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Gazzettino – Mose. Consorzio avanti con due commissari

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20

nov

2014

MOSE – Si attende la decisione dell’Anac e del prefetto di Roma. Potrebbero essere due tecnici

L’ipotesi è ancora allo studio. Ma sul tavolo del prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro pare che ormai il progetto stia piano piano prendendo piede. Con ogni probabilità, non ci sarà un solo commissario, ma due. Pare questa l’ipotesi più accreditata per il “trasferimento di poteri” dall’attuale governance del Consorzio Venezia Nuova a quella nuova sorta dopo il diktat di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. La scelta di due commissari anzichè uno solo, ma neanche fino ad un massimo di tre, come prevede il decreto 90, sarebbe dovuta alla volontà di Cantone e Pecoraro di distinguere le attività del Consorzio Venezia Nuova che, proprio per la loro ampiezza e diversità di argomenti, rischierebbe di ingolfare l’attività di un solo commissario. Quindi, proprio nell’ambito delle numerose competenze, ma anche dell’ampiezza delle opere e delle sfaccettature (amministrative, burocratiche, operative ed ingegneristiche) con le relative competenze necessarie, si sarebbe giunti alla decisione di scegliere una sorta di “coppia al comando”, dove ognuno dei rappresentanti possa avere competenze specifiche e adeguate.

L’identikit potrebbe essere più o meno questo: da una parte, un tecnico di area per le questioni idrauliche (un esperto di settore, ma anche un professore universitario con competenze specifiche); e dall’altra, un funzionario statale che in qualche modo possa (e debba) destreggiarsi nei meandri della pubblica amministrazione ma anche nei rapporti con le numerose imprese della galassia del Consorzio Venezia Nuova e dell’indotto. Insomma, una sorta di “prefetto” in grado di gestire la parte pubblica e/o politica, un po’ sulla falsariga di quello che sta accadendo a Ca’ Farsetti con il commissario prefettizio.

Intanto, proprio la complessità dell’operazione – sostanzialmente la prima nel suo genere – trova la completa disponibilità dell’attuale staff del Cvn che, già nelle scorse settimane, aveva fatto capire che, puntando sul fattore discontinuità rispetto alla gestione Mazzacurati, aveva dimostrato fin da subito la massima collaborazione.

 

SCANDALO MOSE, IL “COMUNE SENTIRE”

Non sono un avvocato e quindi la domanda che pongo può essere ingenua. Ho letto le motivazioni della sentenza a carico di Giancarlo Galan (“Galan, corruzione provata e pena giusta”, così il Gazzettino di martedì 18) e apprendo che la congruità della pena deriva dall’”incensuratezza dell’imputato e l’aver atteso in Italia l’autorizzazione della Camera dei Deputati anziché riparare all’estero”.

Quindi, se ho capito bene, se una persona compie un reato di questa portata ma è la prima volta che lo compie e non scappa, può contare su almeno due opportunità: prima volta che delinque e mancata fuga, senza contare, come terza opportunità, la possibile prescrizione grazie all’elasticità della nostra giustizia.

Mi domando: ma il reato lo ha commesso o no? E se l’ha commesso perché non viene perseguito anche se non scappa?

Evidentemente non è così perché, secondo la dottoressa Galasso “l’adeguatezza della pena va stimata non certo in base a quello che potrebbe essere il comune sentire”.

Sarà anche giusto così, ma soprattutto per reati di questa portata non riesco a liberarmi dal “comune sentire”.

Renato Pestriniero – Venezia

 

Dal 3 giugno il deputato forzista non presiede la commissione Cultura

Se metterà insieme 2,6 milioni, potrà salvare anche villa Rodella a Cinto

VENEZIA – Era martedì 3 giugno 2014 quando l’onorevole Giancarlo Galan, esponente di Forza Italia, presiedeva per l’ultima volta la seduta della settima commissione di Montecitorio (Cultura, scienza e istruzione). All’ordine del giorno l’audizione di tre esperti chiamati a relazionare sulle strategie per contrastare la dispersione scolastica. L’indomani si sarebbe scatenato il ciclone Mose e da allora il presidente della commissione Cultura avrebbe dovuto disertare le austere aule dei Palazzi della Politica. «Nel dichiararmi totalmente estraneo alle accuse che mi sono mosse», disse a caldo l’esponente forzista, «accuse che si appalesano del tutto generiche e inverosimili, mi riprometto di difendermi a tutto campo nelle sedi opportune, con la serenità ed il convincimento che la mia posizione sarà interamente chiarita».

Come poi sia andata, è noto. Il 16 ottobre la presidente della sezione Gup di Venezia ha accolto la richiesta di patteggiamento dell’ex ministro delle Politiche agricole e dei Beni culturali, applicando due anni e dieci mesi di reclusione.

«L’adeguatezza della pena», ha scritto il giudice Giuliana Galasso, «va stimata non certo in base a quello che potrebbe essere il comune sentire, ma in relazione alle scelte legislative che, nel determinare il minomo e il massimo della pena edittale per ogni fattispecie criminosa, ha delimitato il campo in cui il giudice deve esercitare la propria discrezionalità».

Il ricorso per Cassazione annunciato dagli avvocati di Galan, Antonio Franchini e Niccolò Ghedini, consentirà però di dilazionare il passaggio in giudicato della sentenza e, di conseguenza la sua esecuzione. Pertanto l’ex governatore veneto potrà conservare il suo posto di parlamentare (e la presidenza della commissione Cultura, giacché, come ha spiegato la presidente della Camera, Laura Boldrini, non è previsto il voto di sfiducia) e la lauta indennità di deputato.

Non potrà essere confiscata neppure villa Rodella a Cinto Euganeo, dove Galan è autorizzato a soggiornare insieme con i suoi familiari. L’esponente forzista potrà conservare la villa di Cinto se, entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento, riuscirà a versare al Fondo Unico di Giustizia l’importo di 2,6 milioni di euro.

Infine va ricordato che nella dichiarazione dei redditi 2013 l’onorevole Galan ha attestato un reddito imponibile pari a 111. 223 euro: cifra sulla quale ha pagato un’imposta lorda di 41.042 euro.

Claudio Baccarin

 

Gazzettino – Galan, Una Repubblica di banane.

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19

nov

2014

UNA REPUBBLICA DELLE BANANE

Leggendo la notizia sul Gazzettino ho fatto un sobbalzo sulla sedia. A Giancarlo Galan non verrà espropriata la villa e conserverà il posto in Parlamento! Egli dovrà, in base al patteggiamento, recuperare la somma di 2.6 milioni di euro entro 90 giorni e poi tutto verrà messo a tacere? Dove recupererà tale cifra? Ammesso che ci riesca, che soldi sono: il frutto del malaffare? Ma in quale Paese viviamo, dove un corruttore, reo confesso, patteggia la misera condanna a 2 anni e 10 mesi ai domiciliari o al massimo ai servizi sociali?

Il secondo argomento, non peggiore del primo, riguarda la sua permanenza in Parlamento. È mai possibile che per cacciare un ladro dal Parlamento si debba ricorrere al parere dei deputati o dei senatori? Un ladro viene sbattuto fuori a calci, poi se verrà riconosciuta la sua innocenza verrà reintegrato con tutte le scuse. Solo così potremo insegnare a figli e nipoti come ci si comporta quando si assumono cariche pubbliche, altrimenti saremo una repubblica delle banane, un Paese corrotto e deriso da tutto il mondo.

Alessandro Dittadi – Mogliano Veneto (Tv)

 

NON CAPISCO LA SENTENZA

Alla fine sembrerebbe quasi “virtuoso” l’ex governatore Giancarlo Galan, naufragato nelle acque torbide del Mose veneto. Nonostante la mia buona volontà, alle volte non li capisco certi giudici. Spesso le “sofferte” motivazioni delle sentenze deludono e lasciano passare dei messaggi poco “esemplari” per la coscienza collettiva. O il crimine é crimine e le pene adeguate oppure non é tale e quindi la misura di qualsiasi pena diventa “adeguata” sebbene molto spesso al ribasso. Corrotto ma non fuggitivo. Questo sembra essere il riconoscimento “del merito” nei confronti dell’ex governatore. Non é fuggito… e come poteva con una gamba rotta? Deve ritornare dei soldi… ma quanti altri se ne trattiene? Che amarezza!

Natalino Daniele – Rubano (Pd)

 

 

Gazzettino – Venezia. Esposto contro il porto offshore

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19

nov

2014

Nel 2010 si decise di non ingrandire la conca di navigazione per fare il terminal d’altura, che però ha tempi troppo lunghi

La conca di Malamocco è sbagliata e i sette anni che bisogna aspettare perché sia pronto il porto offshore, da quando partiranno i lavori, rischiano di far morire il porto commerciale di Marghera. Oltretutto le banchine in mezzo al mare, 15 chilometri al largo di Malamocco, sono un errore madornale. Nessuno vorrà partecipare finanziariamente a un progetto simile. Infine quel terminal è saltato fuori come alternativa all’allargamento della conca, che era stata progettata troppo piccola.

È il succo del pensiero di Giovanni Anci, che ha messo nero su bianco e ha inviato alla Procura della Repubblica sotto forma di esposto. Il componente della Lega Nord veneziana e membro del Comitato portuale, la pensa insomma allo stesso modo della vice segretaria nazionale del Pd, Debora Serracchiani. Ex capitano di lungo corso, ha visto più porti in giro per il mondo che parcheggi a terra.

Il problema di fondo sta in una frase: “rottura del carico”, vuol dire che quando la nave arriverà al porto offshore, dovrà scaricare la merce su un’altra nave o chiatta prima di farla arrivare a Marghera, e questo comporta maggiori tempi di lavorazione e maggiori costi. «E sappiamo benissimo che i traffici mondiali, in mano a grandi gruppi internazionali, funzionano sulla concorrenza, vince chi offre meno tempi e meno costi» afferma Anci.

Al di là delle critiche tecniche, però, il leghista nel suo esposto chiede che la Procura indaghi su aspetti che ritiene anomali, ricordando che il 16 settembre del 2009 il presidente dell’Autorità portuale di Venezia Paolo Costa firmò con l’allora presidente del Magistrato alle Acque, Patrizio Cuccioletta (che lo scorso ottobre ha patteggiato una pena di due anni e una multa di 700 mila euro nell’ambito dell’inchiesta per lo scandalo dei fondi del Mose) un accordo di programma per ingrandire la conca di Malamocco che risultava troppo piccola per il passaggio delle nuove navi sempre più grandi in circolazione (le post Panamax).

«È già strano che avessero progettato la conca troppo piccola, dato che il Piano regolatore portuale del 15 maggio 1965 impone la profondità utile di 14,5 metri dalla bocca di porto di Malamocco fino al porto petrolifero di San Leonardo, e invece la conca è profonda 12 o 12 metri e mezzo – continua Anci -. Il fatto ancora più strano, però, è che appena un anno dopo, il 4 agosto del 2010, Costa e Cuccioletta firmano un nuovo accordo di programma col quale stabiliscono che la conca può restare così com’è perché tanto avrebbero costruito in alternativa il terminal d’altura. E, siccome lo descrivono come opera complementare al Mose perché serve a portare fuori della laguna il traffico dei petroli, la progettazione preliminare viene effettuata dal Consorzio Venezia Nuova con Thetis e Mantovani».

D’accordo ma l’Autorità portuale ha ribadito anche la settimana scorsa che costruttore e gestore saranno da individuare solo ed esclusivamente con il meccanismo virtuoso e trasparente realizzato tramite gare internazionali e sostenuto dall’Unione Europea.
«Mi fa piacere, intanto comunque la progettazione l’ha fatta il Consorzio».

Lei sostiene che comunque nemmeno l’offshore risolverà i problemi dei traffici su Venezia.
«Poco ma sicuro. Non c’è nessun porto al mondo costruito su un’isola. E già questo dovrebbe dar da pensare. L’unico è a Shanghai ma poi hanno dovuto costruire una strada e una ferrovia lunga 29 chilometri per collegarlo alla terraferma».

 

PORTO – Presentato dal capitano Anci (Lega) contro Autorità veneziana e Magistrato alle Acque

LE ANOMALIE DEL PROGETTO  «I petroli non ci sono quasi più e il cantiere viene pagato due volte»

L’Autorità portuale ha appena annunciato che la società di ingegneria olandese Royal Haskoning DHV ha rivisto il progetto del terminal offshore permettendo di abbassare i costi di 750 milioni di euro, e portandoli a 2 miliardi e 100 milioni. Il capitano Anci, però, ricorda che nei costi va aggiunto il terminal logistico in terraferma «e così si superano i tre miliardi. Ma, soldi a parte, c’è altro che non va. Negli accordi di programma hanno giustificato la costruzione del porto offshore con la necessità di portare i petroli fuori della laguna. I petroli però sono stati drasticamente ridotti perché la Raffineria di Venezia è diventata bio e quella di Mantova, che viene servita via pipeline da Marghera, ha chiuso e viene trasformata in deposito di carburanti, per cui da qui partiranno solo prodotti finiti. Meglio così, perché il progetto ha ottenuto la Via regionale e quella ministeriale nonostante le simulazioni dimostrino come uno spandimento nel terminal al largo porterebbe il petrolio sulle spiagge e pure dentro in laguna. Evento mai accaduto in 40 anni di funzionamento del porto di San Leonardo, dentro alla laguna».

Giovanni Anci ha provato a chiedere anche un’altra cosa «ma non mi hanno risposto: per costruire le parti del nuovo terminal d’altura si individua un’area come quella di Malamocco che è stata realizzata per costruire il Mose. Ebbene, dai disegni dei progetti si capisce che si tratta proprio della stessa area, e allora mi devono spiegare perché mettono in conto un costo di 17 milioni e 760 mila euro per attrezzarla».

(e.t.)

 

Gazzettino – “Galan, corruzione provata e pena giusta”

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18

nov

2014

MOSE – Intanto col ricorso in Cassazione l’ex governatore rinvia la confisca della villa e mantiene il posto in Parlamento

«Galan, ecco perché la pena è giusta»

I giudici: «Le accuse hanno trovato riscontri significativi, ma è incensurato e non è fuggito all’estero»

MOSE – Le motivazioni del patteggiamento di 2 anni e 10 mesi: «Sentenza congrua, è incensurato e non è fuggito all’estero»

«Galan, corruzione provata e pena giusta»

Il giudice Galasso: «Il governatore teneva nascosti alla moglie gli investimenti con soldi proventi da illeciti»

Sono adeguatamente provate le accuse di corruzione formulate nei confronti dell’ex Governatore della Regione Veneto, Giancarlo Galan. E, nonostante la gravità degli episodi contestati, la pena concordata tra accusa e difesa è congrua, valutata «l’incensuratezza dell’imputato e l’aver atteso in Italia l’autorizzazione della Camera dei Deputati, anziché riparare all’estero».

La presidente della sezione gup di Venezia, Giuliana Galasso, ha motivato così la sentenza di patteggiamento con la quale, lo scorso 16 ottobre, ha applicato due anni e 10 mesi di reclusione al deputato di Forza Italia, presidente della Commissione Cultura della Camera.

«Le accuse hanno trovato significativi riscontri in acquisizioni documentali (il conto aperto a San Marino) e, soprattutto nelle conversazioni intercettate a carico di Paolo Venuti che hanno confermato il suo ruolo non solo di commercialista ma anche di prestanome di Galan anche in alcuni investimenti finanziari di cui la moglie di quest’ultimo nulla doveva sapere – si legge nella sentenza – Pare giustificata la deduzione che doveva trattarsi di somme diverse da quelle legittimamente percepite, di cui certo la signora Galan era a conoscenza e non potevano essere investite a sua insaputa».

Nel riscostruire gli episodi di corruzione non prescritti (ovvero quelli successivi al luglio 2008) il giudice fa riferimento anche al memoriale difensivo depositato da Galan, sottolineando come l’ex Governatore «non riesce a trovare un solo motivo per cui Baita e Mazzacurati (rispettivamente presidenti di Mantovani e Consorzio Venezia Nuova, i suoi principali accusatori, ndr) debbano calunniarlo ed è comunque costretto ad ammettere di essersi intestato le quote delle società Adria Infrastrutture spa e Nordest media srl». Tali società erano quelli con cui Baita operava nel settore del project financing proponendo di realizzare opere di interesse pubblico per conto della Regione di cui Galan era presidente.

Prove solide, insomma, in presenza delle quali «non ricorrono le condizioni per un proscioglimento dell’imputato con formula ampia ai sensi dell’art 129 cpp…», scrive ancora il giudice Galasso. Su questo aspetto i difensori di Galan, gli avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini, hanno però già annunciato ricorso per Cassazione: un modo anche per ritardare il passaggio in giudicato della sentenza e dunque la sua esecuzione, con la perdita del posto in Parlamento sulla base della legge Severino e la confisca della lussuosa villa di Cinto Euganeo, per un valore di 2.6 milioni di euro.

Quanto alla congruità dei due anni e 10 mesi di reclusione, ritenuti da molti troppo pochi, la dottoressa Galasso scrive nella sentenza che «l’adeguatezza della pena va stimata non certo in base a quello che potrebbe essere il comune sentire, ma in relazione alle scelte legislative che, nel determinare il minimo e il massimo della pena edittale per ogni fattispecie criminosa, ha delimitato il campo in cui il giudice deve esercitare la propria discrezionalità».

Quanto alla confisca, si legge che i 2.6 milioni sono il controvalore «corrispondente al prezzo del reato, limitatamente ai fatti non prescritti».

 

In cinque mesi la triste caduta di un politico ricco e potente

La brutta storia giudiziaria di Giancarlo Galan è cominciata il 4 giugno scorso, quando venne effettuato il blitz con decine di arresti per le mazzette che ruotavano attorno al Consorzio Venezia Nuova. Per lui una serie di accuse di corruzione. L’ordinanza, con l’arresto in carcere, non venne eseguita perché serviva l’autorizzazione della Camera, di cui Galan è ancor oggi membro. La decisione però fu piuttosto rapida, nonostante una serie di ricoveri in ospedale avessero cercato di motivare una dilazione del provvedimento di arresto. Il 22 luglio, poche ore dopo il voto favorevole dell’aula di Montecitorio, l’ex presidente della giunta regionale del veneto fu portato nel carcere di opera dove è rimasto fino all’inizio di ottobre nella sezione sanitaria del carcere di massima sicurezza.
Galan si è sempre dichiarato innocente. Ma dopo quasi tre mesi di detenzioni ha preferito scendere a patti con la Procura e ha raggiunto un accordo. Pena detentiva e risarcimento del danno, per evitare di tornare in galera. Infatti, è ai domiciliari che sta scontando al pena.
Le mazzette contestate a Galan sono numerose. Una parte delle accuse sono però finite in prescrizione.

 

IL MAGISTRATO «Può restare ancora nella villa fino alla sentenza definitiva»

In attesa della confisca di villa Rodella, Giancarlo Galan «è autorizzato a domiciliare, con la sua famiglia, nell’immobile confiscato a condizione che paghi, quale corrispettivo per l’uso, tutte le spese correnti, ivi compresa la tassa sui rifiuti, nonché quelle necessarie per la manutenzione ordinaria e straordinaria dei fabbricati e dei terreni, con divieto di modificare lo stato dei luoghi». Lo scrive il gip nella sentenza di patteggiamento, ricordando che Galan avrà la possibilità, entro 90 giorni dal passaggio in giudicato, di tenere la villa se riuscirà a versare al Fondo Unico Giustizia, l’importo di 2.6 milioni di euro.

 

TURISMO A VENEZIA

Zaia rilancia «Ingresso con pedaggio»

Zaia a ruota libera. Il Mose: «È un’opera nazionale, la Regione non scucirà un euro» Il sindaco: «Serve uno sceriffo»

Prenotare. Questa la parola d’ordine di Luca Zaia, presidente della Regione. Se Venezia corre verso i 27 milioni di turisti, non ci sono dubbi sulla necessità di programmare gli ingressi. Quindi di prenotare le visite. Il governatore non parla di numero chiuso, ma lo fa intendere. E rispolvera, a questo riguardo, anche l’opportunità che venga chiesto il “pedaggio” di un euro. Certo, l’offerta dei servizi dovrà essere più appropriata e, di conseguenza, sarà compatibile la richiesta di qualche sacrificio supplementare. Attenzione, però: Venezia non può essere consegnata ad un turismo di élite. Il presidente lo dice chiaro e tondo. «Mai e poi mai», avverte, «accetteremo l’ipotesi, di cui sto sentendo parlare, di evitare l’ingresso in laguna del turismo cosiddetto popolare. Mi opporrò con tutte le forze a eventuali misure che impediscono a genitori della cosiddetta classe meno abbiente di far conoscere Venezia e la storia della Serenissima ai propri figli». In una trasmissione di “Rete Veneta” Zaia ha, di conseguenza, fatto conoscere il modello di sindaco che lui ha in mente. Chi può essere? Giancarlo Gentilini, ovviamente. «Sì, Venezia ha bisogno di un sindaco sceriffo, rigoroso, che faccia pulizia e chiarezza, rispetto al passato. Non importa di quale schieramento». Un sindaco severo, che raccolga soprattutto la sfida della legalità. Non solo per quanto riguarda i grandi cantieri, tipo il Mose, ma soprattutto la vita quotidiana. È intollerabile, ad avviso di Zaia, l’assalto degli immigrati abusivi. «È intollerabile e anche incomprensibile», aggiunge, «perché la città ha soltanto due ingressi e non si riesce a capire perché da questi filtri scappi così tanta gente. Allora significa che c’è una precisa volontà di farla entrare».

Zaia parla anche del Mose e ricorda di aver detto chiaramente al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, alla recente riunione del Cipe, che essendo questa un’opera di carattere nazionale, in cui la Regione non ci ha messo mai le mani, «finché ci sarò io non scuciremo neppure un euro per la gestione o per la manutenzione» delle dighe mobili.

Zaia coltiva la preoccupazione, al riguardo, che rendere funzionante il Mose negli anni costerà un sacco di quattrini, in particolare per la continua pulizia a cui sottoporre le paratie ed i relativi meccanismi. «Per la verità non sono neanche sicuro», ammette, che il sistema garantisca tutta l’efficacia attesa». Perplessità, queste, che fanno dire al presidente che, avendo la possibilità di ripercorrere la storia a ritroso, lui si sarebbe opposto al cantiere. Cantiere che, però, adesso c’è e va portato a conclusione con il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova. Questo, sicuramente, «è un atto dovuto», non si poteva fare diversamente, considerata l’indagine della Procura di Venezia. E ancora una volta Zaia riconosce pubblicamente che i magistrati hanno concluso «un ottimo lavoro».

Francesco Dal Mas

 

L’ex ministro all’Ambiente indagato per corruzione si dice estraneo alle accuse

Audizione di 40 minuti, il parlamentare presenta una memoria di 50 pagine

ROMA – La Giunta per le Immunità del Senato ha ascoltato oggi l’ex ministro delle Infrastrutture e dell’Ambiente, ora senatore di Forza Italia, Altero Matteoli, coinvolto nell’inchiesta sul Mose di Venezia. Il parlamentare, nei confronti del quale i magistrati veneziani hanno chiesto al Senato che gli venisse concessa l’autorizzazione a procedere, aveva domandato di essere audito dalla Giunta per spiegare la sua estraneità ai fatti che gli sono stati contestati.

Matteoli è stato ascoltato per circa 40 minuti e ha depositato una memoria di una cinquantina di pagine. Ha spiegato di essere totalmente «estraneo alla vicenda ed ha sostenuto come contro di lui ci sia un «fumus persecutionis evidente». Ha, infine, affermato che le dichiarazioni di Giovanni Mazzacurati, l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuocva che lo ha accusato, siano del tutto «infondate».

Matteoli, all’uscita dall’aula dove si riunisce la Giunta, non ha voluto rilasciare alcuna dichiarazione ai cronisti. Ora toccherà al relatore e presidente della Giunta, Dario Stefano (Sel) decidere la proposta da avanzare agli altri componenti dell’organismo parlamentare. La proposta dovrà poi essere sottoposta al voto della Giunta e quindi al vaglio dell’aula.

Matteoli è indagato per corruzione, dopo che il Tribunale per i ministri del Veneto ha dato il via libera all’inchiesta sul suo conto. «Le indagini eseguite hanno dimostrato l’asservimento del politico Matteoli Altero alle politiche del Consorzio Venezia Nuova, nella veste di ministro dell’Ambiente e di ministro delle Infrastrutture.

Il Tribunale dei ministri del Veneto dispone la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica per l’immediata trasmissione al presidente del Senato che ha la competenza». Queste sono le ultime righe dell’ordinanza di 200 pagine con la quale la presidente Monica Sarti e i giudici Priscilla Valgimigli e Alessandro Girardi avevano sciolto la riserva. Gli atti, oltre all’ordinanza contengono gli accertamenti svolti dai pubblici ministeri Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini.

C’è anche il verbale d’interrogatorio di Mazzacurati, quelli di alcune segretarie dell’anziano ingegnere, dell’ex presidente del Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, dell’imprenditore romano di «Condotte d’acqua» Stefano Tomarelli e dell’ex direttore vicario del Consorzio Roberto Pravatà. Inoltre, tutta la documentazione che la Guardia di finanza ha acquisito presso la sede della società romana «Socostramo» di Erasmo Cinque.

 

Ambiente Venezia scrive alla Ue: «Riaprire la pratica». Oggi assemblea sull’Arsenale

Zappalorto elogia il Mose: «Complimenti»

«Tecniche raffinate e altissima specializzazione. L’ingegneria italiana è una delle eccellenze del nostro Paese». Così il commissario Vittorio Zappalorto ha commentato ieri l’esperimento del Consorzio Venezia Nuova con il sollevamento delle 21 paratoie della schiera di Treporti. L’associazione Ambiente Venezia la pensa diversamente. «Abbiamo scritto alla commissione Petizioni del Parlamento europeo», dice il portavoce Luciano Mazzolin, «per chiedere che la pratica del Mose venga riaperta e vengano riesaminati i vari passaggi tecnici alla luce dell’inchiesta sul sistema Mose e la corruzione». C’è anche chi punta il dito sulle vernici e i costi della manutenzione. «Chiaro che si sono sollevate, è il principio di Archimede», dice la docente Iuav Andreina Zitelli, «aspettiamo». L’architetto Fernando De Simone chiede se la tolleranza di un centimetro tra i cassoni «abbia tenuto conto della dilatazione termica che può essere di qualche centimetro». Oggi intanto in sala San Leonardo (17) assemblea pubblica dei comitati per decidere sul futuro dell’Arsenale.

(a.v.)

 

LA RICHIESTA

Chiedono alla Nuova Commissione Petizione del Parlamento Europeo di riaprire e approfondire il Caso Mose alla luce dei documenti e delle memorie presentate e di quanto emerso dalle indagini della Magistratura sul Sistema Mose. Non solo. Vogliono anche informazioni e chiarimenti sulle petizioni presentate nel 2005 e nel 2006 sul Mose e chiedono l’audizione di magistrati ed esperti in Commissione: a scendere in pista Luciano Mazzolin, Tiziana Turatello e Armando Danella di AmbienteVenezia, che ricordano le 12.154 firme del 2006 raccolte contro il progetto di difesa dalle acque alte e quelle presentate nel 2005 a nome dell’Assemblea Permanente NO MoSE. L’anno scorso sono state presentate alla Commissione memorie e nuova documentazione a sostegno delle precedenti affermazioni e contro la richiesta di archiviazione avanzata dalla Commissione Europea.

Mazzolin fa presente che le indagini della magistratura italiana sul “Sistema MOSE” continuano e hanno portato alla luce “un sistema totalmente illegale fatto di una corruzione diffusa che ha coinvolto rappresentanti del mondo politico e tecnico a tutti i livelli istituzionali, nonchè numerosi rappresentanti delle imprese che hanno lavorato e lavorano a questo progetto”. «Riteniamo utile verificare se anche le cosiddette “opere di compensazione ambientale” siano entrate in questo meccanismo – scrivono i firmatari – e chiediamo di avere notizie sul fascicolo relativo alle due petizioni sul Progetto MOSE alla luce dei documenti e memorie integrative presentati nel 2013; di riaprire l’istruttoria su tutta la vicenda MoSE alla luce dei nuovi elementi in particolare dell’esposto alla Procura della Repubblica del 26 giugno 2014 e degli elementi che stanno emergendo dalle indagini penali e amministrative della Magistratura Italiana; di coinvolgere la Banca Europea degli Investimenti (Bei) e aprire un’inchiesta sui fondi erogati per il Mose: c’è la possibilità che tra le risorse distratte e destinate ad attività illegali vi sia anche parte dei prestiti già erogati dalla Bei”.

Raffaella Vittadello

 

LA MAREA – Nella movimentazione un sovralzo di 40 cm a monte

I TEST – Redi: «Diverso vedere dal vivo il funzionamento rispetto ai modelli teorici»

I COMPLIMENTI – Zappalorto: «Merito delle competenze ingegneristiche italiane»

I TEMPI – Le barriere sono state innalzate nel giro di 35 minuti

CONSORZIO VENEZIA NUOVA L’annuncio di Cantone: «Scelta necessaria per completare il Mose»

Commissari entro una settimana

A fine mese un’altra prova di sollevamento dell’intera schiera di paratoie, invitati tutti i tecnici

La prima volta tutto è filato liscio. E al Consorzio Venezia Nuova già si preparano al bis: una due giorni di prove di sollevamento per tutte le 21 paratoie alla bocca di porto del Lido nord è già fissata per il 28 e il 29 novembre. Un venerdì e un sabato per consentire a tutti di partecipare almeno a uno dei due test. «Abbiamo invitato i tecnici che in questi anni hanno seguito il Mose, anche all’estero, e che possono essere interessati a vedere l’opera in funzione» spiega il direttore del Cvn, Hermes Redi, che così si gode il giorno dopo la prima prova di sollevamento di tutta la schiera in contemporanea. Un risultato per cui ieri si è voluto complimentare anche il commissario Vittorio Zappalorto: «Un risultato brillante, merito delle competenze tecniche raffinate e dell’altissima specializzazione degli ingegneri e delle maestranze che hanno partecipato alla realizzazione di questo progetto – ha scritto in una nota -. Il risultato raggiunto dimostra che, al di là delle note vicende che stanno accompagnando l’opera, il cui iter giudiziario spero possa concludersi quanto prima, ancora una volta l’ingegneristica italiana e le competenze dei nostri tecnici si riconfermano come una delle eccellenze del nostro Paese».

Che le vicende giudiziarie incombano è un dato fatto. E anche per questo al Cvn attendono il commissariamento richiesto dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. «Ben vengano i commissari se serviranno a togliere definitivamente l’alea del malaffare e a far sì che l’opera si concluda – commenta lo stesso Redi, reduce anche dall’incontro con lo stesso presidente dell’Anac e con il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, a cui toccherà la scelta -. Cantone ce lo ha detto chiaramente: questo commissariamento è teso a far completare l’opera». I tempi per la scelta sono strettissimi. Una settimana, dieci giorni al massimo, per trovare con ogni probabilità più commissari (il massimo è tre). Professionalità in grado di gestire una concessionaria tanto unica, contratti e rapporti tanto complessi. L’altro giorno è stato anche stabilito che, dopo la nomina, i commissari vengano a fare una prima visita conoscitiva in laguna entro fine mese. E chissà che non arrivino proprio per il doppio sollevamento del 28 e 29.

Le prove comunque si susseguiranno per mesi. «Abbiamo un piano di test per verificare il funzionamento delle paratoie in condizioni diverse – spiega Redi – e confermare gli studi fatti. L’altro giorno, tutto quello che avevamo previsto in linea teorica, si è puntualmente verificato. Ma una cosa è vederlo sui modelli, un’altra nella pratica». Alzando tutte e 21 le paratoie lato Cavallino Treporti, per la prima volta si è creato un sovralzo di marea a monte della schiera. «Circa 40 centimetri – precisa il direttore -. Ma il passaggio dell’acqua nelle trafilature tra una paratoia e l’altra, circa 7 centimetri, è stato minimo. Anche questo ce lo aspettavamo». Soddisfazione pure per i tempi di sollevamento. «Con un solo compressore, la schiera si è alzata in 35 minuti, ma a regime ce ne saranno quattro e i tempi si potranno ridurre». Nessun effetto, invece, sui livelli della marea a Venezia, ma anche questo si sapeva. «Solo quando avremo completato l’intera bocca di porto del Lido, cioè tra circa un anno, potremo tagliare di 10-15 centimetri le acque alte – conclude Redi -. In prospettiva si potrà chiudere solo questa bocca per eliminare le acque altre tra gli 80 e i 90 centimetri. Ma in attesa di completare l’opera, la bocca di porto del Lido potrà essere usata da subito per ridurre l’impatto di tutte le acque alte».

 

A San Leonardo si parla di clima e ambiente

Domani, alle 9.15, nella Sala San Leonardo, si svolgerà una giornata di approfondimento sul tema “Verso il 2020: la sfida dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili”. L’iniziativa è promossa dall’Agenzia Veneziana per l’Energia (Agire), in collaborazione con il Comune e con il patrocinio della Provincia. Da alcuni anni la Commissione Europea ha attivato politiche e iniziative mirate alla mitigazione dei cambiamenti climatici attraverso il “pacchetto 20-20-20” che mira ad una riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto al 1990 elevando al 20% la copertura dei fabbisogni energetici soddisfatti con fonti rinnovabili e aumentando l’efficienza del 20%.

 

ROMA – Il presidente Fabris incontra Cantone (Anticorruzione) e il prefetto Pecoraro: 30 giorni (forse meno) per la nomina

VENEZIA – L’incontro è stato cordiale. Ma i punti all’ordine del giorno erano senz’altro delicati. Primo tra tutti il “passaggio di consegne” tra l’attuale vertice del Consorzio Venezia Nuova guidato dal presidente Mauro Fabris e il futuro commissario dell’ente concessionario così come ha deciso in queste settimane il presidente dell’Autorità nazionale anti-corruzione, Raffaele Cantone.

Così, ieri pomeriggio, a Roma, lo stesso Fabris, accompagnato dal direttore del Cvn, Hermes Redi, si è incontrato con il “numero uno” dell’Anac e con il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro che sarà chiamato, come prevede la norma del decreto 90 sulla pubblica amministrazione, a scegliere il futuro commissario del Consorzio Venezia Nuova che avrà il compito di portare a termine le opere alle dighe mobili alle bocche di porto della laguna di Venezia.

«Ci è stata illustrata – sottolinea Fabris – la procedura di applicazione delle misure di gestione straordinaria e temporanea del Consorzio. Abbiamo voluto ribadire a Cantone che il nostro unico obiettivo è quello che si operi e si lavori per la conclusione del Mose. L’incontro è servito anche per favorire il maggiore coinvolgimento delle strutture del Consorzio in questo passaggio verso il commissariamento».

Non è escluso che proprio dopo questo incontro, ma è possibile che ce ne possano essere altri vista la complessità dell’opera, si avvii la seconda fase dell’operazione con la facoltà del prefetto di scegliere il nuovo commissario nell’arco di trenta giorni. Ma l’impressione è quella che tutti i soggetti coinvolti puntino a dimezzare, e anche abbondantemente, i tempi delle decisioni.

P.N.D.

 

CURIA DI VENEZIA «Alla Fondazione dovevamo dare 100mila euro l’anno»

«Così finanziavamo Pd e Marcianum»

Morbiolo: «Veniva da me Savioli e mi diceva chi sponsorizzare: Marchese, Zoggia ma anche la Sartori»

DAZIONI TRASVERSALI «Fui sorpreso quando mi chiese di dar soldi all’esponente di Fi»

«Quando c’erano le campagne elettorali per l’area che si andava a appartenere, Savioli ogni tanto veniva e mi diceva: “Sarebbe bene sponsorizzare il Marchese, è bene sponsorizzare Zoggia”…»
Franco Morbiolo, presidente del Coveco dal 2007, ha giustificato così parte dei soldi che dal Consorzio delle coop “rosse” usciva per finanziare esponenti politici di tutti i colori; denaro che finì perfino al Marcianum, la Fondazione culturale della Curia, voluta dall’allora Patriarca Angelo Scola (100mila euro all’anno). «Il Marcianum… era una sponsorizzazione che Savioli chiedeva ogni anno che ci fosse. Poi abbiamo capito… Savioli diceva: “È necessario fare questa sponsorizzazione. Non la faccio? Allora mi metti in difficoltà con Cvn. Te non ti devi preoccupare, fai la sponsorizzazione”…»

Secondo Morbiolo a gestire il flusso di finanziamenti e contributi era l’allora consulente (ed ex presidente) Pio Savioli, l’uomo che per il Coveco si occupava dei rapporti con il Consorzio Venezia Nuova. Morbiolo ha spiegato al pm Paola Tonini che i contributi ai politici “rossi”, vicini al Coveco, erano nella norma: capitava di finanziare le feste dell’Unità o altre iniziative del Pd. Ha invece ammesso di essere rimasto sorpreso ricevendo la richiesta di finanziare Lia Sartori, esponente di spicco di Forza Italia, ex presidente del Consiglio regionale del Veneto e poi eurodeputato: «È venuto Savioli, ha detto: “È necessario fare un finanziamento per la campagna elettorale della Sartori… Ho portato in Consiglio, perché non è che decido io… ci sono tutti, si chiede perché, per come… e si è fatto il finanziamento per la Sartori…»
Nel lungo interrogatorio sostenuto lo scorso 16 luglio, Morbiolo si è dipinto come un presidente che firmava in gran parte senza sapere cosa stesse firmando: ha assicurato che era Savioli a gestire i rapporti con Mazzacurati e i flussi di denaro del “sistema Mose”, aggiungendo che all’interno del Coveco tutto passava attraverso il responsabile amministrativo, Enrico Provenzano. «Io non ero a conoscenza di tutto il meccanismo che c’era dietro», ha spergiurato Morbiolo, uscito dall’inchiesta con il patteggiamento di un anno e sei mesi di reclusione per false fatturazioni e per finanziamento illecito all’ex sindaco Giorgio Orsoni e all’ex responsabile amministrativo del Pd, Gianpietro Marchese (che ha già pattegiato 11 mesi).

Più volte l’ex presidente del Coveco ha ribadito di non aver saputo del meccanismo delle false fatture e delle retrocessioni utilizzato dal Cvn per realizzare fondi neri, poi utilizzati per mazzette e finanziamenti illeciti: «Quando mi portavano i contratti li firmavo lungo il corridoio velocemente e neanche li leggevo… Provenzano aveva parecchia autonomia…», ha dichiarato al pm Tonini. Per poi spiegare che iniziò a sospettare qualcosa soltanto nel 2011, senza però fare nulla, o quasi, in quanto era materia di cui si occupava Savioli. Di conseguenza continuava a firmare i documenti che Provenzano gli portava: «Però ho cominciato ad essere più attento… ho detto no all’America’s Cup, e quando è venuto fuori il discorso della Finanza ho voluto andare a vedere i contratti…»
Nel corso dell’interrogatorio il pm Tonini ha chiesto conto a Morbiolo dell’appunto rinvenuto a casa di una dipendente del Coveco, con nomi e cifre annotati a fianco, ricevendo risposte poco precise: «Vedo delle annotazioni che sono state fatte: “Marcianum”, “Davide Zoggia”… su cui io non mi sono neanche interessato e non ho neanche pensato a quel meccanismo che c’era, proprio non ci ho pensato…»

Morbiolo non ha fornito spiegazioni convincenti neppure in merito al colloquio intercettato nel quale suggerisce a Provenzano di trascrivere su carta “mangiabile” e di nascondere in un luogo sicuro i documenti compromettenti relativi proprio ai rapporti tra Coveco e Cvn. «È una battuta che mi è rimasta dal 2002 – ha dichiarato al pm – Al Consorzio ravennate dove lavoravo è stato arrestato un mio collaboratore per turbativa d’asta, che dopo è venuto fuori innocente e ogni tanto mi diceva: “Franco, per qualsiasi cosa ricordati le tue annotazioni, fattele sempre su carta mangiabile”».
Risposte che non hanno mancato di indisporre il rappresentante della pubblica accusa, che a metà interrogatorio sbotta: «Lei sta venendo a raccontare la favola del lupo». Lo stesso Tribunale del riesame, quando trattò la posizione di Morbiolo, scrisse che il presidente Coveco era a conoscenza di tutto, come confermano sia Savioli che Provenzano.

Gianluca Amadori

 

Nuova Venezia – Prima volta del Mose alzate tutte le paratoie

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12

nov

2014

Per la prima volta alzate per prova le 21 paratoie del Lido

Mose, un pezzo già funziona

Prova generale con la chiusura delle 21 barriere del canale di Treporti al Lido

Venezia Nuova: «Orgogliosi». Fabris a Roma incontra Cantone e il prefetto

VENEZIA – Un pezzo di Mose funziona. Solo una prova, ma per la prima volta ieri i tecnici delle imprese del Consorzio Venezia Nuova hanno sollevato con successo tutte e 21 le paratoie del canale di Treporti in bocca di Lido. Alle 9.10 del mattino le dighe mobili hanno raggiunto, dopo circa 35 minuti dal via, la posizione «di lavoro» con una inclinazione di 35 gradi. Per qualche ora dunque metà bocca di Lido – 420 metri del varco tra Punta Sabbioni e l’isola artificiale del bacàn – è rimasta chiusa alla marea, che nel frattempo continuava a crescere. Come da progetto l’acqua entra fra i traferri, cioè tra una paratoia e l’altra, visto che gli elementi del sistema sono incernierati sul fondo e tra loro indipendenti. «Ma è un passaggio d’acqua irrilevante», dice soddisfatto il direttore del Consorzio, l’ingegnere Hermes Redi, «siamo davvero contenti di questo lavoro, della precisione millimetrica con cui il sistema ha funzionato». Uno spettacolo seguito dalle barche e dai mezzi Actv in transito, ma anche dalle dighe di Punta Sabbioni e San Nicolò. Per la prima volta si sono visti le 21 barriere gialle sollevarsi insieme dopo essere state riempite di aria compressa. Il segnale di via è stato dato dalla centrale sull’isola artificiale in mezzo alla bocca di porto – dove saranno agganciate anche le altre 20 paratoie del varco di San Nicolò – e seguite dalla centrale nell’Arsenale Novissimo, dopo circa un’ora dall’accensione degli impianti.

Il presidente del Consorzio Mauro Fabris si è detto «orgoglioso» del risultato. «Siamo stati chiamati 16 mesi fa in un momento di emergenza dalle imprese», dice, togliendosi un sassolino, «abbiamo portato alla fase finale la costruzione delle dighe mobili e ottenuto i finanziamenti mancanti. Questo grazie al lavoro dei tecnici». Ieri Fabris è volato a Roma, convocato a sorpresa da Cantone insieme al prefetto Pecoraro con cui ha avuto un lungo colloquio. Un segnale inaspettato, che potrebbe portare anche a qualche novità nella procedura del commissariamento. E forse a un periodo di «cogestione» della materia, sicuramente complessa.

I tecnici hanno testato intanto pompe e materiali. Comprese le vernici delle paratoie che hanno mostrato già i primi segni di attacco della salsedine. Fenomeno prevedibile, trattandosi di un meccanismo che vive interamente sott’acqua. «Ma si tratta di sabbia e microrganismi che non compromettono in alcun modo il funzionamento delle paratoie», precisa il Consorzio in una nota, «e la patina è facilmente rimovibile». Un problema che si porrà soprattutto per gli alloggiamenti delle paratoie, dove in condizioni di esercizio potranno depositarsi sabbia e rifiuti che dovranno essere rimossi.

Quanto alle 79 paratoie del sistema (41 al Lido, 20 a Malamocco, 18 a Chioggia) il progetto ne prevede la rimozione continua, una al mese. Saranno sollevate da una speciale nave («jack up) e portate all’Arsenale per essere ridipinte. Un affare infinito, che costerà tra i 40 e i 50 milioni ogni anno.

Intanto il Cipe ha sbloccato i fondi rimanenti (un miliardo e 300 milioni, su un totale di quasi sei miliardi) per portare a completamento l’opera, che slitta al giugno 2017. Il giorno del lancio della prima pietra, nel 2003, Berlusconi aveva promesso di completare l’opera entro otto anni. Il ritardo da allora è già di sei anni. Poca roba dato che nel giorno dell’inaugurazione del prototipo Mose, nel lontano 1989, l’allora premier Bettino Craxi annunciava: «Finiremo nel 1995. Non ammetteremo alcun ritardo».

Anche il prezzo del Mose, del resto, ha subito negli anni un notevole incremento. Il progetto preliminare costava 3200 miliardi di lire (circa un miliardo e mezzo di euro). Costi lievitati progressivamente fino a 4 miliardi e 200 milioni di euro, infine a 4 miliardi e 600 milioni («Prezzo chiuso»). Poi sono stati aggiunti i nuovi costi dei materiali e le opere compensative richieste dall’Unione europea. E si è arrivati alla cifra attuale: 5 miliardi e 600 milioni di euro. Gestione e manutenzione escluse.

Alberto Vitucci

 

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