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Nuova Venezia – Scandalo Mose, sfilata in tribunale

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16

ott

2014

Oggi la lunga sfilata degli avvocati. Verso il patteggiamento Casarin

Tangentopoli, maxi udienza

Oggi la maxi udienza per le tangenti sul Mose. Gli avvocati – compreso Franchini che difende Galan – sfileranno davanti al Gip Galasso. Verso il patteggiamento Casarin, segretario di Chisso.

 

Venezia, oggi la maxiudienza: sarà il gip Galasso a decidere

Verso il patteggiamento anche Casarin, segretario di Chisso

Scandalo Mose, sfilata in tribunale

VENEZIA – Ogni giorno, ormai, si aggiunge un patteggiamento: ieri è stata la volta dell’ex segretario dell’assessore regionale Renato Chisso, il veneziano Enzo Casarin. Il suo difensore, l’avvocato Carmela Parziale, ha raggiunto l’accordo con la Procura per una pena di un anno e otto mesi di reclusione e 115 mila euro di multa. Dieci anni fa aveva già patteggiato due anni di reclusione per il reato di concussione, commesso quando era sindaco socialista di Martellago. Alla conta, ormai, manca soltanto l’ex braccio destro di Giovanni Mazzacurati al Consorzio Venezia Nuova, Federico Sutto (ancora agli arresti domiciliari), poi si aprirà la corsa al rito abbreviato davanti al giudice dell’udienza preliminare per evitare il processo in aula, tra coloro per i quali i pubblici ministeri Paola Tonini , Stefano Ancilotto e Stefano Buccini chiederanno il rinvio a giudizio (sono nove). Invece, coloro per i quali oggi la giudice Giuliana Galasso dovrà valutare la congruità della pena sono diciannove, a questi vanno aggiunti i due (Chisso e Casarin) per i quali l’udienza verrà fissata probabilmente tra una decina di giorni, quindi quello per cui sono ancora in corso le trattative (Sutto), i due che hanno raggiunto l’accordo con la Procura di Milano perché la loro posizione è stata trasferita per competenza territoriale nel capoluogo lombardo (Emilio Spaziante e Roberto Meneguzzo). Su 35 indagati raggiunti dai provvedimenti del 4 giugno sono 25 quelli che hanno scelto il patteggiamento. Sarebbero in realtà 26, con l’ex sindaco Giorgio Orsoni per il quale la richiesta è stata respinta dal giudice perchè la pena di 4 mesi è stata ritenuta incongrua. Dovrà affrontare l’udienza o il processo subito: se i pubblici ministeri chiederanno che sia processato assieme agli altri otto indagati, tra cui l’ex europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori, passerà per l’udienza preliminare per poi finire davanti al Tribunale se non chiederà l’abbreviato; se invece firmeranno la citazione diretta salterà l’udienza e finirà dritto in aula davanti al giudice monocratico, competente a giudicare il reato di finanziamento illecito ai partiti. Oggi, probabilmente nessuni degli indagati si presenterà davanti al giudice, ci saranno soltanto gli avvocati e i pubblici ministeri: molti dei primi non rinunceranno a chiedere al magistrato, che lo potrebbe sempre decidere, di prosciogliere i loro clienti e, solo in seconda battuta, di applicare la pena concordata con l’accusa. Alcuni di coloro che sono finiti in carcere o ai domiciliari, infatti, hanno scelto l’accordo con la Procura piuttosto del processo in aula spiegando di farlo per questioni di salute o di risparmio di denaro e sostenendo di essere innocenti. Altri, invece, hanno ammesso le loro responsabilità sulla base delle contestazioni mosse loro; infine, pochi altri hanno anche collaborato, fornendo indicazioni agli investigatori della Guardia di finanza che hanno svolto le indagini. I patteggiamenti di Chisso, Casarin e, se si aggiungerà, quello di Sutto non verranno valutati dallo stesso giudice, Giuliana Galasso, ma da un altro magistrato, che dovrà essere diverso da quello che affronterà l’udienza preliminare per gli indagati per i quali la Procura chiederà il rinvio a giudizio tra alcuni giorni, dopo aver depositato gli atti.

Giorgio Cecchetti

 

Caccia e Bettin sul Mose

LAGUNA ED ECONOMIA Un chiarimento del ministero delle Infrastrutture per dirimere la vicenda

LA POLEMICA – I 140 milioni stanziati dal Cipe da designare tra distinte proposte

Altro che cantieri aperti e celebrazioni del Mose! Beppe Caccia e Gianfranco Bettin, dell’associazione “In Comune” chiedono che il Consorzio Venezia Nuova apra i suoi armadi. E lo fanno nel giorno in cui il Consorzio Venezia Nuova celebra la posa dell’ultimo cassone, alla bocca di porto di Malamocco (ne riferiamo nel fascicolo nazionale). «Ci riferiamo – attaccano – agli armadi dove il Consorzio custodisce gelosamente i propri segreti restano sempre chiusi. Quanto è costato, davvero, il cassone che è stato ieri appoggiato sui fondali? Dove sono finiti, non i quaranta milioni al centro dell’inchiesta della Procura di Venezia sul criminale sistema Mose, ma le centinaia di milioni di euro prelevati dalle tasche di tutti i cittadini contribuenti, visto che per le opere di salvaguardia, come abbiamo calcolato, sono state spese circa il 50% delle somme stanziate dallo Stato?».
Caccia e Bettin chiedono che vengano resi pubblici i bilanci e i bilanci delle imprese consorziate. «Perché, a due mesi dalle esplicite dichiarazioni pubbliche dell’ing. Piergiorgio Baita – concludono – l’attuale presidente del Consorzio Venezia Nuova, Mauro Fabris, non ha ancora risposto alla richiesta di rendere pubblico il contratto di “consulenza strategica” che lo ha legato per anni al Consorzio stesso?».

 

Posato l’ultimo cassone del Mose

L’operazione ieri alla bocca di porto di Malamocco, ora si devono realizzare le paratie mobili previste per il 2016

L’ultimo cassone del Mose è stato posato, l’opera architettonica è completata all’85%. L’ultima struttura in cemento armato è una “spalla” collocata alla bocca di porto di Malamocco (nella laguna centrale, al confine tra l’isola del Lido e Pellestrina) e ieri è stata trainata, varata e affondata nella sua postazione sotto il mare. Grande quasi come tre campi da basket (superficie di 60,2 metri per 20, altezza 26,5 metri) la sua posa mette la parola fine alla fase di installazione dei 35 cassoni. Nel contempo però, termina anche l’obiettivo dei circa 13 ettari dell’isola-cantiere di Malamocco, un vero e proprio villaggio attrezzato con infrastrutturazioni, macchinari e 340 posti letto che da contratto dovrebbe essere demolita dal Consorzio Venezia Nuova. «Demolirla sarebbe uno spreco – afferma il presidente di Cvn Mauro Fabris – per il momento continueremo ad utilizzarla per lo stoccaggio delle paratoie, ma la decisione sul suo futuro spetta alla prossima amministrazione cittadina». Intanto i lavori proseguono perché, da cronoprogramma, il Mose dovrà essere consegnato funzionante nel 2016 per il collaudo finale nel 2017. «Contiamo di salvare Venezia dall’acqua alta già nell’inverno 2017. – ha detto il direttore generale di Cvn Hermes Redi – Ad oggi, le tempistiche del Mose sono rispettate, ma a monte vi sono ancora i ricorsi che stanno rallentando i contratti per l’assegnazione delle gare per la realizzazione delle 78 paratoie. A cui si aggiunge il crocevia di finanziamenti governativi che ancora devono arrivare». Quelli già stanziati, ma non ancora deliberati dal Cipe, (441 milioni di euro), e l’ultima tranche di finanziamenti non ancora stanziati (226 milioni di euro) destinati agli inserimenti architettonici. L’opera ha avuto finora un costo totale di 5.493 milioni di euro, ad oggi ne sono arrivati dallo Stato 5.267. «Non possiamo andare oltre il nostro indebitamento con le banche – ha aggiunto Redi – che ammonta a circa 800 milioni di euro per aver anticipato le spese di tre anni di lavori». Parole d’ordine sono «discontinuità e trasparenza» con il passato, in riferimento agli scandali giudiziari. Ma chi gestirà il Mose nel 2020? Lo stabilirà un bando del Provveditorato alle opere pubbliche, ex Magistrato alle Acque.

 

Dopo i cantieri, aprano anche gli armadi. Gianfranco Bettin e Beppe Caccia lanciano il sasso nello stagno. E invitano il Consorzio Venezia Nuova ad avviare dopo l’operazione «Cantieri aperti» anche quella degli «Armadi aperti». «Continua l’operazione propagandistica, a spese della collettività, per illustrare i grandi risultati del Mose», scrivono in una nota i due ex consiglieri dell’associazione «In Comune», «meglio sarebbe che il Consorzio rendesse note anche le consulenze passate, compresi i rapporti che legavano l’attuale presidente al gruppo di imprese quando lui era parlamentare e sottosegretario ai Lavori pubblici. Oppure il rapporto di consulenza strategica a cui ha fatto riferimento Piergiorgio Baita. Ci facciano sapere anche quanto sono costate davvero le dighe».

(a.v.)

 

Il presidente Fabris: «Giornata storica». La festa degli operai. Il Consorzio scrive al Governo: «Opera da avviare insieme»

Mose, affondato ieri l’ultimo dei cassoni. Dighe pronte nel 2017

Affondato a Malamocco l’ultimo dei 35 cassoni del Mose. Adesso tutto è pronto per l’installazione delle paratoie, per cui il Consorzio Venezia Nuova ha già bandito una gara internazionale. «Il Mose sarà consegnato nel 2016», ha detto ieri soddisfatto il presidente Mauro Fabris, «le paratoie potranno funzionare nel 2017». Ci vorranno ancora tre anni, dunque. Ma ieri, per i dirigenti e gli operai delle ditte è stata una giornata di festa. Lontana dalle polemiche e dalla bufera giudiziaria. «Un giorno storico», dice Fabris, «abbiamo rispettato al millimetro il progetto e anche il cronoprogramma». L’ultimo bestione, costruito due anni fa sulla spiaggia di Santa Maria del Mare, è stato calato sul fondale della bocca di Malamocco ieri mattina. Operazione durata una notte intera, approfittando delle condizioni di mare «ferma», cioè in fase di quadratura. Quaranta centimetri al minuto e il cassone di spalla, 26 metri per 60 e profondo 20, 16 mila tonnellate di calcestruzzo, è stato affondato a una profondità di meno 28 metri e agganciato con precisione millimetrica agli altri cassoni sul fondo. Sott’acqua passeranno le condutture e saranno agganciate le cerniere che dovranno tenere le paratoie. 21 sono già state sistemate nella bocca di Lido, lato Treporti. Adesso toccherà alle altre 57, per cui sarà bandita la gara europea. «Tempi lunghi? Ma quando si va a gara si deve sapere che esistono questi rischi», avverte Fabris, fiducioso che il Cipe stanzierà presto i 400 milioni della Legge di Stabilità 2013. In caso di ricorsi di un’impresa i tempi potrebbero allungarsi ancora. «Sono i vantaggi della concessione unica», continua il presidente, «e non è vero che i prezzi sono più alti. Chi vince una gara poi magari ci aggiunge le riserve e gli aumenti in corso d’opera e poi alla fine non si risparmia». Ora c’è da verificare se la grande opera funzionerà e quali saranno i costi della sua gestione e manutenzione. Tema delicato, perché sono in molti a chiedere che anche la fase operativa venga affidata con gara europea. «Abbiamo avanzato una nuova proposta al ministero», ha rivelato ieri Fabris, «siamo disponibili a fornire in anticipo gli elementi per avviare una pre-gara. E ad essere affiancati nei due anni di avvio previsti dal contratto, dalle imprese che il governo avrà individuato. Più di così…»

Alberto Vitucci

 

MOSE – L’ex assessore voleva restare in carcere: non ho i soldi

Chisso nel mirino del Fisco: «Deve versare 4,3 milioni»

Renato Chisso non voleva lasciare il carcere di Pisa ed accettare il patteggiamento. Il motivo? La cartella che l’ex assessore si è visto recapitare in prigione. Una richiesta di 4,3 milioni di euro di tasse non pagate sui (presunti) proventi illeciti. Il fatto è che Chisso sostiene di non possedere nessun tesoro frutto di tangenti. «Se le cose stanno così, io non esco», ha detto al suo legale. Poi la moglie e l’avvocato l’hanno convinto.

 

INCHIESTA MOSE – All’ex assessore notificata in cella una cartella del Fisco per 4,3 milioni

Chisso voleva restare in carcere: «Non ho i soldi per patteggiare»

Quattro milioni e 300 mila euro. Quanto basta per decidere di restare in galera. «Io i soldi non li ho. L’ho già detto mille volte. Se per uscire, oltre alla condanna, mi devo anche beccare la condanna a vita di dover pagare questa montagna di quattrini, allora resto dentro». Voleva far saltare il patteggiamento, Renato Chisso, il quale, doveva fare i conti con le richieste della Procura di Venezia, che puntava ad ottenere almeno un milione di euro con il patteggiamento, e pure con l’Agenzia delle entrate che gli intimava di sborsare 4 milioni e rotti. Il conto finale era astronomico: più di 5 milioni di euro. Ora, la parte richiesta dalla Procura, gli aveva spiegato l’avvocato Forza, sarebbe stata tolta dall’accordo sul patteggiamento. Restava la richiesta dell’Agenzia delle entrate. La Guardia di finanza aveva stilato un elenco dettagliato delle imputazioni ed aveva fatto le somme: 8 milioni incassati, stando alle accuse, 4 milioni e 300mila euro da pagare in tasse. Ma in Italia – spiega l’avvocato Forza – non è previsto il pagamento delle imposte sui proventi illeciti. E, comunque, quella cartella esattoriale non c’entrava un bel nulla con il patteggiamento. Peccato che a Chisso fosse stata notificata in galera dalla Guardia di finanza poche ore prima. Nell’uno e nell’altro caso, comunque, il punto è sempre lo stesso e cioè che a Chisso non hanno trovato nulla da sequestrare. E se nulla si sequestra, nulla si può confiscare e acquisire alle casse dello Stato. E’ il motivo per cui l’ex assessore alle Infrastrutture è l’unico che esce di galera senza concordare, assieme alla pena, anche il pagamento di un tot.
A Galan avevano sequestrato beni per quasi 5 milioni di euro e lui ha patteggiato 2 anni e 10 mesi di galera e 2 milioni e 600mila euro. Che si impegna a restituire allo Stato. L’accordo infatti va trovato sulla parte sequestrata e non sul quantum che il politico ha incassato in mazzette. Ma nel caso di Chisso non è stato trovato nulla. Lui dice che non li ha presi e che altri li hanno presi. Vero o falso che sia, se i soldi non saltano fuori non possono essere richiesti a nessuno. Ma Chisso non lo sapeva ed era convinto di dover comunque pagare. E’ per questo che, dopo la notifica della cartella esattoriale e mentre l’avvocato Forza trattava sulla pena – l’accordo è stato trovato su 2 anni, 6 mesi e 20 giorni – Chisso continuava a chiedere a Forza di non chiudere l’accordo perché soldi non ne aveva. Né da restituire allo Stato né da pagare le tasse. Preferiva restare in carcere. E così, quando è arrivata l’ordinanza del Gip Alberto Scaramuzza, che lo scarcerava, Chisso si è rifiutato di uscire dalla cella del carcere di Pisa. Era confuso – racconta il suo avvocato – e non si rendeva conto di quel che stava succedendo e, tra l’altro, era convinto che avesse ragione il suo compagno di cella, un tanzaniano il quale si picca di essere uno stregone in grado di prevedere il futuro. L’africano gli aveva detto che sarebbe stato scarcerato nella settimana che va dal 27 ottobre in poi e Chisso si era convinto che non sarebbe uscito prima. Ecco perché è arrivato a casa sua, a Favaro, con un paio di ore di ritardo, l’altra sera, ritardo che si spiega con il nubifragio che si è abbattuto anche su Pisa proprio al momento del rilascio, e con la necessità di convincerlo con pazienza a salutare tutti e a fare i bagagli, allontanandosi dalla cella lo aveva avuto come ospite da mercoledì 4 giugno 2014.
Era stranito, confuso, opaco, lo sguardo spento. E anche ieri mattina, pur rimesso in sesto dalla moglie, che lo ha costretto a tagliarsi la barba e gli ha portato la nipotina, non aveva ancora recuperato. Poi Chisso ha pranzato e subito dopo è arrivato il suo legale. L’avvocato Antonio Forza gli ha spiegato che deve attendere la decisione del Gip sulla richiesta di patteggiamento, che, se sarà accettata, comporterà automaticamente la perdita del seggio (e dello stipendio) in consiglio regionale.

Maurizio Dianese

 

DAVANTI AL GIP – Domani la maxi udienza con 19 indagati che hanno “concordato” la pena

L’appuntamento con i primi patteggiamenti è fissato per domani mattina. Il giudice per l’udienza preliminare Giuliana Galasso dovrà pronunciarsi sulle istanze presentate da 19 indagati, tra cui figurano l’ex Governatore del Veneto, Giancarlo Galan, accusato di corruzione (2 anni e 10 mesi e la confisca di 2,6 milioni di euro), l’ex consigliere regionale del Pd Giampietro Marchese (11 mesi per finanziamento illecito); l’ex presidente del Magistrato alle Acque, Patrizio Cuccioletta (2 anni e 800 mila euro per corruzione), nonché numerosi imprenditori, tra cui figura il  […………..], titolare dell’omonima impresa e vicepresidente del Consorzio Venezia Nuova (2 anni e 4 milioni di euro per corruzione).

 

MOSE. GALAN E SOCI, VERGOGNATEVI

Sono una persona anziana che, dopo tante peripezie di lavoro, riscuote una pensione modestissima. Tu galan (sì proprio con la “g” minuscola: chisso, orsoni e compagnia, elementi di spessore monetario nell’inchiesta Mose appartengono alla specie dei ciprinidi) per tanti anni sei stato il Doge, il Governatore del Veneto. Ci hai rappresentato a Roma, “dimenticando” la “cura promovendae salutis”, sostituita da “pro domo mea, meti in scarsea”. Ora, con il tuo curriculum di piombo, sei ritornato a casa! Io, pur di non essere alla gogna dei cittadini, me ne sarei rimasto in carcere, nascosto. Toni del spin ora non sarebbe certamente libero. Se ci fosse Guido Gozzano ti direbbe che (tu & C.) sei stato preso da affari turbinolenti, proiettato alla indebita conquista di un mare “pubblico”, non tuo. Ingordo! Guido avrebbe detto anche che – assieme alla tua compagine – faresti parte di quei ” cosi a due gambe che fanno tanta pena”. Avevi tutto. Non manca tanto a novembre e per me un mazzo di crisantemi sarà sempre pronto da mettere sulla tua coscienza.

Francesco Lucatello – Treviso

 

Quei politici che da anni non pensano al bene comune

Ritardi sulla costruzione del Mose (tanto che ne modificherei la denominazione in Esodo); ritardi sul completamento del percorso tramviario (tanto che il tratto Sernaglia-Panorama lo chiamerei “Desiderio” e i molti utenti che ne avrebbero potuto usufruire prima, non so quanto tempo della loro vita avranno perso); tempi lunghissimi per il completamento del garage in piazzale Leonardo Da Vinci (avrei un nome da proporre: Colosseo). Non si vede ancora luce per quanto riguarda quello di Ca’ Savorgnan (vogliamo chiamarlo Cappella Sistina?); opere gigantesche in via Costa e in via Poerio (la prima la rinominerei Boulevard Costa e la seconda Campi Poerio). Mentre buona parte della città – tra marciapiedi e strade – versa in condizioni penose, rese ancor più tali da lavori, a volte effettuati da privati, richiusi alla bell’è meglio, a discapito della sicurezza oltre che della decenza. Non parliamo poi del ponte di Calatrava, il quale ha visto elevare i costi. E nemmeno dell’insana idea di far giungere il tram fino a Venezia. Ho l’impressione che, negli ultimi decenni, i politici locali – sempre pronti a comparire in prima fila durante le inaugurazioni, ma altrettanto pronti a scaricarsi le colpe o svincolarsi dalle proprie responsabilità in caso di magagne – più che amministratori del bene comune, abbiano ardentemente desiderato passare per il regnante o l’imperatore di turno sotto la cui amministrazione è sorta quell’opera piuttosto che un’altra.

Alessandro Buia – Mestre

 

Vita politica

QUEGLI INSULTI RIVOLTI A GALAN

Dopo la nota faccenda sul “Mose” a Galan sono stati dati gli arresti domiciliari, e nella circostanza della scarcerazione è stato insultato da persone presenti all’evento! Il suo ex portavoce Franco Miracco (notizia del Gazzettino dell’11 ottobre) ha detto: “Che vergogna gli insulti a Galan!”. Allora diciamo che questa presa di posizione del signor Miracco, potrebbe avere una ragione qualora Galan non avesse commesso il fatto incriminato! Ma nel caso contrario (come è più probabile), credo che gli insulti siano solo dati dal notevole disagio che certe persone sentono addosso, per essere state ingannate sulla fiducia data a politici che pensano esclusivamente alle loro tasche! Dovevano forse andarlo a rincuorare con un mazzo di fiori? Ma in che “mondo” viviamo? Sì forse di menefreghisti!

Luigi Palman – Sedico

 

Gazzettino – Mose, Chisso cede e patteggia 2 anni e 6 mesi

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14

ott

2014

Mose, Chisso cede e patteggia 2 anni e 6 mesi

Concessi i domiciliari all’ex assessore regionale. Ma manca l’accordo sulla parte economica: la Procura punta a confiscare non meno di un milione. Deciderà il gip

DOPO QUATTRO MESI DI CARCERE

Dimagrito e sofferente. Da venerdì in ospedale. E’ rientrato a casa accompagnato dalla moglie. Resta aperta la caccia ai soldi: dove sono finiti?

La Procura di Venezia porta a casa la condanna a 2 anni 6 mesi e 20 giorni. L’avv. Antonio Forza porta a casa il suo cliente e non molla un centesimo. Del resto aveva a disposizione solo 1.500 euro, quelli trovati a suo tempo nel conto corrente di Renato Chisso e puntualmente sequestrati. Ad oggi infatti altri soldi non ne sono stati trovati e c’è da giurarci che l’avv. Forza abbia continuato a ribadire alla Procura, anche mentre faceva l’accordo sul patteggiamento, che i quattrini non devono cercarli da Chisso, ma da qualcun altro. Dunque le tracce del tesoro ci sono, ma il tesoro vero e proprio non si trova e il legale dell’ex assessore regionale alle Infrastrutture ha gioco facile nel sostenere che chi ha condotto la Procura sulle tracce dei soldi sta facendo il gioco delle tre carte nel senso che accusa Chisso e invece i soldi se li è tenuti lui. O lei.
Sul patteggiamento continuava ad insistere la moglie di Chisso che ieri è partita di corsa in auto, accompagnata dal genero, per andare a Pisa a riprendersi il suo Renato. E’ stata l’unica volta che, appena uscita dal carcere, non si è attaccata al telefono per urlare all’avvocato che doveva darsi da fare. «Mi esce con i piedi in avanti se lei non si sbriga a chiudere» – gli diceva in lacrime.
L’altra accelerazione è derivata dal fatto che nei giorni scorsi Chisso era finito anche dentro l’inchiesta su Fabio Fior. Poca roba visto che si trattava di abuso d’ufficio, un reato da poco, ma sufficiente per far capire a Chisso e al suo legale che la Procura di Venezia non lo avrebbe mai mollato e, in caso di scarcerazione per motivi di salute, avrebbe subito stilato un altro mandato di cattura. Infine c’era la questione del processo immediato. La Procura aveva deciso di portare Chisso a giudizio subito e questo non dava tempo alla difesa di prepararsi adeguatamente. Teniamo presente che Chisso continua a battere sempre sullo stesso tasto: i soldi non li ho presi io, li dovete cercare da qualche altra parte. Ma per dimostrare che i soldi sono finiti in tasca a qualcun altro, ci vuole tempo. Le indagini difensive non sono ancora arrivate alla fine e siccome si tratta di indagini in grado di incastrare qualcuno che ha incastrato Chisso, c’era bisogno di prendere tempo. E così adesso la Procura dovrà fare esattamente questo dal momento che Chisso esce definitivamente di scena. Se verrà accettato il patteggiamento infatti, a Chisso la Procura potrà chiedere solo quei 1.500 euro che si trovano sul suo conto corrente. Ma questo non significa che i pm dell’inchiesta Mose abbandonino le ricerche del tesoro. E non serve essere degli stregoni per capire che l’avv. Forza sta per offrire alla Procura su un piatto d’argento almeno un nome di spicco tra coloro che si sono tenuti i soldi.
Del resto nella richiesta di patteggiamento Chisso è stato chiaro, quando ha scritto che «le mie precarie condizioni di salute non mi consentono di affrontare un processo che si preannuncia lungo e faticoso» e ha aggiunto che deve sottoporsi a coronarografia «per un eventuale intervento chirurgico». Dunque, «pur continuando ad asserire la mia completa estraneità ai fatti che mi vengono contestati» ha chiesto di essere ammesso al patteggiamento. E l’accordo, per l’appunto è stato trovato sui 30 mesi e 20 giorni di carcere.
Da ieri sera Renato Chisso è a casa a Favaro Veneto. E’ arrivato poco dopo le 21 ed è entrato in casa sorretto dalla moglie Gerarda. Barba lunga, dimagritissimo, camminava a fatica ed era visibilmente provato. Venerdì entrerà in ospedale dove sarò sottoposto a coronarografia e dove gli impianteranno con tutta probabilità un paio di stent per aprire una coronaria ostruita. E in ospedale Chisso attenderà la decisione del Gip sulla sua richiesta di patteggiamento. Dopodiché per lui la partita giudiziaria si chiuderà per sempre, mentre resterà aperta quella pecuniaria. Da qualche parte infatti i soldi devono essere pur finiti, no? E se non li ha Chisso…

Maurizio Dianese

 

Ieri l’ultima perizia: stato di salute compatibile con il carcere

MAXI UDIENZA – Giovedì per 19 indagati l’udienza davanti al giudice per chiudere ogni pendenza

L’ULTIMO DETENUTO – L’ex assessore ha lasciato dopo più di quattro mesi la cella nel carcere di Pisa

Anche Chisso si arrende patteggia 2 anni e 6 mesi

Concessi gli arresti domiciliari. Ancora non c’è accordo sulla parte economica

La Procura intenzionata a confiscare oltre un milione: la parola adesso al gip

Sequestrati soli i 1.500 euro trovati sul conto corrente

L’avvocato: «Scelta dettata da imprescindibili motivi sanitari»

Alla fine anche Renato Chisso sceglie di patteggiare e torna a casa. Così quella scarcerazione invocata per settimane per ragioni di salute, arriva come per Giancarlo Galan: grazie a un accordo con la Procura per un patteggiamento (in questo di 2 anni, 6 mesi e 20 giorni) e con il gip che, in attesa dell’udienza che dovrà applicare l’accordo, concede gli arresti domiciliari. Fino a ieri l’ex assessore regionale arrestato nel blitz del 4 giugno, sembrava destinato ad essere uno dei pochi big ad affrontare un processo sul sistema Mose. Invece non andrà così. Salvo decisioni a sorpresa del gip che potrebbe rigettare il patteggiamento, non ci sarà un dibattimento pubblico per Chisso. Lo scandalo dell’assessore a libro paga del Consorzio Venezia Nuova, finirà con una pena concordata tra accusa e difesa. E una “caccia” ai soldi da confiscare che, nel caso di Chisso, a differenza di Galan, non sono stati trovati.
Tutto si è deciso nel giro di poche ore. Fondamentale, probabilmente, è stato il parere con cui i periti nominati dal giudice per le indagini preliminari, Roberta Marchiori, avevano confermato la “compatibilità” delle condizioni di salute del detenuto con il carcere, tra l’altro un istituto penitenziario specializzato per il trattamento dei cardiopatici, come quello di Pisa, scelto proprio per questo. Ieri la relazione conclusiva dei dottori era sul tavolo del giudice, che a quel punto non poteva far altro che rigettare l’ennesima richiesta di scarcerazione presentata dal difensore di Chisso, l’avvocato Antonio Forza. Ma già nei giorni scorsi la difesa aveva avuto dei contatti con il procuratore aggiunto Carlo Nordio – che coordina il pool di magistrati che ha scoperchiato il sistema Mose: Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini – per una diversa uscita di scena dell’ex assessore. Trattative che si sono chiuse ieri. Per l’avvocato Forza una scelta dettata da «imprescindibili motivi sanitari».
La pena concordata è di 2 anni e 6 mesi per le vicende del filone principale, più 20 giorni per il reato di abuso d’ufficio emerso dalla nuova inchiesta sugli uffici regionali. Più spinosa la questione della cosiddetta confisca per equivalente al profitto del reato. A differenza di Galan, per cui nell’istanza di patteggiamento è stata fissata anche la cifra da restituire (2 milioni e 600mila), per Chisso non c’è accordo sui numeri. Sarà il gip chiamato a valutare la congruità della pena, a dover stabilire anche l’entità della confisca sulla base del capo d’imputazione, tenendo conto dei reati caduti in prescrizione. A spanne una cifra che supera il milione. La Procura, da parte sua, continuerà la sua ricerca di eventuali fondi che Chisso potrebbe avere all’estero attraverso le rogatorie in corso. In un’ottica, a questo punto, di confisca.
Ieri, intanto, il gip Alberto Scaramuzza, dopo l’accordo sul patteggiamento, ha concesso gli arresti domiciliari a Chisso. Mentre il gip Marchiori ha dichiarato il “non doversi procedere” sulla richiesta di scarcerazione per motivi di salute, ormai superata dai fatti. A un altro gip, a questo punto, toccherà decidere sulla congruità della pena concordata. Non ci sono più i tempi tecnici per far rientrare anche Chisso nella mega udienza di giovedì prossimo, quando davanti al giudice Giuliana Galasso sono fissati i patteggiamenti di 19 indagati, Galan compreso. L’ex assessore dovrà attendere.

Roberta Brunetti

 

IL RETROSCENA – Chiusa la partita giudiziaria, continua la caccia ai soldi

Renato Chisso poco dopo le 21 è arrivato in auto in via Col San Martino 5. Era a bordo della Mercedes Classe A del genero, che nel pomeriggio è andato a prenderlo a Pisa. Barba lunga, estremamente dimagrito e sofferente, è sceso a fatica dall’auto e si è incamminato verso l’entrata di casa, sorretto dalla moglie Gerarda. Chisso resterà a casa sua fino a venerdì mattina quando uscirà per andare in ospedale. Il suo avvocato difensore gli ha già fissato il ricovero all’Angelo, dove sarà sottoposto a coronografia. E’ probabile, molto probabile, che i cardiochirurghi decidano di impiantargli altri due stent oltre ai due che hanno già piazzato nelle sue coronarie nel settembre dello scorso anno. Via Col San Martino è una stradina, larga quanto una macchina, che si trova alla periferia di Favaro, in mezzo ai “grebani” come si dice da queste parti. L’abitazione dell’ex assessore regionale alle Infrastrutture, che era detenuto a Pisa dal 4 giugno, è una casetta ad un piano, di quelle che negli anni Sessanta gli operai si costruivano da soli, in economia. Bianca, con una copertura di coppi rossi. Una casetta qualsiasi, nessun segno di opulenza. Parcheggiata in cortile, di fianco alla casa la vecchia Alfa, impolverata. Del resto è ferma da 4 mesi. Dietro l’Alfa c’è la Fiat 16 di sua figlia. Le persiane tutte giù e i vicini che nel pomeriggio guardavano con sufficienza l’affollamento di fotografi e telecamere. E chi accettava di parlare, era per dire che di Chisso, comunque, poteva parlare solo bene. Del resto, trovare qualcuno che parli male di Chisso non è difficile, a Favaro è impossibile. A meno che non vai al bar di piazza Pastrello dove tra un’ombra e l’altra c’è sempre qualcuno disposto a sostenere che lui lo sapeva da sempre che Chisso era un ladro e che era solo questione di tempo che lo prendevano e lo mettevano al gabbio. Ma se vai dai vicini di casa farai solo collezione di superlativi “bravissimo” o “buonissimo”. Insomma a Chisso è difficile che capiti quel che sta succedendo a Galan e cioè che facciano la fila a passare davanti a casa sua per fargli sapere quel che pensano di lui. Del resto ieri sera, nonostante l’affollamento di fotografi e giornalisti, non c’è stato nessuno che si sia fermato o che abbia messo fuori di casa la testa per dire che basta e non se ne può più dei ladri. Macchè, qui a Favaro, Chisso è come il parroco, lo conoscono tutti e in tanti sono andati almeno una volta a chiedergli aiuto. E per quanto impossibile possa sembrare, anche adesso che ha patteggiato e quindi in qualche modo ha ammesso di essere colpevole, trova sempre qualcuno disposto a mettere la mano sul fuoco per lui. «Vive come vivo io che ho fatto l’autista dell’Actv – dice Ennio Franchin che di Chisso è amico da sempre – Le vacanze insieme erano ferie da impiegato. Prendevamo una casa in affitto a 700 euro alla settimana e ci dividevamo tutte le spese. Per anni siamo andati in vacanza in Calabria, ore e ore di macchina, una “coppata” da fare in giornata, per risparmiare. L’anno scorso siamo andati in Sardegna e anche quest’anno, se non fosse successo niente, saremnmo andati in vacanza insieme». Insomma Ennio non crede ad un Chisso dottor Jeckyll e mister Hyde. «Ma dai. Io non ci credo. Non ha mai fatto una vita da soldi.»

Maurizio Dianese

 

 

IN TRIBUNALE – L’ex sindaco sarà l’unico politico di spicco ad affrontare il processo

Orsoni in aula, l’incubo del Pd

IL RISCHIO – Le udienze durante la campagna elettorale

Al Pd che conta di tornare ad amministrare il Comune di Venezia e che sogna di strappare la Regione a Luca Zaia, forse conveniva che Renato Chisso non chiedesse il patteggiamento. Gli imputati eccellenti su cui accendere i riflettori giusto sotto elezioni, sarebbero stati due. Un tritacarne mediatico bipartisan. Invece, a processo al momento va solo Giorgio Orsoni, l’ex sindaco di Venezia che il Pd, dopo gli arresti domiciliari, si era premurato di scaricare: “non è iscritto al partito”. Il che era vero, solo che la precisazione del partito peccava di omissione. Perché Orsoni nel 2010 aveva fatto le primarie di coalizione ed era sostenuto da quasi tutto il Pd. E perché dopo la vittoria, il Pd in giunta a Venezia c’era.
Con Orsoni (che inizialmente aveva concordato un patteggiamento di quattro mesi cui però si era opposto il gip e a quel punto l’ex sindaco ha deciso per il processo), andranno a giudizio l’ex europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori e Enzo Casarin, che di Chisso era il braccio destro in Regione, mentre Federico Sutto, del Consorzio Venezia Nuova, pare patteggi. Il processo a Orsoni rischia di oscurare gli altri. Tant’è che nel Pd si spera che i procedimenti inizino a primavera inoltrata, dopo le primarie e dopo le elezioni. Perché sarebbe imbarazzante leggere di Orsoni che ripete quanto detto durante gli interrogatori: i soldi di Mazzacurati? li voleva il Pd, Zoggia, Marchese e Mognato insistevano. Zoggia e Mognato hanno negato, Marchese ha patteggiato. Ma le cronache dal tribunale nessuno vorrebbe leggerle in campagna elettorale.

 

Nuova Venezia – Chisso patteggia e va ai domiciliari

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14

ott

2014

Dopo Galan, patteggia l’ex assessore: due anni e sei mesi

Anche Chisso ai domiciliari

L’arrivo dell’ex assessore, dapprima previsto per il pomeriggio di ieri, è stato ritardato dalla pioggia

All’uscita dal carcere l’attesa della moglie e dell’avvocato, insieme ai due il viaggio in direzione Mestre

Da Pisa in mezzo al maltempo poi prima notte in casa a Favaro

MESTRE Da ieri sera Renato Chisso dorme nel suo letto nella casa di via Col San Martino 5, a Favaro. Ha ottenuto i domiciliari dopo l’accordo con la Procura per il patteggiamento della pena di due anni e sei mesi. A Pisa, all’uscita dal carcere, ad attenderlo c’erano il suo legale, la moglie e il genero, Ha fatto il viaggio di rientro a bordo di una Mercedes Classe A. Viaggio caratterizzato dal maltempo. È arrivato a Mestre intorno alle 21.30, inizialmente l’arrivo era previsto alle 18. Davanti casa sono rimasti ad attenderlo solo giornalisti e fotografi. Pochi gli abitanti della zona che si sono limitati a chiedere cosa stava succedendo, incuriositi dall’insolita presenza dei cronisti. Dopo l’ex presidente della Regione Giancarlo Galan anche l’ex assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso ha scelto il patteggiamento. Dopo che i periti del giudice per le indagini preliminari lunedì mattina si erano detti convinti della compatibilità delle condizioni di salute dell’ex assessore con il regime carcerario, i suoi avvocati hanno presentato in Procura una istanza di patteggiamento. Anche perché Chisso rischiava di rimanere dietro le sbarre parecchio tempo. Stesso copione rispetto a qualche giorno fa, quando a presentare la richiesta era stato il collegio difensivo di Galan, ottenendo i domiciliari per l’ex ministro. I pubblici ministeri, vista la situazione giudiziaria molto simile, hanno dato il proprio assenso anche in considerazione del fatto che c’è il rischio prescrizione. Quindi Renato Chisso patteggia e viene scarcerato, dopo essere stato rinchiuso nel carcere di Pisa fin dal primo giorno del suo arresto nel giugno scorso. Per lui una condanna a due anni e sei mesi di reclusione. Sulla confisca di un milione di euro si dovrà pronunciare il giudice. Mentre ha già patteggiato altri 20 giorni. Piergiorgio Baita sostiene di averlo pagato con 250mila euro l’anno dalla fine degli anni ’90 al 2013. Un gruzzolo di quasi 4 milioni che non si capisce dove sia finito. Le opere pubbliche sono la sua passione. Dice nel 2012: «In Veneto sono stati impegnati oltre 11 miliardi per di opere pubbliche. Senza contare le opere già concluse come il Passante di Mestre». Tutte in finanza di progetto. Secondo la Procura di Venezia la sua fortuna, anche quella non ancora trovata, viene da qua.

Carlo Mion

 

Pm e difesa: due anni, sei mesi, venti giorni. Ora parola al gip

L’avvocato: «Decisione per imprescindibili motivi di salute»

Chisso patteggia e va ai domiciliari

VENEZIA – Anche l’avvocato Antonio Forza, difensore dell’ex assessore regionale di Forza Italia Renato Chisso, ha raggiunto l’accordo con la Procura: due anni, sei mesi e 20 giorni di reclusione e gli arresti domiciliari. L’esponente politico è uscito dal carcere di Pisa, grazie al provvedimento firmato dal giudice Alberto Scaramuzza, nel primo pomeriggio ed è tornato nella sua casa di Favaro. I pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini non hanno trovato l’accordo, invece, sulla cifra che l’ex assessore dovrà consegnare, ma hanno deciso egualmente di procedere con il patteggiamento, lasciando al magistrato che giudicherà la congruità della pena frutto dell’accordo di decidere sulla cifra che Chisso dovrà restituire. Stando ai conti dei rappresentanti dell’accusa la cifra dovrebbe aggirarsi sul milione di euro o poco più. Pochi minuti dopo la firma del provvedimento che ha permesso all’ex assessore accusato di corruzione nell’ambito dell’inchiesta sul Mose , un altro giudice veneziano, Roberta Marchiori, ha dichiarato il non doversi procedere per la vicenda della compatibilità della detenzione con le condizioni di salute di Chisso. L’avvocato Forza aveva presentato un’istanza chiedendo la scarcerazione del suo cliente a causa delle gravi condizioni di salute, sia fisiche sia mentali. Sosteneva con i suoi consulenti medici che da un lato i problemi cardiaci (prima dell’arresto era stato colpito da un infarto) dall’altro la depressione (causata dalla permanenza in carcere) deponevano per il fatto che la carcerazione non era compatibile con la sua salute. La Procura aveva nominato altri consulenti che, invece, avevano affermato che poteva rimanere in carcere, anche perché quello di Pisa ospita un Centro clinico cardiologico di buon livello. Il giudice Marchiori, a sua volta, aveva nominato tre periti, che proprio entro il 13 ottobre avrebbero dovuto dire la loro e, sulla base delle conclusioni raggiunte dai tre medici, il magistrato avrebbe dovuto decidere sulla scarcerazione o meno. Il provvedimento del collega Scaramuzza, giunto dopo l’accordo con la Procura sul patteggiamento della pena, ha reso inutile la decisione, visto che ha dato la possibilità a Chisso di tornare a casa seppur agli arresti. L’avvocato Forza ha spiegato la decisione di patteggiare affermando che si è trattato di «una scelta dettata dagli imprescindibili motivi di salute di Chisso». Le accuse che sono rientrate nell’accordo non riguardano soltanto quelle mosse dai tre pm che indagano sulla corruzione da parte del Consorzio Venezia Nuova, ma anche il reato di abuso d’ufficio contestato dal pubblico ministero Giorgio Gava nell’ambito dell’indagine sulle discariche abusive nel Veneto che ha fatto scattare le manette ad uno dei collaboratori più stretti dell’ex assessore, il dirigente regionale Fabio Fior. Chisso deve rispondere di aver promosso l’approvazione da parte della giunta regionale di finanziamenti per circa un milione di euro per progetti che riguardavano le discariche abusive. Quei venti giorni aggiunti ai due anni e mezzo riguardano proprio questa indagine, che Chisso è riuscito a chiudere, almeno per quanto riguarda la sua posizione, ancor prima di qualsiasi richiesta di rinvio a giudizio. Ora, i pubblici ministeri starebbero trattando il patteggiamento del segretario di Chisso, Enzo Casarin.

 

SCANDALO MOSE – Galan patteggia, Paese senza speranze

Vorrei esprimere le mie riflessioni alla notizia del patteggiamento e conseguente scarcerazione di Giancarlo Galan. L’ex presidente della Regione ha ricevuto, secondo le accuse di Mazzacurati, un milione di euro all’anno per dieci anni. Grazie anche a questi soldi possiede una villa da sogno sui Colli Euganei, barche da crociera, terreni gasiferi in Indonesia, investimenti in Croazia, conti all’estero e altri beni intestati a prestanome. La Procura accetta il patteggiamento che gli permette di non fare più un giorno di carcere, oltre ai due mesi già scontati, e gli infligge una multa di 2,6 milioni di euro, cioè solo un quarto dell’illecitamente percepito. La stessa cosa si ripete con Chisso. Chiedo: perché un cittadino, in base a come si è conclusa questa vicenda di latrocinio, dovrebbe astenersi dal rubare, rapinare, rapire a scopo di riscatto? Poi un bel patteggiamento, e se ne sta a casa propria con i suoi libri, i suoi dischi, i suoi cani, i suoi familiari e i tre quarti del malloppo, alla faccia delle vittime che, nel caso di Galan, sono più di cinque milioni di Veneti. È forse perché noi cittadini siamo migliori dei nostri politici e amministratori? Non credo, altrimenti non li voteremmo. Mi viene da pensare che in questo Paese è tutto marcio e i giovani fanno bene ad emigrare all’estero, perché non c’è più speranza.

Roberto Coletti – Favaro

 

SCANDALO MOSE: IL GIP DECIDE SU CHISSO

Spaziante, sì della Procura. Patteggerà quattro anni

MILANO La Procura di Milano ha dato parere favorevole alla richiesta dell’ex generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante, arrestato lo scorso giugno per corruzione e imputato nel filone d’indagine milanese sul caso Mose, di patteggiare una pena di 4 anni di reclusione. Lo scorso 2 ottobre, infatti, Spaziante ha depositato in Procura un’istanza di patteggiamento e nei giorni scorsi i pm Luigi Orsi e Roberto Pellicano, coordinati dal procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, hanno dato l’ok alla richiesta dell’ex generale delle Fiamme Gialle, che si trova in carcere a Santa Maria Capua Vetere. Ora sull’istanza dovrà esprimersi il gip in un’udienza ancora da fissare. Il giudice dovrà decidere se ratificare o meno il patteggiamento di Spaziante e anche quello a 2 anni e 6 mesi concordato con i pm, a fine settembre, dall’ex ad di Palladio Finanziaria Roberto Meneguzzo. Nessuna proposta, invece, è arrivata da Marco Milanese, l’ex «braccio destro» di Giulio Tremonti, il quale invece, ritenendosi estraneo ai fatti contestati, ha deciso di affrontare il dibattimento che si aprirà davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano il prossimo 4 novembre. Al centro di questa tranche di indagine, trasmessa per competenza territoriale da Venezia a Milano, ci sono due episodi di corruzione. Nel primo, secondo l’accusa, Milanese sarebbe stato il destinatario di una mazzetta da 500mila euro che il Consorzio Venezia Nuova, allora presieduto da Giovanni Mazzacurati, gli avrebbe fatto avere attraverso Meneguzzo. Lo scopo della dazione era di far sì che nelle decisioni del Cipe entrasse la voce «Mose» per avere nuovi stanziamenti pubblici. Il secondo episodio contestato ha al centro un’altra presunta tangente da 500 mila euro, contro una promessa di 2,5 milioni, che sarebbe stata versata sempre da Mazzacurati e sempre tramite Meneguzzo, per corrompere Spaziante in merito a verifiche fiscali. Quanto a Renato Chisso, l’ex assessore regionale in carcere dal 4 giugno scorso, i difensori attendono per oggi la decisione del Gip sulla scarcerazione: il giudice ha esaminato la perizia del collegio composto da un medico legale, un cardiologo e un perito forense, che hanno visitato nei giorni scorsi Chisso nel carcere di Pisa. Il loro parere è determinante nella decisione del giudice Roberta Marchiori, chiamata ad esprimersi rispetto alla richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Il termine di carcerazione preventiva per l’ex assessore, altrimenti, scadrà solo ai primi di dicembre. Sull’inchiesta si scatena anche la polemica politica: la democratica Alessandra Moretti, sempre più vicina alla decisione di correre come governatore, pizzica il governatore Zaia che gongola per i sondaggi che lo danno in netto vantaggio: «Centro destra in Veneto avanti di dieci punti? Certamente sulle inchieste!» recita in un tweet.

 

L’accordo accusa-difesa su Galan ha aperto la via alla trattativa sull’ex assessore “tentato” anche l’ex braccio destro di Mazzacurati, ancora agli arresti domiciliari

L’onda dei patteggiamenti: dopo Chisso, in pista Sutto

VENEZIA – Sono arrivate ieri sul tavolo del giudice veneziano Roberta Marchiori le conclusioni cui sono giunti i suoi tre periti, un medico legale, un cardiologo e uno psichiatra forense, sul conto dell’ex assessore regionale Renato Chisso e, di conseguenza, la sua decisione sulla richiesta del difensore, l’avvocato Antonio Forza, sarà presa e resa nota nei prossimi giorni. Non è escluso, comunque, che la trattativa avviata venerdì tra il difensore dell’esponente di Forza Italia e il procuratore aggiunto Carlo Nordio per trovare l’accordo sulla pena da patteggiare possa concludersi prima che il giudice decida se il carcere è compatibile o meno con le condizioni di salute di Chisso. La conseguenza, quindi, sarebbe, come è accaduto per Giancarlo Galan, che anche lui potrebbe velocemente uscire dal carcere di Pisa e tornare nella sua casa di Mestre o essere ricoverato in un ospedale, comunque agli arresti domiciliari. L’accordo raggiunto tra i pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini da una parte e gli avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini per conto di Galan (due anni e 10 mesi e due milioni e 600 mila euro) potrebbe dare il via anche ad altri patteggiamenti oltre a quello di Chisso. C’è un altro indagato che potrebbe cercare l’accordo con l’accusa, è il braccio destro di Giovanni Mazzacurati al Consorzio Venezia Nuova, Federico Sutto, che si trova agli arresti domiciliari. Grande amico di Chisso e come lui per anni nel partito socialista di Gianni De Michelis – è stato anche sindaco di Zero Branco – prima di passare al movimento fondato da Silvio Berlusconi, è accusato di aver consegnato a destra e a manca numerose bustarelle per conto dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, ma nel suo interrogatorio – stando ai pubblici ministeri – avrebbe riferito soltanto una parte di ciò che sa e che ha combinato, evitando soprattutto di parlare di Chisso. L’accordo su Galan, che esclude qualsiasi ammissione di colpa come hanno più volte sottolineato i suoi difensori, potrebbe a questo punto aprire la strada anche al patteggiamento di Sutto. Se così fosse, i pubblici ministeri veneziani non avrebbero più nessuno per cui chiedere il rito immediato, ma dovrebbero limitarsi a depositare le carte dell’inchiesta per quella decina di indagati, tra cui l’ex sindaco Giorgio Orsoni e l’ex europarlamentare Lia Sartori, prima della richiesta di rinvio a giudizio.

Giorgio Cecchetti

 

La Corte dei Conti pronta a chiedere i danni erariali

C’ è anche la Corte dei Conti pronta a battere cassa da Giancarlo Galan, chiamato a staccare un assegno da 2,6 milioni di euro (che portrebbero diventare quasi 4 con le aliquote fiscali evase). L’ex ministro della Cultura rischia di dover risarcire anche il danno erariale procurato alla cosa pubblica: quello più rilevante riguarda i danni all’immagine della Regione e della città di Venezia, finite entrambe nella polvere con l’inchiesta sul Mose. I grandi sponsor non vogliono più affiancare il loro nome ai grandi simboli culturali, in primis La Fenice: l’orchestra del gran teatro si trova a corto di risorse anche perché le «maison» internazionali hanno dirottato altrove le risorsem dopo l’ennesimo scandalo in laguna. Il procuratore regionale della Corte dei Conti, Carmine Scarano, aveva già avviato la procedura per i danni erariali qualche mese fa e a fine settembre, al termine dell’udienza che ha approvato il bilancio della Regione, è tornato sulla vicenda: la Corte dei conti ha avviato la procedura per calcolare il danno all’immagine: che sia «immenso» non c’è dubbio, ora si tratta di quantificarlo.

 

«Pellegrinaggio» dei curiosi a villa Rodella

Villa Rodella alla pari di un’attrazione turistica. Il fenomeno si era già manifestato nelle settimane dell’arresto, ma da giovedì – giorno del rientro a casa dell’ex governatore – salta notevolmente agli occhi: non si contano le automobili che passano per via Dietromonte per curiosare dentro la proprietà di Giancarlo Galan, ai domiciliari nella sua villa Rodella di Cinto Euganeo. La tenuta sui Colli dell’ex Doge è diventata quasi meta di «pellegrinaggio»: le auto attraversano la via, che dal centro di Lozzo Atestino taglia per Cinto Euganeo e Rivadolmo, rallentano in prossimità del primo cancello della villa, si fermano davanti al corpo centrale del rustico e provano a buttare l’occhio nella speranza di vedere l’ex ministro. Che, perlomeno negli orari di piena luce, non si rivela e non esce in giardino, quasi sicuramente proprio per evitare gli sguardi dei curiosi. Mai, lungo questa strada secondaria, si era vista così tanta gente passare. Pare invece interrotta la processione di ciclisti infuriati, che davanti alle telecamere di giornalisti e tv sia giovedì che venerdì, tra una pedalata e l’altra, avevano gridato pesanti invettive all’ex governatore veneto.

(n.c.)

 

L’ex segretaria dell’allora governatore dal 1995 al 2000: «Ecco come gli imprenditori pagavano»

«L’omo grando» e le bustarelle

VENEZIA – Per cinque anni, dal 1995 al 2000, è stata al fianco di Giancarlo Galan a Palazzo Balbi, era a capo della sua segreteria e ne ha viste tante, poi l’hanno isolata e trasferita perché aveva lanciato l’allarme, riferendo allo stesso presidente della giunta regionale che alcuni imprenditori raccontavano di aver pagato tangenti a lui e ai suoi uomini, e perché si era rifiutata di ricevere e consegnare una busta che conteneva denaro. Ha fatto causa di lavoro alla Regione per demansionamento e ha scritto un libro nel 2008, «L’omo grando», in cui denunciava la corruzione. Fanny Lardjane, allora tra l’altro impegnata in politica (era presidente del Consiglio di quartiere del Lido per Forza Italia), ha cambiato lavoro e città e accetta di rispondere alle domande. Ha più risentito Galan prima o dopo il suo arresto? «Prima del suo arresto no, non ne volevo nemmeno sentire parlare. Poi gli ho scritto la prima lettera e lui mi ha risposto dal carcere. Se lei già sa probabilmente dagli inquirenti che ci siamo scritti non posso negare, comunque i contenuti delle lettere riguardano soltanto lui e me». Che pensa di quegli imprenditori che hanno negato di aver finanziato le sue campagne elettorali dopo che lui aveva rivelato i loro nomi? «Sono rimasta disgustata, so di certo di alcuni di loro, perché proprio loro me lo hanno riferito in confidenza, che hanno pagato. Uno ad esempio, un imprenditore trevigiano si era lamentato con me perché doveva consegnare 400 milioni di lire all’anno. C’era qualcun altro che chiedeva di inserire in Regione questo o quello, tra l’altro è accaduto anche con un giornalista». E con Chisso è rimasta in contatto? «All’epoca era un amico e l’ultima volta che ci siamo sentiti è stato poco dopo l’arresto di Claudia Minutillo e della notizia che stava parlando. Lui era molto preoccupato in quei giorni ed evidentemente ne aveva le sue ragioni. Io da subito gli avevo consigliato di dimettersi da assessore non tanto perché sapessi che aveva intascato tangenti, questo non posso proprio dirlo, ma per la sua responsabilità politica nell’intera vicenda. Lui, però, non mi ha ascoltato». Hanno mai cercato di avvicinarla, di contattarla, dopo che era stata trasferita e isolata? «Nel giugno 2000 mi hanno messo in condizioni di non lavorare più in Regione, non avevo più un ufficio, una scrivania e nel dicembre dello stesso anno, mi ricordo, un imprenditore di Chioggia mi ha dato appuntamento all’hotel Sofitel e mi ha spiegato che gli avevano detto di offrirmi 500 milioni di lire, allora c’erano ancora quelle, perché io tacessi, io l’ho anche raccontato ad un magistrato che mi ha sentito e lui ha interrogato quell’imprenditore, che naturalmente ha negato». Ma che pensa dell’inchiesta della Procura veneziana? «Finalmente, era ora. Comunque Galan non deve diventare il capro espiatorio perché se un politico ruba e incassa tangenti non riesce a farlo senza il sostegno e l’omertà dell’apparato amministrativo. Comunque, credo che questo sistema continuerà anche dopo l’inchiesta su Galan e il Mose di Venezia».

Giorgio Cecchetti

 

IL FASCICOLO DEL TRIBUNALE DEI MINISTRI

Fanta-progetto milionario nelle carte contro Matteoli

VENEZIA «Thetis, su incarico del Consorzio (Venezia Nuova) paga questi 7 milioni e mezzo, pensando che poi i lavori sarebbero scaturiti dopo questo progetto. Progetto che, essendo carta colorata, non si è mai tradotto in lavori». Così Piergiorgio Baita, ex presidente Mantovani: riservano sempre nuove sorprese sui mille rivoli del sistema Tangenti Mose le migliaia di pagine di interrogatori dell’inchiesta. L’ultima perla – milioni per un progetto di “carta colorata” – si legge nelle 200 pagine che il Tribunale dei Ministri e la Procura di Venezia hanno inviato in Parlamento, per chiedere l’autorizzazione indagare sull’ex ministro Altero Matteoli – che respinge con forza ogni addebito – accusato di aver intascato tangenti dal Consorzio Venezia Nuova in cambio di fondi e di aver fatto pressioni per far lavorare alcune imprese, che in realtà hanno solo fatto cassa. Come quella del suo sodale di An Erasmo Cinque (48 milioni nella partita bonifiche Porto Marghera per la sua azienda, senza di fatto alcun cantiere è l’accusa) e la Teseco. Tra bisticci e ripicche. Racconta Baita: «Poi Matteoli non è più ministro dell’Ambiente, ma delle lnfrastrutture e deve aver litigato con Erasmo Cinque, perché presenta un altro signore, un certo Gualtiero Masini (….) che si propone di fare un progetto – che a proposito di cartiere (fabbriche di fatture false, ndr) è veramente un capolavoro! – di impianto di lavaggio terra a Marghera: un progetto, un fascicolo colorato, incarico che dà a Thetis, del valore di circa 8 milioni di euro». Che Thetis – società con soci Actv e poi nomi dell’inchiesta: Adria infrastrutture, Condotte, Mantovani, Mazzacurati, Coveco, Cvn – paga. Ma non se ne fa nulla. Conferma anche l’ex ad, poi assessore comunale, Antonio Paruzzolo: «Nel maggio 2002, Mazzacurati mi riferì che era stato deliberato l’avvio di un progetto di bonifica di terre inquinate nel quale Thetis avrebbe avuto un ruolo importante. Thetis fu invitata da Mazzacurati a mettersi in contatto con Gualtiero Masini della Teseco per elaborare il programma relativo a tale progetto (… omissis…) Il 2 luglio del 2002 mi arrivò una telefonata di Mazzacurati: mi riferì che l’intero progetto era già stato concordato con le istituzioni preposte, tra cui Magistrato alle Acque e ministero dell’Ambiente e doveva assolutamente procedere nei modi in cui era stato stabilito, cosa che io assolutamente non condividevo. In pratica, mi impose di non far eseguire il progetto alla Thetis ma di passarlo in toto alla Teseco (…). Percepii che Mazzacurati era in forte difficoltà e non avrebbe potuto agire diversamente in quanto fu l ‘unica circostanza in cui mi “impose” qualcosa contro la mia volontà. Accettai forse anche perché emotivamente provato dal un lutto». Storia di 7 milioni di “carta colorata”.

Roberta De Rossi

 

De Menech e la Moretti contro il governatore della Lega: «È stato il vice di Galan dal 2005 al 2008»

Il Pd: crolla il centrodestra di Zaia

VENEZIA «Stiamo assistendo al crollo del sistema di potere del centrodestra. Mi pare difficile che Zaia possa chiamarsi fuori, almeno politicamente ha delle responsabilità». Lo sostiene il segretario veneto del Pd, Roger De Menech, che torna a infuocare la polemica, dopo la clamorosa decisione dell’onorevole Giancarlo Galan (Forza Italia) di scendere a patti con la giustizia. Zaia ha sempre affermato che la Lega è l’unico partito estraneo completamente all’inchiesta e ma il Pd va all’attacco. «L’ex presidente della giunta regionale Galan che patteggia 2 anni e 10 mesi e deve restituire oltre 2,6 milioni di euro allo Stato, un assessore in carcere, un consigliere di maggioranza indagato, diversi tra i massimi dirigenti regionali indagati per reati gravissimi, i responsabili delle imprese che hanno vinto tutti i grandi appalti regionali in carcere, agli arresti domiciliari o indagati. Se questo è il lascito della giunta Zaia è meglio voltare pagina velocemente. Da 20 anni il centrodestra è a capo della Regione» aggiunge Roger De Menech, «ma Zaia finge di essere all’oscuro di quanto è accaduto. Eppure è stato il vice di Galan dal 2005 al 2008, Zaia ha nominato l’assessore Chisso nel 2010 e ha lavorato al suo fianco ogni giorno per oltre quattro anni. Non intendo dare giudizi, quelli spettano ai giudici. Però dico che ci sono responsabilità politiche a cui il presidente di una delle più importanti regioni italiane non può e non deve sottrarsi» continua il deputato e segretaruio regionale del Pd. «Perché da qualsiasi parte la si guardi, questa vicenda fa acqua: o Zaia ha perpetrato il sistema di potere costruito da Galan, oppure non è stato capace di cogliere i segnali deboli che pure arrivavano. Le indagini su molti uffici regionali si susseguono infatti da anni e sono state segnate da arresti eccellenti. Cosa è stato fatto per prevenire corruzione, malversazione, peculato e abuso di ufficio, i principali reati contestati agli indagati? A leggere le cronache giudiziarie sembra davvero molto poco e di questo i cittadini veneti chiedono e chiederanno conto», conclude De Menech. Nei giorni scorsi per commentare l’ultima inchiesta su politica e malaffare in Veneto che ha coinvolto anche Fabio Fior, un funzionario della Regione, e i due ex assessori Chisso e Conta, aveva preso posizione con un tweet anche l’eurodeputata Pd Alessandra Moretti: «Valanga di inchieste alla Regione Veneto. Zaia risponda: non vede, non sente, non parla. Ma lo sa di essere Governatore?» scrive nel suo teewt la Moretti, della segreteria del Pd, indicata come la candidata più autorevole nella sfida del 2015 al governatore della Lega.

(r.r.)

 

Gazzettino – Mose, la Procura punta sulle confische

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12

ott

2014

VENEZIA La strategia dei magistrati che conducono l’inchiesta più scottante degli ultimi vent’anni

Mose, la Procura punta sulle confische

Più che le pene detentive, ai Pm interessano i 12 milioni che gli indagati sborseranno

È la confisca dei patrimoni personali, ancor più del carcere, la sanzione che preoccupa chi finisce sotto inchiesta. Accade nelle inchieste per droga, così come in quella per corruzione o reati fiscali. Gli inquirenti se ne stanno rendendo conto ogni giorno di più e, di conseguenza, l’azione di costrasto agli illeciti si concentra in maniera crescente – grazie ai nuovi strumenti normativi a disposizione – sul fronte economico-finanziario con risultati apprezzabili, come dimostrano i 12 milioni di euro che saranno complessivamente confiscati a tutti gli indagati che hanno chiesto di patteggiare nell’inchiesta sul “sistema Mose”.
Contro l’ex presidente della Regione, Giancarlo Galan e gli altri co-indagati, i pm Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini hanno applicato la disciplina del sequestro (e confisca) per equivalente, che prevede di poter sottrarre somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente ai cosiddetti prezzo, prodotto e profitto del reato, con l’obiettivo di impedire che l’impiego economico dei beni di provenienza delittuosa possa consentire al colpevole di garantirsi il vantaggio che era oggetto specifico del disegno criminoso. Il sequestro per equivalente può essere applicato, tra gli altri, per reati di corruzione, usura, truffa aggravata, ma anche nel caso di reati tributari. E perfino nei confronti delle società a patto che i beni siano direttamente riconducibili al profitto del reato.
L’altro strumento normativi utilizzato sempre più di frequente è quello delle misure di prevenzione (anche patrimoniali) che, grazie al decreto 159 del 2011, possono essere applicate anche al di fuori delle indagini di mafia. In sostanza i magistrati possono chiedere e ottenere il sequestro, e la successiva confisca, dei beni il cui valore risulti sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta dalla persona sotto inchiesta, oppure quando, «sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego».
La sola Procura di Venezia nel 2014 ha attivato ben 24 procedure di questo tipo, alcune delle quali si sono già concluse con provvedimenti di confisca, come nel caso dei titolari di una società finita sotto accusa per traffico di rifiuti. Il magistrato delegato ad occuparsi delle misure di prevenzione in laguna è il sostituto procuratore Walter Ignazitto, che ha acquisito una grande esperienza sul campo a Messina, in Sicilia, dove si è occupato a lungo di procedimenti di mafia.
I provvedimenti di prevenzione patrimoniale possono essere assunti a prescindere dall’esistenza di una condanna penale: il tribunale può disporre «la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza… nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego», recita la norma. È sufficiente dimostrare che il valore di quei beni è sproprozionato al proprio reddito: non è difficile capire perché i criminali iniziano a preoccuparsi.

 

GALAN IN GALERA, NON IN VILLA

E’ uno scandalo che Galan e compagni se la cavino con patteggiamenti che li terranno al sicuro nelle loro ville a godere di ciò che hanno rubato al Popolo italiano. Meriterebbero pene da bande organizzate quali erano. Minimo 12 anni di galera e sequestro di tutti i beni.

Alberto Zennaro – Rovigo

 

TANGENTI ITALIA FONDATA SULLA CORRUZIONE

Come possiamo combattere e contrastare la mafia, la camorra, la n’drangheta, la sacra corona unita e altre cosche e comitati d’affari sporchi quando quasi tutto il sistema politico è corrotto e praticante la tangente e la cooptazione? Gli ultimi fatti successi in Veneto ne sono la prova lampante. Partono tutti puri e incendiari a parole e finiscono pompieri corrotti, e qualcuno pure in galera. Nel sud quando uno chiede qualcosa alle cosche di solito viene esaudito. Qui al nord uno chiede qualcosa alle istituzioni la risposta in tempi di crisi è nulla o insufficiente, e talvolta accompagnata da indifferenza e silenzio. Quanti suicidi ancora? E poi i politici dicono che siamo qualunquisti e si arrabbiano se non andiamo a votare! Certamente se va avanti così il senso dello stato di noi Italiani va a farsi friggere. Come mai invece in molte altre Nazioni straniere e in America è alto il senso della Patria? Bisogna cominciare con due mandati e poi uno deve lasciare il posto ad altri. La politica se fatta bene logora. Tutti utili ma nessuno indispensabile. Basta gerontocrazia. Basta le solite facce dei “professionisti pret-a-porter” della politica, che passando da uno schieramento all’altro straparlano e scaldano lo scranno e si fanno solo i loro cavolacci. Istituiamo la pagella per i politici, se i voti e i risultati non sono buoni o insufficienti, via a casa. Quando rubano inficiano anche quello di buono che hanno fatto, vedi Passante ed altre opere. Alla fine la gente si ricorda di loro per la loro scandalosa condotta e non per le cose belle che hanno fatto. E nessuno ha mai nostalgia quando se ne vanno. Speriamo cambi, alcuni segnali di novità ci sono.

Jeff Carosella – Dolo (Ve)

 

 

Nuova Venezia – Galan blindato in villa, insulti dai passanti

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11

ott

2014

Lungo incontro tra il procuratore Nordio e l’avvocato dell’ex assessore regionale

Galan: la multa da 2,6 milioni destinata a sfiorare i 4 milioni perché sarà tassata

Ora anche Chisso cede e tratta con la Procura

IL LEGALE FRANCHINI «Ha bisogno di cure urgenti e non poteva restare in carcere Dopo l’udienza del 16 richiesta di affidamento ai servizi sociali»

VENEZIA – Il commercialista padovano Paolo Venuti, almeno, qualcosa ha raccontato prima di raggiungere l’accordo con la Procura per patteggiare la pena (due anni e 4 mesi di reclusione e 70 mila euro di multa). Ha ammesso di aver fatto da prestanome all’ex ministro Giancarlo Galan per alcune operazioni finanziarie, quello che gli investigatori già sapevano grazie ad una microspia che aveva catturato una conversazione in auto tra il professionista e la moglie che parlavano dei conti a loro intestati ma in realtà di proprietà dell’esponente di Forza Italia e della moglie. Venuti, ai pm Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini, ha aggiunto pure che a sollecitare queste operazioni di copertura a favore di Galan sarebbe stato Piergiorgio Baita, all’epoca presidente della «Mantovani». Galan, invece, non ha detto una parola, anzi i suoi difensori, gli avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini continuano a ribadire che il loro cliente è innocente e che la scelta dell’accordo con la Procura per due anni e 10 mesi di reclusione e due milioni e 600 mila euro di multa (ma secondo fonti autorevoli l’importo è destinato ad avvicinarsi ai 4 milioni tenendo conto dell’imposizione fiscale) è dettata dalla ricerca di una sorta di «patteggiamento umanitario»: Galan ha numerose patologie e proprio per questo è finito nel carcere-ospedale milanese di Opera, anche la figlia minorenne ha bisogno di cure. Il suo nome è finito nella lista di coloro che hanno raggiunto l’accordo con i rappresentanti dell’accusa, sono 19 e i loro avvocati si presenteranno il 16 ottobre davanti al giudice veneziano Giuliana Galasso, che dovrà dire se le pene su cui c’è l’accordo siano congrue o meno. Galan, ma neppure gli altri indagati, saranno presenti. «Sicuramente chiederemo l’affidamento ai servizi sociali» ha dichiarato ieri l’avvocato Franchini. I due anni e 10 mesi, infatti, superano abbondantemente il limite per il quale scatta la sospensione condizionale della pena, ma nessuno, da tempo, finisce in carcere se ha una condanna sotto i tre anni da scontare, anche a causa del sovraffollamento. Per la prossima settimana, fino a giovedì, non è prevedibile nessun cambio della misura degli arresti domiciliari. «Valuteremo se aspettare la scadenza dei termini (il 21 ottobre) e presentare richiesta quando il provvedimento diventerà definitivo, o se impugnare subito in Cassazione. Lo decideremo più avanti» ha sostenuto il legale. E se il giudice dovesse rifiutare il patteggiamento? «In tal caso Galan», ha concluso Franchini, «sarà ben lieto di affrontare il processo». Ieri, intanto, il difensore di Renato Chisso è stato a lungo nell’ufficio del procuratore aggiunto Carlo Nordio. L’avvocato Antonio Forza, che punta sempre alla liberazione dell’ex assessore regionale per motivi di salute (la decisione spetta al giudice Roberta Marchiori che la farà conoscere entro il 13 ottobre), non ha rilasciato dichiarazioni come del resto il magistrato. È evidente che, dopo la decisione di Galan, anche Chisso e il suo legale pensano ad un cambio di strategia difensiva e avrebbero già avviato la trattativa con la Procura per cercare un accordo per una pena probabilmente di poco inferiore a quella di Galan per quanto riguarda la reclusione e molto più bassa, invece, per quanto riguarda la multa.

Giorgio Cecchetti

 

Ivano Nelson Salvarani, il pm che inquisì Bernini e De Michelis

«L’accordo accusa-difesa spegne il processo, non è giusto»

«Patteggiamenti troppo generosi. Io avrei detto no»

L’INTESA SULLA PENA – Al posto della Procura non darei il mio parere positivo, l’opinione pubblica ha diritto ad assistere al dibattimento

VENEZIA – È stato pretore e giudice del lavoro, pubblico ministero e presidente del Tribunale, procuratore capo e presidente di Corte d’Assise. Ivano Nelson Salvarani, il magistrato che nel 1992 inquisì il Doge democristiano Carlo Bernini e quello socialista Gianni De Michelis adesso è un elegante e lucido signore di 75 anni, che ha lasciato la magistratura in anticipo dopo che il Csm gli preferì – d’un solo voto – Luigi Delpino a capo della Procura di Venezia. Cosa pensa dell’inchiesta sul Mose di Venezia? «Penso, anche alla luce della mia esperienza passata, che non mi ha sorpreso per nulla. Sospettavo che le cose non fossero cambiate poi tanto, rispetto ai miei tempi. Sulla Regione si avvertiva da tempo una vox populi. Nel Mose la concessione unica e l’identità delle imprese faceva pensare a meccanismi di scarsa trasparenza» Il sistema Galan è durato quindici anni e solo ora viene svelato: non c’è stato un certo ritardo anche delle Procure? «Non credo, per istruire un processo ci vogliono buone prove e ottimi riscontri. Le indagini devono essere rigorose. Fino a quando la magistratura non ha avuto contezza di prove e riscontri si è mossa con doverosa cautela. Sono stati molto bravi soprattutto a ricostruire le tracce del denaro, a partire dal giro di fatture false tra imprese». All’epoca non c’erano gli strumenti investigativi odierni? «Le intercettazioni c’erano anche allora. La mia inchiesta si avvicinò al Consorzio Venezia Nuova, che aveva tuttavia una composizione diversa. Dell’epoca ricordo Mazzacurati ma c’era una più equilibrata ripartizione di quote tra le imprese. E anche allora c’erano anche le coop rosse». Ricorda Piergiorgio Baita? «C’era, c’era: lo ricordo abile, astuto e spregiudicato. Ottenni il suo rinvio a giudizio, anche all’epoca raccontò i meccanismi del Consorzio Venezia Nuova e del Consorzio Venezia Disinquinamento, elementi di un patto tra Dc e Psi». Dica la verità: qual è il suo stato d’animo? «Sconforto, non c’è dubbio. Ritrovare in parte gli stessi protagonisti, rivedere nei politici di oggi gli stessi atteggiamenti che ebbero all’epoca quelli di Dc e Psi non fa che salire lo sconforto. Ma allora tutti i processi si celebrarono: e i principali indagati furono condannati a pene superiori a 4 anni in primo grado. Solo in Appello scelsero il patteggiamento». Le difese sostengono che patteggiare non è un’ammissione di colpa. «Tecnicamente non è una condanna, difesa e accusa concordano una pena da scontare. Ma un imputato che patteggia non può essere considerato innocente. Vedere politici che prima gridano alla congiura e poi patteggiano fa sorridere, se non ci fosse da indignarsi». L’ondata di indignazione è legittima da parte dell’opinione pubblica? «Legittima e giustificata, assolutamente» Cosa pensa dello strumento del patteggiamento in primo grado? «Personalmente sarei sempre molto cauto nell’accettare il patteggiamento, se fossi il pm non darei il mio parere positivo. Soprattutto nel caso di figure che abbiano ricoperto ruoli pubblici di grande responsabilità. La finalità dell’accusa è soprattutto acquisire la verità, dentro a un giusto processo. Con il patteggiamento muore il processo, si occulta all’opinione pubblica il confronto tra accusa e difesa. Io penso che vada usato con grande, grandissima parsimonia». Mai tentato dalla politica? «Mi chiesero di fare il sindaco di Venezia, nel 1993. Ma dissi di no: non volevo che si pensasse neanche per un attimo che avevo condotto un’inchiesta sui politici per un tornaconto personale. Sono felice di aver rifiutato». Come se ne esce ? «Non lo so. Ci sono responsabilità molto grandi della politica, che non ha mai voluto fare i conti con l’illegalità che essa stessa ha espresso. I politici devono essere i garanti della legalità, non possono mai essere sfiorati nemmeno dal dubbio di una opacità».

Daniele Ferrazza

 

Nel primo giorno ai domiciliari il parlamentare è rimasto invisibile. La moglie Sandra ai giornalisti: non possiamo dire nulla

Galan blindato in villa, insulti dai passanti

CINTO EUGANEO – Primo giorno da recluso in casa per Giancarlo Galan, l’ex governatore del Veneto costretto agli arresti domiciliari da giovedì pomeriggio. La sontuosa Villa Rodella, nel cuore dei Colli Euganei, non è certo il carcere di Opera e dopo ottanta giorni di cella il balzo di qualità è notevole. Nel primo giorno passato tra le mura amiche, tuttavia, Galan ha evitato di mettere il naso fuori di casa – circostanza che peraltro gli è permessa visto che i domiciliari comprendono l’intera proprietà, giardino incluso – forse per evitare i flash dei fotografi o le domande a distanza dei giornalisti. «Non c’è nessuno, grazie»: all’ora di pranzo ha risposto così Sandra Persegato, la moglie dell’ex ministro, a chi ha suonato ad uno dei tre citofoni della villa. Il suo tono irritato della donna si è tuttavia placato qualche minuto dopo, quando ha deciso di uscire di casa per gentile, breve e chiara comunicazione: «Comprendiamo che questo è il vostro lavoro, ma non possiamo dire nulla. Arrivederci». Sandra indossa un vestitino a fiori a tinte scure e – per quel poco che si rivela al pubblico – pare avere il volto segnato dal pianto. Sarà impressione, ma è certo che il can-can degli ultimi tre mesi ha segnato l’intera la famiglia che vive assieme al parlamentare. Attorno a Villa Rodella, per il resto, c’è l’ordinaria tranquillità di un giovedì euganeo: i cani zompettano nel cortile e nei viali ricchi di rose – le stesse che, in una seduta di giardinaggio, sono costate l’infortunio al ginocchio all’ex Doge, lo scorso luglio – mentre dalla pertinenza dell’abitazione si sentono i cinguettii dei tanti uccellini ospitati nelle voliere della villa. All’esterno c’è anche un pappagallo, il più “attivo” degli animali di casa Galan, che con grande “disponibilità” si intrattiene con giornalisti e passanti. Dall’altra parte della strada, lungo la pista ciclopedonale che costeggia il Bisatto, continua inoltre il via vai di ciclisti, una categoria che si dimostra estremamente ostile verso l’ex governatore: i «Ladro! Ladro!» si sono sprecati anche ieri, e c’è anche chi si è avventurato in invettive ben più complesse, come il ciclista che si ferma e in un dialetto comprensibile anche ai non autoctoni, urla: «Maledetto! Ghe xe fameje che non gà la ciopa de pan in te la tola e ti te sì beato in casa». Tra i visitatori di Villa Rodella, costante la presenza dei carabinieri di Lozzo Atestino che, oltre a monitorare la situazione, sono entrati ed usciti a più riprese dall’abitazione dell’ex ministro.

Nicola Cesaro

 

La cricca delle discariche

Corte dei conti contesta a Fior un danno di 600 mila euro

VENEZIA – Seicentomila euro. Tanto il procuratore aggiunto della Corte dei Conti Giancarlo Di Maio contesta come danno erariale a Fabio Fior, il dirigente della Regione Veneto da martedì agli arresti domiciliari con l’accusa di peculato e falso, per essere stato al centro di un traffico milionario: referente del delicato settore Rifiuti della Regione, insieme ad imprenditori come Sebastiano Strano e Maria Dei Svaldi, si sarebbe appropriato di circa un milione di euro – secondo l’accusa mossa dal pm Giorgio Gava – controllando come dirigente pubblico fondi per progetti che poi come privato incassava attraverso società del settore come Sicea, Zem, Nec, Marte, Eco Environment, tramite prestanome. Da parte sua, la Corte dei Conti si era già mossa all’inizio dell’anno su un altro filone: quello delle consulenze private non autorizzate, ma lautamente pagate, che Fior per anni ha eseguito, talvolta senza la necessaria autorizzazione della Regione Veneto, anche per aziende dello stesso settore rifiuti di sua competenza come funzionario pubblico. Una decina i casi finiti nel fascicolo d’inchiesta della Corte dei Conti, con il procuratore aggiunto Di Maio che nei giorni scorsi ha inviato a Fior il cosiddetto “invito” a controdedurre: ovvero, la notifica delle accuse erariali mosse al dirigente regionale, perché nomini un avvocato e si difenda. Seicentomila euro è, appunto, l’ammontare delle parcelle contestate a Fior, per un’attività di consulenza poco limpida in violazione dell’articolo 53 comma 7 e 8, del decreto legge 165/2001, che impone al dipendente pubblico di avere l’autorizzazione del proprio ente di appartenenza per effettuare attività professionale privata. Permessi che talvolta otteneva, in altri caso no, per consulenze iniziate nel 1998 e concluse (nei pagamenti) sino ad anni recenti, sia per privati che per enti pubblici. Il perché è ovvio: non trovarsi in conflitto di interesse con i propri uffici pubblici. Fascicolo contabile nel quale ora confluiranno anche gli atti della nuova inchiesta penale, nella quale il pm Gava contesta anche consulenze non autorizzate: in caso di condanna penale , la Corte dei Conti potrebbe inoltre contestare al dirigente anche il danno all’immagine procurato all’ente.

Roberta De Rossi

 

I FUOCHI D’ARTIFICIO DI GALAN

Ha sempre prosperato sul «clamore mediatico», ora ne ha paura

I fuochi d’artificio dell’ex governatore

C’è da fare un salto sulla sedia a leggere quello che gli austeri avvocati Nicolò Ghedini e Antonio Franchini hanno scritto nell’istanza di patteggiamento presentata in procura per Giancarlo Galan. Si tratta di noti professionisti del foro, non di autori di canovacci per commedie venete. Dunque non è una barzelletta: Giancarlo Galan ha chiesto il patteggiamento perché non vuole il processo.E non vuole il processo perché «significherebbe affrontare un dibattimento estremamente lungo, complesso e accompagnato costantemente da eccezionale clamore mediatico». Da stropicciarsi gli occhi, bisogna rileggere: «Accompagnato costantemente da eccezionale clamore mediatico». Allora è proprio vero che il carcere cambia le persone. E non occorre neanche starci una vita, bastano 80 giorni in infermeria. Un politico che ha costruito tutta la sua carriera sul clamore mediatico, d’improvviso non vuole più saperne. Ne ha addirittura paura. Da non credere. Chi riconosce più il Galan che nell’anno Duemila terrorizzava l’Italia con la sua proposta di statuto per la Regione Veneto destinata a trattenere due terzi delle tasse a Venezia e a darne uno solo a Roma? È vero che non è mai stata approvata ma che bisogno c’era: bastava sfruttare il clamore mediatico. E che clamore: il ministro per gli affari regionali Agazio Loiero abboccava al primo colpo e sentiva arrivare dal Veneto «un tintinnio di spade come nella ex Jugoslavia»; Bruno Vespa lo invitava a Porta a Porta per farsi spiegare la rava e la fava della rivoluzione in arrivo; e lui in groppa al cavallo da corsa scippato alla Lega, erudiva il Paese cercando di tranquillizzare, ma non troppo, i benpensanti. Per non parlare del clamore mediatico portato a casa con il baruffone, tenuto in piedi per settimane, con l’allora presidente della Repubblica Scalfaro. O con l’ex presidente Ciampi, prima rispettato e poi irriso. «Se esiste un reato di vilipendio di ex presidente della Repubblica, io lo commetto», andava ripetendo allegramente nel 2007. Tutto perché Ciampi votava con il centrosinistra. Sparare sul bersaglio più alto, ma solo quando Berlusconi era all’opposizione e dimenticarsene subito dopo, è stato lo sport preferito di Giancarlo Galan per una vita. Creare il nemico, anche se non esisteva. Metterlo nel mirino, scatenare la rissa e camparci sopra. La tattica di Capo in Italia, trapiantata nel Veneto e riproposta tutti i santi giorni. Sempre i fuochi d’artificio, in cerca del clamore mediatico che gli regalasse campagne pubblicitarie gratis. Il ministro Bassanini si doveva vergognare. Se passava la candidatura di Torino per le Olimpiadi invernali avrebbe venduto le auto Fiat della Regione Veneto e comprato tutte Mercedes. «Panto il falegname» somministrava ai veneti una «prodaglia» per far perdere Berlusconi. Prodi dirigeva «il governicchio del droghiere» quando era contrario al Mose. Massimo Cacciari era «il sindaco menagramo» e gli ambientalisti «i professionisti della bugia politica» perché si mettevano di traverso all’approvazione del progetto definitivo in Commissione di Salvaguardia. Tutto rilanciato dalle agenzie, un martellamento spaccatimpani, una definizione bruciante al giorno, evitando tutte le volte di entrare nel merito. Sempre e solo clamore mediatico. Quanto sarebbe costato un ritorno pubblicitario del genere valutato con il prezzario di un inserzionista? Gli toccava vendere Villa Rodella prima del tempo. I veneti dopati da vent’anni di questo trattamento, assistono sconcertati alla metamorfosi: adesso basta con il clamore mediatico? Ma dài, non è possibile. Gatta ci cova. Prepariamoci.

Renzo Mazzaro

 

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