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Gazzettino – Mose. Mazzacurati, interrogatorio-calvario

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19

set

2014

CASO MOSE – Interrogato Mazzacurati negli Stati Uniti: «Sono malato»

Sentito negli Usa, continue sospensioni per la sua malattia. Molte domande sui rapporti con l’ex ministro Matteoli

Nessun ulteriore interrogatorio per l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova e “padre” del sistema Mose, Giovanni Mazzacurati. Le sue condizioni di salute sarebbero tali da non poter più sostenere eventi del genere. Lo riferisce, al termine della rogatoria internazionale dalla California (dove l’82enne ex presidente si trova da tempo) il suo avvocato, Giovanni Battista Muscari Tomaioli. L’udienza, davanti alla Corte federale di San Diego è durata circa tre ore e lo ha visto rispondere in particolare a domande sull’ex ministro Altero Matteoli, per sua stessa richiesta in merito ad un’indagine nei suoi confronti per presunti finanziamenti illeciti aperta dal Tribunale dei ministri. Per quanto riguarda l’inchiesta Mose, di cui Mazzacurati è uno dei principali accusatori di Giancarlo Galan e Renato Chisso, gli inquirenti ritengono di avere in mano documentazione sufficiente.
«Ritengo che, nell’attualità – ha sottolineato Muscari Tomaioli – l’ingegner Mazzacurati non sia più in grado di sostenere interrogatori, ed in questo senso gli stessi medici curanti, che seguono il suo stato di salute negli Usa da quasi un anno, hanno raccomandato di evitare in assoluto ogni altra partecipazione ad attività di questa natura».
Nel corso dell’udienza, Mazzacurati non avrebbe fatto scena muta, ma risposto a tutte le domande che gli sono state rivolte pur dovendo richiedere diverse sospensioni dell’udienza anche con l’intervento di un medico. All’interrogatorio erano presenti Stephanie Chau – assistente speciale Attorney United States per il Distretto della California – e due agenti speciali del Dipartimento della Homeland Security Investigations.
«Ha risposto – ha continuato il legale – garantendo la propria collaborazione alle attività di indagine, come ha sempre fatto sin dall’inizio, confermando sostanzialmente le dichiarazioni già rese nel corso dei numerosi interrogatori effettuati avanti ai magistrati italiani». Così, nell’interrogatorio del 25 luglio scorso, Mazzacurati aveva descritto il rapporto con l’ex ministro Matteoli: «Il ministro Matteoli mi ha fatto dei favori e ho corrisposto finanziando la campagna elettorale… gli ho corrisposto dei soldi… erano corresponsioni di denaro direttamente a compenso in qualche modo di favori ricevuti… 400-500mila euro… dal 2009 al 2012-2013». Questa, invece, la replica di Matteoli, che sembra riferirsi ad un periodo diverso: «Non ho mai indicato imprese a chicchessia e non ho mai ricevuto denaro dal Consorzio Venezia Nuova né da altri soggetti. Il contributo elettorale di 20mila euro, accreditatomi con bonifico nel 2006, fu immediatamente restituito al mittente».

 

Gazzettino – Mose, otto indagati per le cerniere

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

18

set

2014

IL CASO – Tutto è partito dalla denuncia di un’altra ditta che chiede 650mila euro di danni

I vertici della Fip Mantovani di Chiarotto accusati di appropriazione indebita dei progetti

L’accusa era di aver depositato come propri i progetti per i meccanismi delle cerniere del Mose e di averli poi divulgati ai concorrenti commissionando a terzi l’esecuzione delle opere.
Il pm Orietta Canova della Procura di Padova ha concluso le indagini e ha iscritto nel registro degli indagati otto persone con l’accusa di appropriazione indebita di proprietà intellettuale, contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali. Tra i nomi degli indagati spiccano quelli di Donatella Chiarotto, presidente e amministratore delegato della Fip industriale spa e di Renato Chiarotto nipote di Romeo, patron del gruppo Fip Mantovani. Gli altri indagati sono Paolo Fortin, Alessandro Sardena e Giampaolo Colato della Fip, Davide Barin e Stefano Bertolini della Fiar srl, Nadia Zoratto di Technital Spa.
L’anno scorso una ditta di Padova, la General Fluidi, un’azienda di una decina di dipendenti e che lavora nella ricerca e nello sviluppo di impianti oleodinamici, aveva presentato una denuncia penale patrocinata dagli avvocati Biagio Pignatelli e Angela Favara e parallelamente aveva avviato una causa civile di risarcimento danni.
La General Fluidi era stata incaricata dalla Fip Mantovani di realizzare un prototipo per il sistema di aggancio delle cerniere delle paratoie del Mose e nel 2009 aveva prodotto il primo lotto per la bocca di Porto del Lido. Una commessa che complessivamente doveva aggirarsi sui due milioni di euro.
«Ma dopo il primo lotto la Fip non si fece più viva – racconta il rappresentante della General Fluidi Andrea Tiburli – e controllando i capitolati d’appalto al Magistrato alle Acque scoprimmo che la società aveva depositato parte dei disegni da noi forniti a proprio nome per poi subappaltarne ad altri la realizzazione sottocosto».
La General Fluidi chiede ora anche il risarcimento di 650mila euro, di cui 600mila sono stati quantificati per le spese di progettazione sostenute e per la mancata commessa e 50 mila come simbolico riconoscimento del danno morale. «Non siamo la piccola azienda che vuole speculare su quella grande. Ci preme che venga sancita la paternità dei progetti – conclude Tiburli – anche in vista del funzionamento del sistema Mose e della sua manutenzione».

 

COMUNICATO STAMPA CONGIUNTO 17 settembre 2014

Basta con la mafia delle Grandi Opere, Romea sicura subito NO Autostrada

Il Decreto “Sbanca Italia del Governo Renzi rimette in pista la Orte-Mestre, comitati e associazioni delle 5 regioni attraversate dalla nuova autostrada rispondono con 2 giorni di mobilitazione diffusa nei territori sabato 21 e domenica 22 settembre, proprio  in concomitanza con la Marcia Mondiale per il Clima.  Iniziative sono previste a Cesena, Ravenna, Perugia, Orte. In Veneto a Cavarzere, Adria e Piove di Sacco.

L’appuntamento più importante è però in Riviera del Brenta sabato 20: al mattino ritrovo alle ore 9.30 a Mira presso il parcheggio del supermercato Lando, da qui trasferimento in bicicletta fino all’incrocio di Giare, uno dei punti più pericolosi della statale, dove si svolgerà un presidio di protesta e sensibilizzazione. Nel pomeriggio trasferimento allo Squero di Dolo con gazebo di vari comitati e associazioni, interventi, collegamenti con gli altri presidi e per finire concerto con il gruppo Osteria dei Pensieri alle ore 18.30.

La manifestazione è promossa dallo storico comitato Opzione Zero che da anni si batte contro la “Romea Commerciale” e per la messa in sicurezza della statale, insieme però a numerose altre organizzazioni del territorio: Legambiente Riviera, Confederazione Italiana Agricoltori, Emergency, Libera, Mira 2030, Comitato No Grandi Navi, Comitato Lasciateci Respirare Padova, Associazione per la Decrescita. Adesioni sono arrivate anche da liste civiche e forze politiche come il Ponte del Dolo, Mira Fuori del Comune, SEL, Movimento 5 Stelle. Invitati anche i Sindaci di Mira, Dolo, Mirano, Camponogara, Fossò e Pianiga, i Comuni che di recente si sono schierati per lo stralcio definitivo dell’opera.

Per comitati e associazioni la Orte-Mestre non è pericolosa solo dal punto di vista ambientale, ma è anche un’opera che non sta in piedi da nessun punto di vista, tantomeno da quello economico–finanziario, come emerge dai dati dello stesso proponente. Per far quadrare i conti e ottenere il via libera dal CIPE, il ministro Lupi si è dovuto inventare trucchi di ogni genere: dalle defiscalizzazioni per 1,8 miliardi, al project financing, dai project bond alle ultra-semplificazioni amministrative. La stessa Corte dei Conti solo due mesi fa aveva bloccato l’iter di approvazione del progetto riscontrando la non applicabilità delle defiscalizzazioni per le opere dichiarate di pubblica utilità prima del 2013, come nel caso della Orte-Mestre. Ma con il Decreto “Sbanca Italia” (Art. 4 comma 2) il Governo Renzi, contro ogni logica, ha cancellato l’ostacolo opposto dalla Corte; di fatto tra pochi mesi sarà possibile per ANAS indire il bando per la progettazione definitiva e la concessione dell’opera. Mentre invece, tra tutti gli interventi previsti e finanziati per strade e autostrade, non figura nemmeno un centesimo per la messa in sicurezza della SS 309 Romea né della E-45.

La verità è che questa autostrada serve solo a chi la fa, alle cricche mafiose del cemento e dell’asfalto che dopo il MOSE vogliono appropriarsi di un “bottino” ancora più succulento, come emerge dalle intercettazioni dell’inchiesta sul “sistema Veneto”, per stessa ammissione dell’ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo.

A pagare queste scelte sciagurate saranno sempre e solo i cittadini e i lavoratori con tagli ai servizi e al welfare, tasse e disoccupazione.

Per far ripartire il Paese ci vuole ben altro: bisogna redistribuire la ricchezza, rimettendo al centro il lavoro vero, i diritti delle persone, l’ambiente e la salute.

 

L’ex assessore regionale resta in carcere, il nuovo gip incarica un medico di formulare un’altra perizia

VENEZIA – Si infoltisce la pattuglia di coloro che cercano l’accordo per una pena ridotta con la Procura della Repubblica, in modo tra l’altro di uscire dal procedimento per la corruzione per il Mose in tempi brevi. Il 16 ottobre, infatti, è già stata fissata la data per tutti i patteggiamenti, che potrebbero essere addirittura 17. Nel frattempo, oggi si saprà a quale dei giudici del suo ufficio la presidente dei giudici delle indagini preliminari Giuliana Galasso affiderà il fascicolo che riguarda l’ex assessore Renato Chisso. Il difensore, l’avvocato Antonio Forza, ha presentato consulenze mediche nelle quali si afferma che per i problemi cardiaci e di depressione la sua permanenza nel carcere di Pisa è incompatibile con la sua salute. I pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini, con il procuratore aggiunto Carlo Nordio, hanno consegnato il loro parere: grazie ad altrettanti medici, sostengono che le patologie dell’esponente di Forza Italia non sono incompatibili con la detenzione, sottolineando il fatto che si trova in un carcere che ospita un Centro clinico cardiologico all’avanguardia. Già oggi, dunque, il magistrato incaricato potrebbe incaricare un suo perito che dovrà prima visitare il detenuto, quindi leggere ciò che affermando i consulenti della difesa e della Procura, quindi fornire il suo parere al giudice che dovrà dire la sua parola, firmando un’ordinanza in cui scarcera per motivi di salute Chisso o respinge l’istanza della difesa, spiegando che le sue patologie non sono incompatibili con la detenzione. Nei prossimi giorni ai 14 indagati che hanno raggiunto già un accordo con la Procura per il patteggiamento dovrebbero aggiungersi altri tre, mentre tutti gli altri, una quindicina, finiranno davanti al Tribunale, coloro che devono rispondere di corruzione, e al giudice monocratico, coloro che devono rispondere di reati meno gravi, come millantato credito o finanziamento illecito del partito. La Procura chiederà il rito immediato per i primi e la citazione diretta per i secondi, in entrambi casi non è prevista l’udienza preliminare, ma già alcuni di loro sembrano convinti a chiedere il rito abbreviato al giudice dell’udienza preliminare e quindi saranno un numero limitato coloro che si troveranno a rispondere della accuse in aula.

Giorgio Cecchetti

 

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

AI DOMICILIARI – Meneguzzo, il manager travolto dallo scandalo

Determinata e di poche parole, Paola Tonini per quattro anni ha indagato sul Consorzio Venezia Nuova e gli “amici”.

È ancora ai domiciliari nella sua casa di Vicenza, il finanziere Roberto Meneguzzo, 58 anni, ex amministratore della Palladio Finanziaria, considerata il salotto buono dell’economia nordestina.
Le dimissioni da tutte le cariche societarie le ha date dopo l’arresto del 4 giugno. Secondo l’accusa negli uffici di Milano della Palladio sarebbe stata consegnata la mazzetta da mezzo milione di euro a Marco Milanese, allora consigliere politico del ministro dell’Economia Tremonti.
Il fascicolo è stato trasmesso alla Procura meneghina per competenza, che si occupa anche della posizione del generale in pensione delle Fiamme gialle Emilio Spaziante.

 

I FASCICOLI RIUNITI – Dai “sassi d’oro” alle cartiere. E le due inchieste diventano una.

Due inchieste che diventano una. Paola Tonini arriva al Mose partendo da Chioggia e da una verifica fiscale alla cooperativa San Martino. Stefano Ancilotto invece arriva al Mose partendo da una inchiesta sulle mazzette che viaggiano come missili dentro gli uffici della Provincia di Venezia. Come in una matassa del malaffare, qualsiasi filo si tiri, da qualsiasi parte, si arriva sempre allo stesso punto, alla corruzione sistematica. Con l’inchiesta di Paola Tonini si scopre il sistema delle false fatturazioni delle cooperative, che versavano il 50 per cento dell’importo – al Consorzio Venezia Nuova. Lì, a Chioggia, si utilizzava il trucco dei “sassi”, i “murazzi” utilizzati per transennare le bocche di porto. Il “sasso”, si sa, è difficile da quantificare e da pesare e ci sono punti del fondale dove ne bastano due e tu dici di averne “affogati” quattro e chi s’è visto s’è visto. E, comunque, quando non bari sul peso e sul numero, bari sulla provenienza. Invece di comperarli direttamente dai produttori, in Croazia, gli fai fare il giro del globo, facendoli passare per il Canada. In questo modo quel che costa 1 costerà alla fine 4, al contribuente che per il Mose di Venezia ha finora staccato un assegno pari a 5 miliardi di euro. Ma i sassi a un certo punto finiscono e allora bisogna inventare sistemi nuovi per alimentare la macchina della corruzione. Ecco le “cartiere” e cioè le società che sono pagate esclusivamente per produrre fatture false cioè per lavori mai eseguiti. Se le cooperative di Chioggia lavoravano sul serio e non si limitavano a produrre fatture false, le cartiere come la Bmc di Colombelli, con sede a San Marino, producono invece esclusivamente fatture false. Ancilotto arriva alle cartiere dalla verifica fiscale alla Mantovani di Baita e da Baita al Mose. Nel frattempo anche Paola Tonini è arrivata alla fine del percorso che è iniziato a Chioggia. Le due inchieste vengono riunite e scoppia lo scandalo del Mose.

 

La toga di ferro che ha incastrato i signori del Mose

Alle 4 del mattino del 4 giugno è nella sua casa di Venezia in centro storico. Ha chiuso la porta dello studio per non svegliare i figli, il grande di 15 anni, e il piccolo di 9. Il cellulare è bollente. I finanzieri l’aggiornano in diretta sul blitz scattato, cronometro alla mano, in mezza Italia. Il primo dei 35 nomi indicati nella lista delle custodie cautelari da eseguire su disposizione del gip Alberto Scaramuzza. È la Retata storica, quella delle tangenti del Mose, quella che porta in carcere giudici contabili, magistrati alle acque, politici, funzionari, imprenditori, ufficiali della polizia e delle Fiamme gialle. La guerra al malaffare scatta nel settembre 2009 e culmina, per lei e i suoi collaboratori, con l’arresto il 12 luglio del 2013 di Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova. Tappa intermedia del percorso che si compirà quasi dodici mesi dopo, come quella del febbraio 2013, quando il collega Stefano Ancilotto, metterà le manette ai polsi di Piergiorgio Baita, patron della Mantovani, e di Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan al tempo in cui era governatore del Veneto. I due fascicoli erano stati riuniti da circa un anno. E a loro si era affiancato anche il pm Stefano Buccini.
Paola Tonini, in procura a Venezia, era arrivata a 26 anni: la laurea in giurisprudenza a Bologna, la sua città, il concorso in magistratura, l’assegnazione a Venezia quando gli uffici erano ospitati ancora alle Procuratie in piazza San Marco e con la toga c’era solo un’altra donna, Rita Ugolini. Un modello per lei. Fu in quel periodo che, in un ambiente coniugato completamente al maschile, indossò la corazza che ancora oggi la fa descrivere sul fronte caratteriale come ruvida, distaccata, addirittura burbera, di poche parole. Determinata sul fronte professionale. Ad indicarla con questo aggettivo è anche Mazzacurati quando viene informato che la verifica fiscale nella sede del Consorzio a Santo Stefano in realtà nasconde un’inchiesta penale, condotta da una pm. È il giugno 2010. E le intercettazioni telefoniche e ambientale durano da mesi: nessuno sa delle indagini, tranne chi le conduce. Ergo ci deve essere una talpa, un traditore. Si scoprirà poi che a passare le informazioni ai vertici del Consorzio sarebbe stato il generale Emilio Spaziante, al tempo comandante interregionale dell’Italia centrale e andato in pensione come vice comandante generale del Corpo: una coltellata. Alla schiena. «Il periodo più critico, quando c’è stato il rischio che tutto naufragasse. Quando si è cominciato a dubitare anche dei più stretti collaboratori» pensa preparandosi il caffè d’orzo per la colazione di una giornata iniziata nel cuore delle notte e destinata a durare mesi e mesi.
No, lei non corre. Non è una sportiva. Si rilassa piuttosto leggendo un libro, o passeggiando, per le calli meno battute dai turisti. Schiva. «Già è vero». La scelta di non apparire sui giornali l’ha fatta a inizio carriera. Alla ribalta della cronaca preferisce la discrezione delle aule di tribunale, la sfida con la difesa, a conclusione di un’istruttoria meticolosa, lunga, certosina. Lo sa, eccome. Con gli arresti si termina una parte del compito, premessa a quello per certi versi più oneroso del confronto con i legali degli indagati davanti al giudice, verso il verdetto. Per questo da sempre la sua strategia è quella di non risparmiarsi e sgobbare sulle “carte” per “blindare” il più possibile dal punto di vista processuale i riscontri raccolti. In questo caso dai finanzieri. Ormai quelli del 1. Gruppo Tutela Entrate li chiama “i suoi ragazzi”. E poi c’è il maresciallo di polizia giudiziaria che ha in segreteria: un punto di riferimento. A dare ragione al suo lavoro e a quello dei colleghi sostituti più giovani, allo stato attuale, l’esito del Riesame che ha confermato nel complesso le misure adottate. L’incontro decisivo? Quello con il colonnello Renzo Nisi a inizio autunno 2009: «Dottoressa, qui c’è qualcosa di grosso. Tutto questo nero porta al Mose e al Consorzio Venezia Nuova». L’ufficiale le aveva esposto i dubbi, ovvero le certezze, su quanto era emerso dagli accertamenti fatti alla Cooperativa San Martino impegnata nella realizzazione delle dighe mobili a Chioggia: la contabilità parallela che portava al Cvn, la notizia di reato al termine di tutte le attività in quel 23 settembre 2009 che poi diventa fascicolo assegnato a lei.
Tomarelli, Savioli, Neri, Sutto, Meneguzzo, Milanese, Sutto, Boscolo, Cuccioletta, Tiozzo, Piva, Giuseppone. Mosche nella tela del ragno Mazzacurati. È della Tonini la definizione di “grande burattinaio”. Se qualcuno glielo chiedesse non avrebbe esitazioni nel rispondere che «èil vero regista del “sistema Mose”. Il monarca indiscusso. Èlui l’ideatore insieme a Neri del meccanismo della sovraffatturazione per la creazione del “denaro fantasma ” con cui pagare le mazzette. Èlui che raccoglie il denaro e lo consegna personalmente al corrotto di turno. Anche Baita si adegua e obbedisce». Un uomo d’altri tempi. Andreotti? Sì il paragone potrebbe reggere. Che soddisfazione, durante i vari interrogatori, nell’estate 2013, ascoltare dalla voce di Mazzacurati la trama che già conoscevano, scritta nelle centinaia di pagine dell’informativa delle Fiamme gialle.

11-Continua (Le puntate precedenti sono state pubblicate il 10, 15, 17 23, 24, 30, 31 agosto, il 6, 7 e 13 settembre)

 

I lavori per il Mose: parte dell’inchiesta è partita dai sassi utilizzati per le scogliere

I VERBALI «O paghi o non lavori» Gli imprenditori accusano

Tutti raccontano la stessa storia. Anche Piergiorgio Baita: «Prima di darci l’assenso al subentro nella quota Impregilo, l’ing. Mazzacurati, Presidente e direttore del Consorzio Venezia Nuova, mi ha chiamato e mi ha detto se, al di là dei documenti del subentro, ero stato edotto di alcune regole che vigevano all’interno del Consorzio Venezia Nuova, cioè impegni chiamiamoli non trasferibili in atti statutari». Mazzette, insomma. E se non paghi, non lavori.
Lo spiega bene l’ing. Luigi Rizzo il quale in realtà con il Mose non c’entra e proprio per questo la sua testimonianza è importante dal momento che ci dà la prova provata di come funziona il sistema Venezia di cui il sistema Mose fa parte. «Mi rendo conto che ho sbagliato a versare al Brentan Lino delle somme che mi venivano chieste illecitamente ma purtroppo voglio precisare che si tratta di richieste alle quali un privato non può sottrarsi se vuole lavorare con le pubbliche amministrazioni o con le società pubbliche». Lino Brentan è l’ex amministratore delegato dell’autostrada Venezia-Padova in quota Partito democratico, ma sostenuto anche da Baita.
Anche Gianfranco Boscolo Contadin, l’imprenditore di Chioggia che lavorava per il Consorzio, pur con un eloquio non limpidissimo, è però chiarissimo: «Mazzacurati ci dava dei lavori. Per lavorare ci voleva dei soldi… abbiamo fatto delle fatture che poi restituivo circa il 50 per cento … Lui mi ha detto: pensa a portarli che il resto mi arrangio io e siccome era un po’ difficile andarlo a contrastare, perché avevo bisogno di lavorare e come facevo se non eseguivo?» … «o lo fai o… e c’era difficoltà per lavorare e io intendevo lavorare perché avevo bisogno di lavorare».
Se poi andassimo indietro nel tempo e tornassimo alle prime indagini che hanno portato in galera mezzo Ufficio tecnico della Provincia di Venezia, troveremmo esattamente le stesse frasi: «Mi hanno fatto capire che se non pagavo non lavoravo». Insomma il refrain è sempre lo stesso, a Venezia, che si tratti di Mose o di opere pubbliche come scuole o ospedali, se vuoi lavorare devi pagare. Ecco perché il Tribunale del riesame di Venezia, presieduto da Angelo Risi, ha puntato, per alcuni imputati di minor rilievo, sulla concussione invece che sulla corruzione. Significa che il Riesame crede alla versione degli imprenditori costretti a pagare il Consorzio Venezia Nuova per poter lavorare. La Procura invece, soprattutto per la parte “chioggiotta” dell’inchiesta, aveva messo in galera tutti accusandoli di corruzione. La differenza non è di poco conto dal momento che il cambio di reato, da corruzione a concussione, non solo modifica le pene, ma ritocca l’impianto accusatorio e mette nei guai due dei tre testi-indagati principali e cioè Mazzacurati e Baita. E i “concussi”, intanto, e cioè coloro che, secondo il Riesame, erano obbligati a pagare, sono diventati un nutrito gruppetto. Si è iniziato con il chioggiotto Stefano Boscolo Bacheto – difeso dall’avv. Antonio Franchini – e si è arrivati all’imprenditore ed ex presidente dell’Ente Gondola, Nicola Falconi, del Lido di Venezia, accusato di corruzione e finanziamento illecito. E poi si è aggiunto l’altro chioggiotto, Boscolo Contadin – avv. Giuseppe Sarti – Tre concussi. Tre imputati che hanno convinto il Tribunale del riesame di essere vittime del sistema Venezia.

 

La vera storia dell’acquisto della tenuta Frassineto: 400 ettari di pascoli, boschi e rustici che l’ex ministro liquida in tre righe nel memoriale ai giudici per giustificare i suoi beni

VENEZIA – Quattrocento ettari sull’appennino tosco-emiliano, a Casola Valsenio. L’azienda agricola si chiama Frassineto ed era di proprietà di don Pierino Gelmini, il fondatore delle comunità Incontro. Giancarlo Galan è passato di là, se n’è innamorato e ha deciso di comprarla. Si ignora se sia stato lui a proporsi o don Gelmini a offrirsi. Si sa invece come è avvenuto l’acquisto, anche se per scoprirlo bisogna destreggiarsi tra i passaggi societari orchestrati dall’ex presidente del Veneto e dai suoi cari. Nel memoriale consegnato ai giudici il 25 luglio, quando ormai era in carcere, Galan ha dedicato a Frassineto tre righe esatte: «Si tratta di territorio prevalentemente boschivo acquistato con una quota pari al 70% nel 2008 con un mutuo presso Veneto Banca a copertura dell’intero importo». Nient’altro. Sembra che parli di un boschetto dietro casa, sui Colli Euganei. La tenuta Frassineto è leggermente più estesa, a cavallo di tre province: Firenze, Ravenna e Bologna. Il mutuo con la banca ci sarà anche stato, ma nel 2008 l’assegno di Veneto Banca copriva solo 75.000 euro dei 526.070 della cessione, corrispondenti a metà del valore di Frassineto. L’acquirente si impegnava a pagare la cifra mancante, cioè quasi tutto, entro il 20 novembre 2013. L’ex presidente tace altri particolari. Per rientrare nel beneficio fiscale di cui godono gli agricoltori, aveva intestato la proprietà a un prestanome. Pudore comprensibile, lo fanno in tanti. Con buoni motivi, visto che nel suo caso, al posto di circa 156.000 euro, è riuscito a pagarne solo 13.000, con un risparmio di 143.000 €. Il prestanome di Galan è una signora che si chiama Monica Merotto. È la moglie dell’avvocato Niccolò Ghedini, che risulta iscritta all’Inps come coltivatrice diretta dal 17 settembre 2008. Appena un mese prima di dare il via alle operazioni. Era tutto orchestrato con gli amici. E chi più amico di Ghedini, che lo sta difendendo anche in questo momento? Come persona fisica Galan entra nella proprietà solo nel 2013. All’inizio è presente attraverso Margherita srl, la società che condivide con la moglie Sandra Persegato. Mandavano avanti le signore. Le fasi della compravendita sembrano ideate da Azzeccagarbugli. Si comincia il 20 ottobre 2008: viene concordata con un rappresentante legale di don Gelmini la costituzione della “Società agricola Frassineto sas di Merotto Monica e C”, con sede a Padova in Passaggio Corner Piscopia 10. Lo stesso indirizzo dello studio di Paolo Venuti, il commercialista di Galan. Incidentalmente anche Venuti è stato arrestato il 4 giugno. È ancora in carcere. La “Frassineto sas di Merotto Monica” nasce con 100.000 euro di capitale sociale: 98.000 sono la quota riconosciuta a don Gelmini, 1.000 della Merotto, altri 1.000 di Margherita srl. Il 6 novembre la società passa dal registro ordinario delle imprese alla sezione speciale: don Gelmini rinuncia alla titolarità dell’impresa agricola, trasferendola alla Merotto anche se ha solo l’1% delle quote. Il 20 novembre 2008, don Gelmini cede il 48% a Margherita srl che passa al 49%; la Monica resta all’1%; il valore della cessione è fissato nei già citati 526.070 euro; Monica Merotto e Margherita srl diventano soci accomandatari, cioè i veri gestori; don Gelmini con il 50% è socio accomandante, cioè alle dipendenze. Curiosità: di solito è il notaio che redige la compravendita. Per Frassineto invece i nostri arrivano con gli atti già fatti. Forse è per questo che, con tutti i notai di Padova, vanno a farsi autenticare le scritture private a Stanghella, da un giovane notaio, Emanuela Di Maggio, che ha appena vinto una sede disagiata. Come minimo risparmiano sulle tariffe. Il 22 dicembre 2008 entra nella società un altro amico di famiglia: è Mauro Mainardi, consigliere regionale tuttora in carica, del Pdl o quel che resta. Mainardi è «l’uomo di Dubai», nel 2008 aveva un’intesa di ferro con Galan e una d’acciaio con Ghedini e stava ancora trainando l’investimento immobiliare nel Golfo. Un’allegra compagnia partiva dal Veneto, guidata dal presidente, infoltita di politici e di imprenditori, per quello che doveva essere un affarone. Ma al ritorno dall’ultimo viaggio i musi erano lunghi. Secondo una vulgata mai smentita, i primi investimenti avevano riempito il portafoglio, poi era scoppiata la bolla speculativa ed è arrivata la stangata. Sono rimasti scottati in tanti, ma qualcuno si è salvato. Oggi a Dubai c’è un palazzone lasciato a metà, in pratica l’investimento è andato perduto. Può succedere di perdere i soldi, è doloroso ma non è un reato. Certo che se il tuo socio si salva e tu no, mastichi più amaro. Mainardi entra in Frassineto sas perché don Gelmini vende anche il 50% che gli resta. Adriafin srl, la società di Mainardi, rileva il 20% pagandolo 30.000 euro; il 21% va a Margherita srl per altri 30.000 euro; il 9% alla Merotto per 15.000. Ma il totale fa 75.000 euro, cifra stranissima. L’altra metà della proprietà era stata pagata più di mezzo milione: la differenza balza all’occhio, siamo sopra 450.000 euro. Per giunta il venditore si dichiara soddisfatto. Non si spiega. Tre mesi dopo, il 24 marzo 2009, chi aveva dichiarato di aver incassato tutto si ricorda che il prezzo è diverso. Viene fatto un atto di rettifica e gli importi cambiano in modo rilevante: alla fine le quote saranno pagate 230.000 euro da Margherita srl, 98.000 da Monica Merotto e 219.000 da Adriafin. La comunità Incontro è fuori del tutto, ma i nostri non hanno ancora finito le transazioni tra di loro. Il 27 maggio 2009 Sandra Persegato persona fisica acquista l’1% da Margherita srl, cioè da se stessa, per 10.960 euro. L’artificio le serve perché nel frattempo è diventata imprenditrice agricola e non ha più bisogno della Merotto come prestanome. La signora Ghedini viene retrocessa a socio accomandante, come Mainardi. La società diventa “Frassineto sas di Margherita srl e C”. Tutte scritture private autenticate dal notaio di Stanghella. Il 14 novembre 2011 altro giro di valzer. Esce la signora Ghedini, esce Mauro Mainardi ed entra (chi si rivede) Tiziano Zigiotto, un amico per la pelle di Galan. Zigiotto lavorava in Publitalia con Giancarlo, l’ha seguito in Forza Italia, alle regionali del 1995 è stato inserito nel listino bloccato del presidente (elezione automatica in caso di vittoria senza essere votati) ed è diventato consigliere regionale. Bis nel 2000, tris nel 2005. Zigiotto si è fatto15 anni in Regione trasportato in carrozza da Galan. Lui e qualche altro. Oggi il listino bloccato è stato abolito, sempre troppo tardi. L’uscita dalla scena regionale di Giancarlo nel 2010 coincide con quella di Zigiotto. Lo ritroviamo presidente dell’Inea, l’istituto nazionale di economia agraria, nominato da Galan il 23 maggio 2011, il giorno prima dimettersi da “ministro delle mozzarelle”, come ironizzava quando c’era Luca Zaia. Pazienza se Zigiotto non aveva i titoli richiesti, era un premio fedeltà: stipendio allora di 65.000 euro più i gettoni di presenza, in caso non fosse bastata la buonuscita regionale di 100.000 euro, peraltro integrata dal vitalizio. Dall’Inea lo butta fuori il ministro Nunzia Di Girolamo, che commissaria l’istituto a gennaio 2014, anche lei poco prima di dimettersi. Contrappasso perfetto. Grandi meraviglie del Pd, in precedenza silenzioso, chissà perché. Anche Zigiotto era nell’avventura di Dubai. In Frassineto Galan lo chiama perché escono sia Mainardi che Monica Merotto. Zigiotto subentra con la società agricola Monterotondo, come socio accomandante, rilevando il 10% di Monica Merotto per 75.000 euro e il 20% di Mainardi per 219.196. A Mainardi dà solo 30.000 euro, perché i rimanenti 189.196 sono il debito ancora da pagare a don Gelmini, buonanima, che Zigiotto si accolla. Questa combriccola di amici che gira l’Italia mescolando politica e affari, ha uno stile inconfondibile. Un esempio? Nella tenuta di Frassineto, uno dei contadini si era visto assegnare in passato un fabbricato in proprietà, sul quale oggi vive il figlio, che lo sta ristrutturando. I nuovi titolari fanno subito vedere di che pasta sono fatti: litigano con il figlio del contadino perché il pozzo sconfina per un paio di metri nella proprietà dell’azienda. Quando si possiede una tenuta dieci volte più estesa dello Stato del Vaticano, la pignoleria diventa una questione di status. Comincia un lavoro ai fianchi del disgraziato: l’obiettivo è ricostruire l’integrità di Frassineto strappandogli il fazzoletto di terra, altrimenti lo portano in tribunale. L’ultimo tentativo di farlo capitolare risale allo scorso maggio. Zigiotto si presenta con un avvocato, spiegando all’infelice che gli conviene vendere se non vuole mangiarsi tutto in spese legali. La discussione va avanti per un po’. In casa c’è una terza persona che assiste, senza spiaccicare parola. Ad un certo punto Zigiotto lo interpella: «Scusi lei chi è?». «Sono un invitato a cena», risponde quello, «sto aspettando che ve ne andiate, perché siete anche un po’ noiosi». Zigiotto fiuta il vento infido, gira i tacchi e se ne va. Ha ragione. Questo signore è un ex generale della Guardia di Finanza in pensione, che si è ritirato sull’Appennino. L’uomo che al tempo del sequestro Soffiantini coordinò le indagini sul generale dei carabinieri Francesco Delfino. Non uno qualunque. Quando si dice la sfortuna. Ma fino al 4 giugno i nostri non temevano l’opinione pubblica. Potevano ingaggiare un muratore per ristrutturare i fabbricati di Frassineto e rinviare alle calende greche i pagamenti. Il muratore telefona per sollecitare, risponde la Sandra intimandogli di non disturbare perché sono in vacanza in barca. Figurarsi la replica del muratore. La storia gira in paese, con il commento che più ricchi sono, più fatica fanno a tirar fuori i soldi. Cosa che non stupisce, perché vale sotto tutte le latitudini. Ad ogni buon conto Paolo Venuti può certificare che la pendenza, benché in ritardo, è stata liquidata.

Renzo Mazzaro

 

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

IL CASO – La Procura sommersa dai certificati medici

Nel mirino anche un generale e un vicequestore: «Passavano informazioni»

Il pm Ancilotto: «Un processo contro un malavitoso è più facile di questo»

Mai visti tanti certificati medici. E perizie psichiatriche e cardiologiche, ortopediche e chirurgiche. La Procura di Venezia è stata sommersa da tonnellate di referti, da centinaia di pagine di indagini tossicologiche, di analisi di ogni liquido contenuto nel corpo umano. Del resto par di capire che in alcuni casi l’invocazione delle condizioni di salute “incompatibli” con la carcerazione appare come la via d’uscita più rapida – se non l’unica – dal carcere.
Del resto l’inchiesta dura da più di quattro anni e in quattro anni la Procura ha raccolto tonnellate di materiale, quanto basta per lunghe carcerazioni preventive.

 

IL SISTEMA MOSE

Baita: Mazzacurati mi disse come si doveva fare

All’inizio c’è solo Claudia Minutillo. Poi arriva Piergiorgio Baita. Poi vien giù il mondo. Perchè Baita racconta per filo e per segno il Mose delle mazzette. «Cominciamo dal 2002 – attacca Baita, interrogato da Stefano Ancilotto – anno nel quale la Mantovani compie un salto di dimensioni e anche di collocazione di mercato».
Nel 2002 la Mantovani entra a far parte del Consorzio Venezia Nuova acquisendo le quote di Impregilo. «Prima di darci l’assenso al subentro nella quota Impregilo l’ing. Mazzacurati, Presidente e direttore del Consorzio Venezia Nuova, mi ha convocato… e mi ha detto se, al di là dei documenti del subentro, ero stato edotto di alcune regole che vigevano all’interno del Consorzio Venezia Nuova, cioè impegni chiamiamoli non trasferibili in atti statutari». Ecco, i lord inglesi li chiamano “impegni non trasferibili in atti statutari”, in linguaggio da suburra sarebbero le mazzette. Dunque, grazie a Baita, sappiamo che è dal 2002 che in laguna va alla grande il sistema messo in piedi da Mazzacurati e perfezionato da Piergiorgio Baita. Il principio è che si paga tutti. Ci si compra le anime nere di chi accetta di essere corrotto e si danno soldi anche alle anime belle, quelle che fanno finta di essere contro il Mose. Soldi alla destra e soldi alla sinistra, rispettando le quote e cioè le percentuali. Le coop rosse valgono per il 7 per cento dentro il Consorzio? Pagheranno l’equivalente del 7 per cento in mazzette. E le pagheranno al partito democratico. Le grandi aziende come la Mantovani valgono il 30 per cento? E allora pagheranno mazzette milionarie. A chi? Ai politici di destra. E se si tratta di corrompere ministri e sottosegretari, si comparsi giudici e magistrati alle acque? Ognuno darà per la sua quota parte e Mazzacurati in persona si occuperà della distribuzione.

 

Così gli indagati spiavano le mosse dei pm di Venezia

I vertici del Consorzio Venezia Nuova e l’amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, non facevano mistero nelle telefonate e nelle intercettazioni ambientali della loro capacità di “sapere” che cosa bolliva in pentola in Procura a Venezia e i magistrati un po’ alla volta si erano fatti un’idea precisa, tant’è che la mattina del 4 giugno 2014 le manette scattano anche ai polsi proprio del generale della Guardia di Finanza, Emilio Spaziante, mentre un anno prima era stato arrestato il vicequestore di Bologna, Giovanni Preziosa, perchè era entrato nel database delle forze dell’ordine senza autorizzazione ed aveva passato le informazioni a Baita. Racconterà Mirco Voltazza, un ragioniere padovano che si improvvisa spia, di aver stipulato un contratto con la Mantovani da 1 milione e 400 mila euro per organizzare un servizio che doveva servire “ad evitare aggressioni da parte delle forze dell’ordine e della magistratura”. Voltazza, dunque, assicura di essere in grado di prevenire – o di “curare” – verifiche fiscali e inchieste.
Commenta Nicolò Buson, il cassiere-ragioniere della Mantovani: «Io, se devo essere onesto, una cazzata del genere l’avevo sentita sparare dal buon Voltazza e gli ho detto che quello era tutto scemo, che una cosa del genere non era un contratto che era possibile scrivere, insomma».
Ma che ci fosse al lavoro una vera e propria macchina dello spionaggio contro l’inchiesta, i pm del Mose, Stefano Buccini, Stefano Ancilotto e Paola Tonini, l’avrebbero scoperto solo dopo. L’avrebbero saputo in un secondo momento che gli indagati come Baita riuscivano ad avere i verbali di interrogatorio, quelli che restano chiusi nell’ufficio del pm, quelli che non ha nemmeno l’avvocato difensore. E anche Mazzacurati in una intercettazione ambientale diceva che sapeva perfettamente che lo stavano intercettando. «Anche una volta che sono andato a parlare con Gianni Letta, mi hanno beccato».
E che dire di Claudia Minutillo? L’ex segretaria di Galan, quando aveva iniziato a parlare con i pm, aveva raccontato a verbale di essere stata avvertita da Voltazza e da Baita che aveva una “cimice” in auto. Lei aveva fatto bonificare la macchina e niente. «Impossibile. Cerca meglio. E’ nell’alloggiamento della luce, la lucina che illumina l’abitacolo». Nuova ricerca e nuovo niente. «Ascoltami, c’è. Non la trovano perché è una cimice silente. Fai smontare il pezzo della luce e poi lo fai rimettere a posto, ma dev’essere un lavoro che nessuno se ne accorge, mi raccomando».
Era vero. La cimice c’era. Voltazza aveva ragione. Si trattava di una microspia “silente” e cioè che non emette segnali e quindi non viene individuata dalle apparecchiature di “bonifica”. La cimice “silente” registra tutto e invia la registrazione, chessò?, alle 3 del mattino, quando tutti dormono e nessuno è pronto ad intercettare il segnale. Quindi, se la si cerca, non la si trova perché non trasmette nessun segnale, è un apparecchio “in sonno”.
Spiati, controllati, “monitorati”. I p.m. lo sapevano che quando si ha a che fare con i Vip, le inchieste sono sempre difficili. «L’avvocato dice che non possiamo fare la perquisizione perché qui oltre all’abitazione c’è anche lo studio dell’avvocato Orsoni e lo studio di un avvocato non si può perquisire. Che facciamo dottore?»
«Effettuate la perquisizione».
Intanto, erano arrivate le 6 del mattino di quel 4 giugno 2014 che avrebbe inaugurato la “Retata Storica”, il blitz che avrebbe portato alla luce il più grande caso di corruzione che si fosse mai registrato in Italia. Finalmente era arrivata la telefonata che metteva fine alla lunga notte.
A quel punto Stefano Ancilotto aveva indossato maglietta e calzoncini, aveva infilato le Asics ed aveva iniziato a correre. Un’ora, il tempo giusto per fare il pieno di endorfine e lasciar andare i ricordi. Gli piaceva correre anche se la vera passione è sempre stato il tennis. Che, però, è uno sport ancora più traumatico della corsa. Gli scatti improvvisi, le voleè, le corse a rete, gli avevano procurato un sacco di guai muscolari, ma siccome dello sport non si può fare a meno se vuoi mantenere in forma anche la mente, si era buttato sulla corsa. E un po’ alla volta aveva iniziato a piacergli. Però la vecchia passione per la racchetta ogni tanto saltava fuori, prepotente, e così aveva deciso di alternare la corsa alle partite a tennis.
Anche quella mattina Ancilotto aveva messo le cuffiette. La musica, a basso volume, gli permetteva di concentrarsi meglio, via un piede e sotto l’altro, via una falcata e sotto l’altra. I passi di corsa che scandivano i passaggi dell’inchiesta. Ma chissà perché quella mattina, mentre iniziava il riscaldamento, gli erano venuti in mente gli abusivi del Tronchetto. Non era stato un processo semplice, ma avere a che fare con i malavitosi hai i suoi vantaggi. «Tecnicamente un processo contro un malavitoso è un processo facile, più facile comunque di un processo come questo, dove hai a che fare con gente molto influente. Un mafioso lo incastri con un’impronta digitale, il Dna, la pistola, a questi gli trovi i soldi in casa e ti possono trovare centomila giustificazioni di quei quattrini. Sono processi difficili, molto più difficili di quelli contro la malavita organizzata. Che poi, a Venezia, è quel che è, siamo sinceri. Forti, d’accordo, ma un mese di lavoro dei malavitosi al Tronchetto non parifica la cresta che viene fatta su una paratoia del Mose, che costa 250 mila euro e viene fatta pagare al contribuente 800 mila euro. La quantità di soldi che gira è enormemente più grande nel caso dei reati dei colletti bianchi, non c’è proporzione. E le condanne sono difficili da ottenere».
Gli abusivi del Tronchetto invece erano stati condannati e i beni sequestrati. E quello era stato il primo vero processo contro la malavita organizzata che si era insediata a Venezia. Non che le cose fossero poi andate come voleva lui, Ancilotto, che avrebbe preteso almeno dal Comune un atteggiamento diverso, più deciso nei confronti della malavita organizzata e cioè che prendesse lo spunto per fare un repulisti vero dell’isola artificiale. E invece era tutto rimasto come prima. Del resto era da oltre mezzo secolo ormai che l’ex banda del Brenta, quella di Felice Maniero, teneva sotto controllo il flusso dei turismo organizzato a Venezia. Si era superata la vetta dei 20 milioni di presenze annue e buona parte dei quattrini che i turisti portavano a Venezia finiva nelle mani dei malavitosi. Il processo aveva portato alla luce le connivenze, ma soprattutto il malcostume di lasciar perdere, di lasciar fare, di far finta di niente. Anche in questa inchiesta sul Mose era saltato fuori che c’era un sacco di gente che faceva finta di nulla o che, addirittura, spintonava per salire sul carro dei mazzettari. Messa in ginocchio la banda del Tronchetto comunque aveva voglia di occuparsi d’altro e alla fine del 2009 era venuto a fagiolo l’inserimento nel pool che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione. A Venezia non erano mai state fatte inchieste su questo versante e l’ultima grande retata risaliva agli anni di Tangentopoli, quattro vite fa, quando lui aveva appena fatto il concorso in magistratura mentre ancora faceva il praticante nello studio dell’avvocato Mauro Pizzigati, a Mestre. «Era il 1995. Sono entrato in magistratura con il concorso dei cosiddetti giudici ragazzini, bandito subito dopo la morte di Falcone e Borsellino – ricordava Ancilotto – Nel 1996 ero in Sicilia e ci sono stato fino al 2003, tra Siracusa e Catania. E’ lì che mi sono fatto le ossa, con le inchieste sulla mafia».
Altri tempi, come in altri tempi era partita questa inchiesta sul Mose.

10 – Continua (Le precedenti puntate sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto, il 6 e il 7 settembre)

 

E per qualcuno le mazzette diventavano stipendio extra

«Il Consorzio Venezia Nuova determinava il fabbisogno di soldi neri in modo chiamiamolo organizzato in questo modo: l’ing. Mazzacurati si rapportava con le quattro realtà principali del Consorzio, ovvero le tre imprese maggiori più il gruppo delle cooperative rosse, che, pur non avendo una quota rilevante ,era molto rilevante negli equilibri generali (…)» Il racconto è di Piergiorgio Baita, verbale del 28 maggio 2013. Il presidente e amministratore delegato della Mantovani spiega ai pubblici ministeri che indagano sul Mose, come funziona il meccanismo. «Il Consorzio Venezia Nuova ha di questi fabbisogni, il cosiddetto “fabbisogno sistemico”, cioè il pagamento periodico, a tempo, di tutta una serie di persone, cresciuta sempre di più negli anni. Il pagamento episodico ma regolare, cioè la firma della convenzione, la registrazione alla Corte dei Conti, la necessità di fare arrivare dei soldi alla Corte dei Conti. Il pagamento di particolari episodi e le cosiddette emergenze».
“Fabbisogno sistemico” significa che alcune persone – Presidente del Magistrato alle acque piuttosto che giudice della Corte dei conti – erano sul libro paga del Consorzio e ricevevano una sorta di stipendio, indipendentemente da quello che facevano o non facevano. Per i politici è diverso. «Ogni campagna elettorale era un salasso – si lamenta Baita – L’ing. Mazzacurati proponeva un budget per ogni campagna elettorale, politiche, regionali, comunali, un budget di fondi neri da coprire pro quota».

 

Nuova Venezia – I pm: “Chisso puo’ restare in carcere”

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12

set

2014

Scandalo Mose

Per la Procura di Venezia la vita di Renato Chisso non è in pericolo. Secondo i pm l’ex assessore regionale, arrestato il 4 giugno nell’inchiesta “tangenti Mose”, può restare in carcere, contrariamente a quanto sostiene il suo avvocato.

Nordio, Ancilotto, Buccini e Tonini esprimono parere contrario alla scarcerazione

Intanto il Comune nomina un avvocato per tutelare Venezia nel processo Mose

La Procura: «Resti in cella. Chisso non è in pericolo»

VENEZIA – Per la Procura di Venezia la vita del detenuto Renato Chisso non è in pericolo, le sue condizioni di salute non sono incompatibili con il carcere e, pertanto, l’ex assessore regionale arrestato il 4 giugno nell’ambito dell’inchiesta “tangenti Mose” può restare nella sua cella a tre brande, nel carcere di Pisa, in attesa dello sviluppo delle indagini. Ieri, i pubblici ministeri Stefano Ancillotto, Stefano Buccini, Paola Tonini e il procuratore aggiunto Carlo Nordio hanno depositato il loro parere negativo all’istanza di scarcerazione presentata dal difensore di Chisso. Forte di una consulenza firmata dai medici Marzilli, Pietrini e Di Paolo dell’Università di Pisa, l’avvocato Antonio Forza sostiene – al contario – che l’ex assessore regionale sia in serio pericolo di vita a causa di una coronaria ancora ostruita dopo l’infarto che l’ha colpito nel 2013. Giovedì, la Procura aveva così incaricato il medico legale Antonello Cirnelli, lo psichiatra Amodeo Sossio, il cardiologo Cosimo Perrone di visitare Chisso. Per i tre medici, le sue condizioni di salute sono compatibili con la detenzione e non rischiano di peggiorare a causa di questa e che, in ogni caso, il carcere di Pisa è dotato di una struttura medica e cardiologica di eccellenza. Quanto poi alla sua situazione psichiatrica, i medici hanno sì riscontrato una “lieve depressione”, ritenendola per altro comune alla gran parte delle persone in stato di detenzione. Da qui, il parere negativo alla scarcerazione espresso dalla Procura. La parola finale spetta ora al giudice per le indagini preliminari Antonio Liguori, che avrà cinque giorni per esprimersi: potrà accogliere l’istanza, respingerla oppure ricorrere alla valutazione di un proprio perito. Intanto, il commissario straordinario del Comune di Venezia, Vittorio Zappalorto, ha deliberato la nomina dell’avvocato Fabio Niero nel procedimento che potrebbe «vedere l’Amministrazione nella veste di persona offesa e danneggiata, sia per le risorse che appaiono essere state indebitamente sottratte alla salvaguardia della città sia per il danno all’immagine causato dalla rilevanza mediatica della vicenda». Primo passo per la costituzione di parte civile, nell’inchiesta che oltre alla partita tangenti Mose, riguarda anche l’indagine per finanziamento illecito ai partiti, che vede indagato anche l’ex sindaco Giorgio Orsoni. «Il Comune intende seguire in tutte le sue fasi i vari procedimenti, sia quelli che possono definirsi con patteggiamento, sia quelli che seguiranno il rito ordinario», osserva l’avvocato Niero, «evidenzieremo il danno subito dal Comune, sia all’immagine sia oggettivo, rappresentando sia i cittadini – che hanno ricevuto un danno non indifferente, perché sono stati sottratti soldi alla comunità – sia il prestigio della città, leso dal fatto vi sono stati compiuti reati non indifferenti».

Roberta De Rossi

 

SCANDALO MOSE – I pm si oppongono alla scarcerazione: condizioni di salute compatibili con la detenzione

Un giudizio contrario alla scarcerazione dell’ex assessore regionale Renato Chisso. Ad emetterlo è stata la Procura della Repubblica di Venezia alla luce dell’esito della consulenza di tre medici che si sono recati mercoledì nel carcere di Pisa dove l’ex assessore regionale si trova rinchiuso in seguito all’inchiesta sul Mose. Ad effettuare la visita sono stati tre specialisti (il medico legale Antonello Cirnelli, il cardiologo Cosimo Perrone e lo psichiatra Amodeo Sossio).
Ieri mattina i magistrati che indagano sugli appalti del Mose hanno letto la relazione dei medici ed alla fine hanno espresso un parere contrario alla scarcerazione di Chisso, sostenendo, in pratica, che le sue condizioni di salute e i suoi problemi cardiaci non sono incompatibili con la detenzione in carcere (restando in cella non ci sarebbero rischi maggiori rispetto ad altre soluzioni).
Secondo quanto appurato dai consulenti della Procura, infatti, la carcerazione alla quale è stato sottoposto il politico non ha complicato o peggiorato le sue condizioni di salute. A tal proposito era stato scelto il carcere di Pisa proprio perchè particolarmente attrezzato per seguire i problemi dei detenuti cardiopatici e secondo la Procura si tratta di un centro d’eccellenza e all’avanguardia. Per i medici dell’accusa, quindi, non ci sarebbero collegamenti diretti tra la detenzione e i problemi di salute evidenziati dall’avvocato Antonio Forza che difende l’ex assessore. Anche la segnalazione di sintomi di un possibile esaurimento nervoso non è stata confermata, visto che i tre specialisti hanno segnalato solamente una lieve flessione dell’umore che, secondo l’accusa, è facilmente riscontrabile in persone che sono soggette a un regime carcerario. Un quadro finale, quindi, diverso da quello delineato dagli specialisti dell’Università di Pisa che erano stati nominati a suo tempo dall’avvocato Forza secondo i quali il politico soffre di una forte depressione e rischia un nuovo infarto.
Ieri sera la consulenza e il parere negativo alla scarcerazione, con le firme dei pm Ancilotto, Tonini, Buccini e dal procuratore aggiunto Carlo Nordio, sono stati trasmessi al gip Liguori il quale è chiamato a decidere su questo rovente caso.
A questo punto, a meno che questa perizia non venga giudicata palesemente infondata, è praticamente certo che, prima di ogni decisione, il giudice si avvalga a sua volta delle consulenze di altri medici, da lui stesso nominati.
Se così fosse, e quest’ultimo elemento non fa che confermare la tensione e anche la delicatezza del caso, per approdare ad una scelta definitiva sarebbero quasi una decina i medici chiamati a confrontarsi sulla salute dell’ex assessore regionale della giunta Galan. In ogni caso il gip ora ha cinque giorni di tempo per decidere.

Gianpaolo Bonzio

 

Gazzettino – I Pm sulle tracce del tesoro di Chisso

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9

set

2014

VENEZIA – Si cercano in Svizzera, Moldavia e Lussemburgo i soldi dell’ex assessore

Intanto il difensore ha presentato l’istanza di scarcerazione per gravi ragioni di salute

I difensori di Renato Chisso, sempre più in allarme per le sue condizioni di salute, tornano alla carica per ottenerne la scarcerazione. Intanto le indagini della Procura alla ricerca di un presunto “tesoro” che l’ex assessore potrebbe aver nascosto all’estero si intensificano. Indagini complesse, legate alle rogatorie internazionali, che potrebbero essere vanificate da un inquinamento delle prove. É uno dei fronti caldi dell’inchiesta sul giro di corruzione cresciuto attorno al Mose. A Chisso, accusato di aver incassato tangenti, dopo il blitz del 4 giugno scorso non venne trovato alcun particolare bene patrimoniale. In conto corrente aveva appena 1.500 euro.
Di qui le ricerche degli inquirenti nei paradisi fiscali: dalla Svizzera, alla Moldavia, al Lussemburgo. Dove, ipotizza la Procura, Chisso e il suo ex segretario Enzo Casarin, pure lui ancora in carcere, potrebbero aver nascosto i proventi del sistema corruttivo. Magari con un sistema di prestanomi. Piste a cui gli investigatori della Guardia di finanza, coordinati dai pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini, stanno lavorando febbrilmente. I tempi per questo tipo di verifiche, però, sono lunghi. E c’è il timore che i diretti interessati, una volta tornati in libertà, possano vanificare le ricerche.
Ora, però, la difesa di Chisso insiste per la scarcerazione. É da giorni che l’avvocato Antonio Forza denuncia l’aggravarsi dello stato di salute del suo assistito. E ieri ha consegnato in Procura l’istanza di ritorno in libertà per motivi di salute: «Per accelerare – spiega il legale – abbiamo deciso di presentarla direttamente al procuratore aggiunto, Carlo Nordio, perché dia il suo parere e poi la trasmetta al gip». Colpito da un infarto un anno fa, a giugno Chisso venne rinchiuso nel carcere di Pisa, proprio perché struttura attrezzata per seguire i cardiopatici. A inizio agosto la Procura chiese una relazione e il carcere pisano ribadì la compatibilità dello stato di salute di Chisso con la detenzione. Diversa, però, la valutazione della difesa, forte anche del recente consulto di un cardiologo di fiducia. «Non riteniamo idonee le cure che può offrire la struttura ospedaliera del carcere di Pisa, anche alla luce del grave quadro emerso dagli esami – insiste Forza – e inoltre per noi vale il principio che uno possa curarsi là dove ritiene di avere il meglio per la propria salute ed incolumità».
Ora la Procura dovrà dare il suo parere, poi la decisione spetterà al gip. Intanto, sul caso Chisso, si muove anche la politica. Il presidente del Consiglio regionale del Veneto, Clodovaldo Ruffato, ha preannunciato un’iniziativa affinché l’assemblea domandi alle autorità giudiziarie una «verifica puntuale e urgente delle condizioni di salute del consigliere, volte a comprendere se il suo stato attuale è compatibile con la reclusione». Se ne parlerà domani, in conferenza dei capigruppo.

 

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