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TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

IL CASO – La Procura sommersa dai certificati medici

Nel mirino anche un generale e un vicequestore: «Passavano informazioni»

Il pm Ancilotto: «Un processo contro un malavitoso è più facile di questo»

Mai visti tanti certificati medici. E perizie psichiatriche e cardiologiche, ortopediche e chirurgiche. La Procura di Venezia è stata sommersa da tonnellate di referti, da centinaia di pagine di indagini tossicologiche, di analisi di ogni liquido contenuto nel corpo umano. Del resto par di capire che in alcuni casi l’invocazione delle condizioni di salute “incompatibli” con la carcerazione appare come la via d’uscita più rapida – se non l’unica – dal carcere.
Del resto l’inchiesta dura da più di quattro anni e in quattro anni la Procura ha raccolto tonnellate di materiale, quanto basta per lunghe carcerazioni preventive.

 

IL SISTEMA MOSE

Baita: Mazzacurati mi disse come si doveva fare

All’inizio c’è solo Claudia Minutillo. Poi arriva Piergiorgio Baita. Poi vien giù il mondo. Perchè Baita racconta per filo e per segno il Mose delle mazzette. «Cominciamo dal 2002 – attacca Baita, interrogato da Stefano Ancilotto – anno nel quale la Mantovani compie un salto di dimensioni e anche di collocazione di mercato».
Nel 2002 la Mantovani entra a far parte del Consorzio Venezia Nuova acquisendo le quote di Impregilo. «Prima di darci l’assenso al subentro nella quota Impregilo l’ing. Mazzacurati, Presidente e direttore del Consorzio Venezia Nuova, mi ha convocato… e mi ha detto se, al di là dei documenti del subentro, ero stato edotto di alcune regole che vigevano all’interno del Consorzio Venezia Nuova, cioè impegni chiamiamoli non trasferibili in atti statutari». Ecco, i lord inglesi li chiamano “impegni non trasferibili in atti statutari”, in linguaggio da suburra sarebbero le mazzette. Dunque, grazie a Baita, sappiamo che è dal 2002 che in laguna va alla grande il sistema messo in piedi da Mazzacurati e perfezionato da Piergiorgio Baita. Il principio è che si paga tutti. Ci si compra le anime nere di chi accetta di essere corrotto e si danno soldi anche alle anime belle, quelle che fanno finta di essere contro il Mose. Soldi alla destra e soldi alla sinistra, rispettando le quote e cioè le percentuali. Le coop rosse valgono per il 7 per cento dentro il Consorzio? Pagheranno l’equivalente del 7 per cento in mazzette. E le pagheranno al partito democratico. Le grandi aziende come la Mantovani valgono il 30 per cento? E allora pagheranno mazzette milionarie. A chi? Ai politici di destra. E se si tratta di corrompere ministri e sottosegretari, si comparsi giudici e magistrati alle acque? Ognuno darà per la sua quota parte e Mazzacurati in persona si occuperà della distribuzione.

 

Così gli indagati spiavano le mosse dei pm di Venezia

I vertici del Consorzio Venezia Nuova e l’amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, non facevano mistero nelle telefonate e nelle intercettazioni ambientali della loro capacità di “sapere” che cosa bolliva in pentola in Procura a Venezia e i magistrati un po’ alla volta si erano fatti un’idea precisa, tant’è che la mattina del 4 giugno 2014 le manette scattano anche ai polsi proprio del generale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, mentre un anno prima era stato arrestato il vicequestore di Bologna, Giovanni Preziosa, perchè era entrato nel database delle forze dell’ordine senza autorizzazione ed aveva passato le informazioni a Baita. Racconterà Mirco Voltazza, un ragioniere padovano che si improvvisa spia, di aver stipulato un contratto con la Mantovani da 1 milione e 400 mila euro per organizzare un servizio che doveva servire “ad evitare aggressioni da parte delle forze dell’ordine e della magistratura”. Voltazza, dunque, assicura di essere in grado di prevenire – o di “curare” – verifiche fiscali e inchieste.
Commenta Nicolò Buson, il cassiere-ragioniere della Mantovani: «Io, se devo essere onesto, una cazzata del genere l’avevo sentita sparare dal buon Voltazza e gli ho detto che quello era tutto scemo, che una cosa del genere non era un contratto che era possibile scrivere, insomma».
Ma che ci fosse al lavoro una vera e propria macchina dello spionaggio contro l’inchiesta, i pm del Mose, Stefano Buccini, Stefano Ancilotto e Paola Tonini, l’avrebbero scoperto solo dopo. L’avrebbero saputo in un secondo momento che gli indagati come Baita riuscivano ad avere i verbali di interrogatorio, quelli che restano chiusi nell’ufficio del pm, quelli che non ha nemmeno l’avvocato difensore. E anche Mazzacurati in una intercettazione ambientale diceva che sapeva perfettamente che lo stavano intercettando. «Anche una volta che sono andato a parlare con Gianni Letta, mi hanno beccato».
E che dire di Claudia Minutillo? L’ex segretaria di Galan, quando aveva iniziato a parlare con i pm, aveva raccontato a verbale di essere stata avvertita da Voltazza e da Baita che aveva una “cimice” in auto. Lei aveva fatto bonificare la macchina e niente. «Impossibile. Cerca meglio. E’ nell’alloggiamento della luce, la lucina che illumina l’abitacolo». Nuova ricerca e nuovo niente. «Ascoltami, c’è. Non la trovano perché è una cimice silente. Fai smontare il pezzo della luce e poi lo fai rimettere a posto, ma dev’essere un lavoro che nessuno se ne accorge, mi raccomando».
Era vero. La cimice c’era. Voltazza aveva ragione. Si trattava di una microspia “silente” e cioè che non emette segnali e quindi non viene individuata dalle apparecchiature di “bonifica”. La cimice “silente” registra tutto e invia la registrazione, chessò?, alle 3 del mattino, quando tutti dormono e nessuno è pronto ad intercettare il segnale. Quindi, se la si cerca, non la si trova perché non trasmette nessun segnale, è un apparecchio “in sonno”.
Spiati, controllati, “monitorati”. I p.m. lo sapevano che quando si ha a che fare con i Vip, le inchieste sono sempre difficili. «L’avvocato dice che non possiamo fare la perquisizione perché qui oltre all’abitazione c’è anche lo studio dell’avvocato Orsoni e lo studio di un avvocato non si può perquisire. Che facciamo dottore?»
«Effettuate la perquisizione».
Intanto, erano arrivate le 6 del mattino di quel 4 giugno 2014 che avrebbe inaugurato la “Retata Storica”, il blitz che avrebbe portato alla luce il più grande caso di corruzione che si fosse mai registrato in Italia. Finalmente era arrivata la telefonata che metteva fine alla lunga notte.
A quel punto Stefano Ancilotto aveva indossato maglietta e calzoncini, aveva infilato le Asics ed aveva iniziato a correre. Un’ora, il tempo giusto per fare il pieno di endorfine e lasciar andare i ricordi. Gli piaceva correre anche se la vera passione è sempre stato il tennis. Che, però, è uno sport ancora più traumatico della corsa. Gli scatti improvvisi, le voleè, le corse a rete, gli avevano procurato un sacco di guai muscolari, ma siccome dello sport non si può fare a meno se vuoi mantenere in forma anche la mente, si era buttato sulla corsa. E un po’ alla volta aveva iniziato a piacergli. Però la vecchia passione per la racchetta ogni tanto saltava fuori, prepotente, e così aveva deciso di alternare la corsa alle partite a tennis.
Anche quella mattina Ancilotto aveva messo le cuffiette. La musica, a basso volume, gli permetteva di concentrarsi meglio, via un piede e sotto l’altro, via una falcata e sotto l’altra. I passi di corsa che scandivano i passaggi dell’inchiesta. Ma chissà perché quella mattina, mentre iniziava il riscaldamento, gli erano venuti in mente gli abusivi del Tronchetto. Non era stato un processo semplice, ma avere a che fare con i malavitosi hai i suoi vantaggi. «Tecnicamente un processo contro un malavitoso è un processo facile, più facile comunque di un processo come questo, dove hai a che fare con gente molto influente. Un mafioso lo incastri con un’impronta digitale, il Dna, la pistola, a questi gli trovi i soldi in casa e ti possono trovare centomila giustificazioni di quei quattrini. Sono processi difficili, molto più difficili di quelli contro la malavita organizzata. Che poi, a Venezia, è quel che è, siamo sinceri. Forti, d’accordo, ma un mese di lavoro dei malavitosi al Tronchetto non parifica la cresta che viene fatta su una paratoia del Mose, che costa 250 mila euro e viene fatta pagare al contribuente 800 mila euro. La quantità di soldi che gira è enormemente più grande nel caso dei reati dei colletti bianchi, non c’è proporzione. E le condanne sono difficili da ottenere».
Gli abusivi del Tronchetto invece erano stati condannati e i beni sequestrati. E quello era stato il primo vero processo contro la malavita organizzata che si era insediata a Venezia. Non che le cose fossero poi andate come voleva lui, Ancilotto, che avrebbe preteso almeno dal Comune un atteggiamento diverso, più deciso nei confronti della malavita organizzata e cioè che prendesse lo spunto per fare un repulisti vero dell’isola artificiale. E invece era tutto rimasto come prima. Del resto era da oltre mezzo secolo ormai che l’ex banda del Brenta, quella di Felice Maniero, teneva sotto controllo il flusso dei turismo organizzato a Venezia. Si era superata la vetta dei 20 milioni di presenze annue e buona parte dei quattrini che i turisti portavano a Venezia finiva nelle mani dei malavitosi. Il processo aveva portato alla luce le connivenze, ma soprattutto il malcostume di lasciar perdere, di lasciar fare, di far finta di niente. Anche in questa inchiesta sul Mose era saltato fuori che c’era un sacco di gente che faceva finta di nulla o che, addirittura, spintonava per salire sul carro dei mazzettari. Messa in ginocchio la banda del Tronchetto comunque aveva voglia di occuparsi d’altro e alla fine del 2009 era venuto a fagiolo l’inserimento nel pool che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione. A Venezia non erano mai state fatte inchieste su questo versante e l’ultima grande retata risaliva agli anni di Tangentopoli, quattro vite fa, quando lui aveva appena fatto il concorso in magistratura mentre ancora faceva il praticante nello studio dell’avvocato Mauro Pizzigati, a Mestre. «Era il 1995. Sono entrato in magistratura con il concorso dei cosiddetti giudici ragazzini, bandito subito dopo la morte di Falcone e Borsellino – ricordava Ancilotto – Nel 1996 ero in Sicilia e ci sono stato fino al 2003, tra Siracusa e Catania. E’ lì che mi sono fatto le ossa, con le inchieste sulla mafia».
Altri tempi, come in altri tempi era partita questa inchiesta sul Mose.

10 – Continua (Le precedenti puntate sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto, il 6 e il 7 settembre)

 

E per qualcuno le mazzette diventavano stipendio extra

«Il Consorzio Venezia Nuova determinava il fabbisogno di soldi neri in modo chiamiamolo organizzato in questo modo: l’ing. Mazzacurati si rapportava con le quattro realtà principali del Consorzio, ovvero le tre imprese maggiori più il gruppo delle cooperative rosse, che, pur non avendo una quota rilevante ,era molto rilevante negli equilibri generali (…)» Il racconto è di Piergiorgio Baita, verbale del 28 maggio 2013. Il presidente e amministratore delegato della Mantovani spiega ai pubblici ministeri che indagano sul Mose, come funziona il meccanismo. «Il Consorzio Venezia Nuova ha di questi fabbisogni, il cosiddetto “fabbisogno sistemico”, cioè il pagamento periodico, a tempo, di tutta una serie di persone, cresciuta sempre di più negli anni. Il pagamento episodico ma regolare, cioè la firma della convenzione, la registrazione alla Corte dei Conti, la necessità di fare arrivare dei soldi alla Corte dei Conti. Il pagamento di particolari episodi e le cosiddette emergenze».
“Fabbisogno sistemico” significa che alcune persone – Presidente del Magistrato alle acque piuttosto che giudice della Corte dei conti – erano sul libro paga del Consorzio e ricevevano una sorta di stipendio, indipendentemente da quello che facevano o non facevano. Per i politici è diverso. «Ogni campagna elettorale era un salasso – si lamenta Baita – L’ing. Mazzacurati proponeva un budget per ogni campagna elettorale, politiche, regionali, comunali, un budget di fondi neri da coprire pro quota».

 

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