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Sono malinconiche già di per sé queste giornate di fine ottobre e inizio novembre, con le nebbioline e le piogge, con il buio che arriva sempre più presto e porta con sé qualche brivido di freddo. Da noi a Venezia, poi, a questi regolari appuntamenti se ne aggiunge un altro: quello con le prime acque alte. Quest’anno ne abbiamo avuto un assaggio verso metà ottobre e poi un episodio un po’ più serio con l’arrivo di una vasta perturbazione autunnale, culminata con la giornata infernale di di domenica scorsa. Ma la malinconia non è soltanto quella, per così dire, meteorologica (c’è anzi qualcosa di dolce nelle ovattate foschìe lagunari, qualcosa che fa parte del fascino della città). A essa si aggiunge il pensiero di altre, più banali e materiali realtà. Con l’acqua di marea che supera l’altezza delle rive e accenna a espandersi sulle fondamente e le calli, non si può non pensare al grande progetto delle dighe mobili, alle promesse, alle certezze che ci erano state mille volte elargite. Invece ora siamo nel 2012 e per vedere il Mose in funzione dovremo aspettare, se tutto va bene, il 2017 (il governo ha promesso l’ultima tranche di finanziamenti per il 2016). E abbiamo appreso che il costo è in continuo aumento: doveva essere il corrispondente di un miliardo e mezzo di euro e siamo arrivati a cinque e mezzo (di cui quattro già spesi e non una paratoia installata). Il pensiero ritorna agli anni Ottanta e Novanta, a tutte le proposte alternative che oggi sarebbero state realizzate da lungo tempo. Si poteva adottare il sistema delle navi affondabili, o quello delle chiuse dei porti olandesi; si potevano almeno tentare gli interventi diffusi proposti da tanti ambientalisti e conoscitori della laguna. Il sindaco Costa allora li accusò di essere come “infermieri”che volevano sostituirsi ai “dottori” assunti dal Consorzio d’imprese chiamato pomposamente Venezia Nuova. Con il progetto dei dottori avremo dunque speso tra cinque anni, e se tutto va bene, cinque miliardi e mezzo. Avremo delle strane, molto strane paratoie incernierate sott’acqua, continuamente incrostate di molluschi e fanghiglia, affiancate da enormi tubi di cemento a sezione rettangolare dentro i quali dovrebbero muoversi i tecnici addetti alla grande opera. Avremo sacrificato una parte dell’Arsenale per alloggiare i lavori di manutenzione (a un costo, sembra, di 30 milioni l’anno). Avremo migliaia di pali di cemento piantati nel fondo delle bocche di porto nel tentativo di sostenere i cassoni che conterranno le paratoie… tutto immenso e tutto fragile, tutto d’acciaio e cemento e tutto così vulnerabile. E tutto per arrestare quei pochi centimetri d’acqua che stanno lentamente, quasi dolcemente, bagnando alcune rive e alcune calli. Una ragione, forse, di più profonda e dolorosa malinconia per noi veneziani. * Italia Nostra, sezione di Venezia

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