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L’attore con Mario Brunello va in scena al teatro Toniolo di Mestre

La maestra Breschi istruisce il pubblico e di coro in coro la serata è una festa

MESTRE – Entri in teatro e ti sembra di essere alla prova generale di una recita scolastica. La maestra Francesca Breschi non siede alla cattedra, è troppo impegnata a disegnare cerchi nell’aria tentando di spiegare ai suoi alunni che non siamo al karaoke, ma dentro la vita di Giuseppe Verdi. E poi siamo al Toniolo di Mestre, mica in classe, e dietro la maestra non c’è la lavagna ma Marco Paolini, che cammina su e giù “protetto” da due angeli custodi: Mario Brunello, già un tutt’uno con il suo violoncello, e Stefano Nanni, con le dita sul pianoforte. Bene. Ci siamo tutti. Siamo a “Verdi, narrar cantando”, lo spettacolo da tutto esaurito (l’ultima replica mestrina è stasera) che Marco Paolini ha messo in piedi, e in voce, per celebrare come si conviene il duecentesimo compleanno di Giuseppe Verdi. Sì Verdi, quello che ti inietta il “zum pa pa” nella testa e non te lo togli più. Quello del “libiamo ne’ lieti calici” e della “donna è mobile”, che fu uomo, musicista, patriota e tante altre cose da persona normale e immensa. Il “problema”, però, è che qui si canta. Non si va a teatro solo per guardare e ascoltare Paolini che racconta la sua vita: ci si va per cantare. “Di quella pira l’orrendo foco/tutte le fibre m’arse, s’avvampò!/Empi spegnetela, o ch’io fra poco/ col sangue vostro la spegnerò!”: si inizia così, di petto, con la parte terza del complicato “Trovatore” e la cabaletta che Manrico intona per salvare la madre. «Dovete far uscire il fuoco, su dai», esorta la maestra Breschi, tentando di dirigere la platea, coro grande e sgangherato. Non è facile, bisogna superare l’imbarazzo. Il vicino alla destra è uno bravo, canta nei cori gospel tutte le domeniche: battaglia persa. Quella a sinistra, invece, ha un raffreddore che è meglio se tiene la bocca chiusa, ma fra due ore la sentirai cantare mentre guarda gli orari dell’autobus in Corso del Popolo. Ai primi due tentativi di canto collettivo c’è la fila di quelli che non vogliono perché “non siamo capaci”. Al terzo cantano tutti: la magia di Verdi ti entra dentro che neanche te ne accorgi. Missione compiuta.

Paolini inizia a raccontare la vita del maestro: con il sottofondo sognante, pulito e perfetto del violoncello di Mario Brunello e gli arrangiamenti di Stefano Nanni è tutto uno spasso, dall’inizio alla fine. Dalle rocambolesche genesi dei libretti per mano di un “mona” come il poeta muranese Francesco Maria Piave, alla “minaccia” wagneriana, all’insuperabile Otello, che Paolini trasforma in uno scarpone innamorato e afflitto da Desdemona, un fazzoletto bianco. Dopo il “Va’, pensiero”, al Rigoletto ci si arriva tutti assieme cantando “La donna è mobile”, che non ha l’accento sulla “o”, ma sulla “i”, come ripete quattro volte la maestra Breschi. Al “libiamo” c’è una vaga atmosfera da Oktober Fest, parte qualche risata ed è veramente una festa. Dopo il Requiem e l’affollatissimo funerale del maestro Verdi, raccontato da Paolini attraverso la cronaca di un “fighetto” come Tommaso Marinetti, con “La Traviata” arrivano i dolori: quelli della tisica Violetta, che al terzo atto riabbraccia il suo Alfredo, li sentiamo nostri. Cantano prima le donne, poi gli uomini. Due cori separati, due animi diversi, un po’ di “tisi” qua e là, fra le corde vocali, e leggera tristezza per uno spettacolo straordinario che si avvia alla conclusione. Conclusione? Macché: il bis è tutto della platea. E chi si alza dalla poltrona se ne va cantando. “Parigi, o cara, noi lasceremo, la vita uniti trascorreremo…”.

Silvia Zanardi

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