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Nuova Venezia – Mose, Chisso resta in carcere

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26

set

2014

La Cassazione dice no al ricorso presentato dall’ex assessore

Mose, Chisso resta in carcere

Prove e indizi troppo pesanti e gravi per l’ex assessore ai trasporti Renato Chisso, in carcere a Pisa nell’ambito delle mazzette del sistema Mose. La Cassazione ha negato sia la libertà che in subordine i domiciliari.

L’Alta Corte: indizi gravi, tali da confermare la necessità della detenzione in carcere

Stato di salute di Galan: per i medici sta meglio, ma occorre tenerlo sotto controllo

Chisso: no della Cassazione per la richiesta di libertà

VENEZIA – L’ex assessore regionale Renato Chisso resta nel carcere di Pisa. Dopo il giudice delle indagini preliminari di Venezia, dopo i tre magistrati lagunari del Tribunale del riesame, anche la Corte di Cassazione a Roma ha confermato che prove e indizi sono gravi e tali da ritenere che debba rimanere in stato di detenzione. All’esponente di Forza Italia e al suo difensore, l’avvocato Antonio Forza, non resta che sperare nei tre medici che il giudice Roberta Marchiori ha nominato e che lo visiteranno domenica 28 settembre per appurare se le sue condizioni di salute siano compatibili o meno con il carcere. Nel frattempo, è giunta negli uffici della Procura veneziana, la risposta dei medici che nel carcere-ospedale milanese di Opera hanno in cura l’ex ministro Giancarlo Galan, come Chisso accusato di vari episodi di corruzione nell’ambito dell’inchiesta sul Mose. I pubblici ministeri Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini avevano chiesto notizie sulle sue condizioni di salute per decidere se trasferirlo in un carcere veneto, Padova o Venezia. I medici milanesi, nella loro lettera, sosterrebbero che le condizioni di Galan sono migliorate, ma che naturalmente soffre ancora di diabete e di pressione alta e così, visto che ad Opera ci sono posti letto liberi, non ci sarebbe la necessità di trasferirlo, meglio sarebbe tenerlo sotto controllo. I rappresentanti della Procura che coordinano le indagini sono rimasti davvero stupiti delle affermazioni fatte da uno dei difensori di Galan, il quale ha parlato di autorizzazione ad espatriare data dalla Procura, riferendosi a Giovanni Mazzacurati, che si trova negli Usa. Si sono dichiarati stupiti di come si potesse impedire a un libero cittadino, anche se indagato, di raggiungere i propri familiari anche in un altro paese o, comunque, impedirgli di scegliere il luogo dove curarsi, «alla faccia del garantismo sempre propugnato dalle Camere penali». Gli avvocati Antonio Franchini e Nicolò Ghedini hanno presentato un’istanza di incidente probatorio per interrogare il grande accusatore di Galan, in modo che a rivolgergli le domande e ad ascoltare le risposte possano essere anche loro. Il difensore di Mazzacurati, l’avvocato Giovanni Battista Muscari Tomaioli, sostiene che questo sarebbe impossibile per le condizioni di salute dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, Comunque, sull’ istanza deciderà il giudice Alberto Scaramuzza tra una settimana, quando rientrerà dalle ferie, lo stesso magistrato che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare. Già una prima istanza di incidente probatorio per Mazzacurati è stata respinta dal Tribunale dei ministri del Veneto, che invece ha incaricato di interrogare l’ingegnere un giudice federale della California per rogatoria, senza la presenza delle parti, ma del solo difensore dell’anziano. Ad avanzare l’istanza in quel caso erano stati i difensori dell’ex ministro e attuale senatore di Forza Italia Altero Matteoli, anche lui sospettato di corruzione e accusato da Mazzacurati.

Giorgio Cecchetti

 

Nel mirino le finanziarie Veneto Sviluppo e Finest, i cui deficit sono stati ripianati con fondi pubblici

I magistrati contabili: tagliare i costi ed eliminare gli sprechi, no a ulteriori aumenti di capitale

Regione, il bilancio è promosso ma accuse sulle 23 partecipate

VENEZIA – La Corte dei conti promuove a pieni voti il bilancio 2013 del Veneto, «una regione seria», ma formula pesanti riserve sulla gestione delle 23 società partecipate e sui contratti dei derivati legati ai tassi dei mutui, una palla al piede che costa 42 milioni di euro alle casse di palazzo Balbi. Il messaggio è chiaro: pure Luca Zaia a Venezia dovrà usare le forbici per collaborare alla spending review del Governo, che intende recuperare 20 miliardi di euro grazie alla soppressione delle ottomila società partecipate e ai tagli lineari a sanità e ministeri. In Veneto le poltrone che ballano sono appena 23, ma ieri il procuratore generale della Corte dei Conti, Carmine Scarano, ha sollevato più di un interrogativo: «Alquanto sorprendenti appaiono veri e propri rovesciamenti come nel caso di Veneto Sviluppo passato da un deficit di 8 milioni nel 2012 ad attivo di 6,7 nel 2013. E lo stesso vale per Finest Spa i cui conti oscillano da una perdita di 10 milioni nel 2013 ad un utile di 4 milioni l’anno successivo». Non solo critiche. Anzi. Nella cerimonia in prefettura a Venezia, sia le conclusioni del magistrato Giampiero Pizziconi sulla legittimità e regolarità della gestione, sia la requisitoria del Procuratore regionale, Carmine Scarano, hanno sottolineato le complicazioni nel redigere un bilancio a causa delle continue modifiche normative e dell’incertezza sulle reali risorse disponibili. Va posta maggior attenzione al rispetto dei tempi di approvazione del bilancio e va fatta chiarezza sull’utilizzo dei «mutui a pareggio». Ma dalle relazioni emerge pure che la Regione ha rispettato i vincoli per il conseguimento degli equilibri di cassa e di competenza, quelli del Patto di stabilità e i limiti normativi all’indebitamento. L’altro dato assolutamente positivo è la diminuzione progressiva delle spese del personale e una crescita delle Usl che chiudono con un utile. I dipendenti diretti della Regione costano 132 milioni di euro, con una flessione del 2,85% sul 2012 che diventa del 5%sul 2011. Da record anche il rapporto 1 dirigente ogni 11,8 dipendenti, poi arrivano le noti dolenti: la legge impone che al rendiconto finanziario sia allegato l’ultimo bilancio approvato da ciascuna società partecipata dalla Regione e l’obbligo non è stato rispettato, scrive Giampiero Pizziconi nella sua relazione. I rilievi del Procuratore della Corte dei Conti si muovono in perfetta sintonia con il giudizio della Sezione regionale di controllo, per poi lanciare l’allarme sulle società partecipate: la pulizia dei conti è un fatto positivo ma ciò «deve avvenire con l’apporto di sani correttivi quali ristrutturazioni, eliminazione di sprechi, cessioni patrimoniali e taglio dei costi. Pratiche simili richiedono tempi non brevi e ribaltamenti di risultati come quelli registrati da Veneto Sviluppo e Finest difficilmente possono essere ottenuti in un anno. C’è il rischio che il ripiano delle perdite diventi un peso per l’ente pubblico» ha detto Carmine Scarano che ha allargato l’analisi con le valutazioni patrimoniali. «La Veneziana Edilizia Canalgrande ha visto aumentare il capitale da 1 a 3,2 milioni in seguito ad alcune dismissioni, mentre palazzo Balbi ha versato 61 milioni di euro a Veneto Sviluppo, che non è un soggetto in house ma è partecipata al 49% da 11 società con la presenza di 8 gruppi bancari nazionali». Il procuratore Scarano invoca cautela, ma quando tira le somme ammette: il bilancio va approvato, questa è una regione seria.

Albino Salmaso

 

Le Usl ai raggi x. Venezia, Padova e Verona in rosso.             

Analisi dettagliata dei bilanci delle società partecipate con attenzione a Veneto Sviluppo, Finest, Veneto Acque e Immobiliare San Marco: tirate le somme, la regione vanta 27 milioni di crediti dalle 23 società partecipate a fronte di 150 milioni debiti e ciò incide sul giudizio in materia di solidità patrimoniale. Il relatore dottor Giampiero Pizziconi ha invitato Zaia e Zorzato ad agire con grande prudenza contabile prima di rilasciare la fidejussione contabile a Veneto Acque, sulla cui utilità spesso si sono sollevati interrogativi. L’altro grande capitolo del bilancio passato ai raggi X è la san ità, con la gestione dei flussi di cassa e i bilanci delle Usl. Si sottolinea come il deficit peggiore sia della Usl di Venezia-Mestre con 47 milioni di euro, seguita da Padova con 25 milioni e poi da Verona con 24 (dati 2013). Rosso profondo anche per Thiene e San Donà mentre Bassano e Cittadella segnano risultati molto positivi. A queste osservazioni Zaia ha risposto con una frase sola: il Veneto ha la migliore sanità d’Italia.

 

Il procuratore scarano

«Su spese dei partiti e Mose ci saranno presto novità»

VENEZIA – Dottor Carmine Scarano, siamo a Venezia nella città al centro dello scandalo del Mose: voi avete avviato un’inchiesta per quantificare il danno erariale, a che punto siamo? «Ci sono due aspetti all’esame della Procura della Corte dei conti del Veneto. Il danno erariale emerge dalla costituzione di fondi neri, il cuore dell’inchiesta: in base alle indagini della Gdf in determinati appalti possiamo dire che tale reato si è verificato. Ci sono due situazioni note già provate in sede giudiziaria. Ma mettiamo subito in chiaro un aspetto: la Corte dei Conti non può avviare l’indagine sui 30 anni di attività del Mose e del Consorzio Venezia Nuova, questa è un’utopia. Noi ci dovremo ancorare a fatti specifici, così come emerso dall’indagine della Procura della repubblica di Venezia». Il danno erariale è legato alla sovraffatturazione e al falso in bilancio? «Non solo. Dovremo procedere per il danno all’immagine per quanto riguarda l’eventuale condanna di soggetti pubblici in sede penale, in base al reato di corruzione». A che punto siete nell’inchiesta sulle spese dei gruppi della regione Veneto? «Ci sono alcune voci si spesa che verranno contestate ai capigruppo per i pranzi. Una cosa è portare uno scontrino, altra cosa motivare quello scontrino con la necessità di un’attività politica con un programma preciso. Se questa manca cade la dimostrazione della spesa e lo scontrino non vale nulla. Non tutti i gruppi sono nelle stesse condizioni. Ormai siamo in dirittura d’arrivo».

(al.sal.)

 

Gazzettino – La Suprema Corte. Mose, Chisso resta in carcere.

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26

set

2014

MESTRE – Renato Chisso resta in carcere. La Corte di Cassazione ieri ha respinto il ricorso presentato dall’avv. Antonio Forza ed ha giudicato giusta e motivata la disposizione del Tribunale del riesame di Venezia che ha deciso di tenere dietro le sbarre Chisso, dal momento che ci sono “gravi indizi di colpevolezza” nei suoi confronti. Dunque, per tornare almeno ai domiciliari, l’ex assessore alle Infrastrutture ha una sola strada, quella di invocare i motivi di salute. Altrimenti la sua carcerazione durerà come minimo fino al 4 dicembre, sei mesi dal momento dell’arresto.
Saranno dunque i medici incaricati dal Gip Roberta Marchiori a valutare se le condizioni di salute di Chisso rendono rischiosa la sua permanenza dietro le sbarre, tanto da consigliare per lui gli arresti domiciliari. Dopodomani, domenica, in carcere a Pisa arriverà un esercito di medici per vagliare le sue condizioni di salute. Saranno in nove, tre della Difesa, tre incaricati dall’Accusa e tre dal Giudice per le indagini preliminari. I consulenti della Difesa sostengono che l’ex assessore regionale alle Infrastrutture è in pericolo di vita, mentre i consulenti dell’accusa sostengono che, pur essendo a rischio, si trova nel posto migliore per le cure, dal momento che a Pisa c’è un centro specializzato in patologie cardiache. Dunque saranno la dott. Silvia Tambuscio, il dott. Paolo Jus e il dott. Davide Roncali a dire l’ultima parola dal momento che sarà sulla base della loro relazione medica che Roberta Marchiori deciderà se mandare Chisso ai domiciliari o se tenerlo in carcere.

(M.D.)

 

LETTERE AL DIRETTORE – Galan, fiducia ai magistrati al di là di amicizie e sospetti

Caro direttore,
alcuni giorni fa è stato pubblicato sul Gazzettino uno scambio epistolare tra l’ex assessore Renato Chisso, oggi in carcere, e un noto giornalista delle tv venete: il tema era l’amicizia, al di là delle questioni che riguardano un’indagine giudiziaria. È nota a molti la mia amicizia di lunghissima data con Giancarlo Galan e la mia lunga collaborazione con il presidente in ruoli “europei” per la Regione Veneto: ma non sarà questo mio rapporto a inficiare un’opinione sempre più convinta nel definire l’inferno carcerario un evidente quadro del collasso del nostro sistema giustizia, tra cui troviamo i “condannati preventivi”, vera ignominia per uno Stato di Diritto. Conosciamo bene le motivazioni per cui sono nate queste misure preventive, ma è il loro uso fuori da ogni controllo a rendere odiosa tale misura. Il codice richiede tra i presupposti di applicazione della misura i gravi indizi di colpevolezza, ma la logica emergenziale, le pressioni dell’opinione pubblica e la speranza di una “confessione” portano a utilizzare il carcere nei confronti di indagati per reati contro il patrimonio, apparentemente al di fuori delle esigenze cautelari prescritte. Questa inflazione carceraria colpisce una persona che, stando alla nostra Costituzione, non va considerata colpevole fino a sentenza definitiva. Io non voglio vivere in un Paese che continua ad avere un ennesimo record negativo: il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio, mentre la media europea è del 25%. Chi ripagherà mai la distruzione di una vita umana e professionale in caso di leggerezza o di errore? Bene ha fatto quel giornalista a rendere pubblica la corrispondenza con un detenuto eccellente, in virtù di un’amicizia non disconosciuta. Per me è lo stesso: spero che gli “amici” dei detenuti in attesa di giudizio non spariscano nel nulla.
Gianlorenzo Martini

Venezia

——
Caro lettore,
l’amicizia non è un semplice sentimento, è un valore. Ma, come accade per molti altri valori, non sempre regge l’urto dei tempi e delle avversità. Uno scrittore americano, Ambrose Bierce, oltre un secolo fa mandò alle stampe un disincantato e lucidamente cinico testo dal titolo: “Dizionario del diavolo”. Alla lettera A il libro di Bierce recitava: «Amicizia: una nave abbastanza grande per portare due persone quando si naviga in buone acque, ma riservata a una sola quando le acque si fanno difficili». Purtroppo, credo sia amaramente vero.
Quanto al resto: lei ha ragione quando afferma che in Italia c’è un uso smodato, ingiustificato e spesso anche forcaiolo della carcerazione preventiva. Tuttavia, nel caso di Giancarlo Galan, da quanto è emerso, i magistrati ritengono che, in libertà o agli arresti domiciliari, l’ex governatore (uno degli imputati chiave dell’inchiesta sul Mose) potrebbe alterare o inquinare le prove e ciò, come prevede la legge, giustifica la sua carcerazione. Non ho ovviamente gli elementi per valutare se questo sia vero, ma credo che la correttezza e la serietà finora dimostrate dai magistrati della Procura di Venezia nella conduzione di questa difficile inchiesta, meritino rispetto e considerazione. Anche questi sono valori liberali.

 

Nuova Venezia – Galan latifondista e la moglie di Ghedini

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25

set

2014

SCANDALO TANGENTI – Galan latifondista e la moglie di Ghedini

Nell’articolo del 14 settembre dal titolo «Galan diventò latifondista aiutato della moglie di Ghedini», Renzo Mazzaro racconta che Tiziano Zigiotto, per 15 anni consigliere regionale «trasportato in carrozza da Galan», si è presentato con un avvocato a casa del proprietario di un fabbricato con campagna situato all’interno della tenuta agricola di Frassineto e per ricostruirne l’integrità tenta di strappargli il fazzoletto di terra di cui dispone, altrimenti si va in tribunale. Entrambi spiegano «all’infelice che gli conviene vendere se non vuole mangiarsi tutto in spese legali». «La discussione», precisa Mazzaro, «va avanti per un po’. In casa c’è una terza persona che assiste, senza spiccicare parola. A un certo punto Zigiotto lo interpella: «Scusi lei chi è?». Risposta: «Sono un invitato a cena: sto aspettando che ve ne andiate, perché siete anche un po’ noiosi». Zigiotto fiuta il vento infido, gira i tacchi e se ne va. Ha ragione. Questo signore è un ex generale della Guardia di Finanza in pensione, che si è ritirato sull’Appennino. L’uomo che al tempo del sequestro Soffiantini coordinò le indagini sul generale dei carabinieri Francesco Delfino. Non uno qualunque». Domanda: se le cose sono andate così, il comportamento di Zigiotto, dell’avvocato accompagnatore e dei… “mandanti” non potrebbe configurare un vero e proprio reato di tentata estorsione?

Prof. Enzo Guidotto – Castelfranco Veneto

 

L’ex governatore Galan chiede il confronto con Mazzacurati. Nel carcere di Opera la visita di La Russa

La Cassazione decide sul ricorso di Chisso

VENEZIA – Giornate di ricorsi e visite per i due detenuti politici dell’inchiesta Tangenti Mose: il deputato e ex governatore del Veneto Giancarlo Galan e l’ex assessore Renato Chisso. Ieri, il deputato di Forza Italia Ignazio La Russa ha visitato al carcere di Opera Giancarlo Galan e il fotografo Fabrizio Corona. «Entrambi», commenta il parlamentare, «hanno espresso apprezzamento per il modo in cui la struttura carceraria di Opera si rapporta con i detenutI. Ho promesso che sarei tornato un’altra volta per parlare delle vicende giudiziarie, ma osservo che Galan ancora non è stato interrogato dal pm: è nell’ala di massima sicurezza, mi ha mostrato la vista sulla tangenziale…». Intanto, i legali dell’ex ministro – gli avvocati Ghedini e Franchini – hanno fatto istanza di incidente probatorio: chiedono che il maggiore accusatore Giovanni Mazzacurati venga sentito in contraddittorio tra le parti. L’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova si trova da mesi in California e per il suo legale le sue condizioni di salute non gli permettono di tornare in Italia, né di sopportare lunghi interrogatori. Sulla richiesta della difesa Galan si dovrà esprimere la Procura (che ha già annunciato parere favorevole) e dovrà decidere il gip Scaramuzza, entro la prossima settimana. Oggi, intanto, i giudici di Cassazione affronteranno il ricorso presentato dall’avvocato Forza per impugnare la custodia cautelare di Renato Chisso, già confermata anche dal Tribunale del Riesame. Il giudizio della Cassazione è, comunque, sulla legittimità degli atti, non entra nel merito delle accuse. Domenica 28 settembre, invece, Chisso sarà visitato nella sua cella del carcere di Pisa dai tre periti medici della giudice per le indagini rpeliminari Roberta Marchiori, chiamata ad esprimersi sull’istanza di scarcerazione per motivi di salute presentata da Chisso. Per i consulenti della difesa, l’ex assessore è a grave rischio infarto, per i consulenti della Procura le sue condizioni sono compatibili con il carcere. L’ultima parola al medico legale Silvia Tambuscio, al cardiologo Paolo Jus e allo psichiatra forense Davide Roncali.

(r.d.r.)

 

MOSE – La difesa: impossibile il confronto chiesto da Galan

«Mazzacurati sta molto male non riesce a ricordare più nulla»

Giovanni Mazzacurati non ricorda più nulla. Il grande accusatore dei politici travolti dallo scandalo Mose non può essere interrogato, come hanno chiesto invece i difensori dell’ex governatore veneto Giancarlo Galan. L’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova è negli Usa per curarsi, ma la sua potrebbe essere una forma di demenza senile tale da rendere impossibile l’incidente probatorio. «Non sa che cosa ha detto», dice il suo legale.

 

SCANDALO MOSE – La rivelazione dopo la richiesta di incidente probatorio presentata dai difensori di Galan

«Mazzacurati non ricorda più nulla»

Il grande accusatore dei politici è affetto da demenza senile. Il suo legale: inutile interrogarlo

Giovanni Mazzacurati, il “grande vecchio” del Mose, l’indagato che ha riempito centinaia di pagine di verbali accusando (e autoaccusandosi) di aver pagato mezzo mondo con i soldi del Consorzio Venezia Nuova, non ricorda quasi più nulla. Se dovesse essere interrogato nuovamente, anche a breve, non riuscirebbe a rammentare dettagli, circostanze, nomi, cifre. Al massimo potrebbe confermare di avere rilasciato dichiarazioni ai pm dal luglio 2013 in poi, dopo il suo arresto, ma non sarebbe in grado di ribadirle, nè di rispondere alle contestazioni dei difensori degli altri indagati nel corso di un interrogatorio incrociato. Viene così meno la possibilità di confutarne le scomode verità o di metterlo in contraddizione.
La notizia è trapelata ieri, dopo che gli avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini, difensori di Giancarlo Galan, avevano presentato al Tribunale di Venezia una istanza di incidente probatorio. Chiedevano di poter cristallizzare i verbali dell’ingegnere (che ha tra l’altro dichiarato che il governatore del Veneto riceveva un milione di euro all’anno dal Consorzio) visto il diffondersi di notizie preoccupanti sulle condizioni di salute di Mazzacurati, che si trova negli Stati Uniti.
A sorpresa è venuta, invece, la conferma che il grande accusatore dei politici veneziani e romani, dei generali della Finanza e dei magistrati alle Acque di Venezia, non è già più nelle condizioni di rispondere alle domande. Qualcosa era trapelato, ma in modo non così netto, quando era stato sentito a San Diego, in California, di fronte alla Corte Federale, a seguito dell’indagine del Tribunale dei ministri sull’ex ministro dell’ambiente Altero Matteoli, che è indagato a Venezia.
«Innanzitutto è impreciso sostenere che la Procura lagunare abbia autorizzato l’espatrio dell’ingegner Mazzacurati – dichiara l’avvocato difensore Giovanni Battista Muscari Tomaioli – Il mio assistito ha lasciato l’Italia attorno a Pasqua del 2014, ma era in libertà dall’agosto 2013. E quindi non doveva essergli concessa alcuna autorizzazione». Mentre era a San Diego, in Italia sono stati eseguiti una trentina di arresti. Nel frattempo le condizioni di Mazzacurati sono peggiorate, da un punto di vista psico-fisico. Il suo avvocato aggiunge: «L’ingegnere ricorda di aver reso dichiarazioni veritiere ai magistrati, ma non che cosa ha detto». Una diagnosi non è ancora certa, ma potrebbe trattarsi di una forma di demenza senile che rende ormai inutile un incidente probatorio. «Se anche l’ingegnere venisse chiamato domani, non sarebbe in grado di sostenere un interrogatorio, perché gli verrebbero chiesti dettagli di cui non ricorda nulla».
La richiesta di incidente probatorio, quindi, è ormai tardiva e le speranze di chi spera di contestare la verità di Mazzacurati sono destinate al fallimento. Casomai si potrà discutere se i verbali sono utilizzabili ai fini di una sentenza.

 

Chisso e il suo segretario davanti alla Cassazione per tornare in libertà

OGGI LA DECISIONE «Imputazioni generiche»

Lo scandalo del Mose approda in Corte di Cassazione. I primi due imputati che chiedono l’intervento della Suprema Corte sono Renato Chisso ed Enzo Casarin. Entrambi sono stati arrestati il 4 giugno. Il ricorso alla Cassazione è contro la decisione del Tribunale del riesame di Venezia che, per entrambi, ha confermato il carcere. Che cosa dicono gli avvocati Antonio Forza, per Chisso, e Carmela Parziale, per Casarin? Che non ci sono motivi validi per tenerli in carcere, prima di tutto, dal momento che Chisso ha dato le dimissioni da assessore alle Infrastrutture e Casarin dall’incarico di segretario di Chisso. Insomma per entrambi non c’è possibilità di reiterazione del reato se, invece del carcere, vengono messi agli arresti domiciliari.
Per Casarin l’avvocato Parziale batte sul tasto della genericità dell’accusa, che non indica date e luoghi esatti delle mazzette: «Dalla lettura degli atti – scrive – non emerge dove, quando e soprattutto da chi Casarin avrebbe preso in consegna i soldi».
E veniamo a Renato Chisso. L’avvocato Forza ha preparato una memoria di 100 pagine per cercare di smontare l’accusa. «Nel loro insieme e nella stragrande maggioranza si tratta di imputazioni, per così dire, liquide, generiche, sovrapposte o sovrapponibili, spalmate senza data in un arco temporale di più di quindici anni. Tutto è incerto e vago», scrive il difensore. Prendiamo i pagamenti per aver agevolato i project financing. Il legale ricorda che il solo progetto portato a compimento, quello della Pedemontana Veneta, è stato assegnato alla Sis, che aveva vinto in Consiglio di Stato il ricorso contro l’aggiudicazione. Ebbene, secondo il Tribunale del riesame, Chisso e Galan avrebbero fatto vincere ditte amiche e solo una sentenza del Consiglio di stato avrebbe poi provveduto a far vincere i concorrenti. «Come è stato documentato dalla difesa, l’aggiudicazione alla Pedemontana Veneta S.p.A., originariamente, era avvenuta il 4 dicembre 2007, l’aggiudicazione definitiva all’Ati Sis, a seguito della decisione del Consiglio di Stato, era avvenuta il 30 giugno 2009». Ebbene, le mazzette sarebbero state incassate da Chisso nel dicembre 2010 e nel 2011. «Che senso avrebbe avuto “finanziare” l’Assessore Chisso a posteriori e, soprattutto, per la mancata aggiudicazione?», si chiede l’avvocato, secondo il qual «questo processo è ricco di fatti corruttivi con dazioni “a scoppio ritardato”. Oggi la pronuncia della Cassazione.

 

Gazzettino – La commissione sul Mose agita il Pd

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24

set

2014

IL CASO – Il segretario Stradiotto: «Le nostre indagini sono a un punto morto». Ed è polemica.

Il Pd si spacca e litiga. «La commissione d’inchiesta sul Mose è a un punto morto. Chi aveva incarichi di responsabilità non sta collaborando». Una dichiarazione, quella del segretario metropolitano del Pd, Marco Stradiotto, che ha dato la stura a una infuocata direzione provinciale. Michele Mognato, Alessandra Miraglia e Gabriele Scaramuzza hanno reagito, criticando Stradiotto e accusandolo di insinuare sospetti. «Rendiamo pubblica la relazione della commissione – ha risposto Stradiotto – ma non c’è niente di nuovo. Io chiedo più collaborazione, dobbiamo affrontare due campagne elettorali». Il clima nervoso risentiva anche dei dissapori emersi su aspetti come il Contorta e l’appoggio ad alcune iniziative e ai tagli di Zappalorto.

 

La commissione Mose spacca il Pd

Stradiotto rileva che «l’inchiesta interna è a un punto morto» e finisce nel mirino. Scontro tra renziani e minoranza

«La commissione d’inchiesta è a un punto morto. Sono certo che non abbiamo niente da nascondere però non riusciamo ad ottenere la massima trasparenza, perché chi aveva incarichi di responsabilità non sta collaborando». Una dichiarazione, quella del segretario metropolitano del Pd, Marco Stradiotto, che lunedì sera ha dato la stura a una infuocata direzione provinciale. Alcuni membri della direzione, tra i quali Michele Mognato, Alessandra Miraglia e Gabriele Scaramuzza hanno reagito, criticando Stradiotto e accusandolo di insinuare sospetti. «Non fa bene al Pd», ha detto la Miraglia. «Così facciamo credere di avere scheletri nell’armadio», ha aggiunto l’ex assessore Tiziana Agostini. Sta di fatto che la «commissione interna» del Pd (presieduta da Gilberto Bellò) che sta cercando di fare luce sui finanziamenti del 2009 e del 2010, ha finora concluso ben poco e la collaborazione di alcuni esponenti del partito è stata quantomeno tiepida. Qualcuno in direzione, come il civatiano Gianluca Mimmo, ha chiesto di pubblicare quanto emerso dalla commissione. «Rendiamola pubblica, – ha risposto Stradiotto – ma non c’è niente di nuovo. Io chiedo più collaborazione proprio perché andiamo verso due campagne elettorali e, prima che siano i nostri avversari a fare insinuazioni, dobbiamo avere gli strumenti per difenderci».
Il clima nervoso della riunione risentiva anche dei dissapori emersi negli ultimi mesi con i botta e risposta su social network e stampa. I motivi di dissenso non mancano: dalla questione Contorta all’appoggio ad alcune iniziative e ai tagli di Zappalorto. Secondo Stradiotto, infatti, è giusto che anche il Comune di Venezia, dove spende troppo, provi a risparmiare. Molti membri della direzione hanno però invitato il segretario a non mettere il naso sui temi cittadini e a restare «nel suo ambito provinciale». «Con queste pressioni voi mirate ad avere dei segretari deboli» ha replicato Stradiotto. Duro anche l’attacco di Antonio Cossidente: «Se tu e De Menech volete fare i segretari di una parte sola, dovete dirlo». E poi Mognato: «Le critiche e il confronto sono normali in un partito come il nostro. C’è però un luogo politico in cui ci si confronta, non esistono solo Facebook e Twitter».
E proprio Facebook è stato all’origine di un’altra accesa discussione. Dalla sua pagina Stradiotto aveva invitato il Pd ad assumere un ruolo diverso da quello di Bettin e Caccia, perché un partito che vuole essere l’asse portante di un’alleanza non può continuare a dire solo dei no (anche in riferimento al Contorta) ma deve prendere decisioni e proporre soluzioni. Il rischio di fare il gioco degli alleati? «Arrivare al 51% ma poi ritrovarsi in una situazione di ingovernabilità».
«Bettin e Caccia sono i nemici? Chiediamolo agli ex assessori» ha replicato Mognato, che poi ha chiamato in causa Ferrazzi chiedendogli, prendendo ad esempio il Pat, se in giunta o in consiglio gli alleati abbiano votato contro. «Non ho detto che sono i nemici – ha chiuso Stradiotto – io sono per alleanze più ampie possibile». In difesa del segretario provinciale, sono intervenuti Alessadro Coccolo, Laura Visentin e Giovanni Parise. «Stradiotto lancia una sfida che dobbiamo cogliere – commenta Coccolo – Non possiamo essere giudicati per un commento in Facebook o un articolo di giornale».

 

LA RETATA STORICA

di Beppe Caccia – Associazione “In Comune” Venezia

Il Consorzio Venezia Nuova s’inalbera per il prezioso lavoro di ricostruzione che il Gazzettino sta conducendo sullo scandalo Mose. Ma i conti che continuano a non tornare, sono proprio i loro. Nell’ottobre 2012, qualche mese prima dei primi arresti, il sottoscritto aveva provato a capire quale fosse l’effettiva destinazione delle ingenti risorse stanziate dallo Stato per Venezia e la sua laguna. Già allora balzava agli occhi l’insostenibile sproporzione dell’aggio riconosciuto al Consorzio a titolo di “spese generali di gestione”: un 12 per cento su ogni somma di denaro pubblico destinata alle opere di salvaguardia. E questo, grazie alla mostruosità giuridica rappresentata dalla “concessione unica”, a partire dalla Legge Speciale del 1984.
Nessun altro “general contractor” di grandi opere infrastrutturali finanziate con risorse pubbliche gode, nel nostro Paese, di un trattamento simile: si va, in taluni casi, da un minimo dello 0,5 per cento a un massimo del 6 per cento. E nessuna impresa è mai fallita per questo! E si tratta di una percentuale che è stata applicata non solo agli stanziamenti per la realizzazione del sistema di dighe mobili alle bocche di porto, ma a tutte le risorse gestite dal Consorzio durante la sua esistenza, pari a circa 9 miliardi di euro attuali, per un importo complessivo nella discrezionale disponibilità delle sue imprese pari a un miliardo di euro.
Ma non c’è solo questo. La convenzione stipulata nel 1991 tra lo stesso Consorzio e il Magistrato alle Acque di Venezia, e i successivi atti integrativi che ne hanno confermato e rafforzato il monopolio, stabilisce che le opere realizzate e da realizzarsi siano pagate sulla base di un tariffario stabilito e aggiornato dal Magistrato stesso. Questo spiega perché, come dimostrato dagli inquirenti e confermato dai diretti interessati, fosse decisivo per il Consorzio corrompere proprio i presidenti del Magistrato, che avrebbero invece dovuto dirigerne e verificarne l’operato. Avere “a libro paga” questi infedeli funzionari dello Stato significava controllare a proprio piacimento anche il meccanismo di retribuzione delle opere.
Considerato che con procedure d’appalto corrette e trasparenti si ottengono, per le opere pubbliche, ribassi d’asta assai significativi possiamo ipotizzare (ottimisticamente) che i prezzi siano stati gonfiati almeno del 35 per cento.
I conti sono perciò presto fatti: più della metà delle risorse di tutti noi contribuenti, stanziate dallo Stato e gestite dal Consorzio, non sono finite nei cantieri dei progetti, ma hanno costituito enormi riserve di super-profitti, ad altro destinate. In un modo o nell’altro queste risorse devono tornare alla città di Venezia e all’effettiva tutela fisica e socio-economica dell’ecosistema lagunare. L’attuale dirigenza del Consorzio Venezia Nuova, in perfetta continuità con quella finita in manette, continua a eludere questo tema. Sarebbe ora che la politica, e il governo nazionale per primo, gliene chiedesse finalmente conto.

 

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

LA GESTIONE DEL MOSE  «Rischiamo di restare per sempre “prigionieri” del Cvn»

I conti rivelati da Piergiorgio Baita: tra mazzette e “sponsorizzazioni” il Consorzio ha dispensato cento milioni all’anno per dieci anni

E il Mose? «Intanto spero proprio che funzioni, anzi sono sicuro che funzionerà dal momento che è la più grande opera di ingegneria che sia mai stata fatta in questo Paese e per il bene del mio Paese spero e credo che abbiano lavorato al meglio – spiega Stefano Ancilotto – Semmai il problema è un altro e cioè la manutenzione ordinaria e straordinaria. Temo che solo chi ha realizzato il Mose sia in grado di farlo funzionare.» Vuol dire che saremo prigionieri per sempre delle ditte del Consorzio? «Ho paura di sì. Metti che fai un appalto per la gestione delle paratoie e che una si rompa, la Mantovani o un’altra ditta può saltar fuori a dire che non si è rotta per motivi strutturali, ma perchè è stata eseguita male l’operazione di apertura e chiusura. Dunque…»

 

LE INDICAZIONI DI RAFFAELE CANTONE

«Fermare l’evasione per battere la corruzione»

Ma, passata la “buriana”, non andrà a finire che fra vent’anni siamo daccapo, esattamente come è successo dopo le inchieste del 1992? «Ci sono le leggi sbagliate da correggere e c’è un problema culturale» – avverte il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. La legge che affida al Consorzio Venezia Nuova la realizzazione in regime di monopolio del Mose è stata definita “criminogena” da Cantone perchè un soggetto privato è chiamato ad occuparsi di un’opera pubblica, interamente finanziata dallo Stato. Dunque questa legge, secondo Cantone va cancellata al più presto. Ma c’è anche il problema culturale. «Credo che la corruzione si combatta esattamente nel modo in cui abbiamo combattuto la mafia – spiega Cantone – Come abbiamo fatto? Siamo andati nelle scuole a parlare e a convincere i ragazzi che la mafia è il male del Paese. Oggi l’evasore fiscale e il corruttore non sono simpatici, ma non sono nemmeno antipatici. Anzi, il corruttore magari non è simpatico, ma l’evasore fiscale invece sì, viene considerato un furbo. Nessuno lo condanna socialmente. Non è come in America che i figli si vergognano dei genitori se vengono pizzicati a non pagare le tasse».
Lei ha fatto l’esempio di un evasore condannato a 21 anni di galera negli Stati Uniti. Qui da noi al massimo qualche anno, se non scatta la prescrizione.
«Il problema è che la corruzione è possibile solo perché c’è l’evasione fiscale. Le aziende riescono a fare nero perché evadono. Se non fermiamo l’evasione non fermiamo la corruzione e bisogna andare nelle scuole a spiegarlo». Lei sostiene che la corruzione è è un cancro come la mafia e che non ne usciamo se non con un salto culturale. «Il gap culturale da comare è relativo alla giustificazione dell’evasore. Finchè pensiamo che sia un furbo, un simpaticone, uno tutto sommato da invidiare, non ne usciremo mai.»

 

Vale un miliardo il grande saccheggio dei soldi pubblici

Al secondo interrogatorio Piergiorgio Baita cambia strategia. I suoi avvocati no. Racconta l’amministratore delegato e presidente della Mantovani che i suoi difensori si erano presentati in carcere con il suggerimento di farsi ricoverare in clinica per una operazione al cuore. In questo modo, spiega sempre Baita, sarebbe saltato il secondo incontro con il pm Stefano Ancilotto. Il primo si era concluso con un nulla di fatto e Baita aveva capito che sarebbe rimasto in galera. In quindici giorni matura la decisione di vuotare il sacco. I suoi legali lo sconsigliano e in ogni caso avvertono che non lo possono seguire su questa strada, visto il cambiamento improvviso di rotta che mette in crisi la strategia difensiva. E Baita decide che è arrivato il momento di mollare l’ancora e di prendere il largo con una barca guidata da un pilota diverso, che eviti di farlo schiantare contro lo scoglio delle patrie galere. Cambia avvocato – prima aveva Piero Longo, collega di studio dell’avv. Niccolò Ghedini, grande amico di Galan – e via, inizia a parlare. Il secondo interrogatorio è del 28 maggio 2013. Sono passate due settimane, ma è cambiato il mondo, per Baita, che non ha più intenzione di continuare a vederlo a scacchi.
UN MILIARDO IN FUMO
«Cominciamo dal 2002 – attacca Baita – anno nel quale la Mantovani compie un salto di dimensioni e anche di collocazione di mercato.» Inizia così e racconta per filo e per segno il sistema Mose, che lui in parte aveva trovato già pronto, bell’e fatto nel 2002. Vuol dire che Giovanni Mazzacurati già agli inizi degli anni Duemila aveva messo in piedi il meccanismo delle tangenti e delle “liberalità” e cioè i soldi per le sponsorizzazioni, quelli che servono a comprarsi le anime belle, mentre le tangenti comprano le anime dannate, ammesso che si riesca a percepire la differenza sostanziale. Il secondo verbale, quello del 28 maggio, sembra un libro stampato. Piergiorgio Baita costruisce tessera dopo tessera un mosaico completo, preciso del malaffare e mostra anche in questa occasione la sua genialità. Dispensa date e circostanze con la precisione di un chirurgo, ricostruisce accordi politici e “maneggi” con grande lucidità. Non si autoincensa, ma nemmeno si flagella. Spiega che il meccanismo non l’ha inventato lui, che quando arriva al Consorzio nel 2002 il meccanismo Mose è già rodato e chissà da quanto andava avanti sotto la direzione di Giovanni Mazzacurati di cui Stefano Ancilotto dà un giudizio che è la fotografia precisa dell’uomo: “E’ il Gianni Letta della laguna”. Il Richelieu, il Cardinal Mazarino, insomma, il potentissimo che non si mette mai in mostra e manovra dietro le quinte. Baita spiega che se si vuol lavorare con il Consorzio Venezia Nuova non c’è altro modo, funziona così e dice che sì, anche a lui dava fastidio pagare tutta quella gente che non faceva niente e incassava i soldi. Parla come uno che sa quel che vuole, come uno che ha messo in conto tutto. Dall’inizio. Forse anche l’arresto. Di sicuro il pentimento. E pure la condanna. Ha già fatto tutti i suoi conti e sa che il gioco vale la candela. Baita infatti patteggia 22 mesi di galera per l’evasione fiscale. Non se la caverà con così poco perché dovrà affrontare altri processi per corruzione e per concussione, ma il conto finale non sarà lontanissimo da quei due anni scarsi. Che sono niente, meno di niente se si pensa a quanti milioni di euro ha maneggiato, a quanti ammette di averne sottratti al fisco, a quanti ne ha pagati in tangenti. 22 mesi e poi basta. Volendo, si ricomincia da capo. Altro giro altra corsa. Esattamente come era successo nel 1992. Arrestato nel luglio di quell’anno, il quarantenne Piergiorgio Baita è accusato di corruzione e di violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Con lui finiscono in carcere il presidente della Giunta regionale del Veneto, Franco Cremonese e Giorgio Casadei, braccio destro e sinistro in laguna del ministro Gianni De Michelis. Finisce nei guai anche Franco Ferlin, segretario del potentissimo ministro dei trasporti ed ex presidente della Regione Veneto, il doroteo Carlo Bernini. Anche in quell’occasione la Tangentopoli veneta inizia con un imprenditore che è tagliato fuori dal giro e inizia a parlare. E poi è un banalissimo appalto per la fornitura di terra da utilizzare per la spalletta della bretella autostradale che porta al Marco Polo che fa finire in galera il gotha della politica veneziana. Baita racconta ai magistrati il sistema delle mazzette e spiega che dentro la torta ci sono tutti, i socialisti di De Michelis e i democristiani di Bernini-Cremonese, con l’inevitabile spruzzata di cooperative del Pci. Sembra oggi. Uguale, uguale. Alla fine del processo, nel 1995, Baita viene assolto per non aver commesso il fatto. E subito dopo inizia a mettere a frutto quel che ha imparato. Niente più mazzette nascoste dentro le mutande, come ha visto fare allora, con lui la corruzione viaggia sulle ali delle consulenze. Che non si negano a nessuno e che permettono alle aziende come la sua di scaricare anche i costi. Ed ecco l’idea delle “cartiere”, prima la Bmc di San Marino, fino al 2010, quando San Marino finisce nella black list e poi la Quarry Trade canadese. Per non parlare dei conti in banca in Svizzera, dove finisce il nero delle fatturazioni. Nicolò Buson, il cassiere di Baita alla Mantovani racconta che i soldi se li faceva portare in Italia dalla Svizzera con gli “spalloni”, come ai tempi del contrabbando di Totò e Fernandel. «Mi recavo o davo disposizioni alla banca e prelevavo delle somme e me le facevo portare dagli spalloni. Inizialmente a Milano, i primi anni, e poi invece ho visto che potevano arrivare a Padova».
Quanti soldi? Si andava a colpi di 150-200mila euro al colpo – spiega Buson. Del resto 100mila euro par di capire che non si negano a nessuno, che sia il presidente del Magistrato alle acque o un intrallazzatore che giura di conoscere un qualsiasi generale della Finanza. Tanto i soldi sono di Pantalone. Ma quanti soldi?
«Un miliardo di euro in 10 anni se si vuol stare ai conti dello stesso Baita» – sintetizza il pm Stefano Ancilotto.
Baita conteggia 10 milioni di mazzette all’anno per 10 anni. Fa un totale di 100 milioni. E il resto, fino a raggiungere quota mille milioni di euro, è in “liberalità”. Di fatto il Consorzio pagava tutti e corrompeva tutti. Il saccheggio di soldi pubblici avviene in molti modi. Il primo, legale: il Consorzio Venezia Nuova ha diritto al 12 per cento sull’ammontare dell’opera. Si chiamano “oneri di concessione” e valgono su qualsiasi lavoro svolto. Finora per il Mose lo Stato italiano ha speso 6 miliardi di euro, il 12 per cento di quei 6 miliardi è del Consorzio. Sono quattrini garantiti per legge al Consorzio dalla Legge speciale per Venezia. Questa è la legge che il presidente dell’autorità per la lotta alla corruzione, Raffaele Cantone, collega magistrato di Stefano Ancilotto, chiama “legge criminogena”. Perché affida a privati la gestione dei soldi pubblici. Senza controllo. E senza appalti. Significa che i cittadini hanno pagato il Mose almeno il 30 per cento in più di quanto lo avrebbero pagato se ci fossero stati gli appalti, che mediamente vengono assegnati con un ribasso del 30 per cento, per l’appunto. Siccome il Consorzio è il concessionario unico delle opere di difesa a mare, non viene fatta alcuna gara di appalto. Anche questo è legale.
LA SLOT MACHINE DEL CONSORZIO
Infine ci sono le mazzette e le “liberalità”.
Le mazzette, secondo i conti fatti da Piergiorgio Baita ammontano ad una decina di milioni di euro l’anno, abbiamo detto, le liberalità a 80 milioni di euro l’anno. Il totale è 100 milioni all’anno per 10 anni. Uguale, un miliardo, per l’appunto. Un fiume di denaro che sommerge Venezia e Roma passando per Milano. Un fiume di denaro che lambisce tutti e non risparmia nessuno. Il Consorzio dispensa quattrini urbi et orbi. A beneficiarne ad esempio è il Patriarcato di Venezia con la Fondazione Marcianum voluta dal cardinale Angelo Scola. Per il Marcianum hanno pagato tutti i cittadini, anche coloro che in chiesa non hanno mai messo piede. Così come hanno pagato per il restauro di un convento e di un seminario. Ma poi anche chi ama il basket e odia il calcio, senza saperlo ha finanziato squadre e squadrette di calcio di ogni ordine grado, a cominciare dal calcio Venezia. E poi convegni e libri, film – compreso quello del figlio di Giovanni Mazzacurati, Carlo – su Venezia e il Mose. E, ancora, giri in elicottero di centinaia di giornalisti e personalità varie, sempre a spese del contribuente che avrebbe dovuto pagare il Mose 1 miliardo e mezzo di euro e alla fine lo pagherà più di 6.

13 – Fine (Le puntate precedenti sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto, 6, 7, 13, 14 e 20 Settembre)

 

Recuperati 10 milioni 900 rischiano di “sparire”

E adesso parliamo di soldi. Baita conteggia mazzette per 100 milioni di euro. Quanti soldi ha recuperato finora la Procura con i p.m. Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini? 10 milioni di euro, una cifra consistente, ma è solo un decimo del maltolto.
Il resto? Ci sono ancora i sequestri di case e barche, auto e ville. Ma anche di quadri e gioielli. Improbabile che si arrivi a recuperare 100 milioni – anche perchè la prescrizione si porta via un certo numero di mazzette – ma la Procura di Venezia ce la mette tutta. Restano fuori conteggio invece le cosiddette liberalità. Nessuno dei tanti che hanno ricevuto centinaia di migliaia di euro, si è finora sentito in obbligo di restituire. Anche se, adesso, sa che si è trattato di soldi pubblici e cioè dei contribuenti, utilizzati per restaurare conventi e seminari, per pagare convegni sulla dottrina della chiesa e congressi sulle ultime frontiere della medicina. Quei soldi non li vedremo mai più. E se ha ragione Baita si tratta di una montagna di quattrini, 900 milioni di euro. E siccome si tratta di contributi regolarmente registrati non c’è alcun reato da perseguire – dicono in Procura. Non resta che sperare che sia la Corte dei conti ad aprire una inchiesta e a tentare di farsi restituire i soldi.

 

VENEZIA – Solo tra tre settimane si conosceranno le conclusioni alle quali saranno giunti il medico legale Silvia Tambuscio, il cardiologo Paolo Jus e lo psichiatra forense Davide Roncali dopo aver visitato e parlato con l’ex assessore regionale Renato Chisso, in carcere da oltre quattro mesi. Ieri, il giudice veneziano Roberta Marchiori ha incaricato i tre medici di eseguire la perizia che deve stabilire se le condizioni di salute dell’indagato siano compatibili o meno con la detenzione. A chiedere la scarcerazione per motivi di salute è stato il suo difensore, l’avvocato Antonio Forza, che ha presentato la consulenza di tre medici i quali sostengono che le patologia cardiache e la depressione di cui è soggetto Chisso nel carcere di Pisa dovrebbero portare immediatamente alla sua liberazione. I pubblici ministeri Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini hanno risposto con il parere di altri tre medici, che hanno sostenuto esattamente il contrario di quelli della difesa, riferendo, tra l’altro, che il carcere di Pisa è fornito di un Centro clinico cardiologico di prim’ordine ed, inoltre, sostenendo che la depressione di Chisso sarebbe leggera e simile a quello di ogni detenuto costretto a vivere rinchiuso in un carcere. Il magistrato veneziano ha concesso ai suoi tre periti due settimane per rispondere al quesito che ha posto loro, quindici giorni a partire dal momento in cui visiteranno Chisso, tra una settimana. Oltre a lui, anche l’ex presidente della giunta regionale Giancarlo Galan ha rivendicato motivi di salute che dovevano consigliare l’autorità giudiziaria ad evitargli in carcere: diabete, patologie cardiache e una frattura alla gamba con conseguente rischio di embolia hanno consigliato la Procura a spedire l’ex ministro di Forza Italia a rinchiudere in un vero e proprio reparto ospedaliero all’interno del carcere milanese di Opera, dove si trova ancora dal momento in cui la Camera ha dato l’autorizzazione a procedere chiesto dai pubblici ministeri. Non è escluso, tra l’altro, che nel caso le sua condizioni di salute migliorino, i pubblici ministeri veneziani decidano di trasferirlo in un carcere del Veneto, anche perchè i posti ad Opera e negli altri reparti ospedalieri per detenuti sono contati e le richieste sono sempre superiori alle disponibilità.

Giorgio Cecchetti

 

TESTI a cura di: Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e Maurizio Dianese

L’INCHIESTA – Aumentano gli indagati che chiedono di patteggiare

Le figure chiave. Claudia Minutillo, da ex segretaria a manager con la passione per le grandi firme. Piergiorgio Baita, l’uomo che fa funzionare il Sistema Mose

Intanto cresce il numero degli indagati che vogliono patteggiare la pena. Il 6 ottobre verranno valutate 18 posizioni su 34. Si sono aggiunti all’ultimo momento […………] (2 anni reclusione e 4 milioni di multa), l’ex presidente del Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta (2 anni di reclusione e 700mila euro di multa) e Stefano Tomarelli di Condotte (2 anni di reclusione e 800mila euro di multa). Il conto totale dei beni sequestrati è di 10 milioni di euro che saranno incassati dallo Stato. Si è sempre detto che le intercettazioni costano. Ma è proprio grazie alle intercettazioni che questa indagine porta nelle casse dello stato 10 milioni di euro.

 

IL RITRATTO DEL TERZO PM

Buccini, dalle Fiamme gialle alla Procura della Repubblica

Al suo attivo ha due omicidi risolti (il caso Jennifer e il delitto Bari), numerose indagini sul fronte ambientale e di reati contro la pubblica amministrazione, nonché un impegno appassionato nel mondo associativo della magistratura, coronato dall’elezione al Consiglio giudiziario, di cui è stato segretario fino al 2012. Stefano Buccini è il più giovane dei tre pm del pool che ha indagato sul “sistema Mose”. In magistratura dal 2002 (dopo un anno come ufficiale di leva nella Guardia di Finanza, concluso con un encomio solenne per l’attività svolta) è stato affiancato al collega Stefano Ancilotto nel marzo del 2013, subito dopo l’arresto del presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita. E da allora ha fornito un importante contributo all’inchiesta. Sempre con il sorriso che contraddistingue il suo modo di lavorare, anche nei momenti di maggiore tensione. Buccini è convinto che la serenità di giudizio, l’equilibrio, siano essenziali anche per chi svolge il ruolo di inquirente, assieme ad una buona dose di autoironia. Di reati contro la pubblica amministrazione si occupa dal gennaio del 2012 e, proprio in questi giorni, si appresta a chiudere le indagini a carico di alcuni poliziotti di Jesolo, accusati di aver abusato del proprio potere nella gestione dell’ufficio stranieri.
«La corruzione è un fenomeno sociale ed economico», ha dichiarato in uno dei suoi interventi, spiegando che il piano penale o quello etico non possono essere risolutivi: «La paura della sanzione penale non è sufficiente». È necessario prima di tutto rompere la spirale della “convenienza” che spinge a scegliere la strada della mazzetta. Dunque semplificazione normativa, nuove modalità di affidamento dei lavori pubblici, ripensamento del sistema di controllo, purtroppo fallito, come emerso dalle indagini sul Mose: il compito di controllare era stato affidato a persone già “ammorbidite” in partenza.

 

Dalle fatture false una pioggia di milioni per pagare le mazzette

FIGURA CHIAVE – Piergiorgio Baita, secondo il pm Ancilotto «un uomo molto intelligente»

«Ho capito che avevamo scoperchiato il pentolone quando mi sono arrivate le rogatorie da San Marino. Fatalità, a una mia collega di università era arrivata la nostra richiesta. Lei, bravissima, si è messa a lavorare giorno e notte sulle fatture di quella che allora era una società sconosciuta, la Bmc di tal William Colombelli. Le aveva tirate fuori tutte e ce le aveva spedite – ricorda il pm Stefano Ancilotto – Il Finanziere che faceva i conti e controllava ad una ad una le fatture, ad un certo punto è venuto da me: “Dottore o qui hanno sbagliato le virgole, oppure sono milioni di euro. Decine di milioni di euro.” Abbiamo controllato puntigliosamente e abbiamo visto che c’erano un sacco di soldi che venivano ritirati dalla banca in contanti. Una volta anche un milione di euro in un solo colpo. Abbiamo passato le fatture ad una ad una per vedere se si trattava di lavori effettivamente eseguiti e abbiamo visto che la Bmc era poco più di un ufficetto a San Marino. La società di sicuro non aveva le competenze per svolgere tutte quelle consulenze e quei lavori. A quel punto ho capito che stava per venir giù il mondo e mi sono reso conto dell’enormità dello scandalo. Poi è arrivata Claudia Minutillo».
LA “FEMME FATALE”
Aveva chiesto di parlare subito, prima ancora di salire in macchina, mentre era ancora in corso la perquisizione nella sua casa di Marocco, a pochi chilometri da Mestre. Un “appartamentino” da 17 vani, dotata di tutti gadget di una abitazione che appartiene ad una donna di successo. Come le luci che si accendono e si spengono “man mano che le stanze ammirano il lento incedere dei tuoi passi da regina della casa” – così recitano quei depliant che ti fanno apparire per quello che non sei. Come le stanze-guardaroba con gli armadi che hanno i ripiani fatti su misura per le borsette di Hermes e le scarpe di Christian Louboutin, quelle scarpe nere, decolleté, con la caratteristica suola rossa che non è che te le tirino proprio dietro visto che non scendono facilmente sotto i mille euro al paio, ma se non le hai non sei nessuno. Chissà se nel momento dell’arresto le era venuto in mente di quella volta che era andata a Parigi a fare “shopping” e si era comprata ben 12 paia di Loubotin in un colpo solo. In galera non gliele avrebbero fatte tenere. E nemmeno il cappottino che, secondo il suo ex datore di lavoro, Giancarlo Galan, valeva 18 mila euro.
“Signora, aspetti almeno che arriviamo in caserma, poi potremo verbalizzare” – le avevano detto i Finanzieri.
Era terrorizzata, Claudia Minutillo, e avrà pensato che da un momento all’altro stava per perdere tutto. Per anni era vissuta nell’idea che era la regina della slot machine che avevano messo in piedi per lei l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan e l’ex assessore alla Mobilità e infrastrutture Renato Chisso. Quando Galan l’aveva mandata via dalla Regione, ecco pronta la rete di salvataggio. Lei del resto glielo aveva detto chiaro e tondo a tutti e due che non poteva finire così, che 10 anni di sacrifici al servizio di Giancarlo non potevano essere cancellati con un colpo di spugna. Galan aveva parlato con Piergiorgio Baita, che l’aveva fatta entrare nel gran giro. «Galan e Chisso mi hanno detto che dovevo dare alla Minutillo uno stipendio di 250 mila euro netti all’anno, che è una retribuzione che non credo di prendere nemmeno io» – dice Baita.
250mila euro netti, come prenderne 500 mila lordi. Una cifra da maraja. Niente a che vedere con lo “stipendietto” da 2mila e 500 euro al mese che prendeva come segretaria particolare di Galan quando era Governatore del Veneto. E poi finalmente era libera, niente signorsì, niente sbattere i tacchi, non doveva più avere a che fare con il caratteraccio di quell’omone che sapeva essere simpatico con tutti, ma a volte era durissimo con lei. Adesso comandava. Adesso era amministratrice delegata di Adria Infrastrutture, una ditta della Mantovani e fatturava milioni di euro all’anno. E si era pure innamorata, di William Colombelli. Chissà se era l’uomo giusto. Di sicuro era l’uomo giusto per fare i soldi. Tanti soldi. Dal 2005 al 2013 la Bmc Broker della premiata ditta Colombelli-Minutillo ha emesso fatture per 10 milioni di euro.
«Quelle fatture sono relative a nulla» – aveva spiegato Claudia Minutillo nel suo primo interrogatorio. E quando il pm Stefano Ancilotto le aveva chiesto di nuovo: «A nulla? Quelle fatture si riferiscono a nulla?». «A nulla».
L’inventore delle fatture false, che poi è anche l’inventore del sistema dei project financing e uno dei “geni” dell’intera operazione Mose, è Piergiorgio Baita. L’idea delle “cartiere” – le società che producono fatture false – gliela dà […], il commercialista che è ancora l’unico latitante della retata storica. Ma una volta imparato il meccanismo, è Baita che lo fa andare al massimo. E’ lui che inventa le consulenze, che prepara le fatture false e che le fa firmare alla Minutillo come amministratrice delegata di Adria Infrastrutture. E’ lui che si fa riconsegnare dalla Minutillo i soldi che lei e Colombelli prelevano in contanti nella banca di San Marino. E’ lui, infine, che dispensa, assieme a Giovanni Mazzacurati, le mazzette. Perché a questo servono le fatture false e le “retrocessioni” ovvero i quattrini che tornano indietro, in contanti, dopo essere passati per San Marino, tolte le spese, ovviamente, perchè altrimenti Claudia Minutillo non avrebbe potuto continuare a fare la bella vita. I viaggi anche solo per fare acquisti a Parigi, le macchine con la targa di San Marino, che fanno tanto “in”, i vestiti firmati, quei suoi tubini neri che facevano tanto lady dark – una mania, quella di vestirsi di nero, che risale ai tempi del liceo scientifico, fatto nella succursale di Mirano del liceo classico Franchetti. Di tutto questo si vantava in continuazione la “dottoressa Minutillo”, come si faceva chiamare e come la chiamavano tutti, nonostante una laurea non l’avesse mai presa. Aveva fatto due anni di lingue, questo sì, a Ca’ Foscari, ma niente di più. Le compagne di scuola la ricordano come una “femme fatale” ma solo perché lei si viveva così, una che se la tirava e che agli uomini ha sempre fatto fare quello che voleva. Aveva trovato Galan e Chisso che le avevano asfaltato la strada.
BAITA, IL “GENIO”
«Fin dal primo interrogatorio mi ha dato l’idea di un uomo molto intelligente. Intelligentissimo. Forse l’indagato più intelligente che mi sia capitato di incontrare – ricorda il p.m. Stefano Ancilotto – Con Baita abbiamo messo a punto in 5 interrogatori tutto il sistema Mose. Con un altro ce ne sarebbero voluti 40. Era preciso, dettagliato, sicuro. E andava con ordine, elencando ad uno ad uno gli elementi, senza mai perdersi. La sua ricostruzione storica dei fatti è da manuale. Analitica. Parte dal 2002 e racconta che il meccanismo era già in funzione quando arriva lui al Consorzio. Poi parla di Galan e Chisso, poi descrive minuziosamente il meccanismo spartitorio. Freddo, razionale, calcolatore, questo sì».
Il primo “verbale di persona sottoposta ad indagini” è del 10 maggio 2013. Baita è in carcere da febbraio. Due mesi non sono stati sufficienti. Tant’è che l’amministratore delegato di Mantovani in quel primo verbale ammette quello che non può non ammettere e cioè che sì conosce la Claudia Minutillo e sì pure Colombelli. E sì, spiega che Colombelli gli è stato presentato da Galan e che Colombelli attraverso la Bmc «ha retrocesso allo scrivente gran parte della somma bonificata all’estero. Credo che la somma restituita ammontasse in media all’80 per cento della fattura pagata». Ma non ammette nulla di più e, alla fine, inguaia solo la Minutillo – che è già inguaiata di suo – e qualche altra “scartina”. Ma ad esempio dice di non ricordarsi a chi era andato un bonifico di 500 mila euro – soldi finiti nelle tasche del Presidente del magistrato alle acque, Patrizio Cuccioletta.
«Nel corso del primo interrogatorio, mi aveva fatto il quadro della situazione, ma senza dirmi praticamente nulla. Nessun nome, nessuna dazione. Mi ricordo che dopo aver chiuso il verbale, gli ho detto: “Ingegnere, come nel ’92.” Lui mi ha chiesto che cosa significasse e io gli ho spiegato che, come nel ’92, aveva raccontato per filo e per segno i meccanismi, ma più in là non era andato. Solo che io non potevo accontentarmi e gliel’ho detto chiaramente che non mi bastava. Volevo nomi e cognomi, volevo fatti. Volevo cifre. Circostanze precise. E lui mi ha guardato e secondo me ha capito che sarebbe rimasto in galera.»

12-Continua (Le puntate precedenti sono state pubblicate il 10, 15, 17, 23, 24, 30, 31 agosto, il 6, 7, 13 e 14 settembre)

 

Le difese: una battaglia giudiziaria a colpi di ricorsi

È stata una battaglia giudiziaria a suon di istanze di remissione in libertà e di ricorsi davanti al Tribunale del riesame. Dopo gli arresti del giugno scorso, gli indagati nell’inchiesta sul “sistema Mose” hanno messo in campo una batteria di difesori di tutto rispetto, molti dei quali veneti. L’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, ha scelto il presidente dell’Ordine degli avvocati, Daniele Grasso, capace di concordare un patteggiamento ai minimi (poi rigettato dal gip). I funzionari regionali Giovanni Artico e Giuseppe Fasiol, difesi da Rizzardo Del Giudice e Marco Vassallo, sono riusciti ad ottenere l’annullamento dell’ordinanza per mancanza di gravi indizi; l’ex presidente dell’Ente Gondola, Nicola Falconi (avvocati Giorgio Bortolotto e Paolo Rizzo) è stato rimesso in libertà in quanto ritenuto vittima di concussione. Tra i legali veneziani impegnati nel procedimento, figurano il presidente della camera penale veneziana, Renato Alberini (difensore di [……………]), l’avvocato Renzo Fogliata, primo difensore del sanmarinese Walter Colombelli, produttore di false fatture per la Mantovani; Simone Zancani, difensore dell’imprenditore bellunese Luigi Dal Borgo; Giovanni Molin, legale dell’ex presidente della Venezia-Padova, Lino Brentan. E ancora Andrea Franco, avvocato dell’imprenditore Andrea Rismondo; Angelo Andreatta, difensore di Stefano Tomarelli (Condotte); l’avvocato Tommaso Bortoluzzi che assiste l’ex collaboratore di Mazzacurati, Luciano Neri; il legale rodigino Francesco Zarbo, difensore di Giampietro Marchese, un tempo esponente di spicco del Pd.

 

Gazzettino – Mose, subito a processo. Meneguzzo e Milanese.

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20

set

2014

Giudizio immediato a Milano per il finanziere vicentino e l’ex braccio destro di Tremonti

Nel mirino due mazzette da mezzo milione. In aula anche il generale in pensione Spaziante

Tangenti Mose: giudizio immediato per Milanese, Meneguzzo e Spaziante il 4 novembre davanti al tribunale di Milano in composizione collegiale. Il gip Natalia Imarisio ha accolto la richiesta della Procura meneghina di “saltare” l’udienza preliminare e quindi accorciare i tempi del processo. Una modalità che è prevista solo per gli indagati che siano ancora detenuti e non oltre il 180. giorno dall’esecuzione del provvedimento di custodia cautelare. Si tratta del troncone dell’inchiesta veneziana sulla nuova Tangentopoli lagunare i cui atti sono stai trasmessi prima dell’estate per competenza territoriale agli inquirenti milanesi. In ballo due mazzette da mezzo milione di euro ciascuna, la cui consegna materiale sarebbe avvenuta negli uffici di Milano della Palladio Finanziaria del vicentino Roberto Meneguzzo fra il giugno 2010 e il febbraio 2011.
Meneguzzo, 58 anni, difeso dagli avvocati Alleva e Manfredini, è agli arresti domiciliari nella città berica, dopo aver tentato il suicidio in cella. In base alle prove raccolte dal Nucleo di polizia tributaria di Venezia, il manager considerato il “Cuccia del Nordest” avrebbe messo in contatto il presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, sia con Milanese che con Spaziante, i quali dietro lauto compenso si sarebbero dati da fare, per quanto di loro competenza, per facilitare la continuazione dei lavori del Mose.
Marco Milanese, 55 anni, nato a Milano, difeso dagli avvocati La Rosa e Spagnuolo, nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere è rinchiuso dallo scorso 4 luglio. È accusato di corruzione: quale consigliere politico dell’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, avrebbe ricevuto 500mila euro per inserire nella delibera Cipe n.31/2010, un finanziamento di 400 milioni di euro per il Mose che era stato escluso dallo stesso Tremonti.
Anche Emilio Spaziante, 62 anni, casertano, difeso dagli avvocati Di Noia e Bergamini, è recluso a Santa Maria Capua Vetere dal 4 giugno, quando è scattata la “retata storica” in laguna. Generale della Finanza in pensione, all’epoca dei fatti in servizio a Roma come comandante interregionale dell’Italia centrale, sarebbe la “talpa” dell’inchiesta. Accusato di atti contrari ai doveri d’ufficio, avrebbe ricevuto 500mila euro (unico acconto rispetto ai 2 milioni e mezzo pattuiti) per ammorbidire la verifica fiscale aperta dalle Fiamme gialle nella sede del Consorzio l’11 giugno 2010 e per carpire informazioni sul procedimento penale e sulle intercettazioni disposte dagli inquirenti. In entrambi i casi a dare l’ordine di recuperare il contante a Piergiorgio Baita, allora patron della Mantovani, sarebbe stato Mazzacurati che poi lo avrebbe portato personalmente ai destinatari. Denaro rastrellato con il meccanismo della sovrafatturazione che vede coinvolti anche Luciano Neri, “contabile” del Cvn e Nicolò Buson, ragioniere della Mantovani.
Intanto, resta ai domiciliari l’ex eurodeputata vicentina Lia Sartori. Il Tribunale del riesame di Venezia rigettando l’appello presentato dagli avvocati Coppi e Zanettin. Lia Sartori, 67 anni, esponente di spicco di Forza Italia, già presidente del Consiglio regionale del Veneto, è accusata di finanziamento illecito per aver ricevuto nel 2009 un contributo elettorale di 25mila euro e altri contributi pari a 200mila euro, di cui 50mila consegnati personalmente da Mazzacurati il 6 maggio 2010. La Sartori respinge ogni addebito e annuncia di volersi difendere con ogni mezzo, «affinché la propria immagine pubblica e privata rimanga specchiata». Nel frattempo anche il manager Stefano Tomarelli (Condotte) ha concordato con la Procura il patteggiamento: due anni di reclusione (con sospensione della pena) e un “risarcimento” di 700mila euro.

Monica Andolfatto

 

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