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Gazzettino – Vajont, mea culpa di Stato.

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

10

ott

2013

IERI E OGGI – Le lacrime dell’alpino e il monito del parroco «Ora torni il silenzio»

CLAMORE – Il parroco esorta al silenzio e all’autocritica sull’«uso della solidarietà»

«Le parole ubriacano la verità»

MEZZO SECOLO DOPO «I politici farebbero meglio a stare al loro posto»

Si ricordava il pavimento della chiesa. L’unica cosa che era rimasta in mezzo al fango e alle pietre. Mezzo secolo dopo, l’alpino della “Fantuzzi” Giuseppe Marchesan, 71 anni, di Bassano del Grappa, è tornato a Longarone. È andato alla commemorazione civile. Ha ascoltato il presidente del Senato Pietro Grasso porgere le scuse dello Stato per un disastro che poteva essere evitato. Poi è andato alla messa. E alla fine della liturgia ha avvicinato il parroco: «Padre, è questo il pavimento della vecchia chiesa?».
No, non c’è più nulla della vecchia chiesa di Longarone. È rimasta solo la statua, deturpata, della Madonna, quella che venne trasportata dall’acqua e fu ritrovata a cento chilometri di distanza. E ci sono i ricordi. Quelli che ancora oggi fanno venire le lacrime all’alpino Marchesan. Aveva 21 anni quando, in tradotta dal Piemonte, arrivò a Longarone. «Era il 10 ottobre, il giorno dopo». Alpino “comandato”, non volontario. Riuscì a tornare in caserma solo dopo quattro giorni, 96 ore quasi ininterrotte di scavi per tirare fuori i cadaveri. «Ogni giorno si trovava un corpo. Ne abbiamo recuperati fino a Natale». L’immagine che non lo abbandona è quello di una donna tornata da Torino dove aveva un figlio ricoverato in ospedale e che, a mani nude, scavava dove una volta c’era la sua casa. E la sua famiglia. «Scavava a mani nude, diceva: qui c’era la porta della mia casa, devono essere qui. Li trovò tutti. Sepolti. Morti».
L’alpino Marchesan cinquant’anni dopo pensava di ritrovare il pavimento della vecchia chiesa, magari sotto il nuovo edificio religioso. Non sa neanche lui perché, se lo ricorda perfettamente. Non si aspettava, invece, e neanche voleva, la sfilata delle autorità. «Le scuse adesso? Dopo mezzo secolo? Forse i politici farebbero meglio a stare al loro posto. A lavorare. A fare buone leggi». L’ex alpino che a Longarone scavò fino alla Pasqua del 1964 queste cose le dice. Altri in paese le pensano?
Il parroco è restìo a commentare. Quando gli domandano cosa pensa di tutte le cerimonie organizzate per il cinquantenario, don Gabriele Bernardi dà una risposta disarmante: «Si rischia di fare tutto in funzione dei mezzi di comunicazione». Troppe parole? «Le parole ubriacano la verità. Io credo nei silenzi. Sennò non potrei credere nei nostri morti». Alla messa seguita alla commemorazione civile, don Gabriele ha invitato i fedeli a chiedere scusa. «Chiediamo scusa di quello che abbiamo fatto ai nostri morti. Del nostro dolore. Di come abbiamo accolto i bambini. Di come abbiamo usato la solidarietà».
Inutile chiedergli cosa volevano significare quelle parole rivolte al momento dell’atto penitenziale: non aggiunge altro. Don Gabriele è a Longarone da tanto tempo. Quando venne costruita la nuova chiesa, lui c’era. Prima cappellano. Poi parroco. Finita la messa di ieri mattina ha rivolto due auguri. «Uno al Paese: che sia degno della storia che ha alle spalle. E uno a coloro che ancora soffrono, dobbiamo pregare per loro, ma anche pregarli».

Alda Vanzan

 

Vajont, dopo 50 anni le scuse dello Stato: «Non fu una fatalità»

A Longarone la commemorazione della tragedia. Messaggio di Napolitano: «Ci furono precise colpe umane».

E il presidente del Senato commosso: «Un disastro che si poteva evitare»

IL GOVERNATORE – Sulle grandi opere serve il confronto, qui la popolazione non fu ascoltata

Le scuse ufficiali di Grasso e le parole di Napolitano: «Non fu una tragica, inevitabile fatalità»

IL MESSAGGIO – Il capo dello Stato: «Le responsabilità non vanno sottaciute»

LONGARONE – Il presidente del Senato: «Mi inchino di fronte a vittime e sopravvissuti»

Vajont, mea culpa di Stato

IL LUTTO –  Tutto il paese si ferma, superstiti e soccorritori uniti nell’abbraccio

LONGARONE – Nel giorno in cui lo Stato chiede scusa, la diga del Vajont pare nascondersi. Imponente, identica a cinquant’anni fa, per nulla scalfita dall’onda che la notte del 9 ottobre 1963 spazzò via interi paesi e uccise quasi duemila persone, quella diga nel giorno in cui le istituzioni cercano di riconciliarsi con la popolazione, resta invisibile, coperta dalle nuvole. C’è voluto mezzo secolo. Ci sono voluti i libri di Tina Merlin. Gli spettacoli teatrali. I film. Le denunce di tanti. Adesso anche le rivelazioni che quel crollo del monte Toc forse fu pianificato. Ma le scuse ora ci sono. Giorgio Napolitano non è venuto a Longarone, ma ha mandato un lungo messaggio. Nel palasport gremito di autorità, sindaci, alpini, volontari, giovani che neanche erano nati e vecchi che invece ricordano tutto di quei giorni di lutto e devastazione, il sindaco di Longarone Roberto Padrin legge la lettera arrivata dal Quirinale. Parole dirompenti. Quelle che tutti, qui in paese, aspettavano. Da tempo. «Non fu una tragica, inevitabile fatalità – scrive il presidente della Repubblica – ma drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità». In prima fila il presidente del Senato annuisce: Pietro Grasso è appena stato al cimitero di Fortogna, ha chinato il capo di fronte alla distesa di lapidi bianche, è rimasto scosso alla vista della Madonna, quella col volto rovinato e senza mani, la statua che era nella chiesa buttata giù dall’onda assassina e che venne ritrovata cento chilometri a valle. «È il simbolo che in sé conserva l’idea e l’immagine del dolore», dice il presidente del Senato.
Cinquant’anni dopo la tragedia, Longarone si ferma. Negozi, bar, ristoranti, ogni attività commerciale è chiusa. “Lutto cittadino”. In ogni chiesa si celebrano messe. Al cimitero monumentale si depone la corona in memoria delle 1910 vittime di Longarone, Castellavazzo, Erto e Casso. Solo 701, ricorderà il vescovo Giuseppe Andrich, identificate. Un terzo non venne neanche mai ritrovato. Il paese si ferma. A Longarone arrivano i sopravvissuti. I soccorritori. I volontari che scavarono nel fango e sollevarono pietre e per settimane continuarono a tirar fuori cadaveri. Ci sono i sindaci di città che con Longarone si sono gemellate, paesi che hanno vissuto analoghe tragedie. Come Frejus, dove nel 1959 la diga invece crollò e morirono in 400. «Non potevamo non esserci», dice Michelle Guillerme, arrivata appositamente dalla cittadina francese.
Sul palco i bambini intonano l’Inno di Mameli. E subito cala il silenzio: ci sono da commemorare i morti di Lampedusa e il sindaco di Longarone chiede un minuto di cordoglio «con cui vogliamo associare le ‘nostre’ vittime del Vajont». Padrin ricorda che il 9 ottobre è la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali provocati dall’incuria dell’uomo”. Ma puntualizza: «Quella parola, “incuria”, prima o dopo dovrebbe essere tolta, perché non di incuria si trattò nel caso del Vajont, ma di colpa. E forse di dolo». Il governatore del Veneto, Luca Zaia, dice che non basta ricordare e commemorare: «Qui si scelse di fare la diga contro il parere della popolazioni, i vecchi avevano avvertito, ma non furono ascoltati. La vera sfida è la tutela dell’ambiente e il confronto con le comunità prima di fare le grandi opere».
Il presidente del Senato è diretto: «Questo disastro si sarebbe evitato se una maggiore considerazione della vita umana avesse prevalso su interessi economici e strategici. Non si possono sottacere le pesanti responsabilità umane che hanno determinato la catastrofe». Grasso si inchina di fronte alla gente del Vajont. Lo dice: «Sono qui oggi per inchinarmi di fronte alle vittime e ai sopravvissuti. Sono qui per portare le scuse dello Stato. Sono qui per riparare, per sanare, per quanto possibile, quella ferita che da 50 anni separa questo popolo delle istituzioni, convinto che solo con la verità e la giustizia questo processo potrà trovare pieno compimento». Le scuse. E l’impegno: «La tutela dell’ambiente a lungo è stata considerata come un costo aggiuntivo. Bisogna cambiare prospettiva».
Il palasport esplode nell’applauso. E quando i bambini finiscono di cantare “Tutto è in equilibrio”, una canzone composta appositamente per i 50 anni del Vajont, il presidente del Senato infrange il protocollo: sale sul palco, si complimenta con i giovani coristi, prende in braccio una bimba che festeggia il suo quinto compleanno e assieme agli altri canta: “Tanti auguri Federica”. Auguri anche alla gente del Vajont. Perché dopo mezzo secolo la ferita con lo Stato si rimargini.

Alda Vanzan
E Pordenone protesta: Letta venga qui da noi

Disappunto in Friuli: nessuno ha celebrato con gli abitanti di Erto e Casso. Deputato Pd scrive al premier

Il silenzio (e l’assenza) delle istituzioni sul versante pordenonese si evidenzia sulla diga del Vajont con delusione e proteste. A Longarone le celebrazioni con il presidente del Senato Pietro Grasso ed i governatori di Veneto e Friuli Venezia Giulia, Luca Zaia e Debora Serracchiani. Ad Erto e Casso, nella valle da cui tutto si sprigionò, nessuno. Ha detto il sindaco di Erto e Casso, Luciano Pezzin: «Abbiamo lottato prima, durante e dopo la tragedia. Sentire le istituzioni centrali vicine sarebbe stato il coronamento di un percorso». Sulla stessa linea il primo cittadino di Vajont, Felice Manarin.
Ora cresce l’attesa per l’arrivo del premier Enrico Letta, previsto per sabato. Andrà sicuramente a Longarone, non è certa invece la presenza sulla diga. Proprio a tal proposito il deputato pordenonese del Pd, Giorgio Zanin, gli ha inviato una lettera. «Il programma della visita del presidente Grasso limitato alla sola valle del Piave sta creando disappunto. Mi permetto, senza alcuna questione di campanile ma semplicemente informando sulle opportunità del rispetto di una piena commemorazione e partecipazione delle vittime della tragedia, di chiedere con forza che la sua visita riservi la giusta attenzione alla popolazione residente a monte della diga».
L’anniversario ha toccato comunque il cuore di Erto e Casso. Due le messe: la prima celebrata dal vescovo di Pordenone – Concordia, Giuseppe Pellegrini, nella chiesa di San Bartolomeo a Erto, la seconda nella chiesetta di Sant’Antonio, a due passi dalla diga, con l’omelia di don Carlo Onorini, nel 1963 giovane parroco di Casso: «Ora rivediamo la luce ma a quel tempo nulla era più fertile. Un paesaggio lunare». Ma c’è stata pure un’altra protesta. Due tre ertani con un cartello hanno urlato che dal 1963 manca ancora da costruire una strada. Sono arrivati i carabinieri a farli tacere.

 

LA VERGOGNA CONTINUA

L’onta dell’onda che ha spazzato via persone e paesi sul Vajont continua a imperversare sulle nostre teste. Basti sentire le polemiche prima, durante e dopo il consiglio Regionale del Veneto tenutosi a Longarone per ricordare il disastro. La politica o meglio gli uomini politici colpevoli allora come oggi di incuria, ingiustizia, immoralità, iniquità, disonestà, e di quant’altro di peggio ci sia, non finiranno mai di usare il potere a loro e proprio piacimento. Vajont, Mose, Tav, Mps, Sai, Parmalat, Bond argentini, ecc., non cederanno certo per le parole, poesie o le bellissime lettere dei lettori inviate al Gazzettino. Servono solo a ricordarci che in ogni lavoro “privato-statale” che si rispetti c’è lo zampino della “sporca” politica condito da tangenti e fatture gonfiate in barba ai cittadini, alla democrazia, all’onestà, all’etica e all’equità sociale. Tanto non pagheranno mai care le loro colpe è successo per la strage del Vajont, succede sempre.

Emiliana D’Andreis – Trieste

 

UNA VERA STRAGE DI STATO

Nella celebrazione (legittima e doverosa) dell’anniversario della tragedia del Vajont, ricorre un dato stupefacente: la strage era evitabile ed esistono delle precise responsabilità. Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, conferma e, come altri, sembra chiedere scusa. Chi ha assistito in questi anni al ricordo di quella strage, alle rievocazioni mediatiche, ai tentativi di inchieste, non ha dubbi: gli esperti sapevano che il monte Toc stava franando, le stesse misurazioni sul pendio montagnoso prevedevano la calata della montagna sulla diga. Il motivo per cui non sono state prese le necessarie misure è facile da intuire, non ultimo salvaguardare la gloria di una diga che a quell’epoca rappresentava il vanto del genio italiano. Ma quello che fa meraviglia a distanza di mezzo secolo dal terribile evento, è che solo ora tutti sono concordi sulla evitabilità della strage. Da molto tempo molti sapevano, ma occorreva aspettare i cinquant’anni per confessare e così passare alla storia. Avverrà altrettanto, ne siamo quasi certi, per altre misteriose stragi, come quella di Piazza Fontana, quella di Piazza della Loggia, della stazione di Bologna, di Ustica… Con una certa ansia aspettiamo i cinquant’anni.

Luigi Floriani – Conegliano (Tv)

 

CINQUANT’ANNI DI IPOCRISIE

Quando salgo a Fortogna dai miei Nino e Maria ci vado lontano dalle celebrazioni, per parlarci in silenzio, lassù tra il Borgà, il Bec del Toc e il Certèn dove, come allora, c’è Lei intatta, enorme. Non più prima al mondo, ora, ma primatista in Europa, sì, anche nel dolore. E come la Diga anch’io non ho alcuna “ferita molto aperta”, nè “una sorta di rabbia sorda”, nè “desiderio di giustizia”. Quello che mi resta è un lago di ricordi ed emozioni rinserrato a dovere, impermeabile che a volte apre le sue piccole chiuse per scaricare un subitaneo eccesso di lacrime. E soprattutto non sento nessun bisogno di scuse, il leit-motiv ipocrita di questo 50° anniversario. A che titolo poi e perchè? Forse per continuare a prenderci in giro visto che a farle è chi ha permesso, e continua a farlo, di costruire nell’alveo dei fiumi, chi dichiara esaurite le scosse telluriche e si ritrova con la Basilica d’Assisi crollata, chi sa solo sporgere querele per procurato allarme e si ritrova con città distrutte (l’Aquila) e centinaia di morti. Tenetevele le vostre scuse e, se ci riuscite, tacete. Almeno stavolta. Il Vajont avrebbe dovuto insegnare, si disse, e non è stato. Già da quella notte si tracimò in retorica. E lo fecero le migliori penne d’Italia, da Bocca a Montanelli a Buzzati. Ci volle una donna, Tina Merlin, per additare i veri colpevoli, con nomi e cognomi. Che noi sapevamo già, subito. E siccome, come sempre, si cercherà chi quella notte vide per farlo raccontare ecco, io me ne andrò sullo sbreccio del Massalezza su verso Costa Vasei a ricordare, guardandoLa, che io e tanti altri non vedemmo. Dei 5 sensi fu proprio la vista ad essere accecata, stordita dagli altri quattro. Sentimmo invece, il boato, il sibilo lancinante chè tutto era suono di morte. E poi annusammo, odori di petrolio, di fango, di decomposizione. E infine toccammo, i resti delle case, delle cose, dei nostri cari. Ricordo e silenzio possono ridare la vista perchè le centinaia di Vajont che sono seguite al primo, cessino per sempre.

Vittore Trabucco – Treviso

 

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