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Gazzettino – L’ex ministro Matteoli interrogato due ore

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

28

giu

2014

TANGENTI MOSE – L’ex ministro interrogato due ore

Matteoli: non mi sono arricchito. Orsoni, oggi il patteggiamento

L’ex ministro Altero Matteoli è comparso ieri a Venezia davanti al Tribunale dei ministri. «Mai preso soldi – ha detto – e il contributo elettorale di 20mila euro fu subito restituito». Oggi il gup deciderà sul patteggiamento chiesto da Orsoni.

MAZZACURATI «Matteoli mi ha fatto dei favori, ho finanziato la campagna elettorale»

FIDUCIA NELLA MAGISTRATURA «Non ho mai indicato imprese a chicchessia, sarà accertata la correttezza del mio operato»

IERI L’EX MINISTRO MATTEOLI IN TRIBUNALE

Matteoli: «Mai avuto soldi. E il contributo di 20mila euro fu restituito al mittente»

La difesa dell’ex ministro in tribunale nell’interrogatorio durato quasi due ore

Poi il comunicato: «Nella mia lunga attività politica non mi sono arricchito»

LE CIFRE CONTESTATE – 5-600mila euro in bianco e in nero

«Non ho mai indicato imprese a chicchessia e non ho mai ricevuto denaro dal Consorzio Venezia Nuova né da altri soggetti. Il contributo elettorale di 20mila euro, accreditatomi con bonifico nel 2006, fu immediatamente restituito al mittente».
Il senatore Altero Matteoli, chiamato in causa nell’inchiesta sul cosidetta “sistema Mose” in qualità di ministro all’Ambiente del governo Berlusconi, si è difeso così, ieri pomeriggio, davanti al Tribunale dei ministri di Venezia, ribadendo la sua assoluta estraneità alla vicenda.
«Non è difficile verificare come nella mia lunga attività politica e istituzionale non vi sia stata alcuna forma di arricchimento personale e che abbia sempre svolto le funzioni affidatemi cercando di servire al meglio l’interesse collettivo – ha spiegato Matteoli attraverso un comunicato diramato dopo l’interrogatorio – Sono certo che la magistratura, di cui ho piena fiducia, potrà acclarare quanto prima la correttezza del mio operato».
Matteoli, accompagnato dai suoi legali, Francesco Compagna, Giuseppe Consolo e Gabriele Civello, è arrivato alla Cittadella della giustizia di piazzale Roma attorno alle 14 a bordo di un taxi, preceduto da una vettura con la scorta. All’ingresso in Tribunale non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione, e poco dopo le 16, è uscito dalla porta posteriore, salendo direttamente sulla Fiat Punto della scorta per uscire dal Palazzo di giustizia senza essere costretto a fermarsi con i giornalisti. La sua dichiarazione è pervenuta più tardi, trasmessa dal suo ufficio stampa.
L’interrogatorio è durato poco meno di due ore. Il senatore ha depositato un memoriale al collegio, per poi rispondere alle domande rivoltegli dal presidente, il giudice veronese Monica Sarti e degli altri due componenti, Priscilla Valgimigli (giudice del Riesame di Venezia) e Alessandro Girardi (giudice della sezione fallimentare di Venezia). A trasmettere gli atti al Tribunale dei ministri (lo speciale organismo che deve indagare su eventuali reati commessi da ministri nell’esercizio delle funzioni) è stata la Procura di Venezia che, nell’ambito delle indagini sul cosidetto “sistema Mose”, ipotizza che Matteoli abbia ricevuto somme di denaro illecite in relazione ad opere di bonifica ambientale dell’area industriale di Porto Marghera. A conclusione delle indagini in Tribunale dei ministri potrà archiviare, se si convincerà che nessun illecito è stato commesso, oppure restituire gli atti alla Procura per l’esercizione dell’azione penale, se invece ravvisasse gli estremi del reato di corruzione o finanziamento illecito. In tal caso, però, la Procura dovrà chiedere l’autorizzazione a procedere, in quanto Matteoli era un ministro.
Il principale accusatore di Matteoli è l’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati: «Il ministro Matteoli mi ha fatto dei favori e ho corrisposto finanziando la campagna elettorale… gli ho corrisposto dei soldi… erano corresponsioni di denaro direttamente a compenso in qualche modo di favori ricevuti… 400-500mila euro… dal 2009 al 2012-2013», ha messo a verbale Mazzacurati. Matteoli, però, nega con decisione.

Gianluca Amadori

 

VENEZIA – Accusato di aver ricevuto denaro per le opere di bonifica di Marghera

COOP ROSSE Il colosso azzerato dopo le dimissioni nomina il nuovo vertice: prima erano nove i componenti del cda

Coveco dimagrito: ora ricomincia da tre

Si volta pagina. Facce nuove e nuove professionalità. Un consiglio d’amministrazione più snello, da nove a tre componenti, per garantire l’immediata operatività del consorzio a tutela del patrimonio aziendale e umano che rappresenta. L’assemblea dei soci ha eletto il cda di Coveco, il colosso delle cooperative rosse con sede a Marghera rimasto senza vertici, a seguito delle dimissioni di tutti i componenti all’indomani dell’arresto del presidente Franco Morbiolo e di uno degli amministratori, Nicola Falconi, nell’ambito dell’inchiesta sulle tangenti del Mose.
«Un atto di responsabilità quello di rimettere il mandato – spiega il presidente di Legacoop Veneto, Adriano Rizzi – per evitare strumentalizzazioni legate alle indagini, facilitando la distinzione fra eventuali responsabilità personali e della struttura, e per permettere di sviluppare le attività in essere mettendo le basi per la futura espansione».
Un’ottantina di imprese associate che danno lavoro a centinaia di lavoratori, fra soci e dipendenti, una storia nata 60 anni fa, il nome Coveco legato alle più recenti grandi opere pubbliche – fra tutte l’Expo 2015 – rischia di venire identificato con la “fabbrica di mazzette” per conto del Consorzio Venezia Nuova, profilo che emerge dai faldoni depositati in Procura.
Ad affrontare quella che è stata definita “una nuova sfida” sono stati chiamati il padovano di Este, Devis Rizzo, 40 anni, nel cda di Ccfs di Reggio Emilia, il friulano di Palazzolo dello Stella, Daniele Casotto, classe 1958, presidente di Celsa di Latisana e il veneziano Eugenio Stefani, 64enne, della Cooperativa Meolese. Il prossimo passo sarà quello di designare presidente e vice. «Condivido pienamente il richiamo di Legacoop Veneto all’esigenza di rispettare sia l’attività della magistratura che il diritto degli accusati alla difesa, e alla necessità che le imprese assumano comportamenti che assicurino continuità aziendale e occupazione» ha commentato il numero uno di Legacoop, Mauro Lusetti.

 

MESTRE – E al dibattito post-inchiesta spunta Baita

MESTRE – Pochi minuti prima tre politici veneziani (Enrico Zanetti di Scelta Civica, Marta Locatelli del Ncd e Jacopo Molina del Pd) nel corso di un dibattito sul futuro della politica veneziana lo avevano additato tra quei personaggi che non dovrebbero venire più considerati dall’opinione pubblica come meritevoli della loro attenzione e che andrebbero emarginati. Piergiorgio Baita, l’uomo chiave dell’inchiesta Mose, arriva in piazzetta Battisti, nel cuore di Mestre, e si siede a pochi metri da dove si sta discutendo del futuro di Venezia: si concede un prosecco, sorride, stringe mani, è abbronzatissimo. Di stare ai margini della società non pare gli interessi poi molto.

(r.ros)

 

ORDINI PROFESSIONALI – Sospesi gli ingegneri Piva, Brotto e Dal Borgo

VENEZIA – Non solo gli architetti, anche gli ingegneri coinvolti nell’inchiesta sul Mose sono stati sospesi dai rispettivi albi professionali. A precisarlo è Ivan Antonio Ceola, presidente dell’Ordine degli ingegneri di Venezia: «Questo Ordine, appena appresa la notizia di stampa della custodia cautelare nei confronti degli ingegneri Maria Brotto e Maria Giovanna Piva ha subito chiesto conferma alla Procura della Repubblica del provvedimento cautelare ed ha immediatamente proceduto, come previsto dalla normativa vigente, alla sospensione dall’Albo dei predetti ingegneri». Lo stesso ha fatto l’Ordine degli ingegneri di Belluno, presieduto da Ermanno Gaspari, nei confronti di Luigi Dal Borgo.

 

RIESAME – Una decina di ricorsi da Brentan a Chisso, in arrivo la decisione

Quattro mesi di reclusione e 15 mila euro di multa, con la sospensione condizionale. È questa la pena per il reato di finanziamento illecito ai partiti di cui è accusato il sindaco dimissionario di Venezia, Giorgio Orsoni, sulla cui congruità si deve pronunciare questa mattina il giudice per l’udienza preliminare di Venezia, Massimo Vicinanza. La proposta di patteggiamento è stata presentata dal difensore di Orsoni, l’avvocato Daniele Grasso, con l’accordo della Procura. Una pena ai minimi, considerato che la legge 197 del 1974 prevede la reclusione da 6 mesi a 4 anni di reclusione e la multa fino al triplo delle somme versate in violazione della normativa: nel caso del sindaco fino ad un milione e mezzo di euro, stando all’accusa formulata dai pm. Dunque non è così assodato che il patteggiamento venga accolto dal giudice. In caso di rigetto gli atti torneranno alla Procura che dovrà decidere il da farsi: concordare un nuovo patteggiamento con pena più elevata o chiedere il processo.
Orsoni è accusato di aver incassato, in occasione della campagna elettorale del 2010 per le elezioni comunali, 110 mila euro “in bianco” da varie società tra le quali alcune ditte che sono riconducibili al Consorzio Venezia Nuova. Il patron del Cvn, Giovanni Mazzacurati, avrebbe utilizzato il solito meccanismo di anticipare alle ditte i soldi (che secondo la Procura erano provento di false fatturazioni), e le stesse ditte poi fatturavano al Consorzio. Una partita di giro che serviva solo a mascherare la mano del Cvn. Mazzacurati racconta, inoltre, di aver consegnato altri 450-500 mila di persona e in contanti portandoli a casa del sindaco. Per queste accuse Orsoni è finito agli arresti domiciliari il 4 giugno. Dopo 5 giorni, lunedì 9 giugno, ha spiegato al gip Scaramuzza che non poteva escludere che Mazzacurati avesse messo mano al portafogli per la sua campagna elettorale, giurando però di non aver mai visto un centesimo: secondo Orsoni infatti i finanziamenti (che lui riteneva regolari) sono stati incassati dal Partito Democratico. Versione confermata 48 ore più tardi ai magistrati della Procura, davanti ai quali ha ammesso di essersi rivolto a Mazzacurati, su pressioni del Pd, pur essendo consapevole dell’inopportunità di far finanziare la campagna elettorale dal Cvn. A conclusione dell’interrogatorio ha quindi concordato il patteggiamento. I pm Stefano Ancillotto, Paola Tonini e Stefano Buccini motivano la pena così mite con il fatto di conseguire un primo importante risultato – cioè una sostanziale ammissione di responsabilità – evitando il rischio di prescrizione del reato (tra due anni).
Ieri, nel frattempo, per il Tribunale del riesame è stata una giornata particolarmente intensa e impegnativa. Il collegio presieduto da Angelo Risi ha preso in esame i ricorsi presentati da una decina di indagati e ha proseguito i lavori fino a tarda notte. Tra le posizioni discusse dai rispettivi difensori, alla presenza dei sostituti procuratore Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, figurano quella dell’ingegner responsabile della progettazione del Mose, Maria Brotto; dell’ex amministratore della Società autostrade Venezia-Padova, Lino Brentan; dell’imprenditore ed ex presidente dell’Ente Gondola, Nicola Falconi; di Giovanni Artico, commissario straordinario per il recupero territoriale e ambientale di Marghera, e dell’architetto Danilo Turato, finito sotto accusa per i restauri della villa dell’allora presidente della Regione, Giancarlo Galan (che secondo la Procura furono pagati dalla società Mantovani di Piergiorgio Baita). Soltanto questa mattina sarà possibile conoscere le decisioni assunte dal Riesame. Oggi saranno discussi i ricorsi presentati dall’ex assessore regionale ai Trasporti, Renato Chisso e dal suo segretario, Enzo Casarin.

 

IL NUOVO CA’ FONCELLO La Cgil di Bernini chiede alla Regione di rivedere l’impostazione dell’opera

Project rischioso: «Si cambi»

TREVISO – (mf) «La Regione abbandoni il progetto di finanza per la costruzione della nuova cittadella sanitaria del Cà Foncello». Questo l’appello lanciato da Ivan Bernini, segretario generale della Fp-Cgil della Marca. Tradotto: si cancellino i 98 milioni di parte privata previsti nel project financing complessivo da 224 milioni. «Alla luce dei fatti emersi in tutto il Veneto e delle evidenti problematiche legate al finanziamento privato – spiega il sindacalista – si realizzi l’opera con risorse pubbliche, negoziando con il ministero, con l’Usl e con la conferenza dei sindaci per identificare il percorso più opportuno». «In Veneto sono troppe le aziende aggiudicatrici di appalti legate alla corruzione – avverte Bernini – non succeda anche a Treviso».
L’intervento della Cgil arriva all’indomani dell’audizione del direttore generale dell’Usl 9, Giorgio Roberti, davanti alla commissione sanità della Regione. Un confronto chiesto in primis da Diego Bottacin, consigliere regionale di Verso Nord. «Il direttore cosa può dire di diverso da quanto già detto in questi anni? – tuona il segretario della funzione pubblica – mi chiedo se tale convocazione sarebbe ugualmente avvenuta anche se l’ad di Palladio Finanziaria, il gruppo che si è aggiudicato l’appalto, non fosse stato arrestato nell’ambito delle indagini svolte dalla procura di Venezia». Il riferimento è all’arresto nell’inchiesta Mose di Roberto Meneguzzo, ad della finanziaria anima economica di Finanza e Progetti. «La Regione dia garanzie e faccia chiarezza rispetto al progetto trevigiano – conclude Bernini – dica se e come si farà la cittadella sanitaria e abbandoni il project financing perché quello che succede in Veneto non accada anche nella Marca».

 

MESTRE – Al dibattito sulla corruzione spunta Baita

E al dibattito a Mestre spunta Baita

Mentre i relatori sparano a zero sui corrotti, il burattinaio del Mose si accomoda tra i tavolini

MESTRE – Due di loro pronti a candidarsi a sindaco. Nessuno si aspettava l’arresto del sindaco per il tipo di reato compiuto. Invocano una legge speciale che non sia solo un rubinetto da soldi per la cittá e pretendono che da oggi si volti pagina ma non dando in pasto il Comune di Venezia alle liste civiche. Dibattito acceso e propositivo ieri sera al Palco in piazzetta Battisti promosso dall’associazione ‘Adesso VeneziaMestre’. Il titolo, provocatorio, era «Venezia anno zero». Ed è proprio per discutere di quali saranno le ripartenze che Enrico Zanetti (Scelta Civica), Marta Locatelli (Ncd) e Jacopo Molina (Pd) hanno risposto alle domande del direttore de Il Gazzettino Roberto Papetti.
Questione valori. Per Zanetti «Venezia è una cittá bloccata politicamente perché tante persone votano in funzione di essere parte anche minima di un sistema che si pensava si potesse essere eterno. D’ora in avanti serve una scelta di voti basata sulla qualitá delle persone e delle proposte». Secondo Locatelli «per cambiare rotta bisogna mettere al centro i bisogni della città perché guardando la storia recente questo non è mai avvenuto». Molina, invece, ritiene che «il cambio di valori significa ora non accettare finanziamenti in campagna elettorale da parte dei contribuenti. Bisogna ritornare ad una cosa più semplice, con la politica vista come servizio e non una professione come avveniva a livello locale». Questione ricambio generazionale. Per gli ospiti non è giusto mandare tutti a casa seguendo il luogo comune che «siamo tutti uguali». Certo serve più trasparenza, facce nuove ma affidarsi solo alle liste civiche come segno del cambiamento non basta. Bisogna che la politica cambi pelle e si rinnovi ma non si azzeri del tutto. Marta Locatelli, tra i tre, è quella che si è dimostrata più titubante di fronte ad una eventuale richiesta di fare il sindaco. Pronti a “sacrificarsi” sarebbero invece Molina e Zanetti. Tutti però saprebbero da cosa partire, cosa tagliare per dare un segnale di discontinuità con il passato. Turismo come prima fonte di guadagno per le casse del comune, tolleranza zero contro il disagio nelle cittá e ridimensionamento delle partecipate sarebbero le azioni di Zanetti. E, infine, capitolo Orsoni e inchiesta. Per tutti l’arresto dell’ex sindaco è stata una misura eccessiva. Non è stato invece un fulmine a ciel sereno l’inchiesta. Ma mentre proprio Zanetti, Molina e la stessa Locatelli condannano corrotti e corruttori chiedendone l’esclusione dalla scena politica e pubblica e l’emarginazione ecco arrivare a fianco del Palco lui, Piergiorgio Baita. Sorride, fa aprire bottiglie di prosecco, festeggia forse il compleanno di un amico. Come se a Venezia fosse un cittadino qualunque.

Raffaele Rosa

 

AMBIENTE VENEZIA – I comitati annunciano un esposto alla Procura della Repubblica

Contro il Mose, arriva la denuncia

La diffusione del testo di una denuncia presentata lo stesso giorno alla Procura della Repubblica ha aperto ieri a San Leonardo l’assemblea dell’Associazione Ambiente Venezia contro il Mose. Nove i temi all’ordine del giorno, tra cui le richieste di una moratoria sulla grande opera, di scioglimento del Consorzio Venezia Nuova e di istituzione di una authority indipendente che valuti l’efficacia e la reversibilità di quanto realizzato finora alle bocche di porto. A tenere banco nella prima parte della seduta la denuncia in Procura, che fa seguito all’esposto per danni erariali alla Corte dei conti presentato il 30 agosto 2013 dove Ambiente Venezia richiama le 12.500 firme raccolte e all’origine di una vertenza a livello europeo, definisce il Mose «sbagliato, contra legem, tecnicamente obsoleto, costoso, dannoso per l’ecosistema, inutile per la salvaguardia e utile solo a chi lo costruisce».
Richiamando le sue «esorbitanti spese di realizzazione, gestione e manutenzione, che contribuiscono ad alimentare il debito pubblico», condannando «un sistema affaristico non in grado di autoriformarsi», chiedendo la soppressione del sistema a concessione unica e auspicando «un radicale cambiamento in corso d’opera, volto a recepire le articolate soluzioni alternative, pur in presenza del costoso stato di avanzamento dei lavori».
«Vogliamo contenere i danni – ha detto Armando Danella – perché recuperi e modifiche sono ancora possibili. E sollecitiamo una commissione parlamentare d’indagine, per sapere esattamente come sono andate le cose. Inoltre, chiediamo al premier Matteo Renzi – che lasciato solo potrebbe sbagliare – di sottrarre al Cipe i soldi dati al Consorzio, e a tutti di contribuire a tener alta l’attenzione e la mobilitazione sul tema, facendogli sentire le nostre ragioni l’8 luglio, quando sarà a Venezia per la prima uscita del semestre di presidenza europea». «I mostri sono veramente alla fine? – si è chiesto invece Cristiano Gasparetto – Il problema non è di chi andrà o non andrà a finire in galera, ma avere garanzie. Pensiamo solo allo scavo del canale Contorta Sant’Angelo, funzionale alle grandi navi. In caso di via libera, a chi saranno affidati i lavori?».

Vettor Maria Corsetti

 

Il doge traditore che finì decapitato

di Alberto Toso Fei

La vicenda tragica di Marin Falier, l’unico doge che fu decapitato nel corso della storia della Serenissima per aver tradito la Repubblica cercando di instaurare una signoria, è una di quelle storie veneziane che volentieri fondono i fatti con la leggenda. Perlomeno questa è la versione storica più comune e accettata, sebbene fonti diverse sostengano che a essere vittima di una congiura ordita da parte dell’oligarchia veneziana fu lui stesso, che voleva riampliare il Maggior Consiglio dopo la “Serrata” di cinquant’anni prima. Falier a trent’anni fu uno dei tre capi del Consiglio dei Dieci, nato cinque anni prima a seguito della congiura di Bajamonte Tiepolo del 1310. Fu eletto doge nel 1354 mentre si trovava all’estero, e quando – arrivato che fu a San Marco – scese dalla gondola, transitò tra le due grandi colonne della Piazzetta, dove avvenivano le esecuzioni capitali. Gesto che fu considerato dai presenti di cattivo auspicio (“che fo un malissimo augurio”, scrive Marin Sanudo nei suoi Diari). Anche Francesco Petrarca scrisse in una lettera come il doge si fosse presentato “Sinistro pede palatium ingressus”. Presagi di quanto gli sarebbe accaduto di lì a pochi mesi.
La storia spiega come all’origine della congiura ordita dal doge vi fosse la natura ambiziosa del Falier. Ma la leggenda (o meglio la mitizzazione di parte dei fatti storici) parla invece di una vicenda di donne e di onore offeso. Tutto sarebbe accaduto nel corso del ricevimento organizzato per festeggiare l’elezione, al quale partecipò anche un giovane patrizio, Michele Steno, che fu fatto cacciare per aver importunato una damigella della dogaressa Lodovica Gradenigo. Lo Steno si vendicò lasciando sulla sedia del doge un biglietto con questi versi: “Marin Falier da la bela mujer, / altri la galde (gode), lu la mantien” (oppure, secondo un’altra versione, “la mugièr del doxe Falier / la se fa fotter per so piaxer!”).
Ne nacque una questione con gravissimi sviluppi politici: il doge tramò contro lo Stato perché ritenne che l’offesa non fosse stata punita adeguatamente. Oltre a un mese di carcere, Steno fu condannato a cento lire d’ammenda e a essere battuto con una coda di volpe; ovvero a essere punito simbolicamente. Ciò non gli impedì di diventare doge lui stesso 45 anni dopo quell’episodio, nel 1400.
Marin Falier fu decapitato sulla scalinata di Palazzo Ducale. Nella sepoltura la testa gli fu messa tra le gambe a perenne ricordo dell’onta procurata. Sempre Petrarca, nella medesima lettera, scrisse che l’avvenimento doveva servire da lezione ai dogi a venire, che avrebbero così imparato a essere “le guide e non i padroni dello Stato. Che dico le guide? Unicamente gli onorati servitori della Repubblica”.
Nel salone del Maggior Consiglio, a Palazzo Ducale, tra i ritratti dei primi 76 dogi succedutisi alla guida della Serenissima (furono in totale 120, tra il 697 e il 1797), quello di Marin Falier è rappresentato come un grande drappo nero, su cui sta scritto: “hic est locus Marini Falethri decapitati pro criminibus”; di chi ha tradito la Repubblica non deve essere conservato nemmeno il ricordo dell’immagine.

Alberto Toso Fei

 

Orsoni nomina un vicesindaco. Patteggiamento, oggi si decide

Niente Commissario, la nomina si fa attendere. E spunta un vicesindaco

Il ministero non decide, così Orsoni nomina Morra

Il Governo non decide, il commissario non arriva e la città non ha più un sindaco né un Consiglio comunale. Una situazione che si è tirata avanti per cinque giorni e che non può essere accettata per una città come Venezia, che ha gli occhi del mondo puntati addosso. Nell’impasse generale in cui non si sa ancora se le elezioni si svolgeranno a novembre o a marzo, se il commissario sarà Valerio Valenti o un altro alto funzionario dello Stato, il sindaco dimissionario (ma ancora formalmente in carica) Giorgio Orsoni ha preso l’iniziativa, nominando un vicesindaco che possa firmare in sua assenza (in questi giorni sarà fuori città) tutti quegli atti urgenti che abbisognano di un amministratore e non di un semplice funzionario, dipendente dell’ente locale. Il vicesindaco è Romano Morra, 74 anni, fino a ieri capo di gabinetto del sindaco e stimato giurista. Come Orsoni, anche Morra è un allievo del grande Feliciano Benvenuti ed è stato per anni il coordinatore dell’avvocatura regionale, oltre ad aver insegnato nelle principali Università venete e ad aver ricoperto il ruolo di amministratore o commissario all’interno di molti enti e istituzioni.
In questi giorni, benché il suo incarico fosse scaduto, Morra è rimasto sempre al suo posto, per rispondere ai cittadini e per preparare il passaggio di consegne dal sindaco al commissario.
«Sono un soldato – ha commentato – sono chiamato a dare la mia opera e la dò».
La nomina è arrivata verso le 18 di ieri, quando in Comune tutti si erano resi conto che la “riflessione” del Governo era andata oltre il termine di ragionevolezza. Il sindaco è tornato per un attimo a Ca’ Farsetti, giusto per firmare la nomina, poi se n’è andato. Questa mattina, tra l’altro, è in programma l’udienza dal giudice Massimo Vicinanza che dovrà pronunciarsi sulla sua richiesta di patteggiamento.
La nomina di un vicesindaco “tecnico” è un atto assolutamente inedito per Venezia ma anche singolare nel panorama giuridico italiano. La decisione è stata presa dopo un’attenta valutazione da parte di Orsoni in merito alla legittimità, poiché si è sempre parlato di giunta tecnica ma mai solo di vicesindaco.
Ironia della sorte, ieri mattina, in Comune stavano ricollocando gli arredi e facendo pulizie in vista dell’arrivo del commissario. Nella stanza di Morra (destinata ad ospitare un subcommissario) stavano appendendo un dipinto raffigurante un componente del Consiglio dei Dieci. Sguardo torvo e la fama di non portare fortuna.
«Io non ci torno in quella stanza» avrebbe detto, “rifugiandosi” nell’ufficio accanto a quello che è stato del sindaco.
Nel pomeriggio, la telefonata di Orsoni: «Sai, Romano, dovresti dare le dimissioni».
«Obbedisco», è stata la sua risposta.
«Ti nomino vicesindaco».
«Onoro l’impegno, come sempre. Il mio slogan è sempre stato “al servizio del cittadino e della città”. Come diceva Benvenuti – conclude Morra – il cittadino non è un suddito e la pubblica amministrazione deve essere al suo servizio».

 

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