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«Galan in 13 anni ha speso il doppio dei suoi redditi»

La Guardia di finanza: uscite a 2,7 milioni ed entrate a 1,4. La beffa del 2012 quando l’ex ministro diceva di essere in difficoltà: «Il mio conto? “Sotto” di 300 mila euro»

PADOVA «Sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero». La formula è di rito, ma quella dichiarazione sottoscritta il 30 maggio 2013 dall’onorevole Giancarlo Galan, presidente della commissione Cultura di Montecitorio, assume ora un valore particolare alla luce della domanda di autorizzazione ad eseguire la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’esponente forzista. Nella dichiarazione dei redditi 2012, pubblicata sul sito della Camera, l’ex governatore del Veneto (dal 1995 al 2010) ed ex ministro dei Beni culturali (fino al 16 novembre 2011) certificava un reddito imponibile di 40.316 euro. Decisamente in calo rispetto, tanto per fare un esempio, all’imponibile sottoscritto dallo stesso Galan per il 2007, quando da presidente della giunta veneta dichiarava 140.778 euro lordi. D’altra parte l’alfiere di Forza Italia, in un’intervista concessa a Radio 24 nel settembre 2012, aveva sostenuto che la sua situazione economica non era tra le più floride. «Ci sono mia moglie e il mio commercialista », aveva affermato, «che controllano tutto e ne sanno più di me. So solo che il conto in banca è in passivo,ho una bella casa e tanti debiti, circa 300 mila euro: una cifra umana ma rilevante, intanto li copre mia moglie, poi quando ricomincerò a lavorare, contribuirò anch’io. E poi ho un appartamento a Rovigno e una piccola barca, che voglio vendere ma non ci riesco». Adesso, però, la Guardia di Finanza contesta a Galan e consorte (Sandra Persegato) conti che non tornano nel periodo compreso fra il 2000 e il 2013. La coppia, sposatasi nel giugno 2009, avrebbe dichiarato entrate pari a 1.413.513,31 euro, a fronte di uscite pari a 2.695.065,95 euro. La differenza, in negativo, è di 1.281.552,64. Tornando alla dichiarazione per la pubblicità della situazione patrimoniale 2012, presentata nel 2013, va detto che non vi compare il succitato appartamento di Rovigno (su due piani, in un palazzo del Settecento). Perché? Lo ha spiegato lo stesso Galan, in un’intervista a “Il Piccolo”: «Per acquistare l’appartamento ho creato una società di diritto croato che è mia al 100%». Dovrebbe essere la Franica Doo di Rovigno di cui l’ex ministro afferma di essere l’amministratore unico. Nell’elenco degli immobili certificati dal deputato forzista figurano la comproprietà (lui però ha il 98%) di un fabbricato a Cinto Euganeo (la casa di abitazione con due pertinenze, dove nel 2009 è stato celebrato il principesco matrimonio con Sandra), la proprietà di un terreno non edificabile (un bosco) a Rovolon; la nuda proprietà (al 33,33%) di due fabbricati a Padova e la nuda proprietà (sempre al 33,33%) di un fabbricato a Milano. Sostanzioso l’elenco dei beni mobili iscritti in pubblici registri: un’Audi Q7 (26 cavalli fiscali del 2006); una Land Rover Pickup (22 cavalli fiscali) del 1980; un fuoristrada 170MPinzgauer (23 cavalli fiscali) del 1979; un Pelpi quadriclo del 2007; un Carryall agricolo (10 cavalli fiscali) del 2007; una Morris Minor (13 cavalli fiscali) del 1985. Due, invece, le imbarcazioni da diporto dichiarate: un Boston Whaler Walk Around del 1991 e un Boston Whaler 28’ Conquest. Sul versante delle azioni lui dichiarava 3.000 azioni di Veneto Banca, il 100% del capitale sociale della Franica Doo (pari a 1.173.300 kune: per un euro ci vogliono 7,5 kune); 50% del capitale sociale della Margherita srl di Padova (20 mila euro). Del “caso Galan” tornerà a occuparsi mercoledì la giunta presieduta da Ignazio La Russa. Nella sua illustrazione il relatore Mariano Rabino (Sc) non ha fatto sconti ricordando l’accusa del Gip: «Si faceva ristrutturare l’abitazione sita in Cinto Euganeo, ove venivano svolti dal 2007 al 2008 lavori nel corpo principale e successivamente nell’anno 2011 nella barchessa» per un valore stimato di 1.100.000 euro.

Claudio Baccarin

 

Veneto sviluppo

Quel contratto d’oro a Barone voluto dalla presidente Gemmo

VENEZIA Il contraccolpo dell’inchiesta Mose fa volare gli stracci in Consiglio regionale. Spunta una lettera del 2007, firmata da Giancarlo Galan su sollecitazione di Irene Gemmo, allora presidente di Veneto Sviluppo, scritta per mettere a tacere gli oppositori all’assunzione del direttore generale della Finanziaria Luigi Barone. Il quale era stato reclutato alle seguenti modiche condizioni: 320.000 euro di stipendio base, più un premio annuale di 60.000, più l’auto blu, più «vitto e alloggio in albergo adeguato», da lunedì a venerdì, perché arrivava da Roma e lì doveva tornare ogni fine settimana. Al cuore non si comanda,com’è noto. La Gemmo l’aveva assunto sulla parola, ma si era trovata l’opposizione nel Cda e non riusciva ad avere l’ok per il contratto. Chi frenava di più era Fabrizio Stella, consigliere in quota Pdl come la stessa Gemmo, il quale sosteneva che 380.000 euro più i benefits era un trattamento spropositato: il tetto da non superare dovevano essere i 275.000 euro dello stipendio del primo presidente di Corte di Cassazione. Per risolvere il caso, Irene Gemmo chiede un parere legale. Stella si mette di traverso anche qui, pretendendo che si pronunci l’azionista di maggioranza di Veneto Sviluppo, cioè la Regione (51% della Finanziaria), che peraltro di uffici legali ne ha due,uno in giunta e uno in Consiglio, i quali lavorerebbero gratis. Il collegio sindacale gli dà ragione. La Gemmo è in difficoltà. Arriva in soccorso Giancarlo Galan: il 25 luglio 2007 il presidente spedisce una lettera riservata personale a Fabrizio Stella e per conoscenza a Irene Gemmo, in cui bacchetta il consigliere discolo con una reprimenda di due pagine mandandolo a rileggersi il codice civile e lo statuto della Veneto Sviluppo. La Regione non c’entra, lui è un incompetente, la smetta con «velleitarie pretese» e partecipi alle decisioni «con spirito di collaborazione ». Insomma, si metta in riga. Benché riservata, la lettera arriva a tutti i consiglieri di palazzo Ferro Fini, tant’è che ce n’è in giro ancora una copia. Questa vicenda va ad aggiungersi agli «strani episodi» elencati martedì scorso dal consigliere Moreno Teso, che nella seduta di autocoscienza dopo gli arresti dell’inchiesta Mose, ha denunciato in aula la gestione allegra di Veneto Sviluppo che negli anni «è entrata come azionista in aziende poi fallite, buttando via 20 milioni di euro». «Verificherò con il lanciafiamme ogni singolo episodio», gli ha replicato Luca Zaia. Andrebbe aggiunto che la politica delle partecipazioni di Veneto Sviluppo sotto la presidenza Gemmo era così condivisa dai soci bancari (49% della Finanziaria) che nel 2008 portò alle dimissioni del consigliere Franco Andreetta, anche se giustificate al pubblico con motivazioni generiche, come si usa in banca. Luigi Barone fu poi assunto con un contratto di 273.000 euro l’anno, senza i 60.000 di premio annuale, ma più i benefits. Ma l’aria era diventata irrespirabile per lui e dopo poco si licenziò. I casi della vita l’hanno portato a sedere con Marcello Dell’Utri e Alberto Rigotti nel Cda di Epolis, dov’era socio anche Piergiorgio Baita con Adria Infrastrutture. Il gruppo è imploso e Rigotti è stato arrestato il 5 giugno scorso dalla Guardia di Finanza di Cagliari per bancarotta fraudolenta. È andata meglio a Fabrizio Stella, che oggi dirige Avepa, l’agenzia dei pagamenti in agricoltura, con uno stipendio di 152.000 euro. Stella parrebbe godere della fiducia di Luca Zaia, ciò nonostante risulta essere l’unico dirigente al quale non è stato rinnovato il contratto che scadeva a metà legislatura. E’ in regime di proroga, periodo che dura 45 giorni, scaduti i quali si decade. Lo stanno tenendo in castigo perché ha fatto il discolo un’altra volta? Stella raggiunto al telefono risponde in inglese: «No comment».

Renzo Mazzaro

 

«Il Mose va commissariato» Il Codacons vuole Cantone

L’associazione dei consumatori ha avviato una class action per i risarcimenti

Il presidente Rienzi: «In questi anni l’opera è diventata il bancomat dei ladroni»

VENEZIA Se è vero che «il Mose è diventato il bancomat dei ladroni» non ci sono alternative: «i cantieri vanno fermati, il Consorzio Venezia Nuova va sciolto e affidato a Raffaele Cantone – nominato l’altro giorno presidente dell’Autorità Anticorruzione, ndr – e il Mose va posto sotto sequestro perché è il corpo del reato». Ne è convinto il presidente nazionale del Condacons, l’avvocato Carlo Rienzi, ieri a Mestre per presentare assieme al presidente regionale Franco Conte la Class action -anche se in termini giuridici è improprio chiamarla così – contro i ladroni del Mose. Venerdì mattina i rappresentanti dell’associazione dei consumatori hanno consegnato in procura la documentazione per accreditarsi come parte offesa nel procedimento penale a carico delle persone indagate. L’associazione stima che il danno possa essere di almeno 2 miliardi e 700 mila euro, calcolato sugli incrementi di costo dell’opera e i minori trasferimenti ottenuti dal Comune dalle Legge speciale proprio perché dirottati sul sistema delle dighe mobili che si è mangiato la fetta più grande dei trasferimenti. Per aderire all’azione collettiva c’è tempo fino al 31 luglio, e per farlo basta andare sul sito dell’associazione, iscriversi e compilare i moduli che poi, ogni persona che deciderà di aderire, dovrà far pervenire alla procura. «Il risarcimento dei cittadini veneziani ma non solo, perché potrà aderire qualsiasi cittadino italiano», spiega Rienzi, «è il minimo che si possa fare perché il Mose si è rilevato una mangiatoia per tutti, alimentata con i soldi pubblici, e quindi con i soldi dei cittadini». «Il nostro », aggiunge Rienzi, «è anche un modo per fare sentire meno soli i magistrati in questa battaglia di legalità dentro la città». Quella di oggi però non è la prima battaglia del Codacons contro il sistema di dighe mobili dato che già nel 2004 i consumatori, con il sostegno di altre associazioni locali (Ambiente Venezia, Magistratura democratica e l’Assemblea permanente No Mose) aveva promosso un ricorso al Tar, rigettato, e l’anno successivo respinto anche dal Consiglio di Stato. Il Codacons, oggi come allora, sostiene che non sia mai stata applicata una corretta procedura per la valutazione di impatto ambientale, by-passata dal Comitatone. E va da sé che se Tar e Consiglio di Stato si sono espressi su documenti che oggi si scopre potrebbero essere stati aggiustati – è questa la linea del Codacons – ci sono i presupposti per chiedere la revoca di quelle sentenze come è del resto previsto dall’articolo 395 del Codice di procedura civile. Tuttavia, anche se il Codacons avesse ragione resta però la questione di che fare con una grande opera che nel frattempo è arrivata all’85% per cento della sua realizzazione, e che dovrebbe essere ultimata, salvo imprevisti, entro la fine del 2016. «È un dibattito che bisogna avere il coraggio di affrontare », sostiene ancora Rienzi, «perché noi crediamo che, anche se siamo arrivati a questo punto, sia meglio fermare tutto, lasciare così com’è perché in base a quello che sta emergendo dalle indagini della procura veneziana nessuno può dire con certezza che questa sarà un’opera sicura. Meglio quindi fermarsi qui e destinare gli ulteriori stanziamenti previsti ad altri interventi di riqualificazione della laguna». Uno scenario improbabile. «Se proprio l’opera deve andare avanti», spiegano del Condacos, «è necessario l’intervento di un commissario speciale, e noi siamo convinti che questo commissario da mettere a controllare i lavori debba essere Cantone». Il Codacons poi si batterà anche perché, nel corso del processo, la probabile richiesta di costituzione di parte civile da parte dello Stato venga respinta. «Perché lo Stato è quello che ha provocato quello che è successo, il Consiglio dei ministri di oggi è in continuità con i consigli dei ministri di ieri, non sono parti diverse. Le responsabilità di quanto accaduto sono anche nello Stato».

Francesco Furlan

 

«Il parere ambientale? Non è mai stato dato. Era solo un orpello da superare in fretta»

VENEZIA. Nel ricorso presentato dal Codacons e da altre associazioni ambientaliste della città si contestava il fatto che il Comitatone (in particolare con due delibere, una del 6 dicembre del 2001 e una del 4 febbraio del 2003) avrebbe dato il via libera al Mose «in assenza di una valutazione di impatto ambientale positiva» dal momento che una prima valutazione negativa era stata fatta nel 2000 dai ministri Ronchi (Ambiente) e Melandri (Beni culturali) ma venne poi annullata dal Tar senza che l’opera sia stata poi sottoposta ad un nuovo vero percorso di valutazione ambientale a livello ministeriale. Per il Codacons guidato da Rienzi «la valutazione dell’impatto ambientale è stata trasformata in un orpello fastidioso da superare a tutti i costi».

 

Il procuratore Nordio «Contro la corruzione leggi più semplici»

VENEZIA. «La nomina di un commissario contro la corruzione può anche avere una giustificazione politica, ma razionalmente parlando non ci si deve fare nessuna illusione». Lo ha detto a Radio Radicale il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio. Secondo il procuratore aggiunto, che sta coordinando l’inchiesta sul Mose, «la nomina di un commissario potrà in minima parte servire. L’inasprimento delle pene e la creazione di nuovi reati non servirebbe a nulla, come ha dimostrato l’esperienza del passato. Gli unici strumenti contro la corruzione, a parte l’educazione etica che si può realizzare in una o più generazioni, sono la semplificazione delle procedure e l’individuazione trasparente delle competenze. Se un cittadino deve bussare cento porte è inevitabile che qualcuna resti chiusa finché qualcuno non viene a suggerirti di oliarla e di renderla apribile. Copiamo dagli altri Paesi dove ci sono pene anche meno aspre», ha concluso,«ma procedure molto più trasparenti e competenze molto più individuate». È una riflessione che Carlo Nordio aveva già fatto dieci giorni fa, nel corso della conferenza stampa in procura il giorno in cui erano scattate le 35 misure cautelari. «Al di là dell’inchiesta di oggi», aveva sottolineato il magistrato, «voglio ricordare quanto scrissi già 15 anni fa: una delle cause della corruzione deriva dalla farraginosità delle leggi, dal numero delle leggi e dalla loro incomprensibilità, e da una diffusione di competenze che rende difficile individuare le varie responsabilità».

 

Il governo chiude il magistrato alle acque

Stop all’ente dopo oltre cento anni. Da ottobre competenze trasferite al Provveditorato interregionale per opere pubbliche

VENEZIA – Una riga nel comunicato del governo, al termine del Consiglio dei ministri di venerdì sera: «È soppresso il Magistrato delle Acque per le province venete e di Mantova». Dal primo ottobre cala il sipario su magistratura con 500 anni di storia e affaccio sul Ponte di Rialto, serenissima per nome anche se emanazione oggi del ministero delle Infrastrutture, con funzioni di controllo sulla laguna e sulle opere di salvaguardia. Con due magistrati come Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva in carcere da dieci giorni perché accusati dalla Procura di aver percepito “stipendi neri” per centinaia di migliaia di euro l’anno dal Consorzio Venezia Nuova, per non controllare alcunché, la decisione del governo Renzi – del tutto inaspettata anche dagli addetti ai lavori – ha un sapore tutto politico. «Certamente le vicende giudiziarie di questi giorni hanno giocato nell’accelerare la decisione », conferma il sottosegretario Pierpaolo Baretta, a sua volta stupito della decisione. Una scelta che ha lasciato sconcertati molti, a Venezia, da sinistra a destra. Anche perché – pur in attesa della pubblicazione del decreto – il governo ha deciso di trasferire le competenze del Magistrato al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia: sempre organi ministeriali, ma passati da una dimensione territoriale veneziana a grandezza Italia del Nordest. Pure se da mesi magistrato è lo stesso provveditore interregionale, Roberto Daniele – con sede di entrambi gli uffici a palazzo dei Dieci Savi – la decisione di cancellare il Magistrato alle Acque è accolta con sconcerto trasversale. Anche perché il Comune di Venezia voleva sì abolirlo, ma per ottenerne i poteri: Comitatone dopo Comitatone – il sindaco Orsoni più volte – Ca’ Farsetti ha chiesto più volte per sé tutte le competenze che oggi imperano in laguna, rendendone difficile il governo e il controllo locale (dal Magistrato alla Provincia alla Capitaneria di porto). E la riunione delle competenze a Venezia è anche uno dei caposaldi della proposta di nuova Legge speciale in discussione, primo firmatario il senatore pd Felice Casson. «Una decisione sconcertante, che va contro qualsiasi logica e allontana ancora più la salvaguardia da Venezia», commenta l’ex assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin. «Fuffa: come se l’iperstatalismo romano fosse garanzie di probità», incalza il consigliere Beppe Caccia, «non ci dimentichiamo gli scandali Balducci, il G8 e l’Aquila». E in una mozione al voto del Consiglio comunale, domani – che nasce dalla richiesta al governo di «smantellare il sistema politico- affaristico, il cui profilo criminale emerge dall’inchiesta in corso» su Consorzio, salvaguardia e mazzette – si chiede anche «il superamento dell’attuale Magistrato alle Acque e trasferimento dei suoi poteri al Comune di Venezia». Sinistra e destra, si diceva. «Così è ancora peggio: una magistratura con secoli di storia veneziana diventa sempre più romana: non ha senso», commenta il capogruppo provinciale di Fratelli d’Italia, Piero Bortoluzzi, «semmai è urgente una bella riforma della legge speciale per Venezia, che unifichi le competenze sulla laguna, attribuendole ad esempio alla città metropolitana, solo a condizione però che abbia organi elettivi».

Roberta De Rossi

 

ROBERTO DANIELE «Non ho incarichi di collaudo»

VENEZIA. «Sono stato incaricato dell’esecuzione di collaudi del Mose, ma il giorno stesso che ho preso servizio a Venezia, il 2 settembre 2013, come presidente del Magistrato alle Acque, ho rassegnato le dimissioni dagli incarichi di collaudo che mi erano stati affidati». Così Roberto Daniele, riferendosi alla ricostruzione degli affidamenti di collaudi per il Mose fatta dal settimanale l’Espresso. «L’importo reale rispetto alle somme che mi sono attribuite pe ri collaudi», aggiunge, «è di gran lunga inferiore: un terzo più o meno. E poi, essendo io dipendente della P.A., la parte più consistente relativa all’onorario è stata versata interamente in conto entrate alla Tesoreria dello Stato, nel rispetto della norma sull’onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti pubblici: fondi dai quale il Ministero attinge per pagare la parte accessoria dello stipendio mio e dei 50 dirigenti, mentre prima era lo Stato a stanziare queste somme».

 

NUOVA VENEZIA – IL CASO MOSE – La nostra amara soddisfazione

Per anni e anni noi ambientalisti abbiamo contrastato in vari modi(anche con dettagliati esposti) l’affare Mose, indicando le alternative possibili a questa grande opera devastante, inutile e costosa, denunciando anche le varie criticità amministrative. Dall’anomalia del concessionario unico alla mancata considerazione della negativa Valutazione d’impatto ambientale nonché delle prescrizioni indicate (illusoriamente) dal consiglio comunale, alle “inesattezze” del parere fondamentale dato dal Ministero dei Beni e le attività culturali, che peraltro sembra aver approvato anche quelle opere realizzate in laguna tanto per spendere i cospicui finanziamenti, come confessato da uno degli arrestati (Baita, ex impresa Mantovani), anche queste in gran parte da noi contestate. Maabbiamoanche più volte sottolineato quella che sempre più si percepiva come una mafia infiltrata dal potere forte del Consorzio Venezia Nuova nella nostra città (e non solo), con la sua ramificata corruzione che sta venendo alla luce, fatta di tangenti- favori-incarichi-accordi-ricatti- nomine nei posti che contano. Capace di creare quantomeno a criticità e subalternità anche da parte di gran parte del mondo culturale e accademico. È ormai normale utilizzare sponsorizzazioni, ma è grave che forze politiche e istituzioni le chiedano a un consorzio d’imprese che per i propri lavori deve ottenere autorizzazioni e finanziamenti. Ancora più grave, ovviamente, quando i fondi sono dati illegalmente e in cambio di qualcosa. Ci hanno chiamato e ci chiamano, ingiustamente, quelli del no. È per noi ora un’amara soddisfazione seguire l’evolversi di un’inchiesta che ci auguriamo possa fare piena luce sui vari aspetti di questa scandalosa realtà.

Cristina Romieri – Lido di Venezia

 

Sanità, canoni salati e concessioni eterne: project da 1,2 miliardi

Da Mestre a Verona, da Este-Monselice a Treviso i nuovi ospedali costruiti su una montagna di debiti

Rate fino al 2036 per saldare tutte le rate: ai privati rendimenti a due cifre

Prima il “mito” dei mega progetti, poi i sospetti su cui lavora la magistratura

VENEZIA – Dal nuovo ospedale di Mestre alla Cittadella della salute di Treviso, dal nuovo polo sanitario di Schiavonia d’Este agli impianti tecnologici di Camposampiero e Cittadella. E poi i nuovi ospedali di Castelfranco e Montebelluna, la ristrutturazione di Borgo Trento e Borgo Roma a Verona, il nuovo ospedale unico dell’Alto Vicentino. Solo le province di Belluno e di Rovigo ne sono state risparmiate: masi sa che i montanari non si fidano dei veneziani e i rodigini son pochini. Negli ultimi dieci anni la parola magica era «project» (tanto i soldi li mette il privato). Peccato che non si trattasse di mecenatismo ma semplicemente di business: il privato costruisce subito ma si garantisce per trent’anni la concessione di pulizie, pasti, energia, diagnostica, parcheggi. Un rendimento, per i privati, a due cifre. Un affitto capestro per il pubblico, che ammette così la propria incapacità di oculata gestione. Più di un miliardo e trecento milioni di euro di investimenti per rinnovare la rete ospedaliera del Veneto. Ma così ci siamo giocati una generazione di debiti: per un project da cento milioni di euro il «canone» a favore delle imprese concessionarie può sfiorare anche i trenta milioni l’anno. Quello di Mestre, ad esempio, scadrà nel dicembre 2031, quello di Santorso addirittura nel 2036. Nove contratti di progetto di finanza in campo ospedaliero sono stati sottoscritti o semplicemente siglati in attesa di aggiudicazione. La larga parte si deve all’epoca in cui il Veneto era guidato da Giancarlo Galan, su cui pende una richiesta di arresto nell’inchiesta sui finanziamenti del Consorzio Venezia Nuova alla politica. Che la politica dei project non fosse proprio un affare se n’era accorto anche Leonardo Padrin, presidente della commissione regionale sanità, che nel 2010 aveva chiesto al governatore Luca Zaia di «verificare e rinegoziare i project attivi, sospendere e riesaminare quelli ancora in corso». Tre anni più tardi è la magistratura veneziana che sta puntando i riflettori, facendo seguito a un approfondimento in corso da parte della Corte dei conti. Ad aprire la stagione dei project sanitari fu l’Asl 12 Veneziana per realizzare, tra il 2003 e il 2007, il nuovo ospedale dell’Angelo di Mestre. Un contratto da 250 milioni di euro per una concessione della durata di 24 anni. Demolito il vecchio Umberto I, adesso nel nuovo ospedale si paga il parcheggio (sei euro al giorno) e per avere la televisione in camera occorrono 3 euro e mezzo al giorno (e 5 euro di cauzione per il telecomando). Ad aggiudicarsi la gara è stato il «gotha» dei project del Veneto: Astaldi, Mantovani,Gemmo, Studio Altieri. Imprese i cui nomi compaiono più volte nella ricostruzione della magistratura veneziana come autentici «pigliatutto » degli appalti. Più o meno gli stessi nomi degli altri project: la milanese Siram a Venezia, Este e Monselice, Cittadella e Camposampiero, la rodigina Guerrato a Castelfranco e Montebelluna, l’impresa Carron a Treviso e Monselice, la Mazzi a Verona, la vicentina Gemmo a Santorso, Monselice, Mestre, Venezia («Nonostante una stampa superficiale e poco corretta,Gemmo spa è totalmente estranea alle indagini legate ai recenti scandali Mose e Galan» ha spiegato nei giorni scorsi l’azienda di Arcugnagno). E le cooperative rosse? Ci sono sempre, con piccole e grandi quote: a Verona come capogruppo mandataria c’è la storica Cooperativa Muratori e Braccianti di Carpi (con la Ccc e la Manutencoop), a Santorso ancora la Cmb di Carpi, a Castelfranco la Coop service, a Venezia la Coveco e la Ccc. Insomma, i project sanitari – e quelli sulle infrastrutture – hanno garantito nel periodo più nero dell’edilizia la sopravvivenza alle maggiori imprese di costruzioni del Veneto. Che grazie all’esperienza avviata dalla giunta Galan hanno potuto esportare la loro professionalità: in Toscana, ad esempio, i quattro project degli ospedali di Massa, Lucca, Pistoia e Prato sono stati realizzati dalla cordata del gruppo Astaldi che aveva costruito a Mestre. L’investimento di capitali privati nella realizzazione degli ospedali, poi, è stato ampiamente scontato dalle banche, cui è stata data in garanzia proprio la sicurezza della gestione per venti o trent’anni. Proprio nell’equilibrio tra apporto di capitale, valore dei servizi dati in concessione e durata della concessione c’è il ritorno per il privato: dalle pulizie e dai pasti di un ospedale si possono ricavare anche dieci o venti milioni l’anno. Soprattutto con la certezza della durata e del pagamento: le Asl sono pagatori morosi ma assolutamente certi e di questi tempi non è poco. Al palo è rimasto il project del nuovo ospedale di Padova (600 milioni): promesso da Galan e salutato con entusiasmo da Zanonato, con la vittoria di Massimo Bitonci è destinato a tornare nel cassetto. Le imprese già pronte se ne faranno una ragione. Insomma, per «regalare» i nuovi ospedali abbiamo indebitato una generazione di veneti. Ma tanto i soldi li mette il privato, no?

Daniele Ferrazza

 

Baita sugli ospedali «Decide tutto Lia Sartori»

«Il mio rapporto con Lia Sartori (foto) era conflittuale»: è per questo che Piergiorgio Baita, ex numero uno della «Mantovani spa» non vinceva né un appalto né un lavoro nella sanità veneta. Se non quando si univa alla «Gemmo». Baita, arrestato nel febbraio 2013, lo spiega diffusamente nel lungo interrogatorio del6 giugno di un anno fa in procura a Venezia. Lo fa davanti ai pm Ancilotto e Buccini, assistito dagli avv. Ambrosetti e Rampinelli. «Non le ho mai corrisposto somme di danaro in via diretta», precisa Baita, ricordando il rapporto difficile con l’eurodeputata vicentina, per la quale sono stati chiesto gli arresti domiciliari. «Il consorzio credo che abbia finanziato la campagna delle europee del 2009 dell’onorevole Sartori». «Il Consorzio puntava su Sartori… i soldi furono consegnati direttamente dall’ingegner Mazzacurati».Non solo: Baita farebbe riferimento anche ad altri finanziamenti, «in particolare alla associazione di imprese che ha concorso per il project all’ospedale di Mestre». In quegli anni, dal 2005 al 2010, Sartori è il deus ex machina della sanità veneta: «Le leve della Sartori erano i direttori generali delle Asl, alla cui nomina aveva provveduto in maniera autonoma rompendo i rapporti politici, per cui i direttori potevano essere etichettati in maniera precisa come persone di riferimento dell’onorevole». Ma«Sartori in sanità non ha mai ritenuto di considerare la Mantovani come soggetto di prima battuta, ritenendo che invadesse il campo riservato ai gestori sanitari e in particolare alla Gemmo».

 

Scandalo fondi Mose, il Pd è nella bufera

I pm Ancilotto, Buccini eTonini allargano gli interrogatori

E l’ex sindaco dimissionario racconta gli scontri con Mazzacurati

VENEZIA Inchiesta Mose: le prime timide ammissioni di alcuni arrestati negli interrogatori di garanzia resi ai giudici hanno spinto i pubblici ministeri Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini a viaggiare lungo l’Italia per sentire personalmente quello che hanno da raccontare, per convincerli a vuotare il sacco, in modo da ottenere nuovi elementi e ripartire com’ è accaduto con le due indagini precedenti: quella che ha portato in carcere da una parte Piergiorgio Baita della «Mantovani » e dall’altra Giovanni Mazzacurati , presidente del Consorzio Venezia Nuova», grazie alle dichiarazioni dei quali sono scattati gli arresti di mercoledì scorso. L’ex presidente del Magistrato alle acque, il romano Patrizio Cuccioletta è accusato di aver percepito addirittura uno stipendio annuo di 400 mila euro e un bonus una tantum di 500 mila finito nel conto intestato alla moglie in una banca svizzera. Non ha potuto negare di averlo incassato, ha confermato, ma ha sostenuto essersi trattato di un regalo. Probabilmente qualche insistenza con lui potrebbe convincerlo ad andare oltre, a riferire con dovizia di particolari che cosa gli era richiesto di fare in cambio di quel presente. Uno dei titolari della Cooperativa San Martino, l’impresa di Chioggia da dove è partita l’inchiesta grazie alla verifica fiscale della Guardia di finanza, ha ammesso che i suoi emettevano fatture per operazioni inesistenti a favore del Consorzio in modo da formare fondi neri attraverso le «retrocessioni» del danaro che usciva per pagarle e poi in parte rientrava. Non è lungo il passo per spiegare a cosa servivano quei fondi neri e in tasca di chi siano finiti. Lo stesso ha spiegato il bolognese Manuele Marazzi, che le fatture fasulle, invece, le emetteva a favore della «Mantovani». Infine, l’ex amministratore delegato dell’Autostrada Venezia- Padova, il Pd Lino Brentan, piazzato però su quella poltrona dall’assessore di Forza Italia Renato Chisso, ha confessato di aver consegnato 12 mila euro nelle mani di Giampietro Marchese e in precedenza di aver organizzato una cena elettorale a Malcontenta per raccogliere fondi a favore della campagna elettorale di Davide Zoggia per le elezioni provinciali del 2009. E di Zoggia, già allora responsabile per gli enti locali e nelle segreteria nazionale del partito guidato all’epoca da Pierluigi Bersani, ha parlato anche l’ex sindaco Giorgio Orsoni nel suo unico interrogatorio, quello che gli è valso la scarcerazione (era ai domiciliari) e il raggiungimento dell’accordo con la Procura per il patteggiamento a 4 mesi. Orsoni dopo aver sostenuto che è stata «una sua debolezza » avanzare la richiesta di finanziamenti a Mazzacurati, racconta che Zoggia, assieme a Mognato e a Marchese, lo avrebbe convinto a insistere con il grande manager perché finanziasse con altro denaro la sua campagna elettorale. L’anziano ingegnere aveva fatto già arrivare più di 100 mila euro nelle casse, ma ne servivano di più e così sarebbero stati consegnati altri 400-500 mila euro. Mal’ex sindaco, nel suo interrogatorio, ci tiene a raccontare alcune circostanze di quando era già a Ca’Farsetti: «Mazzacurati aveva una tecnica sua, quella di pressare le persone, venne da me più volte per l’Arsenale, per la Legge speciale e per Est capital, dove l’amministrazione precedente aveva fatto delle cose inaudite perché si era messo in mano a Baita. Evidentemente pensavano di far bene, ma dopo di che io mi sono trovato, come dire, col coltello alla gola per molte cose, dalle quali ho cercato di uscirne e i conflitti con Mazzacurati fin da subito, da quando sono stato eletto, sono stati di vario tipo… io mi sono messo di traverso a certe operazioni sul Lido, sull’Ospedale al Mare, mi sono messo di traverso sull’occupazione dell’Arsenale» da parte del Consorzio Venezia Nuova.

Giorgio Cecchetti

 

Mercoledì l’autodifesa di Galan

Alla giunta autorizzazioni della Camera. E lo stesso giorno cinque ricorsi al Riesame

Domani in laguna il Tribunale dei ministri del Veneto decide se avviare le indagini su Matteoli

VENEZIA – Il primo appuntamento in agenda è quello di lunedì per il Tribunale dei ministri del Veneto: domani, il presidente Monica Sarti, giudice a Verona, ha convocato gli altri due colleghi, Priscilla Valgimigli e Alessandro Girardi, giudici di Venezia, negli uffici della cittadella della giustizia di piazzale Roma perché dovranno decidere in quale modo procedere, innanzitutto se avviare le indagini nei confronti dell’ex ministro delle Infrastrutture del governo Berlusconi, il toscano Altero Matteoli di Forza Italia. Giovanni Mazzacurati ha raccontato di essere andato in casa sua, in Toscana, a consegnargli una mazzetta e poi c’è lo stretto rapporto con l’ex presidente dei costruttori romani Erasmo Cinque, inserito a forza tra le imprese che dovevano vincere l’appalto per la bonifica dei terreni inquinati di Porto Marghera. Cinque e Matteoli erano entrambi nell’Assemblea nazionale di Alleanza nazionale, l’organo dirigente del partito quando al vertice c’era ancora Gianfranco Fini e il sospetto è che con la sua «Socostramo srl» (Società costruzione strade moderne) fosse il collettore di tangenti per il ministro. I tre giudici dovranno soprattutto fissare il giorno in cui l’ex ministro potrà presentarsi in laguna a raccontare la sua versione dei fatti, così come hanno chiesto di poter fare i suoi avvocati difensori. Mercoledì, poi, ci sarà il secondo round davanti al Tribunale del riesame presieduto dal giudice Angelo Risi: cinque i ricorsi fissati. Quello dell’imprenditore chioggiotto Stefano Boscolo Bacheto, uno dei titolari della «Cooperativa San Martino », l’impresa da cui è iniziata l’intera indagine sul Mose, grazie alla verifica fiscale della Guardia di finanza nel 2009; dell’ingegnere di Roma e tecnico del Consorzio Venezia Nuova Luciano Neri; del bolognese Manuele Marazzi, accusato di aver emesso fatture fasulle a favore della Mantovani con la sua società e di aver favorito la latitanza del padovano Mirco Voltazza; del segretario di Mazzacurati Federico Sutto, ex socialista e, secondo le accuse, distributore di tangenti per conto del presidente; dell’imprenditore romano di «Condotte d’acqua », impresa del Consorzio, Stefano Tomarelli. Nel primo «appuntamento con il Riesame due degli indagati hanno ottenuto la scarcerazione, il consigliere regionale del Pd Giampietro Marchese e l’imprenditore di Cavarzere Franco Morbiolo, che ora sono agli arresti domiciliari. Infine, lo stesso giorno, mercoledì, si riunisce per la seconda volta la giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera, quella che deve dare il via libera o meno all’arresto di Giancarlo Galan. I deputati non devono esprimere giudizi o entrare nel merito delle accuse, devono soltanto escludere o meno che da parte degli inquirenti via sia stato un intento persecutorio nei confronti dell’ex presidente della giunta regionale ora deputato di Forza Italia. Potrebbe già essere il giorno in cui l’ex ministro di Berlusconi darà la sua versione. A relazionare sulle accuse elevate dalla Procura lagunare nei suoi confronti è il deputato di Scelta civile Mariano Rabino, ma a tutti i componenti della Giunta è stata consegnata la copia degli atti dell’indagine, si tratta di migliaia di pagine.

(g.c.)

 

L’imprenditore vicentino sentito anche per un appalto in sicilia

Scandalo Expo, a Maltauro concessi gli arresti domiciliari

Resta in cella Cattozzo, il postino delle mazzette, accusato di aver trattenuto 500 mila euro per la “cupola”

PADOVA Maltauro è tornato a casa. Ieri, il giudice di Milano Fabio Antezza ha concesso gli arresti domiciliari a Enrico Maltauro, l’imprenditore vicentino finito in carcere lo scorso 8 maggio nell’inchiesta degli appalti dell’Expo 2015. Secondo la difesa dell’imprenditore la scarcerazione è stata disposta a seguito di ulteriori riscontri investigativi forniti dallo stesso indagato, che da subito aveva confessato di aver pagato tangenti alla «cupola » degli appalti. «Siamo molto soddisfatti» hanno spiegato i difensori, gli avvocati Giovanni Maria Dedola e Paolo Grasso , «finalmente è stato valorizzato l’atteggiamento di collaborazione del nostro assistito con l’autorità giudiziaria». Sergio Cattozzo (ancora in carcere) verrà nuovamente interrogato dai pm milanesi che indagano sulla «cupola». Per la terza volta si troverà infatti davanti ai sostituti per chiarimenti in merito alla contabilità delle tangenti che Maltauro, è questa l’ipotesi, ha versato o promesso alla «squadra» per gli appalti Sogin, Expo e Città della Salute. I pm stanno esaminando i documenti sequestrati su bandi e procedure al centro dell’indagine per trovare anche i riscontri con quanto messo a verbale dall’ex esponente Udc ma anche da Maltauro e Paris. Dai verbali viene a galla che Cattozzo, il «postino delle mazzette », aveva trattenuto per sè oltre 500 mila euro a cui se ne sarebbero aggiunti altri 500 mila, che a suo dire gli sarebbero toccati se l’accordo per Sogin fosse andato in porto. Per la gara di Sogin «abbiamo definito» ha chiarito Cattozzo, «la somma di un milione e mezzo con Maltauro» pari all’1,5 per cento dell’appalto chiesto all’imprenditore. In realtà poi la cifra versata – il resto sarebbe dovuto arrivare con l’avanzamento dei lavori – è stata di 490 mila euro di cui «300 mila corrisponde a quello che ho trattenuto per me stesso. La differenza l’ho suddivisa tra me, il senatore Grillo e il professor Frigerio ». L’imprenditore vicentino ieri nel carcere milanese di Opera è stato ascoltato come persona informata sui fatti dai pm di Catania. L’imprenditore ha lavorato anche in Sicilia con un consorzio da lui acquisito. Proprio dopo questo ennesimo verbale riempito davanti ad altri inquirenti e definito «esplorativo», è arrivata per lui la scarcerazione. E tornerà a casa.

 

L’INTERVENTO

Il sindaco ci ha tolto le deleghe e la parola

DI GIANFRANCO BETTIN

Il mio ultimo intervento politico a Ca’ Farsetti è stato un bicchiere di vetro scagliato contro il muro – come è stato scritto. Un gesto violento e irrazionale, ma politicamente connotato, pur se politicamente scorretto. Il sindaco ci aveva appena comunicato che si sarebbe dimesso ma che intanto ci aveva già revocato le deleghe. Restava in campo solo lui – lui e i partiti, in realtà – a gestire i venti giorni prima del commissario. Gli avevamo chiesto di dimetterci subito ma insieme, lasciandoci così il brevissimo tempo necessario a chiudere questioni urgenti ormai pronte per la soluzione, attese da molti in città. Nel mio caso, ad esempio, alcuni atti relativi a Porto Marghera e all’avvio del Parco della Laguna Nord, ma anche, ne cito un paio, la garanzia che si aprirà la comunità per giovani negli appartamenti che abbiamo tolto agli spacciatori di droga a Ca’Emiliani, l’esecuzione dell’ordinanza anti degrado in via Carducci predisposta dal settore Ambiente, la prosecuzione delle attività dell’Osservatorio Ecomafie, e qualche altro. Tutti i miei colleghi avevano pronti provvedimenti analoghi, ora a forte rischio. L’altra questione è che il sindaco ci ha così tolto la parola, per dire in consiglio comunale le nostre ragioni. E quando si soffoca la parola a volte esplodono i gesti, per quanto scorretti, come appunto il mio ultimo “intervento politico” a Ca’ Farsetti. Il penultimo era stato la richiesta di dimissioni del sindaco, ovvia, perché il patteggiamento lo rendeva necessario e, per noi, anche la conseguenza – annunciata il giorno stesso dell’arresto – di quanto era già inoppugnabilmente emerso di lecito (i contributi dichiarati, ricevuti dal Consorzio Venezia Nuova per la campagna elettorale). La magistratura, con i suoi mezzi e poteri, lo ha scoperto dopo quattro anni, ma se il fatto fosse stato pubblico all’epoca, nel 2010 (o prima, o dopo), non saremmo mai stati in una coalizione e a sostegno di candidati che avessero ricevuto tali contributi anche se “leciti”. Sono certissimo che Giorgio Orsoni non abbia richiesto i contributi “in nero” ma a noi basta e avanza ciò che di “regolare” è emerso (e che si estende alle ramificatissime relazioni su base economica intrattenute da moltissimi con il CVN in città e altrove). Il Comune è la sola istituzione che esce totalmente pulita da questo scandalo, nessun atto amministrativo compiuto ne risulta inquinato, come la magistratura stessa conferma, e siamo certi di aver avuto in questa pulizia un ruolo forte. Anche per questo nessuno, nemmeno il sindaco, ci toglierà la parola.

 

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