoi investimenti. È in carcere dal 4 giugno e il Riesame ha confermato per lui l’ordinanza di custodia cautelare evidenziando come il commercialista (e la moglie) abbiano ricevuto precise disposizioni dall’ex Governatore del Veneto «sulla destinazione da dare alle liquidità occultate all’estero». In un colloquio intercettato dai finanzieri è la moglie di Venuti ad introdurre l’argomento dei soldi di Galan: «Ma non sono in Svizzera, sono in Croazia?», chiede al marito. «Non hai ancora capito… – le risponde il commercialista – quelli… lì c’è il problema mio, suo, promiscuità… per cui alla fine quelli in Svizzera li tengo io e quelli in Croazia li tiene lui…»

 

Galan, il tramonto dell’ultimo Doge. Dalla villa alla cella.

Martedì 22 luglio 2014, ore 22.20: un’ambulanza esce dal cancello di villa Rodella, a Cinto Euganeo, residenza di Giancarlo Galan, scortata da Guardia di Finanza e Polizia penitenziaria. Destinazione: carcere di Opera, a Milano. Per l’ex presidente della Regione Veneto, a lungo l’uomo più potente del Nordest, è l’inizio del periodo di custodia cautelare impostogli dal gip Alberto Scaramuzza.
È una giornata convulsa e drammatica per il deputato di Forza Italia, presidente della Commissione Cultura di Montecitorio. E non soltanto per lui. La Camera dà il via libera al suo arresto nel pomeriggio, alle 14.28, con 395 voti a favore e 138 contrari. Poche ore prima, a sorpresa, i sanitari dell’ospedale di Este, avevano deciso di rimandarlo a casa, dopo un ricovero durato 10 giorni. La lettera di dimissioni gli viene consegnata attorno alle 9.40; Galan lascia l’ospedale attorno alle 15.30, a bordo di un’ambulanza. Lo trasportano su una sedia a rotelle: indossa calzoncini corti e una polo, la gamba sinistra ingessata fino al ginocchio: questa fotografia diventerà il simbolo del “tramonto del Doge”.
L’arrivo in carcere a Milano costituisce l’epilogo di 48 giorni nel corso dei quali l’ex Governatore del Veneto le ha provate tutte per evitare la detenzione. Una difesa inizialmente giocata assieme ai suoi avvocati, Antonio Franchini e Niccolò Ghedini, sul fronte tecnico-giudiziario: una conferenza stampa e alcuni memoriali (alla Procura e al Parlamento) per respingere con decisione ogni accusa. Una “battaglia” spostatasi poi sul fronte sanitario, nel tentativo di dimostrare l’incompatibilità tra le condizioni di salute e il carcere. Il cambiamento di strategia coincide con un piccolo incidente di cui Galan è vittima sabato 7 luglio nel giardino della sua sontuosa residenza: mentre sta potando le rose riporta un trauma distorsivo della caviglia sinistra; la successiva radiografia evidenzia “una frattura pressoché composta del malleolo peroneale”. Il dottor Sergio Candiotto, direttore dell’ospedale Sant’Antonio di Padova gli consiglia “valva gessata” e riposo per 40 giorni. Da quel momento è un proliferare di certificati medici e di diagnosi che la difesa utilizza per dimostrare che Galan – già sofferente di diabete e ipertensione arteriosa – risulta immobilizzato, intrasportabile, impossibilitato a presentarsi alla Camera per difendersi. I suoi legali provano anche la carta dell’istanza al gip finalizzata ad ottenere la modifica dell’ordinanza di custodia cautelare, con la concessione dei domiciliari. Richiesta rigettata. E così si arriva, dopo due rinvii della discussione del caso, all’inattesa dimissione dall’ospedale di Este, al voto in Parlamento e al successivo arresto.
STIPENDIATI DAL CONSORZIO – Quelle formulate nei confronti di Galan – e del compagno di partito, Renato Chisso, per lunghi anni assessore regionale alle Infrastrutture – sono le imputazioni più pesanti nell’ambito dell’inchiesta sul “sistema Mose”. Entrambi sono accusati di essere stati al soldo del Consorzio Venezia Nuova; due corrotti che, in cambio di uno “stipendio” annuo, si sarebbero messi a costante disposizione dell’allora presidente Giovanni Mazzacurati per favorire l’attività di realizzazione del Mose, accelerare l’iter delle pratiche, sbloccare i fondi.
A Galan, in particolare, è contestato di aver ricevuto uno “stipendio” annuale di circa un milione di euro. E ancora: la somma di 900mila euro tra 2007 e 2008 per il rilascio del parere favorevole e vincolante sul progetto definitivo del “sistema Mose”, avvenuto nell’adunanza della Commissione di Salvaguardia del 20 gennaio del 2004; ulteriori 900mila euro per il rilascio del parere favorevole della Commissione Via della Regione Veneto sui progetti delle scogliere esterne alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia, avvenuto nell’adunanza del 4 novembre 2002 e del 28 gennaio 2005.
Secondo la Procura sarebbe stato l’assessore Chisso a consegnare a Galan il denaro, a sua volta ricevuto da Mazzacurati (a volte tramite Sutto) nonché da Baita attraverso Claudia Minutillo (ex segretaria di Galan e poi amministratice di Adria Infrastrutture, società del gruppo Mantovani) o Nicolò Buson (responsabile amministrativo della Mantovani).
L’assessore regionale è accusato di essere stato stipendiato con una somma oscillante tra 200mila e 250mila euro all’anno, dalla fine degli anni Novanta ai primi mesi del 2013. Soldi che gli sarebbero stati consegnati da Sutto per conto di Mazzacurati.
I PROJECT – Galan e Chisso sono accusati di corruzione anche in relazione all’iter procedimentale dei project financing presentati dal gruppo Mantovani, che da loro sarebbe stato agevolato in cambio di una lunga serie di favori, pagamenti di somme e affari di vario genere.
In particolare, a Galan viene contestato di aver ottenuto in “regalo da Baita” e di aver poi fatto intestare alla Pvp srl il 7 per cento delle quote di Adria Infrastrutture al fine di partecipare agli utili derivanti dai project, nonché il 70 per cento della società Nordest media srl per partecipare agli utili di raccolta pubblicitaria dei giornali del gruppo Epolis (le quote di Pvp erano detenute fiduciariamente per suo conto dall’amico commercialista e prestanome Paolo Venuti, in modo da non comparire direttamente); di aver ricevuto cospicui finanziamenti elettorali da Baita e Minutillo; di aver ricevuto, nel 2005, all’hotel Santa Chiara di Venezia, 200mila euro da Baita tramite la Minutillo; di essersi fatto restaurare a spese della Mantovani la villa di Cinto Euganeo, i cui lavori furono in parte progettati e realizzati dalla Tecnostudio srl di Danilo Turato, il quale sarebbe stato remunerato da Baita, su indicazione di Venuti, sovrafatturando le prestazioni relative a 4-5 incarichi diversi, tra cui la ristrutturazione della sede della Mantovani e la sistemazione del mercato ortofrutticolo di Mestre. Secondo la Procura, a Turato sarebbero stati corrisposti maggiori onorari per un milione e 100mila euro da imputare a lavori svolti nell’abitazione di Galan. L’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Turato è stata revocata per mancanza di esigenze cautelari il 28 giugno 2014.
Infine a Galan viene contestato di essersi fatto versare da Minutillo e Baita, nel 2005, la somma di 50mila euro in un conto corrente della International Bank di San Marino.
A Chisso, invece, viene contestato di aver ottenuto in “regalo da Baita” e poi aver fatto intestare alla società Investimenti srl (le cui quote erano detenute fiduciariamente per suo conto da Minutillo) il 5 per cento di Adria infrastrutture per partecipare a utili dei project financing; nonché il 10 per cento di Nordest media; di aver ottenuto da Baita, tra 2010 e 2011, la somma di 2 milioni di euro in cambio della liquidazione del suo 5 per cento in Adria infrastrutture; di aver ricevuto varie somme di denaro da Sutto, Baita, Minutillo e Buson, per il tramite del suo segretario e fedele collaboratore Enzo Casarin, già condannato in passato per corruzione; di aver ricevuto da Baita la somma di 250mila euro, versati all’hotel Laguna Palace tra fine 2011 e primavera 2012; di aver fatto partecipare architetto Dario Lugato, della Tecne Engineering srl, al gruppo progettazione della superstrada “Vie del mare” (l’ordinanza di custodia cautelare a carico di Lugato è stata annullata per mancanza gravi indizi il 28 giugno 2014); di aver fatto finanziare da Adria infrastrutture la società Territorio srl di Bortolo Mainardi tramite consulenze affidate a quest’ultimo e di aver chiesto poi a Baita di aver acquistato la proprietà della stessa società per ripianare le perdite; di aver fatto nominare, il 27 giugno 2012, il commercialista ed amico Fabio Cadel sindaco supplente in Autostrade Serenissima spa controllata da gruppo Mantovani; di aver chiesto e ottenuto che la società Carron Avv. Angelo fosse inserita nel progetto per la “Via del mare”.

6 – Continua (Le precedenti puntate sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23 e 24 agosto)

 

Con una gamba fratturata passa dall’ospedale al carcere

La Camera dà l’ok all’arresto 395 voti a favore contro 138 no

LA DIFESA DEL PARLAMENTARE

«Accusato per coprire le ruberie di altri»

Fin dal primo momento l’ex Governatore del Veneto respinge con decisione ogni addebito: nega di aver mai chiesto o ricevuto somme di denaro illecite e spiega che il suo tenore di vita è dovuto a stipendi, liquidazione, investimenti fortunati. A Parlamento e magistrati fornisce documenti che, a suo avviso, smentiscono i conti della Guardia di Finanza, accusata di aver preso un abbaglio. “Dimentica” però di raccontare che pagò in nero oltre un milione di euro per l’acquisto di villa Rodella, circostanza riferita dal venditore.
«FALSE CONFESSIONI» – Galan cerca di screditare i suoi accusatori: a suo dire hanno mentito pur di uscire dal carcere. «Non ho mai ricevuto denari dall’ing. Baita, tantomeno ne ho a costui richiesti… – scrive – Mai nulla ho ricevuto da Mazzacurati. Non so come difendermi da un’accusa così fantasiosa e totalmente destituita di fondamento. All’estero ho solo due conti in Croazia (dove ha una casa, ndr). Mazzacurati ha usato la fantasiosa storia del milione di euro all’anno quale “copertura” di proprie ingenti appropriazioni».
CINTO EUGANEO – Galan nega che i lavori a villa Rodella siano stati pagati da Baita e nega di aver mai ricevuto somme relative a presunti interventi su Commissione Via e Commissione di Salvaguardia.
SAN MARINO – Quel conto corrente era «ufficiale e trasparente», aperto in modo simbolico per un accordo della Regione Veneto con la Repubblica del Titano. «Non operai mai alcuna movimentazione. Tale conto è stato utilizzato da terzi senza che io ne fossi a conoscenza e con la falsificazione delle mie firme».

 

DOMICILIARI – In vista la revoca agli arresti a Maria Giovanna Piva, ex Magistrato alle Acque a Venezia.

Scadono i termini per l’ex presidente del Magistrato alle Acque

Altre imminenti remissioni in libertà nell’inchiesta sul cosiddetto “sistema Mose”. Il prossimo 3 settembre dovrebbero essere revocati gli arresti domiciliari all’ex presidente del Magistrato alle acque, Maria Giovanna Piva (accusata di corruzione), nonché ai romani Vincenzo Manganaro e Alessandro Cicero, indagati di millantato credito. Sono in scadenza, infatti, i tre mesi di custodia cautelare che la legge pone come termine massimo per tutti i reati “minori”, tra cui è compreso anche quello di corruzione per episodi precedenti al 28 novembre del 2012. Successivamente, grazie alla riforma Severino, la possibilità di custodia cautelare per la corruzione è stata allungata fino a sei mesi (prorogabili nel caso di rinvio a giudizio): di conseguenza gli altri indagati attualmente detenuti resteranno ancora in carcere o ai domiciliari. Tra questi figura anche l’ex assessore regionale alle Infrastrutture, Renato Chisso, al quale la Procura contesta di aver ricevuto somme di denaro dall’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, fino ai primi mesi del 2013.
Il difensore di Chisso, l’avvocato Antonio Forza, sta giocando un’altra carta per cercare di far liberare il suo assistito: quella delle condizioni di salute. Chisso ha problemi cardiaci (ha subìto un infarto la scorsa primavera) e il legale ha chiesto che venga sottoposto ad una serie di approfonditi esami. Ieri è stata la volta di una scintigrafia.
Anche Galan lamenta problemi di salute ed è detenuto dal 22 luglio nel centro medico del carcere di Opera a Milano. I suoi legali sono andati ieri a fargli visita e l’hanno trovato ancora sereno e battagliero, deciso a difendersi strenuamente dalle accuse di essere stato al soldo del Cvn. L’avvocato Franchini ha depositato nei giorni scorsi il ricorso in Cassazione contro l’ordinanza con cui, lo scorso 2 agosto, il Tribunale del riesame ha rigettato la richiesta di annullamento della misura cautelare. In 61 pagine, il legale dell’ex presidente della Regione cerca di dimostrare che il Riesame ha sbagliato non tenendo conto di molti elementi evidenziati dalla difesa. I principali accusatori di Galan sono definiti non credibili e le loro confessioni definite inattendibili. Per quanto riguarda i fatti successivi al marzo 2010, l’avvocato Franchini chiede alla Suprema Corte di trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri, alla luce del nuovo incarico ricoperto da Galan da quel momento in poi.
Nel frattempo, ieri, il commissario straordinario del Comune di Venezia, Vittorio Zappalorto, ha approvato, con i poteri della Giunta, una delibera che autorizza il Comune di Venezia «a dichiararsi ipoteticamente parte lesa e danneggiata» nell’inchiesta sul Mose. Si tratta del primo passo necessario per «mantenere l’Amministrazione comunale costantemente informata sull’andamento delle indagini in corso», si legge in un comunicato stampa diramato in serata. Zappalorto ha precisato che il Comune «si riserva ogni decisione sulla costituzione di parte civile al momento opportuno, secondo le indicazioni già formulate dal Consiglio comunale prima dello scioglimento, e quantificando il danno patito dalla comunità e dall’Ente locale sulla base delle risultanze delle indagini in corso».

 

Mose, Ca’ Farsetti chiede le carte

Il commissario vuole essere informato sull’inchiesta in vista di una costituzione di parte civile

Ca’ Farsetti vuole sapere. E soprattutto avere “contezza” delle indagini sul Mose. Ovviamente, tutto al termine dell’impegnativa inchiesta sulla Tangentopoli veneziana. E così si riaffaccia l’ipotesi, già balenata nei primi turbolenti giorni della “retata storica” con l’arresto del sindaco Giorgio Orsoni, di una volontà da parte dell’Amministrazione comunale di costituirsi parte civile nell’inchiesta. Una situazione comunque nuova, rispetto a quanto avvenne il 9 e il 10 giugno scorso, nel pieno della bufera giudiziaria, quando l’allora vicesindaco Sandro Simionato a nome dell’Amministrazione comunale (con tanto di sindaco Orsoni ai domiciliari) aveva annunciato la volontà di costituirsi parte civile contro i reati che allora avevano coinvolto parecchi dei protagonisti della vicenda (concussione, riciclaggio, corruzione) evitando così di coinvolgere il sindaco Orsoni, finito nell’inchiesta solo per il reato di presunto finanziamento illecito.
Ora, però, a distanza di due mesi da quelle vicende, il Comune retto dal commissario prefettizio, Vittorio Zappalorto ha deciso una nuova azione concertata sottolineando la volontà ipotetica di dichiararsi parte lesa e di aver subito un evidente danno, e non solo di immagine, da tutta la vicenda Mose. «Il provvedimento, – mette le mani avanti il Comune con una nota ufficiale – che non è una costituzione di parte civile non possibile in questa fase del procedimento penale, servirà a consentire all’Amministrazione comunale di essere costantemente informata sull’andamento delle indagini in corso».
In sostanza, Ca’ Farsetti sottolinea così una sorta di “manifestazione di interesse” nei confronti dell’indagine che, una volta terminata, potrebbe portare ad un atto legale ufficiale nei confronti delle personalità coinvolte nella vicenda. «Il Comune – conclude la nota del commissario Zappalorto – con la delibera odierna, si riserva quindi ogni decisione sulla costituzione di parte civile al momento opportuno, seguendo le indicazioni del Consiglio comunale e puntando poi alla quantificazione del danno patito dalla comunità e dall’ente locale».

 

Nuova Venezia – Mose, domiciliari in scadenza per quattro

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30

ago

2014

Presto liberi l’ex presidente del Magistrato alle Acque Piva e i romani Cicero, Manganaro e Dal Borgo

VENEZIA. Dopo coloro che hanno raggiunto l’accordo per patteggiare la pena con la Procura i primi a conquistare la libertà perchè sono scaduti i termini della custodia cautelare saranno in quattro: sono l’ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva, accusata di corruzione, e i romani Alessandro Cicero, Vincenzo Manganaro e Luigi Dal Borgo, arrestati per millantato credito (i quattro si trovano da qualche tempo agli arresti domiciliari).

Se ne potranno uscire di casa dal 3 settembre in poi, esattamente dopo tre mesi. I termini per la custodia cautelare per l’ex assessore regionale Renato Chisso, il suo segretario Enzo Casarin, il commercialista padovano di Galan Paolo Venuti, [……………], invece, scadono il 3 dicembre, ma probabilmente neppure in quella data riusciranno ad ottenere la libertà poichè prima di quel mese i pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini firmeranno la richiesta di rito immediato e nel giro di pochi giorni il giudice dell’udienza preliminare fisserà il processo. Così, ripartirà da zero il conteggio per la custodia cautelare. Lo stesso dovrebbe accadere per Giancarlo Galan, che, a differenza degli altri, comunque, è stato arrestato due mesi dopo e, quindi, i mesi per lui si contano da agosto e non dal 4 giugno, il giorno degli arresti di tutti gli altri. Tra l’altro sembra che le condizioni di salute dell’ex governatore del Veneto stiano migliorando e se così fosse, il rischio per lui è quello di finire in un carcere normale, magari più vicino a casa sua, come quello di Santa Maria Maggiore a Venezia o il Due Palazzi di Padova, ma non più in una casa di reclusione-ospedale come Opera, dove si trova ora.

Scadranno dopo tre mesi anche gli arresti domiciliari per Lia Sartori, che a differenza di tutti gli altri, è finita in manette l’1 luglio, perchè fino al giorno prima c’era l’immunità parlamentare a coprirla, essendo stata deputata del Parlamento europeo nella scorsa legislatura. Per il suo reato, finanziamento illecito del partito, il codice prevede una custodia cautelare di tre mesi, che per lei scadranno il 31 ottobre, fino ad allora – a meno che i suoi difensori non trovino un accordo con i rappresentanti dell’accusa- rimarrà agli arresti domiciliari.

Ma anche chi è accusato di corruzione, come l’ex dirigente pubblico Piva, uscirà tra quattro giorni, dopo tre mesi di custodia cautelare: questo accade perché i fatti contestati all’ex presidente del Magistrato alle Acque (avrebbe ricevuto uno stipendio annuale di 400 mila euro dal Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita, oltre ad ottenere sempre grazie a loro incarichi di collaudatore per le opere dell’ospedale di Mestre, in cambio di evitare di segnalare ritardi e irregolarità nella realizzazione del Mose) sono avvenuti tutti prima del mese di ottobre 2012, quando il Parlamento ha cambiato la legge su corruzione e concussione, aumentando le pene per chi viene ritenuto responsabile e con esse anche la custodia cautelare. A Chisso, ad esempio, vengono contestati fatti avvenuti sia prima sia dopo l’ottobre 2012 e, quindi, rischia pene maggiori e subisce anche una custodia cautelare non più di tre ma di sei mesi.

Il commissario straordinario del Comune di Venezia, Vittorio Zappalorto, intanto, ha approvato la delibera che autorizza il Comune a dichiararsi parte lesa e danneggiata nella vicenda del Mose. Il provvedimento, che ancora non è una costituzione di parte civile, non possibile in questa fase del procedimento penale, servirà a mantenere l’Amministrazione comunale costantemente informata sull’andamento delle indagini in corso.

Giorgio Cecchetti

 

Nuova Venezia – Galan scarica Chisso: rottura dal 2010

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29

ago

2014

Depositato il ricorso in Cassazione contro il Riesame: «Testimonianze contraddittorie, i reati attribuiti sono ministeriali»

VENEZIA. Fino a poche settimane fa lo definiva «il migliore dei miei assessori». Adesso Giancarlo Galan scarica l’ex assessore che con lui ha condiviso tutti i 15 anni alla guida del Veneto: la rottura viene fatta risalire addirittura al 2010 e dunque non può esserci «sistema Galan» dopo quella data.

La difesa di Giancarlo Galan – avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini – si appella alla Corte di Cassazione per smontare l’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame di Venezia ha respinto il ricorso dei legali all’arresto dell’ex governatore, attualmente detenuto nel carcere di Opera. Ieri mattina è stato depositato il ricorso in Cassazione contro l’ordinanza del Riesame che ha respinto la scarcerazione di Galan. Nei prossimi giorni la decisione della Corte, che potrebbe rimettere in libertà l’ex ministro.

Il ricorso mira a demolire, punto per punto, le motivazioni con cui il Riesame ha tenuto in carcere Galan. Dalla credibilità dei principali testi d’accusa – Giovanni Mazzacurati, Piergiorgio Baita, Claudia Minutillo – che vengono descritti quali protagonisti «interessati» a riferire le circostanze che hanno convinto i magistrati della Procura di Venezia a chiedere gli arresti; ai requisiti minimi di logicità e coerenza delle dichiarazioni dei testi, che striderebbero tra loro nei particolari e nelle motivazioni; sino alla indagini difensive svolte dai legali di Galan, che non sono state tenute minimanente da conto dal giudice del Riesame; e ancora alcuni «infortuni» in cui è incorso in collegio del Riesame, scambiando le testimonianze dell’imprenditore Piero Zanoni con quelle di Pierluigi Alessandri. Insomma, i difensori ritengono che la Cassazione debba assolutamente annullare l’ordinanza del Riesame, che pure fissa la prescrizione per tutti i reati contestati fino al 22 luglio 2008 (tesi su cui peraltro la Procura non concorda).

Ma l’elemento nuovo appare la rottura, probabilmente a fini difensivi, del rapporto tra Galan e Chisso: i difensori ritengono che i reati esclusi dalla prescrizione siano di competenza del Tribunale dei ministri e dunque abbiano diritto a una completamente diversa procedura. Se accolta questa tesi, l’inchiesta su Galan dovrebbe quasi ripartire da zero, consentendo la prescrizione per una ampia fascia di reati attribuiti dopo il 2008.

Quanto alla rottura con Chisso, i legali di Galan la fanno risalire almeno alla primavera del 2010, quando l’ex ministro indica a Luca Zaia la figura di Marino Zorzato come plenipotenziario del Pdl e non quella, apparentemente più naturale, di Chisso. Lo spiega Piergiorgio Baita in un interrogatorio: il rapporto tra Galan e Chisso «si rompe in modo totale, sia sul piano politico sia sul piano personale. Sul piano politico perché l’incarico di gestore degli interessi politici viene affidato al vice presidente Marino Zorzato e sul piano personale perché Chisso e la Minutillo vivono questo mancato incarico come un vero e proprio tradimento per i tanti servigi resi nel periodo precedente».

Dell’imprenditore Pierluigi Alessandri, ad esempio, che accusò Galan di aver preteso dei soldi per sostenere la sua attività politica, i difensori di Galan ricordano che egli è indagato per fini fiscali da qualche mese. Che il principale accusatore, Piergiorgio Baita, ha iniziato a parlare solo dopo il cambio del proprio collegio difensivo. Che Giovanni Mazzacurati, secondo gli stessi indagati, doveva provvedere alla cura di «cinque famiglie» e quindi sarebbe plausibile che abbia beneficiato per fini personali delle somme che invece ha riferito di aver versato ai politici. E infine della Minutillo, il cui tenore di vita lussuoso era noto a mari e monti. Galan si trova in carcere dal 22 luglio scorso, data in cui la Camera dei deputati ha votato l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro ed ex governatore del Veneto, accusato di corruzione propria.

Daniele Ferrazza

 

A tre mesi dall’arresto torna a parlare l’ex sindaco: «Mi ero opposto a Contorta, Alta Velocità ed ecco cosa sta succedendo. Bilancio: sarei rimasto ma il Pd non ha voluto»

VENEZIA. «Adesso basta». Il sindaco Giorgio Orsoni è in ferie. Lontano dalla politica dopo le vicende che lo hanno coinvolto nello scandalo del Mose provocando le dimissioni sue, della giunta e del Consiglio comunale. Ma non ci sta a fare il «capro espiatorio» di tutti i problemi della città. E ha deciso di parlare, a quasi tre mesi dai clamorosi arresti per la vicenda Mose. Lui continua a dirsi innocente. E annuncia «grandi novità» quando in autunno comincerà la fase processuale in cui le carte verranno rese pubbliche e si andrà al dibattimento in aula, dopo che il giudice ha respinto la richiesta di patteggiamento.

Avvocato Orsoni, come finirà?

«Non lo so. Ma posso dire che adesso voglio andare fino in fondo per dimostrare la mia estraneità alle accuse che mi vengono mosse. Non ho avuto alcun ruolo nell’approvazione del Mose e non ho preso denaro. Lo dimostrerò. Ci sono molte cose che non tornano in questa vicenda. E quello che succede in questi giorni dimostra perché mi hanno fatto fuori».

Sarebbe a dire?

«Il Contorta, l’Alta Velocità, le mani sulla città. In assenza del sindaco si sta procedendo con un vero assalto alla città, mandando avanti progetti che possono rivelarsi distruttivi a cui il sindaco si era opposto con forza. Forse ho pestato i piedi a troppi».

Ma il sindaco si è dimesso.

«Qui bisogna fare chiarezza, una volta per tutte. Dopo le note vicende io mi ero detto disponibile a restare per fare il bilancio. Non certo per rimanere attaccato alla poltrona, ma per mettere al sicuro la città e i servizi ai cittadini. Quello che sta succedendo dimostra che forse non era una scelta sbagliata».

Poi cosa è successo?

«Che alcune forze politiche, il Pd in testa, hanno detto di no. Che non si faceva nulla e si andava a casa. Forse per paura, o comunque per scelta. A quel punto ho ritirato le deleghe e mi sono dimesso io».

Adesso dicono che la responsabilità di aver firmato l’integrativo senza coperture ai dipendenti è sua.

«Questo non posso tollerarlo. Non è vero. E mi dispiace che lo dica anche il mio ex vicesindaco Sandro Simionato. Io avevo detto di essere disponibile a firmare l’integrativo, dopo aver acquisito una serie di autorevoli pareri legali. Ma si sarebbe dovuto fare il bilancio, perché l’integrativo è una parte importante del bilancio. Quando sono tornato mi hanno detto che non se ne parlava, e allora non ho firmato nulla. La trattativa si era conclusa e per la parte trattante dell’amministrazione ha firmato il direttore generale Marco Agostini. Sapendo che quella firma non valeva nulla perché doveva essere accompagnata da una delibera di giunta. E la giunta non c’era più».

Se si fosse fatto il bilancio i tagli sarebbero stati meno sanguinosi di quelli del commissario?

«Certamente sì. Avevo già avuto dal governo la promessa che non sarebbero stati conteggiati i soldi della Legge Speciale, avevamo trovato altre strade per ridurre il passivo senza tagliare gli stipendi dei dipendenti. Si trattava alla fine di recuperare 20 milioni e non più 47, potevamo farcela. Ma è stato il Pd a dire che era meglio andare a casa. La responsabilità è loro, se la devono prendere anche di fronte ai dipendenti comunali».

Dunque le dimissioni non sono state un dispetto del sindaco alla sua maggioranza.

«Ma per carità. Sono stato costretto a farlo, quando mi hanno detto che non avrebbero mai fatto il bilancio. Questa è la conseguenza».

Adesso la città è senza guida e come dice lei, esposta a ogni “assalto“. Non sente qualche responsabilità in questo?

«Non posso rispondere adesso, non voglio fare polemiche con nessuno, tantomeno con i magistrati. Dimostrerò presto come sono andare davvero le cose».

Alberto Vitucci

 

LO SPECIALE

Mose, il crollo del sindaco. Orsoni dal blitz alle dimissioni.

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

Giorgio Orsoni interrogato in aula bunker dopo il blitz

L’INTERROGATORIO DEL 9 GIUGNO «È stata una debolezza, non ho visto un euro»

PENA RESPINTA – Niente patteggiamento. Il gip: pochi i 4 mesi concordati con l’accusa

Orsoni ai domiciliari. «Soldi dal Consorzio per la campagna elettorale»

E il Pd lo molla. Scoppia la bufera in Comune, arriverà il commissario

«Posso fare una premessa e dire che respingo qualsiasi addebito e che ritengo di non essere colpevole direttamente di quello che mi viene addebitato, ma forse di avere una responsabilità per il contesto generale, nel senso che la mia campagna elettorale, ho scoperto dalle carte che mi sono state notificate, è stata finanziata in modi non corretti…»
Nell’interrogatorio del 9 giugno, il sindaco Giorgio Orsoni ammette che è stata una «debolezza» accettare di rivolgersi al presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati: «È per questo che oggi, vi ripeto, mi assumo tutta la responsabilità di questa cosa, pur dicendo che non ho visto un euro in tutti questi giri».

 

Crollo di un sindaco, dal blitz del 4 giugno alle dimissioni

Alle 4 del mattino del 4 giugno 2014 gli uomini della Guardia di finanza suonano il campanello di un nobile palazzo veneziano affacciato sul Canal Grande, a due passi dal Ponte di Rialto. «L’avvocato Orsoni è in casa?»
L’arresto del sindaco di Venezia è del tutto inaspettato: le accuse mosse dalla Procura nei suoi confronti non sono le più gravi nel contesto dell’inchiesta sul “Sistema Mose”, ma è su di lui che si concentra l’attenzione dei media di tutto il mondo. È inevitabile: qualsiasi cosa accada a Venezia ha da sempre un risalto straordinario. Ed è così che, per giorni, Giorgio Orsoni diventa il personaggio simbolo dell’operazione.
Il gip Alberto Scaramuzza gli impone gli arresti domiciliari, contestandogli il reato di finanziamento illecito ai partiti in relazione a due diversi contributi provenienti dal Consorzio Venezia Nuova, in occasione della campagna elettorale del 2010: 110mila euro “in bianco”, formalmente regolari (versati al suo mandatario elettorale da San Martino Sc, Clea Sc arl, Bo.Sca srl e Cam Ricerche srl) che i pm Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini ritengono illecito in quanto i soldi sarebbero arrivati in realtà dal Cvn (che non può finanziare i partiti in quanto soggetto che usufruisce di fondi pubblici per realizzare il Mose) tramite fatture per operazioni inesistenti, mediate dal consorzio Co.Ve.Co. Secondo la Procura, Orsoni era consapevole che a pagare era il Cvn. Un secondo contributo “in nero”: 450mila euro in contanti che l’allora presidente del Cvn, Giovanni Mazzacurati, dichiara di avergli versato in più rate, personalmente o per tramite del fedele segretario, Federico Sutto. Cinquantamila euro sarebbero stati procurati dal presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita, sempre consegnati a Sutto.
«AMICI DI VECCHIA DATA» – Orsoni sapeva da quasi un anno che la Procura stava indagando su quei finanziamenti. Era stato il Gazzettino ad anticipare la notizia, alla fine del luglio 2013, dopo l’arresto di Mazzacurati, definito dalle Fiamme Gialle «promotore dell’illecito finanziamento al politico Giorgio Orsoni, a lui legato da amicizia di vecchia data». Il sindaco aveva reagito sdegnato, negando ogni ipotesi di irregolarità e, assicurando la correttezza dei contributi elettorali, tutti regolarmente registrati. Nei mesi successivi Orsoni cercò invano di farsi ascoltare dai magistrati: un avviso di garanzia lo aveva messo in conto, ma l’arresto no. E così, alla vista dei finanzieri, che gli notificano la misura cautelare, la sua reazione è di rabbia, oltre che di incredulità.
“SCARICATO” DAL PD – Il partito che lo aveva appoggiato nel 2010 (seppure “subendo” la sua presenza, mai troppo amata) non aspetta neppure un giorno per prendere le distanze dal sindaco: in un comunicato diramato alla stampa precisa che Orsoni «non è iscritto al Pd». Come dire: se ha preso finanziamenti illeciti, con noi non c’entra. È l’inizio della rottura definitiva: davanti ai magistrati il sindaco spiega che sono stati i “maggiorenti” del Pd a sollecitarlo a chiedere di farsi finanziare da Mazzacurati; gli stessi esponenti di spicco del partito che si erano fatti carico dell’organizzazione della sua campagna elettorale: l’allora vicesindaco Michele Mognato, il responsabile organizzativo regionale, Giampietro Marchese, e Davide Zoggia, fedelissimo di Pierluigi Bersani, all’epoca responsabile per il Pd degli Enti locali.
Le strade si dividono in maniera traumatica: il 12 giugno, dopo la remissione in libertà di Orsoni, è il presidente del Consiglio in persona, Matteo Renzi, a decretare la fine del suo mandato di sindaco. Orsoni aveva cercato di restare in sella con l’obiettivo di approvare il bilancio, ma il suo progetto resiste un solo giorno: “scaricato” dal Pd nazionale e da tutti gli alleati a livello locale, è costretto a rassegnare le dimissioni, aprendo la strada al commissariamento di Ca’ Farsetti.
LA DIFESA APPASSIONATA – L’interrogatorio di garanzia si svolge il 6 giugno, nell’aula bunker di Mestre: Orsoni si presenta poco dopo le 8 davanti al gip Scaramuzza e respinge le accuse rilasciando alcune dichiarazioni spontanee. Tre giorni più tardi i sui difensori, Daniele Grasso e Mariagrazia Romeo, concordano un’audizione con la Procura per fornire tutti i chiarimenti necessari. Per quanto riguarda i 110mila euro, il sindaco dichiara di essere stato convinto che fosse tutto a posto: erano registrati e non sapeva che provenissero dal Cvn. In merito al contributo “in nero” nega di aver mai ricevuto personalmente quei soldi, pur ammettendo di essersi rivolto a Mazzacurati per chiedere un finanziamento. Ai magistrati spiega di aver percepito l’inopportunità di farsi finanziare dal soggetto che stava realizzando l’opera pubblica più importante in città e si giustifica sostenendo di aver dovuto cedere alle “pressioni” del Pd: i soldi per la campagna erano finiti e, in caso contrario, avrebbe dovuto tirare fuori di tasca propria il necessario. «Mi sono adattato, nel senso che non ho insistito…. la consideravano come una cosa normale…»
Ai pm precisa di aver fornito a Mazzacurati gli estremi del conto corrente del suo mandatario elettorale, sicuro che quel finanziamento avrebbe seguito i canali leciti: soltanto a seguito dell’inchiesta avrebbe scoperto che così non è stato.
I soldi arrivarono, o almeno ciò è quanto ipotizza Orsoni, in quanto tutte le spese fino a quel momento a rischio furono poi pagate. Ma il sindaco assicura di non aver visto un solo euro, accusando Mazzacurati di avercela con lui per la vicenda dell’Arsenale (negato in uso al Cvn a favore della città) e che questi motivi di risentimento potrebbero essere alla base delle cose non vere che racconta.
RITORNO IN LIBERTÀ – Il sindaco chiede di patteggiare e torna libero il 12 giugno. Il gip Scaramuzza scrive che da parte di Orsoni emerge «una complessiva assunzione di responsabilità in ordine ad una sua consapevolezza dell’effettiva provenienza del denaro dal Consorzio Venezia Nuova». L’accordo raggiunto tra accusa e difesa – 4 mesi di reclusione e 15mila euro di multa – suscita non poche perplessità: perché tanta fretta e una pena così bassa? Per alcuni è il riconoscimento della debolezza dell’accusa. La Procura, però, difende a spada tratta la scelta spiegando che è meglio una pena contenuta (ma certa) al rischio di un processo destinato a probabile prescrizione.
PATTEGGIAMENTO NEGATO – L’udienza per il patteggiamento si svolge sabato 28 giugno: poco prima delle 11, il gip Massimo Vicinanza legge il provvedimento con cui rigetta il patteggiamento, ritenendo la pena non congrua: «Anche a tener conto dell’atteggiamento processuale dell’indagato e del venir meno della carica che egli ricopriva al momento in cui è stata adottata la misura cautelare – scrive il giudice – non può non notarsi che le condotte da lui tenute sono molto gravi, sia per l’entità del contributo illecito ricevuto, sia per la provenienza soggettiva e oggettiva del denaro, sia per l’inevitabile rischio per la corretta gestione della cosa pubblica che ha comportato l’aver ricevuto ingenti somme da parte del soggetto economico costituito allo scopo di eseguire l’opera pubblica di maggior costo e rilievo che ha interessato la città della quale l’indagato è poi divenuto sindaco».
Il giudice precisa che vi sono elementi gravi nei confronti del sindaco in relazione alla «reiterata violazione della disciplina in materia di finanziamento pubblico dei partiti dettata dall’articolo 7 della legge 195/74, anche in relazione all’articolo 4 della legge 659 del 1981». E conclude che il patteggiamento non può essere accolto in quanto è «del tutto incongruo, alla luce dei parametri dell’articolo 133 del codice penale, concordare pena che si assesti sul minimo edittale e che per effetto della scelta del rito sia, per quella detentiva, inferiore a detto limite e, per quella pecuniaria, oltre cento volte inferiore a quella massima erogabile se si tiene conto del finanziamento illecito ricevuto».
Per Orsoni si preannuncia, quindi, il processo. L’ormai ex sindaco si dice soddisfatto, perché in questo modo gli sarà offerta la possibilità di dimostrare la totale estraneità ai fatti che gli vengono contestati. La Procura potrebbe stralciare la sua posizione e anticipare la richiesta di rinvio a giudizio nei suoi confronti. Ma non lo fa e, con molte probabilità, tratterà le imputazioni contestate ad Orsoni assieme a quelle degli altri indagati, in un unico dibattimento.

5 – Continua (Le precedenti puntate sono state pubblicate il 10, 15, 17 e 23 agosto)

 

«Venezia, giustizia decapitata»

Allarme del procuratore Nordio per l’effetto del “decreto Renzi”: «Per tribunali e procure gravi problemi di gestione degli uffici»

Preoccupazione e malumori tra le toghe venete per il cosiddetto decreto Renzi, che anticipa l’età di pensionamento dei magistrati a 70 anni, accorciando di 5 anni il limite di permanenza in servizio che il governo Berlusconi aveva alzato da 72 a quota 75. Da un lato ci sono le aspettative deluse di chi contava di poter restare in servizio ancora a lungo, magari per chiudere la carriera con un’ultima promozione; dall’altro il timore che la “decapitazione” forzata dei vertici degli uffici possa creare più di un problema, dovuto agli improvvisi “vuoti” al vertice, ma anche all’inevitabile innesco di una “corsa” a coprire i vari posti che, in breve tempo, risulteranno vacanti. Con conseguenti difficoltà per il Csm a gestire l’ingente numero di nomine e dei vari uffici a dare garantire continuità al lavoro.
A lanciare l’allarme, tra gli altri, è il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio: «In tutta Italia saranno “decapitati” i vertici di molte procure e tribunali, con gravi problemi di gestione degli uffici». Lo stesso Nordio, se il decreto venisse convertito in legge nell’attuale formulazione, sarebbe costretto ad andare in pensione tra due anni senza poter concorrere al posto di procuratore capo: la norma prevede, infatti, che il candidato ad un ruolo direttivo debba avere almeno tre anni davanti a sè prima del raggiungimento di quota 70. E Nordio ha già compiuto i 67 anni il 6 febbraio.
La situazione più preoccupante riguarda proprio Venezia che, nell’arco di meno di due anni, perderebbe tutti i vertici. Il primo ad andarsene, a prescindere dai nuovi limiti, sarà il procuratore generale Pietro Calogero, che il prossimo dicembre compirà 75 anni. In “pole position” per sostituirlo nella poltrona giudiziaria più prestigiosa della regione è indicato da sempre l’attuale procuratore di Venezia, Luigi Delpino, che però con il decreto Renzi non potrebbe concorrere perché ha già 68 anni. E anche un altro “papabile”, il procuratore di Verona, Mario Giulio Schinaia, sarebbe tagliato fuori dalla corsa per la Procura generale, in quanto ha già compiuto 67 anni (e tra due anni dovrà lasciare Verona per il raggiungimento del limite massimo di 8 anni come procuratore).
Il limite dei 70 è già stato superato dal presidente del Tribunale di Venezia, Arturo Toppan (72) e da quello di Verona, Gianfranco Gilardi (72), nonché dal procuratore di Belluno, Francesco Saverio Pavone (70), i quali potranno comunque restare in sella fino al 31 dicembre del 2015, grazie allo “scivolo” concesso dal decreto per evitare lo svuotamento improvviso degli uffici giudiziari. Il presidente della Corte d’Appello, Antonino Mazzeo Rinaldi, compirà 70 anni il 28 febbraio del prossimo anno e rischia di andare subito in pensione: il testo attuale del decreto, infatti, prevede che, per usufruire della proroga fino al dicembre 2015, sia necessario avere già compiuto i 70 anni. Molti dei capi degli altri uffici giudiziari della regione sono invece più lontani dal limite dei 70, con l’eccezione della presidente del Tribunale di Rovigo, Adalgisa Fraccon (che ne compirà 69 a dicembre) e del presidente del Tribunale di Belluno, Sergio Trentanovi (68 appena compiuti). Il più giovane, con una lunga carriera ancora davanti, è il presidente del Tribunale di sorveglianza, Giovanni Maria Pavarin, che ha compiuto 59 anni lo scorso luglio. Il nuovo procuratore di Padova, Matteo Stuccilli, ha 61 anni, così come il collega di Vicenza, Antonino Cappelleri; il neo procuratore di Rovigo, Carmelo Ruberto, ne ha 62 e quello di Treviso, Michele Dalla Costa, 65; stessa età dei presidenti del Tribunale di Padova e di Treviso, Sergio Fusaro e Aurelio Gatto. Vicenza è in attesa della nomina del nuovo presidente del Tribunale, retto dal facente funzioni Oreste Carbone. Per finire ci sono tutti i posti semidirigenziali, i presidenti delle sezioni dei tribunali penali e civili e della Corte d’Appello: anche su questo fronte non sono pochi i magistrati alle porte della pensione.

Gianluca Amadori

 

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