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LETTERE AL DIRETTORE

Caro direttore,
in questi giorni, in occasione dei cinquant’anni dal disastro del Vajont, i giornali nazionali hanno riportato notizie vecchie e nuove, confermando quanto la “gente del Vajont“ sapeva da sempre e cioè che la causa di questa catastrofe è da imputare solamente all’uomo. Vorrei però raccontare un episodio avvenuto prima della costruzione della diga. Avevo 11 anni quando nella mia vecchia casa del borgo Spesse di Erto, arrivò un “signore“ incaricato dalla Sade, per valutare il valore delle nostre case, oggetto di esproprio per la costruzione della diga. Era vestito elegantemente e in modo sprezzante con la punta metallica del suo bastoncino frugava negli interstizi dei muri esterni della mia casa. A un certo punto, in presenza mia e di mia madre, disse in dialetto: «Cossa volè far, cossa voleo de stè case marse?». Mia madre, mite ma dalla lingua schietta, rispose: «Vu’ che gavè na bona schena ciapémela e portémela più in su, che a noi altri ne va ben questa». La casa fu espropriata e con il ricavo della vecchia, di altri terreni e dei nostri risparmi, ricostruimmo a quota più alta, sempre nel borgo Spesse. Il 9 ottobre 1963 mia madre, altri cinque famigliari e altri 61 abitanti del mio borgo scomparvero nel nulla.

Paolo Filippin – Cimolais (Pn)

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Caro lettore,
questa sua lettera spiega più di tanti lunghi racconti e di molti, altisonanti discorsi perchè era doveroso da parte delle istituzioni e dello Stato italiano chiedere scusa alla gente del Vajont. Non solo per i duemila morti di quella tragica notte. Ma anche per le umiliazioni subite. Prima e dopo il disastro.

 

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