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Punturine

Si vantano di aver chiesto di patteggiare la pena ma si proclamano innocenti. Nel diritto il patteggiamento equivale invece a una sentenza di condanna
Spegnete i riflettori, per favore. Non raccontate più nulla di loro. Dove vanno, cosa fanno, come vivono. Se sono dimagriti, se hanno la pressione bassa, il colesterolo alto, la barba lunga e i capelli in disordine. Fortuna che i cittadini se ne sono liberati. E che lorsignori, come Fortebraccio chiamava, con altezzoso distacco, i trafficoni del potere, almeno per un po’ si vergogneranno a farsi rivedere in giro. Almeno fino al momento in cui la gente comincerà a dimenticarsi i loro volti e i loro nomi. Perché ce ne vuole. Non basta che per lunga pezza abbiano menato il can per l’aia davanti ai propri sudditi, dispensando fanfaluche in pubblico e incassando sacchetti di baiocchi in privato, magari all’insaputa. Ora, suscitando vortici di irrefrenabile comicità, i tangentari delle dighe veneziane tentano di spiegare al colto e all’inclita, con spericolate quanto arzigogolate argomentazioni, che i patteggiamenti ai quali si sono allegramente sottoposti in massa pur di evitare il processo, non sono condanne, come qualche sempliciotto sarebbe portato a credere, ma semplici chiarimenti, modi del tutto legali, inventati apposta per uscire indenni da una fastidiosa vicenda in cui sono inciampati per sbaglio e per la quale sono stati accusati ingiustamente. E questo nonostante che i sacri testi del diritto affermino, in modo piuttosto esplicito, che una sentenza di patteggiamento “ha l’equiparazione legislativa della sentenza di condanna” (AltalexPedia, enciclopedia giuridica). Sembra dunque del tutto evidente che si patteggi una condanna, e non un’assoluzione o una gita in montagna. Le nuove tendenze, invece, supportate da ragguardevoli slanci di fantasia di alcuni avvocati considerati di grido, fanno dire, senz’ombra di pudore, che gli imputati hanno scelto la via del patteggiamento anche se sono innocenti. Divertente. Normalmente uno patteggia quando è colpevole. Patteggiare significa infatti ammettere la propria colpa. Se uno si ritiene innocente, si difende nel processo. Non si è mai visto uno che dica: “Sono innocente, signor giudice, ma mi condanni lo stesso. Se è d’accordo, patteggerei due annetti”. L’ex primo cittadino della città che fu Serenissima, che ha chiesto di essere condannato senza processo, ma la sua proposta di patteggiamento è stata respinta perché la condanna era troppo bassa, e quindi salirà sul banco degli imputati dove rischia una bastonata più forte, si è dichiarato innocente da ogni accusa, e ha detto di aver cercato il patteggiamento solo per uscire dal processo. I ragionamenti sono simili per gli altri imputati. Anche l’ex governatore della Regione si dichiara innocente. Però preferisce farsi condannare a due anni e dieci mesi di carcere (non li farà, bastano i domiciliari e forse i servizi sociali), e a restituire 2,6 milioni di euro, per motivi “assolutamente privati e di salute”. Esattamente come il suo fedelissimo ex assessore alle Infrastrutture. Dice inoltre di non essere nelle condizioni di poter affrontare un processo che magari potrebbe andare per le lunghe, nonché il clamore mediatico che ne seguirebbe. Come se proprio sul clamore mediatico non avesse costruito una carriera. Restano gli insulti della gente. Non sono accettabili, nei confronti di chiunque. Come non erano accettabili le monetine lanciate a suo tempo contro un ex presidente del consiglio. Gli insulti non sono civili né educativi. Sono un reato, e come tutti i reati vanno puniti. Ma i fischi no. I fischi sono leciti. Come il pubblico che paga il biglietto a una partita di calcio ha tutto il diritto di fischiare i giocatori se non gradisce lo spettacolo, così il cittadino che paga le tasse ha il diritto di fischiare un politico corrotto. Almeno quello.

r.bianchin@repubblica.it

 

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