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Coi soldi delle transazioni le barriere contro i veleni

MARGHERA – La magistratura ha aperto un’indagine sulle famose «transazioni» milionarie pagate dalle aziende che operano nel sito di interesse nazionale di Porto Marghera (oltre 5 mila ettari che comprendono la laguna e i terreni poi ridotti da 3 mila) da mettere in sicurezza e bonificare. «Transazioni» che, è giusto ribadirlo, dovevano essere pagate con urgenza e in quantità adeguate, oppure entro il 2015 incorreremo nella ennesima multa dell’Unione Europea che ci ordinava tassativamente di impedire che gli inquinanti accumulati nei terreni industriali continuino a rilasciare, attraverso il «dilavamento o percolamento» della pioggia, tutti i micidiali contaminati tossici e cancerogeni di cui sono intrisi in laguna. Per questo, nel 2001, è stato sottoscritto un Accordo di Programma tra ministero dell’Ambiente, Magistrato alle Acque, Autorità Portuale e il concessionario unico per i lavori in laguna, ovvero il Consorzio Venezia Nuova, “capitanato” dal gruppo Mantovani – che già ha in affidamento il completamento del Mose – al quale è stato affidato il compito di realizzare una sorta di “muraglia” per sigillare i terreni inquinanti di Porto Marghera, da bonificare in un secondo momento. Quel che balza agli occhi, facendo una verifica su quanto è stato fatto dal 2002 ad oggi, è che grazie alle centinaia di milioni di euro (dei quali le prime e più consistenti quote sono state pagate da Enichem e Montedison, seguite da tutte le altre aziende di Porto Marghera) raccolti dal ministero dell’Ambiente e dall’Avvocatura di Stato con le transazione delle aziende, insediate nel polo industriale veneziano, chiamate a dare la loro «quota» a titolo di risarcimento dei danni ambientali causati. Quote che, a parere di alcune aziende sentite dai magistrati, sono state pagate sotto «coercizione» e addirittura con «minacce» di bloccare iter amministrativi che avrebbero danneggiato le stesse aziende. Fatto sta, che a tutt’oggi, è stato «perimetrato» con la muraglia – ovvero la costruzione di un muro che sprofonda per quasi dieci metri sigillando le sponde dei canali e della gronda laguna, in modo da captare le acque di percolamento e inviarle al depuratore di Fusina prima di essere scaricate direttamente in mare con la condotta sublagurare – il 94% di quanto previsto, pari a 41 chilometri. La spesa prevista totale è di 787 milioni di euro, dei quali 553 milioni sono stati recuperati proprio con le “transazioni” pagate dalle aziende, altri 233 milioni sono stati messi a disposizione dal Cipe e dal ministero dell’Ambiente. A tutt’oggi sono stati impiegati ben 760 milioni di euro, restano però da completare 2 chilometri e mezzo con la costruzione della “muraglia” su un tratto di 800 metri del canale industriale Nord, 1 chilometro e mezzo nella Prima Zona industriale (quella che include Fincantieri) e altri 237 metri sulle sponde della Penisola della Chimica. Ora, però, il rischio è che tutta questa gigantesca opera ambientale, non venga completata in tempo e malgrado quanto già fatto si finisca, comunque, per incorrere nelle pesanti sanzioni dell’Unione Europea.

Gianni Favarato

 

Gazzettino – Mose, colletta per il ministro

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2

nov

2014

L’INCHIESTA – Secondo l’ex manager la richiesta era di Gianni Letta. Gonfiati i costi di alcuni lavori

Mose, colletta per il ministro

Tomarelli rivela: Mazzacurati organizzò una raccolta di fondi per far avere due milioni a Lunardi

NERIO NESI – Il presidente del Consorzio “risolse problemi” dell’esponente di Rifondazione

PIERGIORGIO BAITA – “Consulenza” da 500mila euro concessa per contribuire a quell’esborso

L’imprenditore Tomarelli: due milioni di euro dal “sistema” Mazzacurati per il risarcimento che l’ex ministro pagò su sentenza della Corte dei conti

SUPER RACCOMANDAZIONE – A sollecitare un intervento fu l’ex sottosegretario Letta

A CARICO DEI CONTRIBUENTI- La spesa per alcuni interventi lievitò per ricavare la riserva

BENEFICIATO Pietro Lunardi, ministro dei trasporti nei governi Berlusconi

Mose, lavori fasulli per aiutare Lunardi

Non fu semplice per Giovanni Mazzacurati riuscire ad aiutare l’ex ministro Pietro Lunardi a pagare l’ingente somma – pari ad oltre 2 milioni di euro – che nel 2007 la Corte dei conti gli aveva imposto di risarcire per l’illecita buonuscita accordata ad un alto dirigente Anas. A fornire nuovi dettagli su uno dei più incredibili episodi relativi al “sistema Mose”, è stato lo scorso giugno l’ex responsabile della società di costruzioni Condotte, Stefano Tomarelli. L’ingegnere romano, in un lungo interrogatorio, ha ricostruito le modalità con le quali l’uomo di fiducia di Mazzacurati, Luciano Neri, si “inventò” una sorta di “colletta” a favore di Lunardi, da realizzare, però, non con il denaro delle aziende, ma con i soldi del contribuente.
A sollecitare un intervento a favore dell’ex ministro, era stato Gianni Letta, a lungo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Silvio Berlusconi. E a Venezia non si perse tempo: «Mazzacurati mi disse che avrebbero potuto fare due riserve: una di Fincosit e una di Condotte, fittizie, che, sommate 2 milioni l’una, 2 milioni l’altra, avrebbero fatto 4 milioni».
In sostanza Mazzacurati suggeriva di far lievitare falsamente i costi di alcuni lavori del Mose: il ricavato (proveniente dagli stanziamenti statali per l’opera) sarebbe stato poi girato all’ex ministro. E voilà. Con i soldi spillati allo Stato, Lunardi avrebbe potuto risarcire il danno all’Erario.
Tomarelli ha raccontato ai pm Paola Tonini e Stefano Buccini, di essersi opposto: «Mi rifiutai di aderire come Condotte… Per un periodo non ne seppi più nulla, poi combinarono un Comitato tecnico in cui portarono una riserva unica di Mantovani per 4 milioni di euro, e l’approvammo lì…»
Il racconto di Tomarelli si aggiunge a quanto già messo a verbale nel 2013 da Mazzacurati e da Piergiorgio Baita, il presidente di Mantovani, i quali hanno parlato di una consulenza ad hoc – del valore di 500mila euro – concessa alla società dell’ex ministro, sempre per aiutarlo a pagare la Corte dei conti.
Lunardi rimase ai Lavori pubblici fino al 2006 e fu lui ad inserire il Mose nella Legge obiettivo. Poi non si occupò più del progetto per la difesa di Venezia dall’acqua alta. Ma Mazzacurati era solito non dimenticarsi mai degli amici, come precisò allo stesso Tomarelli: «Mio padre – che era imprenditore – mi ha sempre insegnato che i funzionari dello Stato vanno comunque sempre aiutati, anche quando sono fuori dalla zona di potere».
Così Mazzacurati avrebbe fatto anche in altre occasioni. È sempre Tomarelli a riferire un episodio riguardante un altro ministro, questa volta di sinistra: «Mazzacurati mi disse che Nesi (Nerio, di Rifondazione comunista, ndr) aveva un problema e lui mi disse “Io glielo risolvo”, ma non era più ministro…»
Sia Nesi che il ministro Alessandro Bianchi (governo Prodi) avevano posizioni non favorevoli al Mose: «Bianchi era proprio contrario e voleva spezzettare i fondi del Cipe in mille rivoli… – ricorda Tomarelli – Mazzacurati sicuramente riuscì ad incontrali, sicuramente riuscì ad ottenerne la benevolenza…». Nessuno di questi esponenti politici risulta indagato nell’inchiesta sul Mose.
Nel suo interrogatorio Tomarelli parla a lungo anche dei due presidenti del Magistrato alle acque finiti sotto inchiesta con l’accusa di essere stati al soldo del Cvn. Di Patrizio Cuccioletta ricorda che fu proprio il ministro Nesi a cacciarlo, nel 2001, dopo lo scandalo per alcuni lavori a Torcello, sostituendolo con Maria Giovanna Piva. Nel 2008 fu Mazzacurati a volere nuovamente Cuccioletta in laguna. Tomarelli racconta che il presidente del Cvn aiutò il presidente del Magistrato alle acque anche a risolvere una questione con la Corte dei conti per le spese “allegre” sostenute nel restauro dell’appartamento di servizio: «Intervenne sicuramente, o pagandogliela al posto suo… insomma, chiudendo la questione».

 

SALVAGUARDIA E POLEMICHE Andreina Zitelli, ex Commissione Via attacca

«Stop ai lavori e indagine sul Mose»

Chiesta la revisione delle procedure che hanno fatto partire l’opera

L’ACCUSA «Da chiarire i collaudi e la scelta delle cerniere»

Altro che finire il Mose nel più breve tempo possibile, come chiedono un po’ tutti in questi giorni. Qui si impone una riflessione immediata sul progetto complessivo e un’inchiesta per capire come siano state aggirate le conclusioni della Valutazione di impatto ambientale (Via) negativa del 1998.
Andreina Zitelli, già docente allo Iuav proprio in materia di Via ed ex membro della Commissione nazionale Via, attacca il pensiero comune secondo il quale ora l’unica emergenza dopo il commissariamento sarebbe la conclusione dell’opera in tempi rapidi.
«Dopo il commissariamento – dice – la prima cosa da fare è sottoporre a revisione il progetto complessivo del Mose sul piano prima funzionale e poi tecnico. Questa analisi critica serve per capire dove la corruzione è intervenuta per far avanzare le decisioni e i finanziamenti di un’opera che non ha mai avuto un progetto esecutivo unitario. Bisogna anatomizzare – continua Zitelli – il processo decisionale di approvazione del Mose: capire la responsabilità scientifica di coloro che si sono prestati ad affossare la valutazione di impatto ambientale negativa del 1998».
Per Zitelli uno stop con riflessione sarebbe necessario anche per capire “le implicazioni future della intrusione irreversibile rappresentata dall’ affondamento degli enormi cassoni di cemento a traverso i canali di porto e a profondità definite per sempre”.
Insomma, sarebbe il momento buono per far venire al pettine nodi mai sciolti con la decisione governativa di cantierare l’opera senza analizzare le alternative in campo e senza considerare le osservazioni presentate dal mondo scientifico, ambientalista e accademico.
«È decisivo sapere chi ha validato la funzionalità del sistema di previsione – attacca la docente ora in prima linea anche contro il canale Contorta – stabilito la quota di chiusura, fissato la batimetria delle bocche, fatto gli studi del monitoraggio ambientale, ignorato i segnali dell’innalzamento del livello marino in rapporto alla vita stimata dell’opera in 50-100 anni».
Un’ultima menzione riguarda l’aspetto costruttivo.
«Va fatta luce definitiva sui collaudi dei lavori male eseguiti – conclude Zitelli – e sulle responsabilità delle più recenti approvazioni, al Magistrato alle Acque, del sistema delle cerniere e del sistema delle paratoie a rischio di risonanza e collasso».

M.F.

 

IL CASO MOSE – I VINTI SIAMO NOI CITTADINI

La questione degli scandali legati al Mose si è alfin risolta, a quanto pare, con soddisfazione di tutti. Se la son cavata con qualche spicciolo gli imputati, che vedono svanire l’ipotesi delle sbarre; soddisfatta la Procura, che vanta un forte attivo economico grazie ai patteggiamenti e dà prova con orgoglio di una vicenda conclusasi in tempi brevissimi, contraddicendo la diffusa opinione di una giustizia-lumaca. In realtà è a mio avviso perdente lo Stato, e quindi noi contribuenti perché:
1.Non è del tutto vero che la giustizia abbia agito in questo caso con rapidità. Di possibili scandali si vociferava già verso il 2000, ma esistono altri indizi e riscontri certi successivi che evidentemente sono stati sottovalutati. Mi limito a ricordare, anche per conoscenza diretta, la questione delle cerniere, risalente al 2010, che ha visto l’affido diretto alla Mantovani-Fip di una commessa di decine di milioni di euro grazie al rifiuto da parte del Magistrato alle acque della mia proposta di bandire una gara internazionale che ponesse in competizione più tecnologie e offerte economiche.
2. I quattrini incamerati rappresentano una quota modesta delle presunte tangenti, pagate con soldi pubblici.
Penso perciò che questa triste vicenda veda solo dei vinti: noi cittadini.

Prof. ing. Lorenzo Fellin – Padova

 

La riflessione

QUANTI SCANDALI IN QUESTA CITTÀ

Cadono le braccia! Ieri le prime otto pagine del Gazzettino locale occupate da articoli su scandali, ruberie e malversazioni varie.
Mose, bonifiche ambientali, Ater, case abbandonate alla Giudecca, Campo Marte, con blocco delle costruzioni e sprechi vari.
La somma delle supposte cifre mal spese e spesso rubate ammonta a vari milioni di euro, finiti in tasche sbagliate. Il cittadino comune, specie quello che fatica ad arrivare alla quarta settimana, cosa deve pensare?
Quando i colpevoli vengono scoperti, oltre a dichiararsi sempre innocenti, patteggiano. Sarebbe il meno, ma le cifre che risarciscono sono sempre naturalmente molto inferiori a quelle rubate, e questo è una presa in giro per chi continua a credere nell’onestà e nel lavoro corretto (il caso Mose insegna in tal senso) e per chi indaga.
Anche chi ha ripetutamente rubato, per anni o decenni, alla fine viene perdonato, si gode gran parte del maltolto, e spesso dopo qualche anno ritorna nell’agone politico-affaristico, come se niente fosse. Alcuni addirittura ci fanno la morale da vari programmi di “approfondimento”.
Attenzione che la china è pericolosa. Non sappiamo che succederà quando il cittadino medio sarà davvero stufo, avrà eroso anni di risparmi e riterrà che lavorare onestamente non abbia più senso alcuno davanti agli esempi che arrivano dall’alto. Attenzione perchè allora nessuna classe politica-amministrativa ce la farà a garantire l’ordine sociale e scivoleremo in un avventurismo senza ritorno.

Mirka Rossetto, Francesco Sinisi – Venezia

 

Nuova Venezia – Mose, il Consorzio chiede i danni

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1

nov

2014

Pronte le cause di risarcimento dopo lo scandalo e gli arresti

Uno degli atti del presidente Fabris prima del via all’iter del commissariamento è stato l’ordine di promuovere le cause contro gli indagati che hanno patteggiato

Venezia Nuova chiederà i danni per il malaffare

LA STRATEGIA – Gli avvocati stanno esaminando le sentenze per poi ricorrere in sede civile contro i vari [………], Tomarelli, Galan e Cuccioletta

VENEZIA Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scordammoce o passato: Venezia non è Napoli ma rischia di finire così anche con lo scandalo Mose, relativamente ai danni inflitti alle casse pubbliche. Una delle ultime decisioni di Mauro Fabris da presidente del Consorzio Venezia Nuova, in attesa di passare la mano al commissario, è stata conferire agli avvocati l’incarico di acquisire le sentenze dei patteggiamenti, confermati il 16 ottobre dal Gup Giuliana Galasso. Obiettivo: decidere le azioni di rivalsa. Sono 19 gli imputati usciti dal processo concordando pene e confische varie. In testa l’ex presidente e ministro Giancarlo Galan (2 anni e 10 mesi e 2,6 milioni di euro) e l’imprenditore  […………….] (2 anni e 4 milioni) ma non sono da meno Stefano Tomarelli della Condotte (2 anni e 700.000 euro), l’ex presidente del Magistrato alle Acque Patrizio Cuccioletta e il commercialista Paolo Venuti (anch’essi 2 anni e 700.000 euro), gli ex dirigenti del Consorzio Luciano Neri (2 anni e 1 milione) e Maria Teresa Brotto (2 anni e 600.000 euro). L’accordo tra accusa e difesa esclude i terzi danneggiati. L’unica strada che rimane per rifarsi è la causa civile, con i tempi della giustizia italiana. «Noi ci eravamo costituiti già a dicembre 2013 nei confronti degli imputati delle inchieste in quel momento aperte: fondi neri, sovrafatturazioni sul pietrame e irregolarità negli accertamenti fiscali», spiegava Fabris qualche giorno fa, ancora all’oscuro della lettera con cui l’Autorità Anticorruzione lo sollevava dall’incarico dandogli tre giorni di tempo per replicare (termine irrisorio, che parla da solo). «La costituzione ci garantiva di entrare nel processo, quando si fosse tenuto. Invece sono arrivati i patteggiamenti e l’unico danno su cui possiamo rivalerci sono le spese legali. Non si può chiedere altro». La gestione commissariale non potrà cambiare la situazione, dando ormai per scontato che non siano le imprese a impugnare il commissariamento al posto del Consorzio, come qualcuno voleva. Dalle ammissioni fatte nei patteggiamenti gli avvocati individueranno le responsabilità dei singoli, per avviare un’azione risarcitoria. Come ha fatto la Mantovani nei confronti dell’ex presidente e amministratore delegato Piergiorgio Baita. Stesso andamento si annuncia per il troncone veneto dell’inchiesta Mose finito a Milano. Il Consorzio Venezia Nuova aveva deciso di costituirsi anche nei confronti di Roberto Meneguzzo, Mario Milanese ed Emilio Spaziante. Aspettava solo il decreto di giudizio immediato. Invece Meneguzzo ha raggiunto un accordo con la procura per patteggiare 2 anni e 6 mesi. Stessa cosa ha fatto Spaziante proponendo 4 anni. A giudizio immediato andrà solo Milanese, l’ex braccio destro di Tremonti, il 4 novembre, davanti alla quarta sezione penale del tribunale di Milano. Il processo per gli imputati che non hanno patteggiato a Venezia, incluso l’ingegner Mazzacurati di cui sarà bello aspettare il ritorno dalla California, è previsto per l’inizio del 2015. Qui deciderà il commissario. Tutt’altro paio di maniche la verifica fiscale sull’attività del Consorzio. Qui la stangata è sicura, si tratta solo di stabilire l’entità. La Guardia di Finanza aveva iniziato nel 2010 gli accertamenti, poi sospesi per l’apertura dell’inchiesta penale, quindi ripresi e oggi quasi ultimati. La contestazione al Consorzio dovrà limitarsi alle fatture false e alla sovrafatturazione dei lavori eseguiti. Mauro Fabris l’aveva messo in preventivo: «Abbiamo già dovuto stanziare in bilancio una quota in previsione della multa». È escluso che si possa inseguire il denaro buttato al vento per «fluidificare», come diceva Mazzacurati. E anche quello utilizzato dal «capo supremo» del Mose per favorire la numerosa schiera di parenti, più o meno stretti. Tra i gratificati «con benefici economici ottenuti direttamente o indirettamente dal Consorzio», come ha accertato la Guardia di Finanza, c’è anche la figlia dell’ingegnere, Giovannella Mazzacurati, titolare di Assia srl, la società che sta avviando un ambizioso progetto edilizio sui terreni di famiglia in Toscana. Si tratta di un maxi-albergo a 5 stelle, Wine & Oil Resort, con 200 posti letto, per decine di milioni di investimento, con tutti i permessi in tasca dallo scorso giugno. Il complesso sorgerà tra Bibbona e Bolgheri: quella dei cipressi alti e schietti che van da San Guido in duplice filar, come ci facevano imparare a scuola.

Renzo Mazzaro

 

Mal di pancia fra le imprese, poi passa la linea della collaborazione

E a Cantone risposta morbida

VENEZIA – Niente osservazioni. E nemmeno resistenze di tipo legale. Solo una memoria che riassume le ultime tappe decise dalla nuova governance del Consorzio Venezia Nuova. E ricorda la «particolare complessità» della vicenda Mose. Qualche mugugno e tanti mal di pancia. Ma alla fine il Consiglio di amministrazione del Consorzio, convocato a Roma per prendere una posizione sul commissariamento, si conclude con un voto unanime. Si dà mandato al presidente Mauro Fabris di inviare la memoria all’ufficio di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione che solo due giorni fa ha inviato all’«ingegner» Mauro Fabris presidente del Consorzio l’annuncio di avvio della procedura di commissariamento. Molti mal di pancia. Perché i legali delle imprese che formano il Consorzio – Mantovani, Condotte, Fincosit, San Marco, Coveco – hanno detto chiaro e tondo che qualche appiglio per resistere c’era. I tre giorni di tempo dati per le osservazioni, termine assai ristretto. E poi il fatto che in questo caso non si va a commissariare un ramo di impresa – come già successo a Milano con la Maltauro per i lavori dell’Expo 2015 – ma un consorzio concessionario del governo. Alla fine è passata la linea morbida. Difficile del resto far causa a chi ti finanzia, visto che lo Stato è l’unico finanziatore del Consorzio e del Mose. E proprio le imprese aspettano che il Cipe sblocchi i famosi 401 milioni, promessi e poi arenati sulla spiaggia della grande inchiesta. Un commissariamento potrebbe a questo punto anche accelerare l’arrivo dei soldi. Dunque le imprese potrebbero anche non avere interesse a resistere. Ma cosa ha scritto Fabris nella «memoria» inviata già ieri sera a Roma? «Abbiamo ricordato le azioni messe in atto dalla nuova gestione per realizzare una vera discontinuità con il passato», dice Fabris, «prima di tutto la due diligence e il rinnovo del direttivo, il risparmio di 10 milioni, la disponibilità a collaborare con un anno di anticipo per rendere possibile l’avvio della gara per la gestione del Mose. Ma anche una nota che sottolinea la complessità del progetto che ci è stato affidato». Traduzione: se volete che il Mose sia completato nei tempi stabiliti non potete azzerare la struttura del concessionario». Della «complessità» fanno parte anche le vicende collaterali al Mose. Cioè il destino della Tethis, azienda di proprietà in parte del Consorzio e in parte delle imprese che lo compongono. Ma anche decisioni che dovranno essere prese presto sui risarcimenti e il pagamento delle sanzioni tributarie. La Guardia di Finanza si è nuovamente presentata nei giorni scorsi nella sede del Consorzio in Arsenale e ha comunicato la conclusione della verifica fiscale iniziata nel 2010, poi interrotta con l’avvio dell’inchiesta penale. La sanzione calcolata dall’Agenzia delle Entrate per l’evasione è di 20 milioni di euro. A cui vanno aggiunte le sanzioni a carico delle imprese. Un giro di milioni per cui il Consorzio si potrebbe anche rivalere sui singoli. ma comunque decisioni a tutela della ragione sociale che non potranno essere prese dal commissario. Questo sostengono nella sede del pool di imprese. Sottigliezze che non sembrano interessare molto all’Autorità anticorruzione. Che invierà entro una settimana – a partire da lunedì – la richiesta formale al prefetto di Roma. Quest’ultimo ha 30 giorni per emanare il decreto di commissariamento. Atto delicato, perché si tratta del primo caso in Italia di commissariamento di un intero Consorzio di imprese. Intanto l’attività sul fronte Mose procede. Ieri a Treporti sono state sollevate insieme otto paratoie. Un test in vista del primo esperimento per il sollevamento dell’intera schiera di Lido Nord, programmata per fine novembre.

Alberto Vitucci

 

Il commissario riveda il progetto del Mose

Sorprende che l’onorevole Baretta sottosegretario all’Economia, il presidente del Consorzio Venezia ex senatore Mauro Fabris, il proprietario della Mantovani Chiarotto, siano all’unisono concordi nell’invocare la conclusione dei lavori del Mose senza essere sfiorati da almeno qualche dubbio sulla qualità e bontà tecnica del progetto. Dopo il commissariamento da parte dell’Anac, come ho anche pubblicamente detto al dottor Cantone, la prima cosa da fare è sottoporre a revisione il progetto complessivo del Mose sul piano prima funzionale e poi tecnico. Questa analisi critica serve per capire dove la corruzione é intervenuta per far avanzare le decisioni e i finanziamenti di un ‘opera che non ha mai avuto un progetto esecutivo unitario. Bisogna anatomizzare il processo decisionale di approvazione del Mose : capire la responsabilità scientifica di coloro che si sono prestati ad affossare la valutazione di impatto ambientale negativa del 1998. Quella procedura era da considerarsi il primo segnale di attenzione verso un progetto poco efficace e di grande impatto ambientale. Serve l’anatomia del progetto per capire le implicazioni future della intrusione irreversibile rappresentata dall’ affondamento degli enormi cassoni di cemento a traverso i canali di porto e a profondità definite per sempre. È decisivo sapere chi ha validato la funzionalità del sistema di previsione, stabilito la quota di chiusura, fissato la batimetria delle bocche, fatto gli studi del monitoraggio ambientale, ignorato i segnali dell’innalzamento del livello marino in rapporto alla vita stimata dell’opera in 50-100 anni. Il Mose già di efficacia limitata risulterá inutile a breve contro le acque alte, anzi, a paratoie chiuse, sono dimostrabili effetti di esaltazione dei livelli di marea in parti della Laguna o verso Chioggia o verso le isole di Burano e S.Erasmo. Infine va fatta luce definitiva sui collaudi dei lavori male eseguiti e sulle responsabilità delle più recenti approvazioni, presso il Magistrato alle Acque di Venezia, del sistema delle cerniere e del sistema delle paratoie a rischio di risonanza e collasso. Sul piano politico va ricostruito l’iter decisionale del Comitatone dell’ aprile 2003 con l’alleanza dell’ allora sindaco ulivista PaoloCosta con Galan Lunardi Matteoli del governo Berlusconi e del Comitatone del novembre 2006 quando il presidente del consiglio dei ministri Romani Prodi, da solo, votò per tutti i suoi ministri contro il sindaco Massimo Cacciari.

Prof. Andreina Zitelli Gruppo Istruttore VIA sul Mose 1998

 

PRESSIONI – La stessa autorità portuale aveva scritto ai ministeri evidenziando che un terminal non poteva essere chiamato a pagare

CONTENZIOSO – Ha dovuto firmare una transazione da 800 mila euro per l’inquinamento che non ha provocato, ma proprietario del terreno su cui opera è lo Stato. Multi Service è una società terminalista del porto commerciale di Marghera, banchina e terreno che occupa sono demaniali, quindi per ottenere il risarcimento dei danni ambientali, lo Stato avrebbe dovuto chiedere i soldi a se stesso

STOP ALLE RATE – In seguito all’inchiesta sulla distrazione di soldi pubblici per bonifiche nelle lagune di Venezia e Grado e Marano, Multi Service ha sospeso il pagamento delle rate da 62500 euro l’una e, se si arriverà a processo, si costituirà parte offesa per chiedere i danni all’Avvocatura dello Stato e ai ministeri di Ambiente e Trasporti.

 

I sindaci di Chioggia chiamati in causa dal nuovo fronte dell’inchiesta

Romano Tiozzo non risponde

“Sistema Mose”, politici in difesa

Guarnieri: «Nessuna pressione»

Casson tranquillo: «Ho fiducia nella magistratura»

Tomarelli “chiama” e la politica chioggiotta risponde. All’indomani delle rivelazioni del Gazzettino sulle dichiarazioni rilasciate ai giudici dall’ingegnere responsabile dei lavori del Mose per conto della ditta romana di costruzioni “Condotte”, tocca alle figure di spicco della politica locale di oggi e di allora dire la propria sull’inchiesta. Stando a quanto dichiarato dall’ingegner Tomarelli, l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova Mazzacurati avrebbe fatto pressioni sui politici locali per avere il loro “sì” al Mose fino al 2010.
Due i sindaci che si sono succeduti in quegli anni. Fino al 2007 c’era Fortunato Guarnieri alla guida della città. Da giugno 2007 a novembre 2010 il municipio era in mano al centrodestra e a Romano Tiozzo Pagio. E quest’ultimo non vuole assolutamente commentare la vicenda: «Il mio è un assoluto no comment», taglia corto raggiunto al telefono. Fortunato Guarnieri entra invece nella questione chiarendo alcuni aspetti: «Innanzitutto bisogna spiegare una cosa – afferma -. La giunta comunale non era il soggetto che decideva sulla questione. Era il Consiglio che esprimeva un parere, ma soprattutto era la maggioranza politica che indicava la posizione da assumere nel cosiddetto Comitatone. E la maggioranza di quel tempo, come noto, sulla questione Mose era alquanto divisa. Infatti c’erano componenti a favore ed altre contro, in particolare Rifondazione Comunista e Verdi non ne volevano assolutamente sapere del Mose – prosegue Guarnieri -. Per questo motivo, nel Comitatone del 2006, il mio voto fu di astensione. Pressioni quindi in un senso o nell’altro io non ne ho avute. Le uniche fibrillazioni su un tema tanto scottante le ho avute dalla mia maggioranza in direzioni opposte ed è la storia di tutti i dieci anni del mio mandato su questo tema».
Sulla questione interviene anche il consigliere regionale del Pd Lucio Tiozzo: «Una cosa è certa – afferma – la politica non può far finta di “non conoscere” queste persone. A Chioggia abbiamo e avevamo le più importanti ditte marittime d’Italia e quindi i contatti con queste persone, che venivamo spesso in città, ovviamente c’erano ed era normalissimo che ci fossero. La domanda è: questi incontri venivano gestiti in maniera lecita o illecita? Su questo sono sicuro che la Magistratura farà chiarezza e toglierà ogni dubbio». Si chiama fuori il consigliere regionale Carlo Alberto Tesserin: «Sono stupito di queste rivelazioni. A livello regionale, comunque, non ho mai ricevuto pressioni».
Fuori dal terremoto l’attuale sindaco Giuseppe Casson, in carica solo dal 2011: «Per formazione e convincimento personale – afferma – ho piena fiducia nel lavoro della Magistratura, delle cui indagini attendiamo gli esiti».

 

CONSORZIO VENEZIA NUOVA – Ieri a Treporti movimentate in simultanea otto paratoie

Già pronto il dossier di Fabris

«Lunedì sarà consegnato all’Anac»

Il primo segnale all’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone è arrivato da Venezia ieri mattina: nel canale di Treporti è stata fatta una prova di sollevamento progressivo delle otto paratoie installate sui fondali della bocca di porto per un tratto di 160 metri in attesa della “prova generale” di tutte le dighe mobili contemporaneamente prevista per fine novembre. Il secondo segnale, invece, è arrivato da Roma: il consiglio direttivo del Consorzio Venezia Nuova ha “scartato” all’unanimità l’idea di impugnare la decisione dell’Anac, magari rivolgendosi al Tar, annunciando al contempo non solo l’elaborazione della “memoria scritta” da consegnare a Cantone, ma allo stesso tempo facendo capire che l’unico – attuale – interesse dell’ente concessionario finito ancora una volta nella tempesta, è e rimane quello di completare l’opera.
Di fronte a queste due opzioni, va detto anche che il presidente Mauro Fabris, potrà godere di qualche giorno in più per redigere i propri appunti da consegnare a Cantone “giocando” sui tempi del week-end e della festa di Ognissanti. «In ogni modo – conferma il “numero uno” del Consorzio Venezia Nuova – daremo la nostra massima disponibilità così come abbiamo sempre detto in questi ultimi giorni. Non c’è alcuna volontà di mettersi di traverso, ma solo quello di far presente quanto abbiamo fatto in quest’ultimo anno e mezzo. Quello che a noi interessa è la conclusione dell’operazione Mose».
Così pur approfittando di alcuni giorni in più rispetto al termine stabilito dal decreto legge 90, Fabris conterebbe comunque di consegnare il dossier del Consorzio Venezia Nuova entro domani, al massimo domenica, dimostrando in qualche modo di accelerare anche i tempi di una decisione sul futuro nome del commissario (o dei commissari), che dovrà essere presa dal prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, per competenza territoriale sugli atti legati alla concessione dal Consorzio stipulati nella Capitale.
«Ribadiremo nella nostra nota – conclude Fabris – che abbiamo lavorato con il criterio fondamentale della discontinuità sottolineando una netta separazione tra la gestione del Cvn sotto Giovanni Mazzacurati e quella attuale». Ora non resterà che attendere il verdetto del prefetto di Roma per capire chi “traghetterà” il Consorzio sotto commissariamento. Non è escluso, infatti, che vista la monumentalità dell’opera e gli oneri che circondano la realizzazione del sistema delle dighe mobili non basti un solo commissario, ma che il prefetto Pecoraro in stretto contatto con l’Anac propenda per l’ipotesi di un “triumvirato”.

 

Gazzettino – Troppe pressioni, rivolta per le bonifiche.

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1

nov

2014

PORTO MARGHERA Costretta a versare 800mila euro pur non essendo nemmeno proprietaria dell’area

Bonifiche, la rivolta delle aziende

Dopo le notizie sull’inchiesta la Multi Service è la prima ditta pronta a costituirsi parte civile

LA SOCIETÀ – Una nave ormeggiata alla banchina della Multi Service nel Molo Sali dell’isola portuale di Marghera; accanto il presidente dell’impresa Giorgio Lorenzato

Troppe pressioni, rivolta per le bonifiche

La Multi Service annuncia: «Sospendiamo il pagamento delle rate»

La Multi Service è stata costretta a pagare 800mila euro come transazione per un danno ambientale che non ha mai provocato su un terreno di cui non ha mai posseduto nemmeno un metro quadrato. Ora che i vertici, assieme all’avvocato Cristiano Alessandri che da anni li difende, hanno letto sui giornali dell’inchiesta che vede indagate 26 persone tra le quali l’avvocato dello Stato Giampaolo Schiesaro e l’ex direttore generale del ministero dell’Ambiente Gianfranco Mascazzini per distrazione di fondi pubblici relativi alle bonifiche ambientali, hanno scritto una lettera all’Avvocatura distrettuale di Venezia e all’Autorità portuale annunciando che, tanto per cominciare, sospendono il pagamento delle rate da 62 mila e 500 euro l’una fino a che la situazione non verrà chiarita e, nel caso vengano confermate le ipotesi accusatorie e si arrivi a processo, si costituiranno come parte offesa per chiedere i danni. La vicenda della Multi Service è ancora più assurda di quelle vissute da Intermodale di Marghera, Fincantieri, Vega Parco Scientifico e San Marco Petroli, imprese che secondo l’accusa sono state danneggiate dalle pressioni effettuate dagli indagati ai fini di costringerle ad aderire alle cosiddette “transazioni ambientali”. Perché Multi Service è una società terminalista che ha in concessione dall’Autorità portuale di Venezia (Apv), e quindi dallo Stato, una banchina e un relativo terreno nell’isola portuale di Marghera. Vale a dire che proprietario di quegli spazi è lo Stato e quindi, se c’è stato un inquinamento e non certo provocato da Multi Service ma da aziende che operavano prima di lei insediatasi dal 1997, avrebbe dovuto chiedere i soldi a se stesso in quanto appunto proprietario, o al limite all’Apv.
La stessa Autorità portuale, dopo che l’Avvocatura dello Stato per conto dei ministeri dell’Ambiente e dei Trasporti, aveva intentato causa contro Multi Service chiedendole in totale 10 milioni di euro di risarcimento danni ambientali, a novembre del 2007 scrisse una lettera proprio per chiarire che “nei provvedimenti di concessione non sono menzionati obblighi di bonifica a carico dei terminalisti né si fa cenno a risarcimenti per presunti danni ambientali” e, ancora, che “qualora dalla caratterizzazione dei suoli si accertasse la presenza di inquinamento, ne sarebbe chiamato a rispondere anche lo Stato in qualità di proprietario, in solido con la stessa Autorità portuale”.
La lettera faceva seguito a vari incontri con l’Avvocatura e i Ministeri, e le cose sembravano essersi sistemate tanto che l’Apv consigliò a Multi Service di non presentarsi all’udienza del processo perché l’atto di citazione ormai era superato. Senza avvertire nemmeno l’Autorità, però, l’Avvocatura dello Stato cambiò orientamento e fece dichiarare l’impresa contumace. Il 25 ottobre del 2010 il presidente di Multi Service, Giorgio Lorenzato, arrivò persino a scrivere ai ministeri dell’Ambiente e dei Trasporti per spiegare la situazione e chiedere un loro intervento risolutivo, ossia l’archiviazione del procedimento. Anche perché, se l’impresa avesse dovuto pagare 10 milioni di euro, sarebbe sicuramente fallita, mettendo sul lastrico decine e decine di lavoratori.
La storia si protrasse ancora fino a dicembre 2011 quando l’avvocato Schiesaro inviò una bozza di accordo non negoziabile che prevedeva il versamento da parte di Multi Service di 800 mila euro. A quel punto l’Azienda, che si apprestava a fare investimenti importanti e non poteva permettersi di continuare la causa per altri dieci anni altrimenti avrebbe messo a repentaglio i rapporti con fornitori e clienti, a giugno 2012 decise di pagare, ottenendo la rateizzazione. Fino ad oggi ha versato 4 rate, oltre a 120 mila euro di spese di giudizio. Ora ha deciso che forse è arrivato il momento per chiedere giustizia.

 

IL PROBLEMA – I rapporti tra Stato e aziende

L’INCHIESTA SULLA “CRICCA” – Clamorosa protesta di un’impresa chiamata a versare 800mila euro

LA SCELTA – La decisione è collegata alle indagini in corso

Il rischio di un “effetto a catena” per le altre ditte di Porto Marghera

Secondo gli investigatori tra le aziende danneggiate dallo scandalo bonifiche ci sono Intermodale di Marghera, Fincantieri, Vega Parco Scientifico, San Marco Petroli. E probabilmente l’iniziativa della Multi Service sarà solo la prima: in coda si metteranno molte altre aziende che hanno operato o ancora operano a Porto Marghera. Quello della Multi Service, però, è un caso davvero limite perché si tratta di una realtà che opera su un terreno demaniale: e siccome una società terminalista, che di lavoro scarica e carica le navi, è ben difficile possa inquinare il sottosuolo, i soldi per risarcire eventuali danni ambientali lo Stato avrebbe dovuto chiederli a chi aveva inquinato prima degli anni Novanta e comunque alla proprietà. In questo caso, dunque, a se stesso.
L’impresa in questione, nonostante mille difficoltà tra le quali non ultima la causa intentata dai ministeri dell’Ambiente e dei Trasporti, è diventata negli anni una delle più importanti d’Italia nel suo settore: si è specializzata nei project cargo, ossia nelle spedizioni internazionali di grossi impianti e macchinari prodotti a Marghera e nel resto della pianura Padana. Il suo ufficio tecnico progetta, appunto, il carico di una nave, ottimizzando gli spazi ed equilibrando i pesi per poter inviare via mare quei carichi eccezionali.
Prima di questa specializzazione operava come semplice scaricatore di merci varie, ed era stata costituita a fine anni Ottanta da persone espulse dal lavoro a causa della crisi dei traffici provocata da monopoli nel lavoro nei porti; situazione che aveva portato il Governo a varare la legge 84 del 1994 che cominciò, appunto, ad eliminare quei monopoli.

(e.t.)

 

MOVIMENTO CINQUE STELLE «Con la nuova legge i controlli saranno fatti peggio»

«Con il decreto legge 133 i controlli sulle bonifiche saranno fatti ancora peggio. Porto Marghera rischia di essere commissariata. E sull’esempio di Bagnoli, avere come commissario il presidente della Regione o quello del Consiglio. Inoltre, il gestore avrà tempi strettissimi per elaborare il piano di bonifica. E l’Arpav, appena 30 giorni per pronunciarsi, dopo i quali scatterà il silenzio assenso. Insomma, c’è il serio pericolo di controllare e sapere meno di niente».
Durissima la presa di posizione di Alberto Zolezzi, membro della commissione Ambiente della Camera, durante il convegno «Stop allo sfascia Italia. Attiva l’ambiente!», svoltosi ieri a Cà Sagredo con la partecipazione di deputati e senatori veneti del Movimento 5 Stelle. Il parlamentare ha espresso giudizi non meno pesanti sul Consorzio Venezia Nuova, «beneficiario di soldi per non avere fatto granché a Porto Marghera. Dove non basta bonificare ma occorre aspirare». Specificando che «le barriere fisiche non servono, se il territorio rimane inquinato», e che nei 51 siti d’interesse nazionale, «uno studio ha rilevato 1.200 decessi all’anno».
Per l’esponente pentastellato, «lo sfascia Italia avrà conseguenze gravissime anche per le trivellazioni petrolifere, definite “strategiche” quanto gli inceneritori e le autostrade inutili. In caso di opposizione dei cittadini, è previsto persino l’intervento dell’Esercito. Quanto ai presunti vantaggi del trivellare in prossimità di aree a rischio di subsidenza, si ridurranno al massimo in 2-3 anni di risorse petrolifere: bruscolini. E i nuovo posti di lavoro saranno appena un migliaio”. In alternativa, M5S propone il disegno di legge «Attiva Italia», che prevede «lo stop alle opere inutili, la responsabilità penale come deterrente per bonifiche fatte male, commissariamenti in carico ai consigli regionali e l’utilizzo delle risorse disponibili per incentivare il fossile, il solare, il fotovoltaico e la riqualificazione energetica degli edifici».

Vettor Maria Corsetti

 

L’INCHIESTA – Bonifiche d’oro la Procura “avvisa” anche il governo

«Dopo 15 anni soltanto un’area compiutamente caratterizzata»

«Quei progetti prevedevano “marginamenti” di enormi aree»

MARGHERA – Transazioni, società in rivolta pronta a costitursi parte civile

Ha dovuto firmare una transazione da 800 mila euro con il ministero dell’Ambiente (per l’inquinamento che non ha provocato) in un terreno di proprietà dello Stato. Multi Service – presidente Giorgio Lorenzato – è una società terminalista del porto commerciale di Marghera, banchina e terreno che occupa sono demaniali, quindi il risarcimento dei danni ambientali che lo Stato chiede lo avrebbe avrebbe dovuto domandare a se stesso. Ora Multi Service – vista l’inchiesta dove sono indagati l’avvocato dello stato Schiesaro e l’ex direttore del Ministero Ambiente Mascazzini ha sospeso il pagamento delle rate da 62500 euro l’una (la somma totale era di 800mila euro) e, se si arriverà a processo, si costituirà parte offesa per chiedere i danni.

 

«L’inquinamento non era inventato»

Menchini e Moretton, ex Commissari di Grado-Marano, respingono le accuse e preparano la difesa nell’interrogatorio

Il geologo Gianni Menchini, l’ultimo dei commissari straordinari per la bonifica della Laguna di Grado e Marano, si presenterà venerdì al palazzo di giustizia di Piazzale Clodio a Roma, assieme all’avvocato Rino Battocletti di Cividale, portando con sè un trolley. Ovvero una valigia di documenti, con cui intende dimostrare al pm Alberto Galanti che la bonifica friulana non era inventata. L’inquinamento c’era, e comunque egli si trovò ad ereditare una situazione già affrontata da due commissari, Paolo Ciani dal 2002 al 2006, e Gianfranco Moretton dal 2006 al 2009. La riprova dell’allarme ambientale? Relazioni di Arpa, Istituto Superiore della Sanità, Ispra, Regione Friuli Venezia Giulia, perfino un paio di sollecitazioni del procuratore di Udine e di un suo sostituto. «Ne abbiamo di argomenti da sottoporre alla Procura di Roma – spiega l’avvocato – ma intanto prendiamo atto che rispetto all’inchiesta di Udine non c’è più il peculato. E l’associazione per delinquere non è sostenibile». Perché «Menchini non può aver ideato, nè creato i presupposti della bonifica, perché i fatti risalgono a molti anni prima che assumesse l’incarico. C’è poi stata una rivoluzione copernicana dell’accusa, che ora sottovaluta fortemente il ruolo del professore». In che senso? «La Procura friulana ipotizzava un’emergenza creata in Friuli, per ricevere finanziamenti, poi gestiti in modo che si sosteneva clientelare. Ora la regia è attribuita al Ministero dell’Ambiente».
Martedì 11 toccherà, invece, a Gianfranco Moretton, ex assessore regionale, difeso dall’avvocato Luca Ponti. «È difficile sostenere un’associazione costituita da persone che nemmeno si conoscono. – anticipa il legale – Moretton assunse l’incarico a cinque anni dalla dichiarazione di emergenza ambientale. Come può partecipare a un’associazione nata sotto un’altra amministrazione regionale e di diverso segno politico?». L’assenza di mercurio industriale nella Laguna? «L’inquinamento è un dato storico, da 50 anni la Caffaro lavorava e inquinava in quell’area».

G. P.

 

Nel mirino la gestione dei 57 Siti di interesse nazionale e le bonifiche in tutta Italia

SOLDI & LAGUNE Dopo le 24 informazioni di garanzia, pronta una segnalazione dei Pm romani sull’attività del Ministero

La Procura “avvisa” il governo

La Procura capitolina ha già pronta una segnalazione per il ministro dell’Ambiente in carica. Riassume quanto è emerso dall’inchiesta sull’asse Roma-Udine-Venezia non solo sulle bonifiche della Laguna di Grado-Marano e di Porto Marghera, (nella foto a lato) ma anche sulla rete che dalla sede del ministero si sarebbe dipanata per anni in tutta Italia. Il documento non contesta nuove responsabilità all’interno della struttura governativa, anche perché solo l’interrogatorio delle 24 persone indagate consentirà di verificare eventuali nuovi sviluppi. Ma è un richiamo preciso alle responsabilità politiche del Dicastero, anche se risalenti al passato.
L’inchiesta del Pm Alberto Galanti, che si è avvalso del lavoro svolto dalla collega udinese Viviana Del Tedesco, ha infatti scoperchiato un pentolone che riguarda i 57 Siti di Interesse Nazionale (Sin), tirando inevitabilmente in ballo i ministri che si sono succeduti da quando nel 2002 fu formalizzata l’emergenza ambientale nella Laguna friulana. Possibile che nessuno si sia accorto dello strapotere del direttore generale Gianfranco Mascazzini, che quando andò in pensione nel 2009 divenne consulente di Sogesid, società “in house” del ministero per interventi in tutta Italia, quindi presidente del Comitato scientifico della Bonifica di Grado-Marano? La Procura ritiene che l’emergenza fosse inventata, o drammatizzata, per portare un fiume di denaro in Friuli e alimentare una macchina clientelare che comprendeva Sogesid, l’Icram (ora Ispra) e Consorzio Venezia Nuova. La dozzina di proroghe chieste in Friuli sembrano fatte con il ciclostile. Sempre uguali e avallate da politici e strutture tecniche. Le firme del ministro apparivano quasi una formalità. Il Pm Galanti ha spiegato (sulla base di due informative del Nucleo di Polizia Tributaria di Roma) che l’estensione amplissima dell’emergenza sull’area di Grado costituiva un “metodo”. «Questo meccanismo, per impulso del Ministero, veniva replicato su tutto il territorio nazionale. Ovunque i Sin venivano perimetrati su base cautelativa a prescindere da elementi scientifici che giustificassero la cautela, principio strumentalizzato al solo fine di creare il business delle opere di caratterizzazione ed analisi, senza alcuna finalità di reale bonifica, anche laddove l’inquinamento era esistente». La riprova? «Salvo un piccolo Sin di Fidenza, nessuno degli altri 56 a distanza di oltre 15 anni è stato compiutamente caratterizzato, nè tanto meno bonificato».
Dall’inchiesta emerge un mega-progetto di bonifica per Grado-Marano da 230 milioni di euro che Mascazzini avrebbe voluto imporre al commissario giudiziario dell’area industriale ex Caffaro, per favorire Sogesid e un paio di società private (Studio Altieri di Thiene e Thetis di Venezia). Il vantaggio economico per Sogesid? Realizzare progetti sempre analoghi. Il Pm: «Tali incarichi si traducevano in repliche progettuali perché la soluzione del marginamento fisico (che faceva moltiplicare i costi) era sistematicamente proposto su tutto il territorio nazionale per volontà di Mascazzini». Il direttore generale avrebbe imposto «in conferenza dei servizi progetti faraonici che prevedevano il marginamento di aree smisurate nei 57 siti creati in Italia proprio a questo scopo. Ciò giustificava un compenso altissimo a fronte di un’attività fasulla e assicurava il finanziamento alla società “in house”, che assumeva con contratto privato decine di persone indicate da Mascazzini, collocate poi nelle segreterie tecniche del ministero stesso».
Mascazzini ieri in un’intervista ha dichiarato di aver agito sempre per il reale risanamento. Eppure i pm devono essersi posti qualche domanda sulla copertura politica delle iniziative dei dirigenti ministeriali. Anche per quanto riguarda le “transazioni ambientali” a Marghera, dove le imprese (ipotesi di concussione) venivano costrette a versare milioni di euro, così da avere mano libera sulle aree, a prescindere dal reale inquinamento e dalle effettive responsabilità dei proprietari dei terreni. Mascazzini, stando alle dichiarazioni dell’ingegnere Piergiorgio Baita della Mantovani, avrebbe portato lavori per un miliardo di euro al Consorzio Venezia Nuova, cui spettavano le bonifiche. Una torta imponente. Anche per questo, quando Baita e il presidente del CVN, Giovanni Mazzacurati, sentirono puzza di inchieste in Friuli, si attivarono per avere informazioni di prima mano. Pagarono profumatamente alcuni faccendieri, ritenendo che uno di loro – chiamato “lo zio” – fosse perfino un magistrato. Salvo poi scoprire che si trattava di un mistificatore.

Giuseppe Pietrobelli

 

Tra i 26 indagati alcuni chiederanno di essere interrogati il caso dell’ex avvocato dello Stato Giampaolo Schiesaro

PRESA DI POSIZIONE I- l sociologo ed ex assessore veneziano Bettin difende il magistrato: «Distinguere ruoli, soggetti e responsabilità»

VENEZIA – Più un avviso di conclusione delle indagini che la informazione di garanzia con la quale si avvisa gli indagati che è stata aperta sul loro conto un’inchiesta. Questa l’impressione di numerosi degli avvocati difensori dei 26 finiti nell’indagine sulle bonifiche. Novantasette pagine con il riassunto delle testimonianze d’accusa raccolte dai pubblici ministeri e con i verbali dei brogliacci della Polizia giudiziaria delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, lo stesso schema che le Procure utilizzano per chiedere ai giudici le ordinanze di custodia cautelare, che solitamente arrivano dopo parecchi mesi di accertamenti e non è un caso che anche in questo caso le indagini ormai sono state avviate nel 2012, due anni fa. A farlo la procura di Udine, in particolare sulla laguna di Grado e Marano, ma il pubblico ministero friulano Viviana Del Tedesco ha chiuso le indagini con una richiesta di archiviazione per i reati contro l’ambiente e ha inviato gli atti ai colleghi di Roma per i reati che sarebbero stati commessi nella capitale, al ministero dell’Ambiente, visto che il meccanismo utilizzato in Friuli, per impulso del ministero, sarebbe stato replicato su tutto il territorio nazionale, in tutti i Siti di interesse nazionale. Le carte udinesi sono arrivate sul tavolo del pubblico ministero di Roma Alberto Galanti, che ha coordinato le indagini dei carabinieri e della Guardia di finanza ed ha poi firmato la informazione di garanzia giunta a destinazione questa settimana. Probabile, ora, che almeno alcuni dei personaggi coinvolti chiedano di essere interrogati per spiegare, per chiarire, per tirarsi fuori, se possibile, prima dell’udienza e soprattutto del processo. Tra questi sicuramente l’ex avvocato dello Stato di Venezia, ora in pensione, Giampaolo Schiesaro.E sulla sua posizione oggi interviene lo scrittore e sociologo veneziano Gianfranco Bettin. «L’indagine della Procura di Roma sulle bonifiche dei siti inquinati di Grado e Marano e di Porto Marghera è di cruciale importanza», scrive, «in particolare, essa mette a fuoco i nessi tra il cuore del sistema che ha presieduto alla gestione di queste complesse operazioni, nei ministeri romani e in primis in quello dell’Ambiente, e le realtà dei territori interessati. Soprattutto a Porto Marghera la nuova inchiesta si incrocia con quella relativa al sistema del Consorzio Venezia Nuova e in particolare alla truffa delle bonifiche ipotizzata dalla procura veneziana. L’importanza è dunque evidente e si può guardare con massima fiducia all’opera degli inquirenti». «In certi commenti, tuttavia, si rischia di confondere le acque di una vicenda storica (e anche giudiziaria) che non va invece intorbidata, distinguendo ruoli, soggetti e responsabilità», chiarisce Bettin, «se ci sono state irregolarità o abusi di potere o, ancor peggio, come nel filone veneziano dell’inchiesta, una gravissima ed estesa corruzione, è ovvio che vada perseguito radicalmente chiunque sia coinvolto. Ma non può esserci confusione tra chi correttamente ha cercato di far pagare agli inquinatori il costo dei danni inferti alla comunità e al territorio e chi ha violato la legge, ha abusato di potere o ha (o è stato) corrotto. In particolare colpisce la posizione del dott. Giampaolo Schiesaro, a lungo magistrato e Avvocato dello Stato. Per come lo abbiamo conosciuto, Schiesaro si è impegnato a fondo per recuperare allo stato e quindi alla comunità le risorse dovute da chi si ipotizzava che avesse inquinato. «In questo senso», conclude Bettin, «è stato un protagonista del difficile e fondamentale compito di perseguire i responsabili e di far loro sborsare le risorse per rigenerare il territorio».

Giorgio Cecchetti

 

Il retroscena

VENEZIA – Dietro le quinte dello scandalo Mose, ma neanche tanto dietro, si sta combattendo una battaglia di quattrini. Con due pesi e due misure, a quanto pare, a seconda che si tratti di denaro pubblico o denaro privato. La Mantovani Costruzioni chiede 37 milioni di euro per danni d’immagine a Piergiorgio Baita, che l’ha diretta fino al 28 febbraio 2013, giorno in cui è stato arrestato. Eppure ha appena finito di deliberare una maxi-liquidazione di 7 milioni di euro per Giovanni Mazzacurati che quanto a danno d’immagine, per tutte le imprese del Mose e non solo per la Mantovani, non è stato sicuramente da meno. La decisione di pagare la liquidazione-record all’ex «capo supremo» del Consorzio è stata presa lo scorso marzo e difesa con puntiglio dal successore di Mazzacurati, Mauro Fabris che giustificò i 7 milioni come «un atto dovuto», spiegando al nostro giornale che «la cifra di partenza era molto più alta» e che il via libera era stato dato «seguendo le indicazioni di studi legali e consulenti». Rimane il fatto che la decisione è rimbombata in tutta Italia, trattandosi di organismo che gestisce finanziamenti pubblici e di destinatario sotto processo per distrazione di fondi chi gli dava la buonuscita. In ogni caso le quote nel Consorzio Venezia Nuova non sono di Fabris ma delle imprese e il gruppo Mantovani ha circa il 40%. Ne consegue che per il 40% della maxi-liquidazione l’ingegner Mazzacurati deve ringraziare Romeo Chiarotto e il figlio Giampaolo, che siedono nel consiglio direttivo del Consorzio. Piergiorgio Baita invece deve ringraziare al 100% il patriarca della Mantovani per la decisione di imputargli 37 milioni di euro di danni. Qui i quattrini in gioco sono tutti privati e l’azienda non fa sconti. L’esposto porta la firma dell’avvocato Anna Soatto, dello studio Cortellazzo-Soatto di Padova, che un tempo obbediva a Piergiorgio e oggi lo insegue con le citazioni in tribunale. I 37 milioni si ottengono con due tipi di conteggio. Il primo è basato sulla sentenza di patteggiamento, accettato da Baita per le fatture false pagate alla Bmc Broker di San Marino: se le cifre allora liquidate a William Colombelli fossero state utilizzate dall’azienda per altri scopi, avrebbero potuto produrre utili che invece mancano. Si chiama «perdita di chanches monetizzabili» cui va aggiunto l’enorme danno d’immagine provocato dall’inchiesta Mose, per dimostrare il quale l’avvocato della Mantovani non ha purtroppo alcun appiglio concreto. Nel procedimento Mose, Baita è solo un indagato e nessuno ha accesso agli atti. Tant’è che la citazione stima questo danno rapportandosi a resoconti giornalistici. Insomma i 37 milioni ballano sul lasco. Non vorremmo che, più che sul lasco, ballassero sul vuoto perché Baita potrebbe mettere sul tavolo come contropartita gli utili fatti dalla Mantovani durante la sua gestione. Più le chanches lasciate in eredità. Con il valore dei project financing nel portafoglio di Adria Infrastrutture, dalla piattaforma di Fusina al Gra di Padova, dalla Nogara-Mare alla Romea Commerciale e via elencando, si superano i 16 miliardi di euro. È vero che è una cifra sulla carta ma suona bene. E, carta per carta, è più facile che 37 milioni stiano in 16 miliardi che viceversa. Baita non parla. Si può capirlo: lo interpretano lo stesso anche se non apre bocca. L’epicentro dello scandalo era il Consorzio Venezia Nuova, con Mazzacurati in cima, ma il più citato continua ad essere lui. Sempre il sistema Baita, benché il sistema vero fosse il Consorzio, sovrastruttura antagonista – attenzione – delle imprese del Mose. Questo nodo finora non è mai stato esplorato. Magari il commissariamento del Consorzio consentirà di entrare nel bunker. Meglio tardi che mai. «La causa civile risarcitoria avviata dalla Mantovani è normale amministrazione», spiega Alessandro Rampinelli, uno degli avvocati di Baita, esperto in diritto penale delle imprese. «Le aziende, soprattutto quelle grosse, sono obbligate a procedere in questo modo per tutelare i diritti dei molti coinvolti. Dopo di che l’azione seguirà il percorso di tutte le cause civili in Italia: anni e anni per arrivare alla sentenza o tentativi di transazione». Rampinelli precisa che Baita non è più titolare del 5% della Mantovani. «La quota è stata riscattata forzosamente dall’azienda tra il 2013 e il 2014, per ipotesi espressamente prevista dallo statuto nel caso di dimissioni date anzitempo. Baita si era dimesso il 6 marzo 2013. Gli hanno liquidato il mero valore nominale delle azioni, 600.000 euro. Tutto è avvenuto sotto il controllo della procura, perché la quota era sotto sequestro. Di quei 600.000 euro gliene sono stati sequestrati 400.000 che sono andati a pagare quanto addebitato dal giudice. Erano 100.000 euro per ognuno dei quattro imputati: lo stesso Baita, Nicolò Buson, William Colombelli e Claudia Minutillo. Ma Baita era l’unico ad avere il denaro contante, motivo per il quale il giudice ha attinto da lui». Chissà come lo rimborsano gli altri tre.

Renzo Mazzaro

 

Spunta un verbale del 2001. La procedura di infrazione aperta dalla Commissione europea viene archiviata dalla politica

VENEZIA – Non è un fulmine a ciel sereno il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova. I riflettori sulla concessione unica – e la scarsa trasparenza, le spese e la mancanza di gare d’appalto – si erano già accesi nel 1998, molto prima della grande inchiesta sulla corruzione. Ma erano stati spenti su richiesta del governo italiano dai vertici della commissione europea, allora guidata da Romano Prodi, che nel 1998 aveva aperto una procedura di infrazione (numero 2165) sulla violazione della normativa di mercato. Carte secretate che adesso tornano alla luce. Verbali di riunioni “informali e semiufficiali” da dove emerge una strana verità. E una rete di contatti e rapporti che oggi assume una luce diversa. Nel dicembre del 2001 la direzione generale per il Mercato interno della Ue convoca a Bruxelles le autorità italiane. Il funzionario e responsabile del procedimento Alfonso Mattera di Ricigliano vuole approfondire gli aspetti tecnici dell’attività del Consorzio Venezia Nuova e sapere per quale motivo i lavori siano stati affidati in regime di monopolio, in contrasto con la normativa europea sui lavori pubblici. La delegazione italiana è composta dall’ambasciatore Umberto Vattani, dal capo del Dipartimento Affari giuridici della Presidenza del Consiglio Antonio Malinconico (sarà poi sottosegretario con il governo Monti), e, in rappresentanza del Magistrato alle Acque il vicepresidente Giampietro Mayerle e l’ingegnere Alberto Scotti, progettista del Mose. Ci sono anche il presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati e gli avvocati Alfredo Biagini, Sciaudone e Ripa di Meana. Un’udienza in piena regola, in cui i funzionari europei chiedono perché i lavori siano stati affidati direttamente quando le norme europee lo vietavano. «La complessità dell’opera l’ha imposto», rispondono gli ingegneri. Per questo non si è fatto nemmeno un progetto esecutivo, ma si procede per stralci. Lavori senza gara anche per la morfologia lagunare (vengono dichiarati due miliardi di euro di spesa), perché si tratta di “interventi strettamente legati alla grande opera” e per il rialzo delle pavimentazioni da 100 a 120 centimetri (2,1 miliardi, in realtà mai visti). Si arriva al dunque. Come evitare una sanzione miliardaria da parte dell’Europa? Lavori per 1,8 miliardi di euro, contesta la commissione, «sono già stati spesi in modo irregolare» sulla base di un’attribuzione negoziale (“de grè a grè”). Ma le “autorità italiane” dichiarano che i lavori non possono essere messi a gara. E che si potranno aprire al mercato soltanto le forniture meccaniche (paratoie) per un valore totale di 600 milioni di euro su oltre sei miliardi. Il resto deve restare affidato al Consorzio. Che oltre a non fare le gare può godere di una percentuale del 12 per cento sul totale dei lavori per “oneri del concessionario”. A un certo punto l’inchiesta si ferma. Interviene il governo italiano. Presidente allora era Silvio Berlusconi, ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, dell’Ambiente Altero Matteoli. E i vertici dell’Ue guidata da Romano Prodi decidono di archiviare, pur con qualche indicazione. Una prova, secondo i comitati che adesso vogliono aprire quegli archivi, di come delle irregolarità – se non del malaffare e delle tangenti – si sapeva da tempo. Ben prima che i lavori del Mose cominciassero. La prima pietra sarà gettata nella primavera 2002 da Berlusconi, a fianco dell’allora sindaco Paolo Costa, del patriarca Angelo Scola e del presidente Galan. Nel 2003 il Comitatone approva il via ai lavori. Quattro anni dopo, sindaco Cacciari, il Comune decide di presentare al governo le critiche tecniche e i progetti alternativi al Mose. Prodi, nel frattempo diventato presidente del Consiglio, decide di andare avanti e mette la fiducia. «Non mi ha nemmeno ricevuto quel giorno», ricorda Cacciari. Due anni dopo la Corte dei Conti apre un fascicolo sulle irregolarità contabili del Consorzio Venezia Nuova. Anche questo rapporto, firmato dal giudice Mezzera, viene tenuto in un cassetto per mesi. Fino alla clamorosa inchiesta, partita da una verifica fiscale, che ha scoperchiato la pentola. Tanti ancora i lati da chiarire.

Alberto Vitucci

 

LE CIFRE – Sei miliardi di euro per le dighe mobili

Quasi sei miliardi di lavori per il Mose. All’appello ne manca ancora uno. E il Cipe ha promesso più volte di sbloccare i 401 milioni di euro stanziati dal governo con la legge di Stabilità 2013. Ma i soldi non arrivano. Un problema che potrebbe ritardare ulteriormente la conclusioni dei lavori delle dighe mobili, già slittati di due anni rispetto al termine previsto del 2014. Anche il prezzo è andato lievitando. Finito più volte nel mirino della Corte dei Conti. Il costo del progetto preliminare nel 1989 era di 3200 miliardi di lire, circa un miliardo e 600 mila euro. Pian piano si è arrivati a quota 4 miliardi di euro «a prezzo chiuso». Fino all’ultimo adeguamento prezzi (materiali e opere di compensazione richieste dai comuni) che ha portato il totale a quota 5 miliardi e 600 milioni. Manutenzione esclusa, naturalmente. La rimozione delle paratoie e la loro verniciatura, dato che il sistema è quasi completamente subacqueo, costerà dai 40 ai 50 milioni di euro l’anno. Un nuovo business per cui si dovranno decidere le regole.

(a.v.)

 

Gazzettino – Mose, lo scandalo investe Chioggia

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31

ott

2014

Il “nuovo” Consorzio si difende: «Abbiamo rispettato le regole»

IL CASO Pressioni sui politici locali da parte di Mazzacurati. «Il loro voto vale come Venezia»

Mose, lo scandalo investe Chioggia

Le rivelazioni di Stefano Tomarelli, responsabile dei lavori di Condotte, aprono un nuovo fronte

PORTOGRUARO – Verbali delle gare d’appalto falsificati Indagato anche il direttore tecnico del Consorzio

ATTENZIONI PARTICOLARI- Potrebbe interessare anche Chioggia – sul fronte politico – uno dei prossimi filoni dell’inchiesta sul cosiddetto “sistema Mose”. A raccontare delle particolari attenzioni riservate dall’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova agli amministratori di Chioggia è stato l’ingegnere Stefano Tomarelli, responsabile dei lavori del Mose per conto di Condotte, una delle principali imprese italiane di costruzioni. Tomarelli ha dichiarato ai pm che fu lo stesso Mazzacurati a riferirgli la circostanza. L’ingegnere romano (che ha già patteggiato la pena) non è stato però in grado di fare alcun nome.

 

L’INCHIESTA – La deposizione del responsabile dei lavori alla bocca di porto

Sistema Mose, trema il palazzo «Pressioni di Mazzacurati sul Comune e sui politici locali»

TOMARELLI «Il voto del sindaco al Comitatone era importante, come quello di Venezia»

SVOLTA – Secondo l’ingegnere di Condotte, i fondi neri utilizzati da Mazzacurati sarebbero andati anche a qualche politico di Chioggia

Potrebbe interessare anche Chioggia – sul fronte politico – uno dei prossimi filoni dell’inchiesta sul cosiddetto “sistema Mose”, che a metà ottobre si è già in parte conclusa con venti patteggiamenti per i reati di corruzione e false fatturazioni.
A raccontare delle particolari attenzioni riservate dall’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova (nella foto) agli amministratori di Chioggia è stato l’ingegner Stefano Tomarelli, responsabile dei lavori del Mose per conto della ditta romana di costruzioni Condotte, una delle principali imprese nazionali, che si sta occupando proprio delle paratie in via di realizzazione alla bocca di porto di Chioggia.
«Diciamo che su Chioggia l’attenzione di Mazzacurati sul Comune, sul sindaco etc., si accendeva soprattutto quando c’era il Comitatone, perché in fin dei conti… il voto del sindaco di Chioggia, la sua posizione a favore o contraria era sempre importante, valeva come quella di Cacciari o altro sindaco di Venezia. Quindi lui era particolarmente attento…», ha spiegato Tomarelli ai sostituti procuratore Paola Tonini e Stefano Buccini nell’interrogatorio dello scorso 25 giugno.
L’ingegnere di Condotte si riferisce al periodo fino al 2010 e ai pm ha spiegato che parte dei fondi neri utilizzati da Mazzacurati per attirare il consenso generale attorno al Mose sarebbero finiti anche a qualche politico di Chioggia: «Me lo disse», ha precisato Tomarelli, facendo riferimento alle confidenza ricevute dall’ex presidente del Cvn, il quale gli avrebbe più volte ripetuto di dover prestare attenzione a quel fronte. «Diciamo che io lo dedussi, ma poi, insomma, lo diceva che aveva questa necessità che tutto andasse per il suo verso… che la giunta comunale votasse a favore del Mose…».
Tomarelli non è stato però in grado di precisare a quali persone sarebbero finiti i soldi. Ai pm ha raccontato che, quando si discuteva di Mose, gli venivano fatti i nomi di qualche rappresentante politico di peso a Chioggia, ma ha precisato di non sapere se fossero a libro paga di Mazzacurati: «Non mi disse di avergli dato soldi, questo no».
Finora gli unici chioggiotti finiti sotto inchiesta sono stati alcuni imprenditori coinvolti nei lavori del Mose, accusati di corruzione e false fatture: tutti hanno già chiesto e ottenuto il patteggiamento di pene non superiori a due anni di reclusione, con la confisca di somme di denaro consistenti.
Ora la Procura dovrà trovare conferme al racconto di Tomarelli, mettendo assieme le confessioni rese dai vari indagati e acquisendo riscontri anche attraverso la documentazione sequestrata lo scorso giugno nel corso delle perquisizioni, quando saltò fuori un foglietto scritto a mano con nomi e, a fianco, alcune cifre. Sarà però difficile ottenere conferme da Mazzacurati: le condizioni di salute, stando al suo legale, non glielo consentirebbero.

Gianluca Amadori

 

L’INCHIESTA – Indagato l’ingegnere portogruarese Andrea De Gotzen

«Appalti truccati al Consorzio»

Verbali delle gare d’appalto falsificati per favorire alcune ditte vicine al Consorzio di bonifica Cellina Meduna? È il sospetto della Procura di Pordenone. Oltre all’abuso d’ufficio, all’omissione di atti d’ufficio, turbativa d’asta e peculato, nelle dieci informazioni di garanzia notificate l’altro ieri dalla Guardia di finanza, anche all’ingegnere portogruarese Andrea De Götzen, si fa riferimento anche alla falsifità ideologica e al falso materiale. Ci sono però centinaia di documenti da visionare per cercare conferma alle ipotesi di reato al vaglio degli inquirenti, ma si parla di due “tesoretti” di 14 milioni e 7 milioni di euro, una riserva di denaro definita «atipica» dagli inquirenti.
Nel registro degli indagati sono stati iscritti, a vario titolo, il presidente Americo Pippo, il suo staff attuale e alcuni direttori del passato. È stato semplicemente informato di essere sottoposto a indagine l’attuale direttore Marcello Billè, mentre i decreti di perquisizione erano stati emessi, oltre che per Pippo, per il coordinatore dell’Ufficio Ragioneria, Mauro Muzzin; per la segretaria Daniela Falcone, i geometri Paolo Sbrizzi (Ufficio appalti) e Livio Santarossa (Ufficio progetti); per l’ingegnere portogruarese Andrea De Götzen (direttore tecnico); per l’ex direttore generale Renzo Scramoncin e l’ex direttore tecnico Roberto Egidi.
Il Consorzio ha espresso «fiducia nel lavoro dell’autorità giudiziaria» nella convinzione che documenti, progetti e delibere sequestrati potranno «chiarire l’infondatezza delle ipotesi accusatorie adombrate». In una nota stampa è stata però espressa «una certa perplessità» sul fatto che dagli atti notificati emerge che «tra le fonti di prova citate ci sono note e dichiarazioni a firma di dipendenti che da anni hanno contenziosi aperti con il Consorzio». In realtà l’indagine sarebbe partita da segnalazioni di impresari che si lamentavano perchè a vincere le gare del Consorzio Cellina Meduna erano sempre le stesse 5 o 6 ditte. Prima di procedere con gli avvisi di garanzia, i finanzieri hanno cercato riscontri all’interno del Consorzio. A questo punto le indagini potrebbero prendere anche direzioni inaspettate e coinvolgere altri soggetti sia privati che pubblici.

 

L’INCHIESTA Alle spese (un milione e mezzo) contribuisce chi patteggia oltre 2 anni

E i condannati pagano le intercettazioni

Oltre un milione e mezzo di euro. A tanto ammonta la spesa sostenuta dalla Procura di Venezia per le intercettazioni ambientali e telefoniche, durate per molti mesi, che hanno consentito di scoprire e scardinare il cosiddetto “sistema Mose”. Il conto è stato depositato nei giorni scorsi dalla società che ha in appalto il servizio su incarico della Procura lagunare. E, tra breve, sarà presentato ai primi imputati che hanno definito il procedimento con il patteggiamento. Soltanto a quelli con pene superiori ai due anni di reclusione, in quanto il codice di procedura penale esclude gli altri dal pagamento delle spese di giustizia. Dunque, finora, soltanto l’ex presidente della Regione, Giancarlo Galan (tutt’ora presidente della commissione Cultura alla Camera) sarà chiamato a contribuire al pagamento delle intercettazioni, in quanto ha patteggiato due anni e 10 mesi di reclusione. Lo stesso toccherà all’ex assessore Renato Chisso, se definirà la pena al livello concordato con la procura (due anni e 6 mesi), e agli eventuali altri indagati che in futuro dovessero essere condannati a pene superiori ai 24 mesi. Fino al 2013 vigeva il principio della solidarietà: dunque, in caso di più imputati condannati, lo Stato poteva rivolgersi al più ricco e farsi rimborsare le spese di giustizia direttamente da lui anche per tutti gli altri (magari nullatenenti). La norma è stata però cambiata nell’agosto dello scorso anno e, ai sensi del decreto legislativo 111, le spese di giustizia vanno suddivise in parti uguali e ciascun imputato è tenuto a pagare la quota di sua competenza. Ciò significa che lo Stato riuscirà a recuperare soltanto una parte del milione e mezzo di euro anticipati per le intercettazioni ambientali e telefoniche. Tutti i condannati, a prescindere dall’entità della pena, sono invece chiamati a rifondere allo Stato le spese sostenute per il mantenimento durante il periodo di custodia cautelare in carcere.

 

Nuova Venezia – Mose. Il commissario tra una settimana

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31

ott

2014

Il Consorzio decide di non inviare osservazioni, Cantone va avanti

VENEZIA – Nessuna «osservazione» o documentazione integrativa. I vertici del Consorzio Venezia Nuova hanno deciso di non opporsi in alcun modo alla procedura avviata dal presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone per il commissariamento. Dopo una lunga riunione è stata scartata la via legale. Gli avvocati avevano messo sul tavolo la possibilità di far pesare il fatto che in questo caso non si tratta di un’impresa. Ma di un soggetto del tutto unico, creato dalla Legge Speciale del 1984, che ha firmato con lo Stato convenzioni che hanno valore legale. Ma la valutazione finale del presidente Mauro Fabris è stata quella di lasciar stare. «Faremo quello che ci dicono, come abbiamo sempre fatto», si limita a dire, «siamo un concessionario dello Stato». Difficile sarebbe, del resto, opporsi per via legale a chi in fondo è l’unico finanziatore del Consorzio. Adesso l’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) aspetterà lo scadere del termine dei tre giorni poi, forse già lunedì, invierà al prefetto di Roma competente per territorio – qui sono state firmate le convenzioni tra il Consorzio e lo Stato – la richiesta formale per procedere al commissariamento. Il prefetto potrebbe nel giro di una settimana emanare il decreto. A quel punto si tratterà di scegliere la strada migliore per mettere in atto la procedutra di controllo disposta dall’Autorità. Sarà nominato con ogni probabilità un commissario esterno – forse un dirigente dei Lavori pubblici – che dovrà relazionare periodicamente sullo stato dei lavori. L’altra ipotesi potrebbe essere l’affiancamento di una persona di fiducia di Cantone all’attuale management. Ma pare difficile, dopo l’apertura formale di un procedimento che ha seguito incontri e mesi di istruttoria. L’unica cosa certa è che i lavori del Mose non dovrebbero subire rallentamenti. Anzi. Potrebbero addirittura sbloccarsi i finanziamenti del Cipe promessi in primavera e mai più arrivati. Il primo caso di commissariamento di grandi imprese dopo l’entrata in vigore della legge, nel giugno scorso, fu il ramo di impresa Maltauro, coinvolto nell’inchiesta per le tangenti dell’Expo 2015 a Milano. Allora l’Autorità ha disposto anche l’accantonamento di somme (utili di impresa) per pagare i danni processuali.

(a.v.)

 

Le reazioni dei partiti e la richiesta di Zitelli (Iuav): tutto il progetto va sottoposto a revisione

«Una nuova società per gestire l’opera»

VENEZIA Una nuova società per la gestione del Mose, con management di alto profilo e controllo pubblico che trovi le risorse per la gestione delle opere e la messa in gara». Lo chiede Alessandro Coccolo, responsabile del Pd metropolitano. «Bisogna chiudere da subito una delle pagine più vergognose della storia italiana e costruire un nuovo modello di gestione per le opere di salvaguardia», dice «Abbiamo massima fiducia nei confronti del presidente Cantone», conclude il Pd, «e bisogna ripristinare la legalità e superare la concessione unica». Parole pesanti, che indicano come il clima nei confronti delle grandi opere e della loro gestione fin qui vista stia cambiando. «L’importante», precisa Pietrangelo Pettenò, consigliere regionale di Rifondazione, «è che non siano i lavoratori a pagare per le malefatte altrui e per la cricca del Mose». Il riferimento è ai lavoratori della Palomar, che vedono a rischio il loro posto di lavoro. «Lavoratori che con competenza e professionalità operano al Petrolchimico e alla costruzione della terza corsia dell’autostrada Venezia-Trieste». Plaude all’iniziativa del commissariamento anche Italia dei Valori con i consiglieri regionali Antonino Pipitone e Gennaro Marotta. «Lo abbiamo invocato più volte, anche con una lettera a Renzi», dicono, «è un gesto importante, nell’interesse dei cittadini e dell’imprenditoria onesta. «Stupisce che il sottosegretario all’Economia Baretta, il presidente del Consorzio e il proprietario della Mantovani Chiarotto non siamo sfiorati da alcun dubbio», dice Andreina Zitelli, docente Iuav e già membro della commissione di Impatto Ambientale che bocciò il progetto Mose nel 1978, «come ho chiesto pubblicamente al dottor Cantone è necessario adesso sottoporre a revisione il progetto del Mose, ricostruire il processo decisionale di approvazione del Mose per capire dove siano le responsabilità. Tecniche ma anche politiche, con i comitatoni del 2003 (Prodi) e 2006 (Berlusconi) che approvarono «un progetto irreversibile, al contrario di quanto stabiliva la legge, dagli altissimi costi di manutenzione». Ben venga il commissario, insistono i comitati Ambiente Venezia e No Mose. «Basta che questo non significhi accelerare la realizzazione dell’opera che va invece passata ai raggi x».

(a.v.)

 

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