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Gazzettino – Cosi’ Baita “oliava” i grandi progetti

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

18

giu

2014

INCHIESTA MOSE – Le rivelazioni di Buson, ex manager Mantovani. Intanto quattro arrestati sono pronti a parlare

Così Baita “oliava” i grandi progetti

Dalla Nogara Mare all’A27: 800mila euro da distribuire ai politici per i project financing a Nordest

IL PIANO – Dal Grap alla Nogara mare, dalle tangenziali alla Sr 10, dalla Valsugana al prolungamento dell’A27 fino a Cortina: 9 project financing che Piergiorgio Baita nel 2012 decide di “incoraggiare” con 800mila euro di mazzette.

LA RIVELAZIONE – A raccontare la formazione della “provvista” è Nicolò Buson, braccio destro di Baita: i soldi sarebbero serviti per “convincere” i politici. E altri quattro indagati sono pronti a parlare.

IL SISTEMA – Evitare le corse al ribasso, meglio proporre progetti con le cordate

LA RIVELAZIONE «Protestai per le continue richieste dei politici: mi disse che non c’era alternativa»

UN LUNGO ELENCO – Gra e Nogara Mare, Via del mare, Valsugana e Tangenziali Venete

Un fondo da 800mila euro per “oliare” le grandi opere

Le rivelazioni di Buson, ex direttore amministrativo di Mantovani: Baita nel 2012 avrebbe creato finanziamento illecito e false fatturazioni per 4 milioni di euro, una provvista per pagare «chi occupava ruoli di rilievo in regione». Nel mirino 9 projet financing per l’ospedale di Padova

Si va dal Grap alla Nogara mare, dalle tangenziali alla Sr 10, dalla Valsugana al prolungamento dell’A27 fino a Cortina. In tutto sono nove progetti di finanza che Piergiorgio Baita a maggio 2012 decide di “incoraggiare” con 800 mila euro di mazzette. Racconta Nicolò Buson, il braccio destro e sinistro di Baita per quanto riguarda i “finanziamenti”: «A maggio del 2012 ricordo di avere effettuato una serie di incontri prima con Baita, poi con Baita e la Minutillo e infine con Mirco Voltazza relativamente a una provvista di 800 mila euro che il Baita aveva detto che era necessario procurare per la “sistemazione” di alcuni project financing in corso di approvazione o comunque di esame da parte delle competenti autorità regionali. Ricordo che alla fine, oltre a me, anche la Minutillo aveva iniziato a lamentarsi di queste continue somme che venivano chieste dai politici locali per poter favorire l’approvazione dei project financing. Ricordo che in un’occasione io e la Minutillo protestammo espressamente con il Baita, il quale però ribadì la sua decisione di fondo, che non vi erano cioè alternative al pagamento di somme illecite a coloro che occupavano posti di rilievo negli enti pubblici preposti alla approvazione dei progetti.» E’ il 10 aprile 2013 quando i p.m. Stefano Ancilotto e Stefano Buccini, interrogano Buson, allora detenuto nel carcere di Treviso. E Buson racconta che Baita è l’inventore del sistema del project. Il geniale amministratore delegato della Mantovani infatti ha capito per tempo che è inutile dissanguarsi con una corsa al ribasso concorrendo all’aggiudicazione degli appalti. E’ meglio farseli da soli, gli appalti, essendo certi di vincere. E così inventa i projetc ovvero proposte di interventi che hanno interesse pubblico. Il meccanismo del project è complesso perchè chi lo propone non può candidarsi a realizzarlo. O, meglio, può realizzarlo solo subentrando a chi ha vinto la gara e al prezzo fissato da chi ha vinto. E’ un diritto di prelazione che viene riconosciuto al proponente. Baita concorre in numerosi project, ma è lui stesso a dire che perde sempre quando non si allea con la Gemmo. Ma vediamoli questi project. Alcuni sono andati avanti, altri come il prolungamento dell’A27 fino a Cortina sono in alto mare.
Partiamo dal Grande Raccordo Anulare di Padova. L’importo del progetto è di 520 milioni di euro. Si aggiudica la gara la Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.A. – Società Astaldi S.p.A. Attualmente la proposta è sospesa.
Poi c’è la Nogara mare, un intervento che vale 2 miliardi. Vince una associazione temporanea d’imprese che comprende la Mantovani.
Poi ancora la superstrada a pedaggio Via del Mare A4-Jesolo e litorali: tratti da A27 – Silea ad A4 – Meolo e da Jesolo a Ca’ di Valle. Importo del progetto: 281 milioni. Il proponente è la Sitre di Baita, ma il project è sospeso. Si riparte con il progetto Via del Mare: collegamento A4 – Jesolo e litorali. Importo 187 milioni. Vince Adria Infrastrutture cioè una società di Piergiorgio Baita; Nuova strada regionale S.R.10 “Padana Inferiore”. L’importo è di 35 milioni e il 1. classificato è l’Ati guidata dall’impresa Giuseppe Maltauro S.p.A., la società finita nei guai per l’Expo di Milano;
Nuovo sistema delle tangenziali venete: Verona-Vicenza-Padova. Importo del progetto: 2 miliardi 270 milioni di euro. Primo classificato impresa Pizzarotti, ma nell’Ati c’è anche l’impresa Mantovani di Baita; Itinerario della Valsugana Valbrenta – Bassano – Superstrada a pedaggio. Importo del progetto: 787 milioni di euro. Vince Pizzarotti con Mantovani.
Collegamento tra autostrada A4 VE-TS, tra i caselli di Portogruaro e Latisana, e Bibione e litorale. L’intero iter è sospeso.
Infine c’è il project sul prolungamento dell’A27 fino a Cortina, tuttora in alto mare.

Maurizio Dianese

 

PIANO OPERATIVO – Una strategia pianificata in diversi incontri, presenti anche Minutillo e Voltazza

CHI PARLA I chioggiotti Mario e Stefano Boscolo, ma anche Morbiolo e Cuccioletta

Quattro arrestati hanno chiesto l’interrogatorio ai Pm, per vuotare il sacco e uscire di galera

CHI NEGA – Tacciono Marchese, Sutto, Brentan e Piva, l’ex magistrato alle acque

Iniziata la corsa per patteggiare

E’ iniziata la corsa al patteggiamento. E sul pallottoliere la Procura di Venezia comincia ad avere più palline bianche che nere e cioè più gente che vuol collaborare rispetto a quanti continuano a giurare la propria innocenza. Oggi va in scena un’altra tranche di Tribunale del riesame e in parecchi chiederanno di essere scarcerati o di andare ai domiciliari. Ma c’è più di qualcuno che ha chiesto di parlare. Per ora si tratta di richieste di interrogatorio, ma quattro avvocati si sono già presentati in Procura a sondare il terreno. I loro clienti vogliono vuotare il sacco. Del resto il primo è stato il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni ed è proprio sulla base della sua vicenda processuale – che potrebbe chiudersi sabato con un patteggiamento di 4 mesi – che altri quattro arrestati hanno chiesto di essere sentiti al più presto in Procura. Sembra che vogliano presentarsi, come Orsoni, con il cappello in mano “ammettendo i contatti con Sutto” e la “consapevolezza dell’effettiva provenienza del denaro dal Consorzio Venezia Nuova, ai cui finanziamenti illeciti ha dichiarato di non essersi sottoposto” – come si legge nell’ordinanza che ha liberato Orsoni in cambio dell’ammissione di colpevolezza. Adesso altri lo faranno. Il carcere comincia a dare i suoi frutti. Del resto in 24 sono in galera da mercoledì 4 giugno. E due settimane possono essere un tempo infinito. E dunque si può iniziare a fare i conti di chi parla e di chi – per ora – non parla.
Non parla – nel senso che nega tutti gli addebiti e contesta le accuse – Giampietro Marchese, indicato da molti, a cominciare dai suoi compagni di partito come Pio Savioli, come il referente del Pd per quanto riguarda le collette, chiamiamole così, elettorali. Anche Federico Sutto, il postino di Giovanni Mazzacurati per conto del quale consegnava le bustarelle, ha deciso per adesso di non aprire bocca. L’obiettivo del suo avvocato, Gianni Morrone, è quello di farlo uscire dalla galera il più rapidamente possibile, poi si vedrà. Collaborano invece i Boscolo Bacheto, Mario e Stefano, padre e figlio, i chioggiotti che sono al centro dell’inchiesta per quanto riguarda la parte delle mazzette targate Partito democratico. Anche Franco Morbiolo, pure lui della banda delle coop rosse – così la chiama Pio Savioli – ha parlato e il suo verbale è stato secretato, segno evidente che ha aperto il sacco. Non parla invece Lino Brentan, l’ex amministratore delegato della Padova-Venezia, già arrestato un anno fa e sempre per una storia di tangenti. Lino Brentan, ironia della sorte, condivide con uno dei grandi accusatori del sistema Mose – Piergiorgio Baita – la passione per l’orto. Entrambi dicono di essersi ritirati a coltivare pomodori-ciliegino.
Non parla per ora nemmeno Maria Giovanna Piva, ex magistrato alle acque, mentre ha vuotato il sacco ammettendo tutto Patrizio Cuccioletta, che aveva assunto la carica subito prima della Piva. Anche Enzo Casarin, il segretario di Renato Chisso non parla o, meglio, si difende dicendo che esiste un altro Casarin, Gianni, e potrebbe essere lui quello che cercano i pm.
Mancano all’appello – nel senso che ancora non si sa quando verranno interrogati – un paio di funzionari regionali come Giuseppe Fasiol e Giovanni Artico. Almeno per Fasiol la posizione sembra alleggerita dal fatto che è accusato di aver preso un incarico di collaudo del Mose, ma pare che abbia in mano la prova provata che quell’incarico lo ha rifiutato. Artico invece è accusato di aver bloccato tutto finché non gli hanno assunto la figlia. Posizioni minori, ma importanti, secondo l’accusa, per dare il quadro della pervasività della corruzione.

Roberta Brunetti – Maurizio Dianese

 

IL RIESAME – I giudici concedono gli arresti domiciliari all’ex presidente del Coveco, accusato di

Lo zampino di Morbiolo nella consulenza

Il Tribunale del riesame ha concesso gli arresti domiciliari a Franco Morbiolo intervenendo «solo sulla proporzionalità e adeguatezza della misura cautelare», ma «confermando l’ordinanza impugnata nella parte restante». Lo scrive il presidente Angelo Risi per spiegare la decisione di revocare il carcere all’ex presidente del Coveco arrestato il 4 giugno scorso. Così le prime motivazioni dei giudici del riesame, depositate ieri in cancelleria, sono una sostanziale conferma del quadro accusatorio ricostruito dall’ordinanza dal giudice Alberto Scaramuzza, su richiesta dei pm Stefano Ancillotto, Paola Tonini e Stefano Buccini.
Morbiolo è accusato di finanziamento illecito avendo partecipato, con le imprese del Coveco, al giro di false fatturazioni messo in piedi dal Consorzio Venezia Nuova. In particolare gli vengono contestati i contributi “in bianco” all’ex consigliere Giampietro Marchese e al sindaco Giorgio Orsoni: soldi formalmente arrivati da consorziate, in realtà del CVN, quindi illeciti. «La regia della vicenda è riferibile a Mazzacurati» scrive Risi. Ma Morbiolo sapeva, così come sapeva del sistema di sovrafatturazioni. Lo dicono sia Pio Savioli, il rappresentante delle coop nel CVN, che il responsabile amministrativo del Coveco, Enrico Provenzano. «É Morbiolo che suggerisce al responsabile amministrativo Provenzano di trascrivere su carta “mangiabile” e di nascondere in un luogo sicuro i documenti compromettenti relativi proprio ai rapporti tra Coveco e CVN» scrive ancora Risi.
I giudici del riesame approfondiscono anche un’altra vicenda che coinvolge pure Morbiolo, quella della consulenza da 200mila euro pagata proprio dal Coveco all’ex segretario regionale alle sanità, Giancarlo Ruscitti. Così Mazzacurati cerca di entrare nell’operazione nuovo ospedale di Padova. E ancora una volta, per non far apparire il CVN, interpone il Coveco. «Vi sono una pluralità di intercettazioni telefoniche tra Savioli e Morbiolo nonchè tra Savioli e Mazzacurati dalle quali risulta che l’ordine partito da Mazzacurati è quello di “far fare” il contratto con la Coveco». Contratto sottoscritto da Morbiolo. «Che il contratto sia, evidentemente, simulato è ben chiaro anche a Ruscitti che infatti telefona all’ingegner Mazzacurati per ringraziarlo». E una conferma ulteriore arriva da una conversazione intercettata tra Morbiolo, Ruscitti e Savioli.
Il Tribunale, infine, respinge le argomentazioni della difesa, secondo cui Morbiolo era un mero esecutore, senza contatti diretti con i protagonisti della vicenda, che in un caso si era pure opposto a Mazzacurati, mentre il Coveco non ne aveva tratto benefici. «Lungi dall’essere un semplice uomo di paglia – ribattono i giudici – ha esercitato un potere decisionale ampio e assolutamente incontrollato sia sulle cooperative consorziate che sui dipendenti manifestando una fortissima influenza sull’intera gestione dell’intera cooperativa che, tutt’ora, egli è in grado di esercitare. Diversamente non si comprenderebbe come sia riuscito a far emettere alla Covevo fatture per operazioni inesistenti per oltre 4 milioni di euro». Insomma, anche se non apparteneva al «gruppo decisionale», aveva un «ruolo esecutivo cosciente». Quanto al profitto per il Coveco, stava nel «partecipare alla spartizione delle opere che il CVN appaltava alle sue consorziate».

Roberta Brunetti

 

PIGOZZO (PD) «Sospendere le procedure della gara per la Via del Mare che porta a Jesolo»

VENEZIA – Sospendere le procedure di gara per la costruzione e la gestione della superstrada a pedaggio denominata «Via del Mare» A4 – «Jesolo e litorali» in attesa degli esiti della verifica svolta dalla Commissione d’inchiesta sui lavori pubblici e degli sviluppi dell’inchiesta giudiziaria in corso. Lo chiede con interrogazione alla Giunta il consigliere regionale del Pd, Bruno Pigozzo, vicepresidente della commissione Trasporti. Ricorda come il presidente Luca Zaia, riferendo in Consiglio, abbia «preso le distanze» dalle scelte fatte prima del suo mandato. «Nell’elenco delle opere che ha citato nel suo intervento – precisa Pigozzo – ha richiamato anche la Via del Mare Meolo-Jesolo: opera nata progettualmente nel 2007 e messa a gara nel 2013».

 

L’ex Doge al giudizio dei colleghi deputati. E Zoggia si dimette.

E’ arrivato il gran giorno per l’ex Doge di Venezia alias Giancarlo Galan, l’uomo che ha governato il Veneto per tre lustri. La Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati deve decidere se farlo arrestare. Lo farà senza Davide Zoggia, che si è dimesso dalla Giunta. Il deputato veneziano rischiava infatti di dover decidere su un collega che è finito al centro di uno scandalo mondiale che, però, tocca in profondità il Pd veneziano di cui Zoggia fa parte da una vita. Non solo. Secondo l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, Zoggia avrebbe partecipato ad una riunione, con i compagni di partito Giampiero Marchese e Michele Mognato per convincere Orsoni a chiedere soldi a Mazzacurati, il patron del Consorzio Venezia Nuova. Mognato e Zoggia hanno già smentito l’incontro e Giampiero Marchese è addirittura in grado di indicare la data esatta in cui ha conosciuto di persona Orsoni. Si tratta del luglio 2010, quando il sindaco era già sindaco da 5 mesi. Marchese si ricorda l’episodio perchè in luglio è stato nominato presidente di Ames, una controllata del Comune. Prima di allora non aveva mai incontrato Orsoni. Ma, tra una smentita e l’altra, Zoggia non ha potuto restare in sella e dunque si è dimesso. Al suo posto dovrebbe presentarsi oggi Laura Garavini e sarà lei dunque a votare pro o contro l’arresto.
Giancarlo Galan (sarà sentito in Giunta il 25 giugno) è la star politica dell’inchiesta sul più grande scandalo che sia mai avvenuto in Italia. Contro di lui ci sono una quantità enorme di dichiarazioni di Piergiorgio Baita il quale racconta ai giudici di aver finanziato tutte le campagne elettorali di Galan, a colpi di centinaia di migliaia di euro. Talmente tanti soldi che ad un certo punto il segretario regionale di Forza Italia, l’avv. Nicolò Ghedini, si lamenta perchè al partito non arriva niente. “Galan l’idrovora” è accusato di tenere tutto per sè. E c’è un incontro all’hotel Santa Chiara a Venezia durante il quale Claudia Minutillo, segretaria di Galan, spiega a Baita «che la segreteria di Forza Italia era piuttosto risentita verso il Consorzio Venezia Nuova perché, con tutto quello che facevano loro per il Consorzio, la segreteria non aveva visto nessun tipo di contributo e questo aveva creato anche una certa difficoltà di rapporti tra il Presidente Galan e la struttura del partito, ritenendo che il Presidente Galan intercettasse tutti i contributi».
Claudia Minutillo racconta a sua volta le mille “dazioni” di denaro che Galan avrebbe incassato. Al punto che Minutillo parla di un vero e proprio stipendio da un milione di euro incassato ogni anno dall’ex Governatore. E quando il p.m. Stefano Ancilotto chiede se lei abbia mai visto consegne di denaro con i suoi occhi, Claudia Minutillo risponde: «Sì». Lei ha visto Galan che incassava da Baita, ma anche «dalla Gemmo, da Marchi, da Stefanel…”. E Baita spiega poi ai magistrati di come ha pagato la ristrutturazione della villa di Galan per un totale di 1 milione e 100 mila euro. Infine ci sono i conti in tasca che ha fatto la Finanza, secondo la quale Galan avrebbe avuto in dieci anni entrate per un milione e rotti di euro e ne avrebbe speso più di due. Insomma nei 18 faldoni consegnati dalla Procura alla Giunta della Camera ci sono centinaia di pagine che riguardano direttamente Galan.

Maurizio Dianese

 

IL VESCOVO – Bagnasco: «I cattivi esempi non scoraggino»

GENOVA – «Speriamo che la gente non perda la fiducia, anche alla luce dei cattivi esempi che sembra continuamente ci siano. Questi cattivi esempi non devono assolutamente scoraggiare, perché non sono la maggior parte della gente. Mi riferisco a tutto quello che le cronache quasi quotidiane ci rappresentano». Lo ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova, riferendosi ai recenti scandali legati alla Banca Carige e al Mose di Venezia. «Molti parlano di segnali positivi, di ripresa ad alti livelli, dell’economia e della produzione e questo lo speriamo ma temo che ci voglia ancora tempo».

 

LA DENUNCIA

I recenti fatti del Mose rendono a tutti evidente il danno che ai cittadini provoca la collusione tra politica e imprenditoria. Vorrei però far notare come i “soliti noti” abbiano potuto scorazzare imperterriti per anni prima che a loro carico si sia riusciti a produrre qualche prova che permetta ora di bloccarne le malefatte. Le eventuali condanne poi, (sempre che il tutto non finisca in prescrizione prima della fine del processo) saranno come sempre a dir poco ridicole rispetto a quanto invece deve pagare un qualunque cittadino nel caso gli venga addebitato un illecito.
Mi fa sorridere la farsa dei politici intervistati che si sono dimostrati stupiti e increduli perché pur supponendo che siano in buona fede, credo che se fossero stati meno seduti sulle proprie “careghe” e avessero parlato un po’ con la gente comune avrebbero saputo che la “vox populi” da tempo indicava il Mose come una delle maggiori ruberie perpetuate dalla politica ai danni della comunità. È la stessa “vox pouli” che ritiene Veneto City una mera speculazione edilizia.
Sarei felice quindi se ora la Magistratura si prendesse la briga di indagare anche su Veneto City dato che nel caso specifico i “soliti noti” hanno acquistato terreni agricoli a prezzi stracciati ben sapendo che sarebbero diventati edificabili (qualcuno li ha forse messi al corrente dei futuri piani regolatori?).
Sempre “i soliti noti” che comprano la terra, progettano e costruiscono, hanno ottenuto dalla Regione l’autorizzazione ad edificare l’ecomostro nonostante le proteste di cittadini, commercianti, associazioni autorevoli quali “Italia Nostra” e perfino il parere contrario del Magistrato alle acque. I lavori proseguono anche se non si sa ancora chi andrà ad occupare quell’enormità di metri cubi di cemento che avrà un impatto devastante sul fragile graticolato romano, ma servirà probabilmente a qualcuno per pagarsi le prossime campagne elettorali.
Penso inoltre che se qualora questi edifici di nuova costruzione non venissero venduti, potranno servire ai “soliti noti” (secondo quanto indicato dalle nuove regole edilizie) quale garanzia per potersi accaparrare gli appalti per l’edificazione di nuovi ecomostri.
In tal caso si finirebbe in un circolo vizioso che garantirebbe solo ai collusi di poter lavorare facendo così morire le piccole aziende e chi con la politica non ha avuto niente da spartire.

Mario Muneratti – Mirano

 

Nuova Venezia – Cuccioletta ha iniziato a collaborare

Posted by Opzione Zero in Rassegna stampa | 0 Comments

17

giu

2014

Cuccioletta ha iniziato a collaborare

Aveva già ammesso dei “regali”, l’ex presidente del Magistrato alle acque ieri ha parlato per tre ore, l’interrogatorio è stato secretato

Cuccioletta è stato arrestato perché accusato di aver ricevuto uno stipendio annuo di 400 mila euro dal Cvn

L’ex ministro Matteoli sarà interrogato dal Tribunale veneto dei ministri il prossimo 27 di giugno

Orsoni ha patteggiato 4 mesi e 15 mila euro: il 28 giugno il giudice dovrà decidere se avallare la pena

VENEZIA – Il giudice veneziano Massimo Vicinanza ha fissato per sabato 28 giugno l’udienza in cui deciderà se la pena di quattro mesi per il sindaco Giorgio Orsoni sia congrua o meno e ieri il Tribunale per i ministri del Veneto si è riunito ed ha deciso di convocare l’ex capo del dicastero delle Infrastrutture Altero Matteoli venerdì 27 giugno. Intanto l’ex presidente del Magistrato alle acque, Patrizio Cuccioletta, si è aggiunto alla schiera di quanti hanno deciso di collaborare. Ieri, è stato sentito per più di tre ore dal pubblico ministero Stefano Ancilotto negli uffici della Procura lagunare e se l’ex alto funzionario statale si fosse limitato a ripetere quello che aveva già detto durante l’interrogatorio di garanzia, il primo al quale è stato sottoposto nel carcere romano dove è rinchiuso con l’accusa di corruzione, probabilmente il rappresentante dell’accusa lo avrebbe liquidato in pochi minuti. Cuccioletta, infatti, pur confermando di aver ricevuto dal presidente del Consorzio Venezia Nuova 500 mila euro, soldi finiti in un conto intestato alla moglie in una banca svizzera, aveva avuto il coraggio di definirlo un semplice regalo. Questa volta, invece, avrebbe cambiato registro e proprio per questo l’interrogatorio non solo è durato a lungo, ma il verbale è stato secretato, segno evidente che il pm Ancilotto valuta interessanti e soprattutto degne di essere riscontrate tutte le informazioni che Cuccioletta ha fornito. Da sottolineare che di lui parlano sia Giovanni Mazzacurati sia l’ex presidente della Mantovani Piergiorgio Baita. Con le loro dichiarazioni hanno permesso agli investigatori della Guardia di finanza di far scattare le manette ai polsi di Cuccioletta con l’accusa di aver incassato uno stipendio annuo di 400 mila euro, una mazzetta da 500 mila, di aver fatto assumere la figlia Flavia alla «Thetis», società controllata dal Consorzio e di aver fatto avere un contratto da 38 mila euro al fratello architetto Paolo. In cambio, l’ex presidente del Magistrato alle acque avrebbe omesso la vigilanza sulle opere alle bocche di porto e non avrebbe segnalato le irregolarità nei lavori. Il sindaco Orsoni ha invece raggiunto l’accordo per patteggiare la pena di 4 mesi con la Procura per il reato di finanziamento illecito al partito, ma l’ultima parola tocca al giudice dell’udienza preliminare Vicinanza, che ha convocato pubblico ministero e difensori per il 28 giugno. Il giorno prima il Tribunale dei ministri presieduto dalla veronese Monica Sarti e composto dai veneziani Priscilla Valgimigli e Alessandro Girardi interrogherà Matteoli, indagato per corruzione, anche lui sarebbe stato pagato da Mazzacurati e dal presidente dei costruttori romani Erasmo Cinque. Saranno presenti i suoi difensori, gli avvocati Giuseppe Consolo, Francesco Compagna e Gabriere Civello. Solo dopo l’interrogatorio il Tribunale deciderà come proseguire la sua attività d’indagine.

Giorgio Cecchetti

 

Mazzacurati e Baita truffati da Chiarini, falso magistrato

C’è un nuovo capitolo che emerge dall’inchiesta del Mose: Gino Chiarini, architetto di Ferrara, uno degli arrestati, si è addirittura spacciato per il procuratore aggiunto di Udine, Raffaele Tito, in cambio di informazioni riservate sulle indagini in corso. Nel capo di imputazione firmato dal Gip Scaramuzza, la vicenda viene riassunta al punto 34 dell’ordinanza dove compaiono come co-imputati Luigi Dal Borgo, Mirco Voltazza, Gino Chiarini, Alessando Cicero e Vincenzo Manganaro. La vicenda in estrema sintesi: Chiarini veniva presentato da Voltazza come intermediario del dottor Tito e perciò veniva ricompensato con somme oscillanti tra i 50 e i 200 mila euro. A sua volta il Voltazza, veniva compensato con 100 mila euro e otteneva per la sua società Italia service srl due contratti dalla Mantovani per oltre 5 milioni di euro. Dal Borgo, invece otteneva per la sua società «Non solo Ambiente srl» un contratto di fornitura di materiali a prezzo pieno senza sconto, indicato in 800mila euro. Invece Cicero e Manganaro ottenevano per laNew Time Corporation srl un sostegno finanziario di 2, 2 milioni per il settimale il Punto» una rivista dei servizi segreti . Ora si apre un giallo: nel verbale dell’interrogatorio Chiarini afferma:«Da queste attività, io spacciandomi come Tito, ho ricevuto 50 mila euro». Il procuratore aggiunto d Udine dal canto suo è intenzionato a costituirsi come parte offesa del reato. Baita e Mazzacurati, che sono i veri truffati, non aprono bocca su questa vicenda.

 

Il «sistema Mose» tra il Cipe di Roma e i piani Palladio

Nel memoriale di Mazzacurati del 25 luglio 2013 tutte le tappe di una vicenda nata nel 1985

PADOVA – Il «sistema Mose» con le «dazioni » ai politici e i rapporti con la Palladio, è raccontato nel memoriale firmato da Giovanni Mazzacurati il 25 luglio 2013 e consegnato alla Procura della repubblica di Venezia. 16 pagine in cui si ricostruisce la vicenda, dalla nascita della Legge Speciale per la salvaguardia della laguna, fino al Comitatone. Prima tappa: la concessione al Cvn del 1985, regolata dalla convenzione generale del 1991 che assegna le competenze sia per il piano generale che per la realizzazione dell’opera. Concessione unica chiavi in mano al Cvn per il Mose, ma con un problema: reperire le risorse. Che vengono inserite nella legge Finanziaria fin dal 1987, approvata dal parlamento, ma nel 2001 con la legge Obiettivo, i fondi sono assegnati dal Cipe tramite il fondo Infrastrutture del ministero. I tempi lunghi della politica romana convincono Mazzacurati a fare pressioni sul senatore Ugo Martinat che dal 2004 al 2006 fa arrivare le risorse: l’impegno è concludere il Mose entro il 2010. E Martinat viene «ripagato con circa 400 mila euro». Poi il deus ex machina del Cvn cambia strategia e per risolvere i problemi di liquidità finanziaria di rivolge alla «Palladio incaricata di trovare con uno specifico studio gli strumenti finanziari e contrattuali con cui il Consorzio avrebbe potuto ottenere l’intera provvista dal ceto creditizio nelle more della allocazione del finanziamento da parte dello Stato (e quindi dal Cipe)». La proposta fu bocciata e né la Bei né la stessa amministrazione delle Infrastrutture e Trasporti hanno ritenuto meritevoli le proposte del Cvn, per modificare il regime economico e giuridico della concessione in essere con l’assunzione, da parte del Cvn, dell’obbligo di reperire le risorse finanziarie in cambio del diritto di incassare un canone di disponibilità, una volta ultimati i lavori». Bocciato anche l’istituto del contratto di disponibilità, a Mazzacurati non resta che sollecitare un incontro con Meneguzzo della Palladio che procura un contatto con il ministro Tremonti e l’onorevole Milanese. Il deputato fa sapere che i finanziamenti «chiesti al ministero dello Infrastrutture sarebbero stati concessi con il parere positivo del ministero dell’Economia solo se gli fosse stata assicurata la disponibilità di una somma di 500 mila euro».

 

Il mistero dei 15 milioni di mazzette ancora senza nome

Mancano i destinatari di 14,5 milioni di tangenti pagate dal Consorzio Venezia Nuova. Mancano i ricevitori. Il nucleo di polizia tributaria di Venezia ha fin qui accertato, parliamo dell’inchiesta Mose, una produzione di fondi neri pari a 37 milioni di euro. Le tangenti certificate, con nomee cognome di chi le ha incassate, sono invece pari a 22,5 milioni. Ci sono 14,5 milioni di contanti ancora da attribuire, dopo tre anni di inchiesta. Sarà questo uno degli obiettivi dei prossimi interrogatori dei tre pm Ancilotto, (foto) Buccini e Tonini: trovare i destinatari mancanti. Ad oggi la finanza ha sequestrato 1.414 false fatture. Dal 2006 al 2010 la società canadese Quarrytrade limited ne ha emesse 1.253 direttamente alla Mantovani spa, capofila del consorzio. Un totale di 7 milioni e 990mila euro.

 

PraVATà, ex direttore del Cvn «Così Mazzacurati dava soldi a tutti»

Nel 2005 la mutazione. Con Zanda Carraro e Savona nessun aiuto ai politici

VENEZIA – Roberto Pravatà, 60 anni, ex vicedirettore del Consorzio Venezia Nuova, ha consegnato un memoriale ai magistrati che l’hanno secretato: nella sua casa a Villorba, ha rilasciato un’intervista a Fabio Tonacci di Repubblica, che qui riassumiamo. Pravatà racconta di aver consegnato il memoriale alla Gdf in cui ricostruisce i rapporti del Cvn con politici di rilievo nazionale, tra cui anche ex ministri. «I contatti li teneva Giovanni Mazzacurati, ma io ero informato perché gestivo le finanze del Cvn. La prima vicenda raccontata porta a Gianni Letta che chiese di far lavorare la Rocksoil, dell’ex ministro Lunardi». Poi Pravatà spiega perché si è dimesso dal Consorzio. «Mazzacurati volle farmi assumere la figlia di Cuccioletta, il Magistrato alle acque. Brava ragazza, per carità, si era appena laureata. Ma c’era un problema di opportunità, il Magistrato era il nostro controllore, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso… Poi ha preteso che mi dimettessi dalla vice presidenza di Thetis (società di ingegneria, acquisita dal Consorzio, ndr), perché doveva mettere uno dei suoi. A quel punto dissi basta». Ma quante campagne politiche avete finanziato? «Finché c’ero io, neanche una. Era una precisa disposizione dei presidenti precedenti, da Luigi Zanda a Franco Carraro e Paolo Savona. Poi i consiglieri nominano Mazzacurati. Siamo nel 2005 e da quel momento il Consorzio subisce una mutazione genetica, diventa spregiudicato. Quando trovai strane fatture provenienti da San Marino, mi resi conto che si era passato il limite e decisi di non firmare più quegli atti contabili». Da quel momento il Cvn diventa una sorta di «governo ombra» di Venezia. Tutti battono cassa, spiega Pravatà: del resto le risorse non mancano perché quel 12% di oneri forfettari sono una riserva di liquidità infinita. «Mazzacurati era un tecnico molto preparato e difficilmente diceva no. Puntava ad acquisire il consenso generalizzato, per sé e per il Mose. C’erano politici che avevano atteggiamenti più interlocutori, altri più di chiusura. L’ex sindaco Cacciari con noi aveva rapporti personali cordiali, ma politicamente era critico verso l’opera », spiega Pratavà. Ma c’erano politici che entravano nello studio di Mazzacurati? «L’unico era Giancarlo Galan, ma sempre per incontri istituzionali. Non ho mai firmato niente in suo favore». Ma perché tutta quest’ansia di ottenere consenso? In fondo i soldi per il Mose li garantisce lo Stato, e l’opera è utile alla città… «Il Consorzio è visto in modo molto ostile, forse perché non ha mai avuto un presidente veneziano. E c’è un problema strutturale che riguarda tutte le opere pluriennali dello Stato: le leggi finanziarie valgono per tre anni e sono troppo suscettibili di cambiamento. Accade solo in Italia», conclude Pravatà, che ricorda di aver sentito l’ultima volta Mazzacurati quando è morto suo figlio, Carlo, il regista.

 

LO SCANDALO CHE TRAVOLGE LA POLITICA

di ALBERTO VITUCCI

lo scenario. Creato un «mostro» senza controllo, tagliando le unghie ai controlli: una enorme tavola imbandita

Il sistema Mose al capolinea. Più delle dighe è la grande rete politico affaristica, costruita per comprare il consenso a tutti i costi sulle grandi opere, che è adesso sotto i riflettori. Finalmente, anche se con qualche decennio di ritardo, la pentola della corruzione è stata scoperchiata. Era il segreto di Pulcinella. Che in tanti facevano finta di non vedere. Imprese amiche, sempre le stesse. Pareri sempre positivi. Con qualche «prescrizione », che veniva facilmente sanata nella riunione successiva. Una macchina (quasi) perfetta, costruita a suon di nomine nei gangli della Pubblica amministrazione, di «semplificazione» delle procedure, di controlli sempre più blandi. Già alla fine degli anni Ottanta, quando il progetto Mose vede la luce battezzato da Gianni De Michelis, c’è chi accusa il monopolio. La concessione unica, approvata dal Parlamento, autorizza le più grandi imprese edili italiane (Impregilo – e poi Mantovani – Fiat Impresit, Condotte, Mazzi e in quota parte le cooperative rosse) di fare lavori senza gare d’appalto. Costi più alti e niente mercato. Il governo stanzia i fondi, il Consorzio li può spendere senza concorrenza. Chi dovrebbe controllare (Magistrato alle Acque e Corte dei Conti) non sempre lo fa. Le denunce (di pochi) cadono nel nulla. Così come le critiche tecniche. La Valutazione di Impatto ambientale negativa, superata con un colpo di penna dal governo D’Alema e poi Amato. Le Valutazioni si spostano in sede regionale, dove dal 1995 regna il governatore Giancarlo Galan con la sua squadra. Difficile trovare pareri negativi sui progetti. Le grandi opere di terra e di mare avanzano, vengono affidate sempre alle stesse imprese, Mantovani in testa. Con il Mose il Passante, gli ospedali, i depuratori. Nel 2002 cambia anche il meccanismo del finanziamento. Il governo Berlusconi vara la Legge Obiettivo, i soldi li dà il Cipe direttamente al Consorzio. Valanghe di denaro che, dice oggi l’ex presidente della Mantovani Piergiorgio Baita, «il Consorzio non sa più dove mettere». Perché non ci sono soltanto i lavori e i cantieri. Ma «i costi extra», quasi un miliardo di euro. Le tangenti, certo. Tecnici, presidenti, politici e decisori comprati. La stampa che spesso si accontenta delle versioni ufficiali. I filmati in stile «Istituto Luce» proiettati, le dichiarazioni trionfali di Galan, Matteoli,Lunardi, Berlusconi, Brunetta. Ma anche Prodi, Costa, Amato. Il Consorzio ha garantito il 12per cento sui lavori. Solo sui 5 miliardi del Mose fanno 600 milioni. Finanzia studi, ricerche, libri, viaggi e accoglienza. Convegni di esperti – anche uno della Corte dei Conti, alle Zitelle. Paga addirittura gli esperti del Comitato tecnico di magistratura, che devono dare il via libera. E i superesperti internazionali nominati in un pomeriggio di estate dall’allora ministro Paolo Baratta. Le poche critiche, anche autorevoli, vengono rintuzzate, i tecnici e i giornalisti che le sollevano derisi o ignorati. Una storia infinita, fatta di pareri «amici» e di maggioranze bulgare negli organi che devono approvare. Comitati tecnici, Consiglio superiore dei Lavori pubblici, commissione di Salvaguardia. Quest’ultima per approvare il Mose ci mette solo pochi minuti, senza nemmeno leggere la montagna di carte presentate. La magistratura ha scoperchiato la pentola. E il lavoro, si dice, non è affatto concluso. Si annunciano coinvolgimenti anche ad alti livelli. Ma al di là di come finirà la vicenda penale, la storia del Mose è un profondo atto di accusa nei confronti della politica. Che ha creato un «mostro» che non ha più saputo – o voluto – controllare. Tagliando le unghie agli organismi di controllo e partecipando – con rare eccezioni – al meccanismo di creazione del consenso. Una enorme tavola imbandita.

 

Dossier di Italia Nostra sullo scandalo Mose

Sarà presentato a Roma, i relatori tutti veneziani “nemici” storici del progetto delle dighe mobili

VENEZIA – Lo scandalo del Mose non è più un’idea di qualche ambientalista. Ma un film che scorre sotto gli occhi dell’Italia intera. E che dà ragione ai pochi che per anni non hanno mai smesso di denunciare il “sistema” della corruzione. Ecco allora che Italia Nostra, l’associazione che per prima ha denunciato i rischi e i pericoli del Mose e la rete di connivenze intorno al grande progetto, scende a Roma e annuncia un nuovo dossier integrato con le ultime vicende. «Malaffare, che fare?» il titolo dell’iniziativa, convocata per domattina alle 12 all’hotel Nazionale di piazza Montecitorio. I relatori sono tutti veneziani, per anni autori di denunce e segnalazioni rimaste inascoltate. Andreina Zitelli, docente Iuav e componente della commissione nazionale Via del ministero per l’Ambiente, fu una delle firmatarie nel 1998 della Valutazione di Impatto ambientale negativa che bocciava il progetto di massima delle dighe. «Ci ho rimesso il posto», ricorda, «eppure in quella relazione c’era tutto. Poi il progetto è stato spinto anche quando non andava bene. E i lavori sono cominciati nonostante non ci sia mai stata una Valutazione di Impatto ambientale positiva». Ci sarà anche il professor Luigi D’Alpaos, docente di Idraulica all’Università di Padova, tra i massimi esperti lagunari. Inascoltati anche i suoi allarmi sull’erosione della laguna e i rischi del Mose. Poi Armando Danella, per vent’anni dirigente dell’Ufficio Legge Speciale di Ca’ Farsetti, memoria storica e testimone dei meccanismi che hanno portato negli anni ad annullare ogni controllo locale sulla grande opera, respingendo critiche e alternative. «Nel 2006 fu il governo Prodi a decidere di andare avanti lo stesso», ricorda, «senza nemmeno prendere in considerazione i progetti alternativi che avevamo proposto come giunta Cacciari». Infine due esponenti di Italia Nostra a Venezia, la presidente Lidia Fersuoch e il vice Cristiano Gasparetto. Anche loro autori di denunce e dossier sulla questione salvaguardia e sui rischi della grande opera. «Vogliamo denunciare all’opinione pubblica nazionale quello che è successo ma soprattutto cercare soluzioni », dicono, «sulle grandi opere bisogna girare pagina». Intanto stasera su Raitre alle 23.20 replica dell’inchiesta di report sul Mose andata in onda due anni fa e firmata da Claudia De Pasquale che all’epoca provocò proteste e minacce di querela. (a.v.)

 

«Il tempo sarà galantuomo non ho mai ricevuto soldi»

L’intervento di Giorgio Orsoni in aula. Il sindaco visibilmente provato

«Parlo per rispetto a quest’assemblea composta da persone oneste»

VENEZIA «Il tempo sarà galantuomo e nel tempo capiremo meglio ciò che è accaduto. Nel tempo sapremo quel che è successo anche fuori di quest’aula». Il sindaco Giorgio Orsoni affronta il suo primo Consiglio comunale da uomo libero, dopo la vicenda che lo ha visto agli arresti domiciliari per una settimana con l’accusa di finanziamento illecito. Urla dal pubblico, gelo dai banchi del Pd e dalle opposizioni. Orsoni è un uomo stanco, visibilmente provato da una vicenda che lo ha portato in poche ore dal successo al baratro. Ma con grande carattere cerca di risalire la corrente. Sceglie il basso profilo, evita le polemiche. Annuncia le dimissioni sue e della giunta, che decorrono dal 13 giugno e dopo 20 giorni provocheranno la decadenza dell’intero Consiglio comunale. «Parlo quei solo per il rispetto dovuto a questa assemblea», attacca, «composta di persone che si sono impegnate nell’amministrazione della città in maniera corretta e onesta. Li ringrazio per quello che è stato fatto nell’interesse della città, con trasparenza e assoluta corretteza». In pillole, il sindaco ribadisce quello che già aveva spiegato all’indomani della sua liberazione. Cioè «di non aver mai ricevuto soldi »,madi aver chiesto a vari imprenditori «tra cui Giovanni Mazzacurati che conoscevo da tempo di sostenermi». Ma tutto questo «a seguito delle sollecitazioni di chi conduceva la mia campagna elettorale». Stavolta non fa nomi, ma indica i partiti del centrosinistra, a cominciare dal Pd. «Mazzacurati mi disse che era sua consuetudine interessarsi anche nel passato per sostenere campagne elettorali dei vari candidati e che si sarebbe volentieri interessato a parlarne coni suoi amici imprenditori». Soldi che finivano al comitato organizzatore della campagna elettorale. «Ci furono tanti eventi. Ma non so chi li organizzasse e come fossero pagati, non potevo sapere se fossero di provenienza illecita». Tanto più che Orsoni era un «uomo prestato alla politica ». «Mi avevano chiesto loro di candidarmi, e io non conoscevo questi meccanismi». Quanto al patteggiamento, l’avvocato ribadisce che «non è stato concluso, c’è solo una richiesta ». Il resto? Romanzi e chiacchiere di chi ha cercato di screditarmi. Anche facendo intendere che mi sarei ricandidato. «Non ne ho alcuna intenzione, sia chiaro». Infine Orsoni ha espresso la sua «tristezza». «Questa vicenda, che ha colpito in un modo che ritengo ingiusto duramente me e la mia famiglia, chi mi è vicino, è una vicenda che ha colpito gravemente tutta la città. Si deve prenderne atto, sapendo però che qualcosa non ha funzionato ».

Alberto Vitucci

 

Non passa lo scioglimento del Consorzio

La maggioranza di centrosinistra ci riproverà lunedì 23, se sarà confermata un’altra seduta del consiglio comunale

SEBASTIANO BONZIO – Il Consiglio con questo sindaco è delegittimato a continuare Siamo qui per senso di responsabilità

SIMONE VENTURINI – L’esperienza amministrativa è conclusa, ma abbiamo il dovere di approvare alcuni provvedimenti urgenti per la città

GIAMPIETRO CAPOGROSSO – Non ci sono primi della classe le dimissioni le abbiamo presentate nelle mani del capogruppo già la scorsa settimana

MESTRE – Primo atto, sciogliere il Consorzio Venezia Nuova e indagare sui soldi spesi dal 1984 ad oggi. La maggioranza prova a dare una sterzata nella palude. Si ritrova compatta sull’ordine del giorno firmato da tutti i capigruppo che chiede di girare pagina su 20 anni di politica di salvaguardia. È un banco di prova importante nel primo Consiglio dopo la liberazione del sindaco, costretto per una settimana agli arresti domiciliari con l’accusa di finanziamento illecito. Mala prova fallisce. Solo 22 i voti a favore – ne occorrevano 31, i due terzi dell’assemblea per modificare l’ordine del giorno – 13 i contrari, due gli astenuti, il sindaco e Franco Conte del Pd. «Poco male, lo approveremo lunedì prossimo», dice sicuro Beppe Caccia, uno dei proponenti. Spettacolo mesto e a tratti surreale, quello del Consiglio di ieri. Via Palazzo assediata primadai neofascisti di Forza Nuova, poi dalla polizia e dalla celere che non vuole fare avvicinare i centri sociali. Al piano terra gente che urla davanti al maxischermo («Andate a casa!») senza distinguere colpe e responsabilità. Il primo piano è affollato di giornalisti, operatori, pubblico, dirigenti del Comune che aspettano le loro delibere e cercano di capire cosa sta per arrivare. Ma in realtà non lo sanno nemmeno i consiglieri. Il presidente Roberto Turetta fatica a tenere l’ordine. Deve sospendere due volte i lavori, tra urla e proteste. Si percepisce in modo chiaro che la politica è giunta al capolinea. In realtà nessuno dei consiglieri o degli amministratori è stato coinvolto nell’inchiesta sul Mose. Ma ormai la situazione è lacerata. Anche nella maggioranza. Divisioni nel maggiore partito, il Pd, che non ha preso bene i «distinguo» degli ultimi giorni. L’annuncio delle dimissioni su Facebook dell’assessora Tiziana Agostini, poi arrivata due minuti dopo la revoca dell’incarico decisa dal sindaco. Ieri quelle di Jacopo Molina, il consigliere più votato alle ultime elezioni, renziano della prima ora, che le ha recapitate al presidente tramite la Posta certificata. L’unico ad averle protocollate resta però Gianluigi Placella, capogruppo del Movimento Cinquestelle. Altre sono state annunciate. «Noi le abbiamo consegnate nelle mani del capogruppo », dice Giampietro Capogrosso del Pd. Si va e si torna, si prova a tenere a galla una nave che ormai fa acqua da tutte le parti. La vicenda che ha coinvolto il sindaco Orsoni – e che ha portato all’arresto di altre 34 persone tra cui l’ex presidente della Regione Galan e due presidenti del Magistrato alle Acque con l’accusa di corruzione – ha travolto ogni cosa. Le urla e le intemperanze di ieri ne erano la dimostrazione evidente. Un contesto in cui si fatica a tenere una linea politica. Dopo quasi quattro ore di Consiglio, l’unica cosa evidente ieri era che che un’esperienza politica si è conclusa. Lo ammettono tutti, pur con toni diversi. Sebastiano Bonzio (Sinistra) ma anche Simone Venturini (Udc), Luigi Giordani (Psi), il Pd con posizioni diversificate. Quindici giorni per approvare qualche delibera poi tutti a casa. L’ordine del giorno sulla salvaguardia prevede di costituire una commissione parlamentare di inchiesta e di verificare i costi e le scelte tecniche compiute in questi anni. Ma anche l’indicazione al governo di abolire la Legge Obiettivo, quella creata nel 2002 dal ministro Lunardi e dal governo Berlusconi per «sveltire le procedure» che ha in sostanza esautorato gli enti locali da ogni decisione. E di trasferire le competenze del Magistrato alle Acque al Comune. Temi delicati, su cui adesso la maggioranza ha ritrovato l’unità. Ma non basterà a farla sopravvivere alle dimissioni. Il 3 luglio potrebbe arrivare il commissario, per portare il Comune al voto.

Alberto Vitucci

 

La maggioranza resta sola. Sì alla Newco a Marghera

Tra le delibere approvate alla fine anche il regolamento della nuova Tari

Ma il clima è avvelenato e i consiglieri di maggioranza finiscono con il litigare

MESTRE Un consiglio a dir poco caotico, la sensazione evidente di trovarsi di fronte ad una maggioranza divisa e che naviga a vista. Poco cambia dalle 17.30 quando i banchi delle opposizioni si svuotano, dopo la scelta di tutto il centrodestra (Forza Italia, Lega Nord, Prima il Veneto, civica Impegno per, e Fratelli d’ Italia) di abbandonare la seduta in segno di protesta per le parole, «offensive », lanciate da Beppe Caccia dopo il voto contrario all’inversione dell’ordine del giorno per discutere subito la mozione sul sistema Mose, quella che tra l’altro chiede lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova. Ordine del giorno che sarà riproposto al prossimo consiglio comunale, il 23 giugno, forse con una appendice il 24 giugno. L’ordine del giorno, secondo la maggioranza, doveva salire al primo, subito dopo il discorso di Orsoni al consiglio. Ma per ottenere il risultato serviva il voto dei due terzi del consiglio. Cosìnonè stato: 22 i sì, 13 i no (tutto il centrodestra ma anche Lastrucci e Renzo Scarpa del gruppo misto) e due astenuti, il Pd Conte e il primo cittadino dimissionario. Bocciata l’inversione, consiglio sospeso e bagarre che si sposta in via Palazzo. Alla ripresa dei lavori, in un clima di assoluta incapacità di capire cosa sarebbe potuto succedere nei minuti seguenti, il numero legale è sceso a 24 consiglieri e per garantirlo il presidente Turetta ha dovuto concedere altri minuti per recuperare consiglieri di maggioranza spariti dall’aula, nel marasma generale. Ma anche se di fatto è rimasta sola, la maggioranza di centrosinistra ha finito con il dividersi di nuovo, a conferma che una unità oggi appare una missione impossibile, per un Comune con un sindaco dimissonario ed una giunta cancellata. Orsoni ha assistito silenzioso ai battibecchi a distanza tra alcuni dei consiglieri della sua maggioranza. I primi distinguo sono di Bonzio (Federazione della sinistra) per segnare la differenza tra il suo partito e quelli che hanno lavorato per la campagna 2010 di Orsoni. «Questa amministrazione deve chiudersi il più presto possibile con il minor numero di atti di consiglio e giunta». E ancora: «Siamo noi il 24esimo consigliere dimissionario, le lettere sono pronte. Fino all’approvazione del rendiconto ci siamo, per il resto questo consiglio non ha più nulla da dire alla città». E annuncia che non parteciperà più alle votazioni. Conte (Pd) è solidale con Orsoni: «Alle parole del sindaco ci siamo sentiti tutti decaduti, restiamo per gli atti di emergenza ». Sbotta l’Udc Simone Venturini: «Nessuno vuole stare attaccato alle poltrone ma basta fughein avanti; non si può far finta di continuare come se niente fosse». Fuori dall’aula Venturini aggiunge: «Questo consiglio si sta rivelando pessimo, tutti vogliono sembrare meglio degli altri ». Clima nervoso e teso ma alla fine il consiglio riesce a votare alcune delibera, la più importante è la Newco per Porto Marghera. Passano anche la revoca di una parte dell’accordo di programma per il Parco del Marzenego, intervento mai realizzato alla Gazzera per consentire alla Regione di realizzare le strade di collegamento tra le fermate Sfmr di via Olimpia e Gazzera. E poi l’intervento di Santa Caterina (variante al Prg per le isole di Burano, Mazzorbo, Torcello). Passa soprattutto la delibera per la partecipazione nella Newco, controllata con la Regione Veneto, incaricata di acquisire le aree di proprietà di Syndial S.p.A. in Porto Marghera funzionali alla riconversione industriale. Delibera che viene sostenuta in aula dagli interventi di Lino Gottardello (segretario generale della Cisl di Venezia ) e Roberto Montagner, segretario uscente della Camera del Lavoro della Cgil di Venezia che sollecitano un voto del consiglio che permetta a questo strumento di marciare, finalmente. Un ordine del giorno collegato impegna il Comune ad aprire un dialogo con le parti sociali. Restano i dubbi , in seno alla maggioranza, per l’ok a partecipare ad una società con la Regione, investita dallo scandalo. Non votano Bonzio, i federalisti riformisti Guzzo e Renesto e il Pd Belcaro. La delibera passa con 19 voti favorevoli. Passa poi anche il regolamento della Tari con 17 voti. Infine, il “rompete le righe”.

Mitia Chiarin

 

LE PROSSIME DATE – Incertezza assoluta sulla seduta del 23 giugno

Capigruppo dei partiti convocati domani. Turetta: «Ci sono da votare il consultivo e il Mof»

MESTRE Se il consiglio tornerà a riunirsi il 23 giugno, come proposto e messo in calendario dal presidente del consiglio comunale Roberto Turetta, lo si capirà solo domani, mercoledì, quando torneranno a riunirsi i capigruppo dei partiti. Il clima resta tesissimo,con la maggioranza di centrosinistra divisa al suo interno, dopo anni di difficile convivenza, e un centrodestra che attraverso il professor Stefano Zecchi ha annunciato che non parteciperà ai prossimi consigli, in segno di protesta. Ci sono altre delibere da votare e questioni su cui prendere posizione. «Il consultivo 2013 anzitutto e poi la partita del Mof», ricorda Turetta, decisamente stanco dopo aver tenuto a fatica le redini di una seduta contraddistinta dalla bagarre, dalle proteste e dallo scontro tra partiti. Giovedì prossimo la commissione consiliare dovrebbe licenziare la delibera che il consiglio deve votare per approvare il consultivo 2013 e Turetta conta che lunedì prossimo il provvedimento possa essere votato in consiglio, magari assieme adun provvedimento, non si sa ancora se direttamente assunto dal sindaco, per sbloccare la vicenda del mercato ortofrutticolo. Ma da qui ad esserne certi, ce ne passa. «Non ho mica la sfera magica per sapere prima come andranno le cose. Capiremo mercoledì se il consiglio del 23 giugno si potrà fare», taglia corto il presidente che aveva scritto nei giorni scorsi al sindaco dimissionario e ai partiti per proporre anche una eventuale seduta aggiuntiva il 24 giugno se si riterrà possibile, per esempio, oltre all’approvazione del regolamento della Tari anche l’approvazione delle aliquote o se invece «si intende lasciare libertà di movimento in funzione del bilancio di previsione 2014 al commissario», aveva scritto pochi giorni fa a tutti. Proposte che dopo la seduta di ieri, rissosa e caotica, sembrano allontanarsi. «Si vive alla giornata, quasi minuto per minuto», si è lasciato scappare durante la seduta il capogruppo del Pd Claudio Borghello, che poi aggiunge: «Vedremo mercoledì come si andrà avanti». Turetta alla fine ammette: «La situazione è francamente difficile con una opposizione che non partecipa e dopo quello che è successo in via Palazzo». (m.ch.)

 

ANTIMAFIA – Spuntano i verbali dell’audizione avvenuta in Commissione nel 2003, quando il governatore «rabbrividiva per la responsabilità» di gestire i grandi appalti

E Galan giurava: «Trasparenza, efficienza e sorveglianza sul Mose»

«Trasparenza, efficienza, sorveglianza». Sono le tre paroline magiche, riferite alla Regione Veneto e agli appalti, che il governatore Giancarlo Galan, quando i sospetti di tangenti ricevute per agevolare il sistema degli appalti erano molto lontani dal suo capo, pronunciò in una sede solenne e riservata. Era il pomeriggio del 7 aprile 2003, a Venezia nevicava, e venne interrogato, in seduta segreta, dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare. Tenne una relazione su riciclaggio, infiltrazioni mafiose, contrasto alla criminalità da parte delle Forze dell’Ordine in Veneto. Assicurando che la regione era un’isola felice, ma la vigilanza ugualmente alta, soprattutto sugli appalti.
Quei verbali, chiusi finora negli archivi della Commissione, appaiono oggi un epitaffio irridente, proprio alla viglia dell’avvio della procedura alla Camera che dovrà decidere se autorizzarne l’arresto. «Il Veneto si appresta, dopo circa 30 anni, a dotarsi di quelle infrastrutture necessarie, adeguate, che finora sono mancate, a causa di uno sviluppo economico tumultuoso, assolutamente non sospettabile 30 anni fa, al quale è stato difficile accompagnare un eguale sviluppo delle infrastrutture. Oggi ci apprestiamo a porre rimedio a tale carenza». Così disse Galan. Iniziava la stagione del “fare”, del Passante di Mestre, dei cantieri autostradali, della prosecuzione a Sud della Valdastico.
Galan ebbe un sussulto. «Sono già state poste in essere alcune grandi opere, che porteranno qui investimenti il cui ammontare mi fa rabbrividire, per la responsabilità che ci assegna nello svolgimento di tutte le operazioni collegate con la massima efficienza e trasparenza». Citava i 12.000 miliardi di vecchie lire per il Mose, i 2.000 miliardi per il Passante, i 2.500 miliardi per la Pedemontana, la Romea, il settore ferroviario. «Investimenti di questo tipo rappresentano un appeal non indifferente, per leggi più antiche dell’uomo, quindi ci vorrà il massimo della trasparenza, dell’efficienza e della sorveglianza».
Sembrava un appello morale. «Non voglio suonare un campanello d’allarme. – diceva – Questa è e resta un’isola felice, ma voglio che le coscienze di ognuno di noi siano a posto: dobbiamo essere consapevoli del fatto che ci apprestiamo a vivere un periodo potenzialmente difficile». Un discorsetto edificante che ora contrasta con i capi di accusa che motivano la richiesta d’arresto per l’ex governatore. Il quale, nel 2003, rassicurava i commissari antimafia sulla non esistenza di «offerte anomale», spia di tangenti. «No. Oltre l’80 per cento degli appalti aggiudicati è stato vinto da imprese locali, fortemente soggetto ad ogni tipo di controllo».
E parlando del Mose: «L’intesa con l’Europa ha fatto sì che il 60 per cento sia in amministrazione diretta dallo Stato tramite il concessionario, mentre il 40 per cento sia oggetto di gare europee. Si tratta però di interventi così rilevanti, sotto l’attenzione di tutto il mondo, che il nome stesso delle aziende concorrenti dovrebbe offrire una garanzia». E infine: «Abbiamo sempre cercato di operare con appalti di entità cospicua, laddove è possibile, in modo che la tipologia delle ditte partecipanti desse di per sè un margine, almeno teorico ma consistente di sicurezza».
Imprese venete. Concessione dello Stato. Grandi aziende. Un cocktail perfetto, brindando agli incassi.

 

Chi si rivede, Claudia Minutillo ieri in Procura

Claudia Minutillo di nuovo in Procura? Ieri una delle principali accusatrici di Galan e Chisso è stata vista mentre usciva con l’avv. Carlo Augenti dal Tribunale di piazzale Roma. Subito sono state avanzate mille ipotesi sulla presenza della Minutillo, che ha raccontato le “dazioni” di denaro a Galan e Chisso. Per Galan, secondo Baita, si è occupata di ritirare le mazzette fino al 2010, mentre a Chisso avrebbe consegnato personalmente in tante occasioni i soldi. Minutillo ha anche incastrato un dirigente della Regione, l’ing. Giuseppe Fasiol, che sarebbe stato inserito nella Commissione di collaudo del Mose. Ma, stando all’ipotesi difensiva, Fasiol avrebbe rinunciato a quell’incarico prima ancora di prenderlo. Forse è per questo che Claudia Minutillo è stata sentita? (m.d.)

 

Spuntano il deputato Lusetti e una società spagnola con un nome da film: “Wolf, problem solver”

07 Reclutati uomini dei “servizi”, promettevano di risolvere tutti i problemi di inchieste e verifiche

Tangenti, onorevoli e spioni

MESTRE – C’è l’onorevole Renzo Lusetti. E c’è pure il signor Wolf di Pulp Fiction. Oltre a ufficiali della Guardia di finanza e un magistrato forse finto, forse vero. Insomma sembra di essere in un film a leggere le carte relative agli spioni ingaggiati da Piergiorgio Baita a suon di milioni di euro. Baita sapeva che la magistratura veneziana stava indagando sulla Mantovani e su di lui, sapeva che aveva il punto debole della Bmc di William Palombelli, che gli faceva le fatture false all’unico scopo di creare “nero”. Ma voleva saperne di più e allora ingaggia una specie di circo Barnum dello spionaggio.
Il più simpatico è Daniele Fioretto, nato a Torino il 14.06.1956 e residente in Castel San Pietro Terme (Bologna) – come si legge nel verbale. Fioretto ha avuto la bella pensata di far intervenire nel giro di spiate varie e di fatture false la sua società con sede in Spagna, che ha un nome che farà fare un salto sulla sedia ai cinefili. La società si chiama infatti “Wolf, problem solver”. Vi ricordate la scena? «Sono il signor Wolf, risolvo problemi» – dice Harvey Keitel quando si presenta a casa di Tarantino per risolvere il problema di un cadavere spiaccicato dentro la macchina di John Travolta. Ecco, par di capire che Fioretto si sentiva protagonista del film di Tarantino. Solo che lui, Fioretto, non risolveva un bel nulla. Racconta Fioretto-Keitel: «Ad inizio 2012 Marazzi (uno dei primi indagati dell’inchiesta, che forniva informazioni a Baita, ndr) mi rappresentò l’opportunità di avere rapporti commerciali con il Gruppo Mantovani con cui si potevano eseguire attività di vigilanza sui cantieri e quanto più attinente la sicurezza degli stessi, sulla fedeltà dei dipendenti e altre attività correlate. Poco dopo venne stipulato un contratto tra la Eracle e la Mantovani. Viste le cifre del contratto stipulato pari a 2 milioni di euro chiesi a Marazzi il tipo di attività da svolgere visto che comunque la cifra era spropositata rispetto alle prestazioni che bisognava svolgere. Marazzi mi rispose che per poter prendere l’appalto doveva esserci un rientro di denaro per la Mantovani. Dal mio punto di vista le attività reali potevano ammontare a circa 300 mila-350 mila euro annui rispetto ai 2 milioni». E, per far rientrare il denaro – le famose “retrocessioni” – viene impiegata anche la “Wolf, risolvo problemi” di Fioretto.
Per lo spionaggio Baita aveva a libro paga un sacco di gente. Ad esempio quelli del giornale “Il Punto” di Roma. Siamo nel 2011 e Baita manda nella capitale Nicolò Buson, che è il suo braccio destro e sinistro per le operazioni finanziarie. Buson incontra Lusetti, il deputato che fino al 2010 è del Partito democratico e dal 2010 è dell’Udc. «Lo incontrai due volte: una prima volta alla fine del 2011, quando il Lusetti mi fece conoscere Enzo Manganaro e il giornale che era già oggetto di rapporti con Adria Infrastrutture». Manganaro promette di tutto e di più, come peraltro aveva fatto in precedenza Mirco Voltazza. Anche lui aveva giurato a Baita che sarebbe stato in grado di fermare i controlli della Finanza. Manganaro ci mette sopra il carico da novanta dei Servizi. «Manganaro mi fece conoscere il direttore editoriale del giornale e che, millantando o vantando o potendo contare su rapporti con Servizi o altro, diceva di essere in grado di inglobare, contenere la verifica in atto presso la Mantovani e le altre società». Ma è Mirco Voltazza, anche lui spione a libro paga di Mantovani che propone un contratto nel quale ci sia scritto che si impegna a bloccare la magistratura. Spiega Buson: «Io, se devo essere onesto, una cazzata del genere l’avevo sentita sparare dal buon Voltazza, e gli ho detto che quello era tutto scemo, che una cosa del genere non era un contratto che era possibile scrivere, insomma». (M.D.)

 

LA BONIFICA DI MARGHERA – Caso Matteoli, Tribunale dei ministri al lavoro

VENEZIA – Sono cominciati ieri i lavori del Tribunale dei ministri per studiare le carte relative all’ex ministro all’Ambiente ed ai Trasporti Altero Matteoli nella vicenda Mose.
Matteoli, secondo quanto ricostruito dalla Procura nell’indagine Mose avallata dal Gip Alberto Scaramuzza, rientrerebbe in una vicenda di dazioni relative ad opere di bonifica ambientale in una zona che lambisce la laguna di Venezia e il petrolchimico di Marghera.
Proprio la sua posizione di Ministro all’epoca dei fatti – Matteoli ha sempre smentito ogni possibile suo coinvolgimento – ha costretto la Procura a stralciare la posizione dell’ex responsabile del dicastero dell’Ambiente per indirizzarla al collegio del Tribunale dei ministri che ha funzioni di pubblico ministero e di giudice delle indagini preliminari.
I tre magistrati sono chiamati a decidere sul coinvolgimento o meno di Matteoli e quindi ad archiviare la sua posizione o a trasmettere gli atti al Parlamento per la prosecuzione dell’iter giudiziario.Nel filone è coinvolto anche un imprenditore romano, indicato come referente di Matteoli nelle bonifiche a Marghera, un affare da centinaia di milioni di euro.

 

AMBIENTE – Canale contestato e laguna deturpata: Vernizzi a processo

Un paesaggio lagunare stravolto, con delle velme di fatto interrate e trasformate in barene. Così denunciò la Lipu per dei lavori eseguiti nella laguna di Marano, tra Caorle e Bibione, ormai quasi cinque anni fa. Ora per quell’intervento finanziato da Unione europea e Regione – con l’accusa di “distruzione o deturpamento di bellezze naturali” – sono finiti a processo in quattro: l’ex responsabile della commissione di valutazione di impatto ambientale della Regione, Silvano Vernizzi; il progettista dell’intervento, Andrea De Gotzen; il professionista che diede la valutazione di incidenza ambientale, Giovanni Abrami; nonché la segretaria della commissione via dell’epoca, Noemi Paola Furlanis.
Ieri la prima udienza davanti al giudice monocratico di Venezia. A sostenere l’accusa il pubblico ministero Giorgio Gava, che ha coordinato le indagini a partire proprio da un esposto della Lipu. Con quell’intervento, nel 2010, venne ripristinato un canale che si era insabbiato. Ma al centro dell’accusa è il riutilizzo del materiale scavato con cui vennero ricoperte le velme, stravolgendo di fatto il paesaggio. Un intervento che avrebbe avuto bisogno di una valutazione di impatto ambientale – sempre stando all’accusa – visti i particolari pregio e delicatezza dei luoghi. Invece la commissione si accontentò di una valutazione di incidenza ambientale. E ieri i testimoni del pubblico ministero hanno confermato la distruzione delle velma.
Ma il processo sarà combattuto. I difensori degli imputati – gli avvocati Antonio Forza, Andrea Pavanini e Marco Vassallo – sostengono che l’intervento è stato eseguito nel pieno rispetto di normativa e ambiente. La stessa scelta di creare delle barene, al posto delle velme, sarebbe stata voluta. E per provarlo hanno chiesto l’audizione di tre consulenti, tra cui l’ingegner Luigi D’Alpaos. Se ne riparlerà, però, solo il 2 marzo dell’anno prossimo, data a cui è stata rinviata l’udienza. Una lunga attesa, mentre la prescrizione incombe. (r. br.)

 

Mose & dintorni

UN’OPERA INUTILE E ASSAI COSTOSA

Per anni e anni noi ambientalisti abbiamo contrastato in vari modi (anche con dettagliati esposti) l’affare Mose, indicando le alternative possibili a questa grande opera devastante, inutile e costosa, denunciando anche le varie criticità amministrative. Dall’anomalia del concessionario unico alla mancata considerazione della negativa Valutazione d’Impatto Ambientale nonché delle prescrizioni indicate (illusoriamente) dal Consiglio Comunale, alle “inesattezze” del parere fondamentale dato dal Ministero dei beni e le attività culturali. Che peraltro sembra aver approvato anche quelle opere realizzate in Laguna tanto per spendere i cospicui finanziamenti, come confessato da uno degli arrestati (Baita, ex impresa Mantovani), anche queste in gran parte da noi contestate.
Ma abbiamo anche più volte sottolineato quella che sempre più si percepiva come una mafia infiltrata dal potere forte del Consorzio Venezia Nuova nella nostra città (e non solo), con la sua ramificata corruzione che sta venendo alla luce, fatta di tangenti-favori-incarichi-accordi-ricatti-nomine nei posti che contano. Capace di creare quanto meno acriticita e subalternità anche da parte di gran parte del mondo culturale e accademico.
E’ ormai normale utilizzare sponsorizzazioni ma è grave che forze politiche e istituzioni le chiedano ad un consorzio d’imprese che per i propri lavori deve ottenere autorizzazioni e finanziamenti. Ancora più grave ovviamente quando i fondi sono dati illegalmente e in cambio di qualcosa.
Ci hanno chiamato e ci chiamano, ingiustamente, quelli del no. E’ per noi ora un’amara soddisfazione seguire l’evolversi di un’inchiesta che ci auguriamo possa fare piena luce su tutti i vari aspetti di questa scandalosa realtà.

Cristina Romieri – Venezia Lido

 

L’INCHIESTA alla terza settimana

Il Riesame e le indagini in attesa di sanità e strade

Sponsorizzazioni e finanziamenti a pioggia come forme di pagamento indiretto a politici e loro amici

Verifiche anche su enti e società per appurare i flussi di denaro. L’intreccio con i casi Firenze e G8

VENEZIA – Una marea di carte da spulciare, da confrontare con le dichiarazioni di chi collabora o con quelle di chi è stato sentito come persona informata sui fatti. L’inchiesta Mose prosegue con i finanzieri impegnati nel controllare il materiale sequestrato al momento della retata di due settimane fa con le 35persone arrestate. L’inchiesta arriva alla terza settimana, mentre si attende che vengano portati a termine anche degli altri filoni che si dipanano da quello principale del Mose e che riguardano come stradali e infrastrutture connesse e gli ospedali in “project”. Mercoledì sono in programma altre udienze davanti al Tribunale del Riesame, tra cui quelle per Luciano Neri, Federico Sutto, Stefano Tomarelli (Cvn), e Corrado Crialese (ex presidente Fintecna). Ha presentato istanza al Tribunale della Libertà anche l’avvocato dell’ex assessore regionale Renato Chisso, che sta ultimando un memoriale di una quarantina di pagine per controbattere, punto su punto, a tutte le contestazioni che gli muovono gli inquirenti. Episodi che lo hanno portato in carcere. Piergiorgio Baita, nei suoi interrogatori, spiega ai magistrati che lo interrogano come le mazzette non fossero la “spesa” principale del sistema corruttivo. Le imprese che aderivano al Consorzio Venezia Nuova o quelle che lavoravano per la realizzazioni di opere stradali e strutture sanitarie, spendevano molto di più per consulenze inutili, progetti immotivati e altre forme di pagamento indiretto a politici e amici di questi. Quindi sponsorizzazioni e finanziamenti a pioggia. Su tutti questi ora la Procura di Venezia con i sostituti Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini stanno controllando anche queste spese. Vogliono capire se, oltre ai fondi dichiarati pubblicamente, non siano confluiti ai vari beneficiari soldi provenienti da fondi neri, denaro che poi poteva finire nelle tasche dei vari politici. Saranno verificati i bilanci di vari enti e società private per capire i flussi di denaro. Inoltre alcuni personaggi che compaiono negli interrogatori di Piergiorgio Baita e Giovanni Mazzacurati fanno intrecciare l’inchiesta sul Mose con quella delle “grandi opere” iniziata a Firenze cinque anni fa e che ha visto coinvolti i lavori per portare il “G8” in Sardegna e altri riguardanti strutture in mezza Italia. Si tratta di Erasmo Cinque e dell’ingegnere [………….]. Quest’ultimo per diversi anni vice presidente del Consorzio Venezia Nuova. Personaggio dal forte potere che lo stesso Giovanni Mazzacurati, come spiegherà in un interrogatorio lo stesso “gran burattinaio” ai pm Ancilotto e Tonini. Continuano le polemiche sulle dichiarazioni del sindaco Orsoni dopo la scarcerazione. E non solo sull’aspetto politico. Infatti molti si chiedono se sia congruo l’accordo di quattro mesi di reclusione e il pagamento di 15mila euro di multa, trovato tra difensori e Procura, per il patteggiamento. Un accordo che deve essere ancora valutato dal Gup, il quale dovrà dire se questo è congruo o meno. Da sottolineare, inoltre, che l’accordo prevede che Giorgio Orsoni, rinunci a qualsiasi incarico politico.

Carlo Mion

 

Le confessioni di pio savioli «Magistrato alle Acque asservito al Cvn»

VENEZIA – Dalla carta igienica che il Consorzio comprava al Magistrato alle Acque, alle palette e i lampeggianti di polizia che gli indagati si procuravano per messinscena da finti ‘007’. Fatti curiosi e grotteschi nell’inchiesta Mose. Intercettazioni e interrogatori degli arrestati hanno portato la Gdf a scoprire tanti episodi strampalati. In un interrogatorio, Pio Savioli, consulente del Coveco, spiega quale fosse l’asservimento del Mav nei confronti del Consorzio Venezia Nuova: «era in completa sudditanza psicologica, e anche operativa, gli compravano anche la carta igienica. Lo dico – precisa Savioli – perché è vero, non è una battuta». Se le mazzette di denaro, svelano le carte dell’inchiesta, erano la consuetudine per i corrotti dalla cricca, c’era chi si accontentava di benefit in “natura”: un potente motore per il gommone, ad esempio. Lo conferma ai magistrati il padovano Mirco Voltazza, riferendosi all’ex vice questore di Bologna, Giovanni Preziosa, arrestato per corruzione e rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio, cui avrebbe «regalato» un motore fuoribordo per il proprio gommone. Un propulsore da 9mila euro, che Preziosa – dice Voltazza – venne a ritirare personalmente a Marghera. Gli stessi due nomi escono da un’ intercettazione della inchiesta Mantovani per un altro episodio surreale: una messinscena da finti 007, incaricati da Baita di “spaventare” l’ad di Veneto Strade, Silvano Vernizzi, che doveva sbloccare un appalto. Voltazza, con paletta e lampeggiante della polizia forniti da Preziosa, si sarebbe presentato in auto davanti alla sede della società, per millantare che sarebbe partita un’inchiesta se il fascicolo non si sbloccava. Emblematica la mazzetta da mezzo milione di euro buttata dietro un armadio per nasconderla ad un’ispezione della Gdf.

 

«Luogo sacro trasformato in un covo di malfattori»

Parla Felice Setaro, presidente del Magistrato alle Acque dal 1990 al 1999

«Un errore chiudere questa istituzione storica: trovino persone oneste e capaci»

VENEZIA «Hanno trasformato questo luogo sacro in un covo di malfattori. Il peggio del peggio. Un dolore grande per chi come me ci ha buttato il sangue». Felice Setaro, napoletano di Torre Annunziata, è stato presidente del Magistrato alle Acque dal 1990 al 1999. L’ultimo prima dell’era Cuccioletta-Piva con tutto quello che adesso emerge dalle carte dell’inchiesta sul Mose. A 85 anni ricorda con lucidità quei momenti. E vive «con grande amarezza» le ultime vicende che hanno visto arrestati i suoi due successori, Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva. «È incorruttibile», diceva di lui Giovanni Mazzacurati. Setaro era stato l’unico che aveva osato ridurre il corrispettivo che spettava al Consorzio su tutti i lavori dal 15 al 12 per cento. Presidente Setaro, se l’aspettava un uragano del genere? «No proprio no. Fino a un certo punto i ruoli erano chiari e distinti, poi come si dice a Napoli, si sono forse mescolate le carte un piede accà e uno all’a…» Lei ha conosciuto bene Mazzacurati. Lo ritrova in quello che sta emergendo dall’inchiesta? «Con me non ha mai provato a dettar legge. Quando decisi di abbassare gli oneri del concessionario dal 15 al 12 per cento ricevetti qualche sentita lamentela. Ma andai avanti». Allora il Magistrato alle Acque era ancora il controllore del Consorzio. «Certamente. E noi non abbiamo fatto sciocchezze. Sapevamo che c’era una grande opera da portare avanti ma decidevamo sempre ascoltando la coscienza ». C’è stato qualche momento critico nei rapporti con il Consorzio? «Quando i nostri esperti, l’ingegner Creazza, lo stesso Datei, ci dissero che il Mose aveva il problema degli intraferri. In sostanza, tra paratoia e paratoia l’acqua passa lo stesso perché è elemento incomprimibile. Non lo abbiamo taciuto. Del resto la stessa legge prevedeva la reversibilità del sistema: se non funziona va demolito». Non è andata così «No. Qualcosa è cambiato. Cosa ricorda dei suoi successori? «La prima cosa che ha fatto Cuccioletta è stata quella di far fare lavori all’alloggio di servizio, per trasformarlo in appartamento di rappresentanza. Peraltro non veniva quasi mai. La Piva è stata una grande delusione ». E della città? «Un rapporto di grande stima con il sindaco Cacciari. Insieme a lui avevamo quasi fatto passare l’idea che Venezia si salvava con la manutenzione». Adesso il Magistrato lo vogliono abolire. Un grande errore. Lì è passata la storia. Io sogno che ci ripensino e trovino persone oneste e capaci. Che nel decidere ascoltino soltanto la propria coscienza ».

Alberto Vitucci

 

Tutti i presidenti dal 1907 a oggi transitati per Palazzo Dieci Savi

VENEZIA. Il Magistrato alle Acque è un’istituzione che risale al 1501. Dopo la ricostruzione nel 1907 il primo presidente fu Raimondo Ravà (1907-1923). Poi, nell’ordine: Ugo Gioppi (1923-1925); Giovanni Mauri (1925-1926); Luigi Miliani (1926-1941); Massimiliano Tognozzi (1941-1943), Lelio Waldis (1943-1945); Massimiliano Tognozzi (1945-1946); AnnibalePalucchini (1946-1948); Giuseppe Tortarolo (1948-1953); Giovanni Padoan (1953-1956); Aldo Rossi (1956-1958);Torquato Rossini(1958-1961); Luigi Pavanello (1961-1963); Virginio Baruscotto (1963-1965); Alberto Bianchi (1965-1967); Luigi Lancetti(1967-1973); Marcello Giusti (1973-1977); Domenico Cacopardo (1978-1979); Raffaele Ricciardi (1/1979-7/1979); Marcello Giusti (1979-1982); Lamberto Sortino (1982-1985); Mario Toti (1985-1988); Alessandro Sbavaglia(1988-1990); Felice Setaro (1990-1999); Patrizio Cuccioletta (in foto, 1999-2001); Maria Giovanna Piva(2001-2008); Patrizio Cuccioletta (2008-2011); Ciriaco D’Alessio (2008-2013).

 

Reazioni – Molte critiche per la decisione di chiudere il Magistrato

VENEZIA «Abolire il Magistrato alle Acque è un grandissimo errore. È un calcio alla storia di Venezia e alla secolare magistratura che vigilava sulle Acque. Basta trovare le persone giuste, ma non si può cancellare la storia». Antonio Rusconi, ingegnere idraulico, è stato per anni presidente dell’Idrografico e poi dell’Autorità di Bacino del Veneto. Esperto di fiumi e di territorio, spesso in contrasto proprio con quel Magistrato alle Acque che adesso il governo vorrebbe cancellare con un tratto di penna. Sull’onda dello scandalo Mose, dopo l’arresto dei due presidenti Cuccioletta e Piva, le consulenze, i mancati controlli. Ma non è così, secondo molti esperti che il problema può essere risolto. Anche perché non si tratta nemmeno del passaggio delle competenze sulle acque al Comune, come chiedevano nella proposta di nuova Legge Speciale il senatore Felice Casson e lo stesso ex sindaco Giorgio Orsoni. Ma del passaggio dei poteri a un altro ufficio del ministero delle Infrastrutture, il Provveditorato alle Opere pubbliche del Triveneto. Cancellando del Magistrato alle Acque il nome e la storia, pur offuscata dagli ultimi scandali. «Per modificare una legge parlamentare ci vuole un’altra legge del Parlamento», dice Rusconi, «e poi forse non si è tenuto conto dei tanti riferimenti e delle competenze che il Magistrato alle Acque ha avuto anche dalla legge Speciale. Un istituto nobile della Serenissima, abolito solo nei tempi bui napoleonici e austriaci. Che va salvato anche se sicuramente riformato». (a.v.)

 

il futuro del complesso monumentale

«Revocare la concessione degli spazi all’Arsenale»

Si riaccende la polemica sull’utilizzo di alcune Teze destinate alle attività del Consorzio Venezia Nuova

VENEZIA – Revocare subito le concessioni di spazi pubblici al Consorzio in Arsenale. Nel bel mezzo dello scandalo sul Mose riesplode la polemica sull’uso delle Teze e degli spazi che il Piano particolareggiato destina a “pubblici” all’interno del complesso monumentale. Una lettera al sindaco e agli assessori Ferrazzi (Urbanistica) e Maggioni (Patrimonio e Progetto Arsenale) era stata inviata qualche giorno prima delle dimissioni. Adesso la vicenda approda in Consiglio comunale. Beppe Caccia, capolista di «In Comune» ha già depositato una richiesta di ordine del giorno per chiedere appunto la revoca delle concessioni in quanto «illegittime ». Si tratta dell’uso di alcune Teze restaurate dal Magistrato alle Acque ma passate dalla legge Finanziaria alla proprietà del Comune. Uno dei terreni di scontro tra il Consorzio e il sindaco Giorgio Orsoni, che lo stesso Orsoni ha ricordato poche ore dopo essere stato messo in libertà, a riprova della sua distanza dall’organismo presieduto per anni da Giovanni Mazzacurati. Una questione spinosa. Tanto che la nuova dirigenza del Consorzio (il presidentre Mauro Fabris e il direttore Hermes Redi) aveva annunciato l’intenzione di cedere spontaneamente i Bacini di Carenaggio e altre parti dell’Arsenale avute in concessione dallo Stato per 30 anni nel 2005. «La manutenzione del Mose si può fare a costi minori anche a Marghera», aveva confermato Redi. Operazione di distensione con la città, che aveva vissuto dieci anni fa quell’atto, deciso dal governo Berlusconi in accordo con la Regione, senza nemmeno informare il Comune come un vero «scippo». Operazione interrotta dai clamorosi arresti di Chisso, Piva e Cuccioletta, dalla richiesta di arresto per l’ex presidente Galan e dai domiciliari al sindaco, poi revocati dopo una settimana. Adesso comitati e associazioni rivendicano l’opportunità di restituire alla città anche quella parte dell’Arsenale. Che secondo Boato e Caccia sono «vincolati dai Piano particolareggiati ad uso pubblico ». «Non è possibile cercare di legittimare quell’occupazione», avevano denunciato in numerose assemblee pubbliche, insieme al Forum per l’Arsenale. Una possibilità che apre nuovi scenari. L’uso pubblico dei capannoni che affacciano sulla Darsena potrebbe aprire al riuso dell’Arsenale per attività compatibili legate all’acqua, al- Una panoramica del complesso monumentale dell’Arsenale la ricerca e alla cultura.

(a.v.)

 

IL CASO – Gli ingegneri “dell’altro Mose” ora rilanciano la loro battaglia

ESCLUSI «Non abbiamo avuto nemmeno un confronto tecnico di merito»

ALTERNATIVA «Il progetto basato sulla paratoia a gravità sarebbe costato un quarto»

Chiedono che non si completi l’opera prima che siano valutati «fondamentali aspetti critici funzionali, tante volte denunciati»

I soldi delle tangenti, anche se dall’inchiesta dei magistrati sembra siano un’enormità, sono il danno minore. Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Gaetano Sebastiani non si smuovono di un millimetro dalle loro posizioni: «Il danno portato alla comunità italiana e veneziana in particolare è ben maggiore ed è dato anzitutto dal fatto che il progetto Mose non risponde ai requisiti di gradualità, sperimentalità e reversibilità posti per legge all’opera di salvaguardia, e che i suoi costi sono molto superiori a quanto era previsto (lievitati da 3440 milioni di euro a 5600)».
Costi che sono destinati a protrarsi nel tempo «per le gravi criticità funzionali del progetto non ancora risolte, per l’impatto ambientale e per la complessità estrema della sua architettura, che imporrà costi elevatissimi di gestione e manutenzione».
Perciò i tre ingegneri, storici oppositori del Mose, contrariamente a quanto affermano politici e imprenditori, e cioè che comunque il Mose va completato, chiedono che non si completi un bel nulla «prima che fondamentali aspetti critici funzionali, tante volte denunciati e sui quali non è mai stata data una risposta accettabile, siano pubblicamente valutati e verificati». E a farlo dovranno essere esperti terzi di chiara fama e competenza professionale specifica.
Anche perché soluzioni migliori e più economiche ci sono, sostengono Di Tella, Vielmo e Sebastiani, il cui progetto (tra quelli presentati nel 2006 su sollecitazione del Comune di Venezia), e basato sulla “Paratoia a Gravità” a ventola innovativa, «sarebbe costato circa un quarto del Mose allora stimato 3440 milioni di euro».
Il progetto, assieme ad altri, venne bocciato e mai più ripreso, nemmeno dopo che la società francese Principia, «esperta riconosciuta internazionalmente nel campo della simulazione di sistemi dinamici complessi in moto ondoso» mise a confronto, su incarico del Comune, Mose e progetto dei tre ingegneri. Dallo studio «emerge che la Paratoia a Gravità funziona perfettamente, mentre la paratoia Mose risulta dinamicamente instabile al moto ondoso per condizioni di mare reale già verificatesi alla bocca nei due anni di monitoraggio del moto ondoso alla stessa bocca (di Malamocco ndr.)».
Di Tella, Vielmo e Sebastiani avrebbero voluto naturalmente che la loro soluzione vincesse ma si sarebbero accontentati anche di un confronto tecnico di merito che, invece, non è mai avvenuto neppure dopo che il Consorzio Venezia Nuova ha perso una causa civile promossa contro i tre ingegneri accusati di diffamazione per le loro critiche, «ben motivate», al progetto.

 

Mazzacurati e Baita truffati per 6 milioni da falso magistrato

Pagate mazzette a Gino Chiarini che si spacciava per il vice procuratore Tito di Udine

Volevano informazioni su alcune inchieste. Il vero pm si costituirà come parte offesa

LA SIMULAZIONE – I vari episodi contestati di millantato credito fruttarono 6 milioni

LA SCENEGGIATA – Così Gino Chiarini si spacciò per il magistrato friulano Raffaele Tito

Mazzacurati e Baita raggirati dal finto pm

Uno degli arrestati dell’inchiesta Mose, Gino Chiarini, si presentò, in carne ed ossa, fingendo di essere il procuratore aggiunto di Udine, Raffaele Tito, sostenendo di essere disponibile a dare informazioni su indagini in corso. La sceneggiata fu un passaggio importante di una simulazione che rese parecchio ai suoi protagonisti e che ora è riassunta nelle carte dell’inchiesta veneziana riguardante altrettanti episodi di millantato credito. Andarono in porto, perché complessivamente i supposti autori lucrarono qualcosa come 6 milioni di euro da Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita. Non c’è solo l’episodio che riguarda il magistrato Tito, che vent’anni fa lavorò a Milano nelle inchieste di Mani Pulite e fece arrestare Paolo Berlusconi. Ci sono anche riferimenti «ad appartenenti alla Guardia di finanza e fonti investigative vicine alle agenzie di informazione nazionali», a «Magistrati in servizio al Consiglio di Stato e al Tar del Lazio e del Veneto», per presunti interventi su verifiche fiscali in corso da ammorbidire o sentenze della magistratura amministrativa.
Il capitolo della Procura di Udine (dove tra alcune settimane andrà in pensione il procuratore Biancardi e Tito reggerà l’ufficio) vede indagate cinque persone: l’imprenditore bellunese Luigi Dal Borgo, il padovano Mirco Voltazza, il ferrarese Gino Chiarini, i romani Alessandro Cicero e Vincenzo Manganaro. Per la millanteria riferita al procuratore aggiunto, Chiarini avrebbe incassato dai 50 ai 200 mila euro, Voltazza 100 mila euro e due contratti per 5 milioni di euro, Dal Borgo una fornitura di materiali a prezzo pieno (800 mila euro), Cicero e Manganaro finanziamenti per 2,2 milioni di euro al settimanale “Il Punto”. La ricostruzione lascia per molti aspetti allibiti. Perché Baita e Mazzacurati pagarono un sacco di soldi a fronte di una sceneggiata e di un documento falso.
Sarebbe stato, sostengono i Pm, l’ingegnere Dal Borgo a proporre a Baita e Mazzacurati il modo per ottenere informazioni riservate a Udine sui procedimenti in corso, nonchè un intervento sulle «verifiche penali avviate dalla Guardia di Finanza nel corso dell’anno 2010», sostenendo che il dottor Tito «sarebbe stato in grado di influire anche sulle attività della Finanza». Baita informò Mazzacurati e cominciarono i contatti.
Ecco cosa ha detto Voltazza nel 2013: «Nel corso del precedente interrogatorio ho fatto riferimento a una persona chiamata “lo zio”: è tale Chiarini Gino… a volte colloquiava con me e con Dal Borgo per i suoi interessi, a volte quale intermediario di altra persona, il dott. Raffaele Tito, magistrato in servizio alla Procura di Udine. Dal Borgo, su incarico del Baita, ebbe a consegnare all’architetto Chiarini somme di denaro oscillanti dai 50 ai 200 mila euro alla volta affinché alcune vicende giudiziarie pendenti davanti agli uffici giudiziari del Friuli e del Veneto venissero sistemate». Una prima consegna di denaro sarebbe stata effettuata in un ristorante di Portogruaro nel novembre del 2011, l’ultima in marzo-aprile 2012 a Quarto d’Altino. Voltazza precisa: «Le somme corrisposte al Chiarini erano destinate al dott. Tito, ma io vidi solo la consegna al Chiarini. Ricordo che tra i procedimenti penali per i quali venne interpellato il dott. Tito tramite il Chiarini, vi era quello relativo al disinquinamento della Laguna di Marano, procedimento che veniva gestito alla Procura di Udine dalla dottoressa Dal Tedesco».
Baita riferisce di un pranzo con alcuni di questi protagonisti: «Voltazza spiega che esistono dei gruppi di potere interdisciplinari e che noi eravamo nel mirino di un gruppo padovano, se non avessimo preso una contromisura adeguata saremmo stati travolti da questo gruppo che faceva capo a Procura di Padova». Ecco spuntare la proposta di affidarsi allo “zio”.
Lo “zio”-Chiarini, il 7 giugno di un anno fa venne interrogato e tagliò la testa al toro: «L’ing. Dal Borgo non conosce me come Gino Chiarini, ma bensì come Tito Raffaele. Mi sono presentato come Tito perché potevo offrirgli una certa protezione “un ombrello”. Infatti Voltazza mi ha proposto di fare questo nei confronti di Dal Borgo perché quest’ultimo aveva la necessità di fare bella figura con alcune persone». Chiarini e Voltazza prepararono un documento «come proveniente dalla Finanza, qui a casa mia, relativo alla imminente chiusura della verifica fiscale». Il documento sarebbe stato visionato da Mazzacurati. Poi Dal Borgo avrebbe portato a Chiarini e Voltazza 80 mila euro. Conclude Chiarini: «Da queste attività, io come Tito, ho ricevuto complessivamente 50 mila euro».
Il procuratore aggiunto di Udine, da parte sua, è intenzionato a costituirsi come parte offesa del reato.

Giuseppe Pietrobelli

 

IN TRIBUNALE – Nuove udienze al Riesame. E l’indagine si allarga

VENEZIA – Dalla carta igienica che il Consorzio comprava al Magistrato alle Acque al motore per il gommone. C’è un bestiario di stravaganze e fatti grotteschi nell’inchiesta sul Mose, ed in quelle collegata della ‘Mantovani’, estate 2013. In un interrogatorio, Pio Savioli, consulente del Coveco, dice che il Mav nei confronti del Consorzio Venezia Nuova «era in completa sudditanza psicologica, e anche operativa, gli compravano anche la carta igienica». Non solo mazzette, c’era chi si accontentava di benefit in ‘natura': un potente motore per il gommone, ad esempio. Lo conferma ai magistrati il padovano Mirco Voltazza, riferendosi all’ex vice questore di Bologna, Giovanni Preziosa, arrestato per corruzione e rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio, cui avrebbe ‘regalato’ un motore fuoribordo per il proprio gommone.
Intanto l’inchiesta Mose arriva alla terza settimana, ed il lavoro dei pm – Stefano Ancillotto, Stefano Buccini e Paola Tonini – prosegue senza sosta. Un’indagine, si vocifera, che dal Mose potrebbe allargarsi ad altre grandi opere, come le infrastrutture stradali e gli ospedali in ‘project’. Mercoledì sono programmate altre udienze davanti al Tribunale del Riesame, tra cui quelle per Luciano Neri, Federico Sutto, Stefano Tomarelli (Cvn), e Corrado Crialese (ex pres. Fintecna). Ha presentato istanza al Tribunale della Libertà anche l’avvocato dell’ex assessore regionale Renato Chisso, che sta preparando un corposo memoriale, mentre c’è attesa per la decisione del Gup sulla congruità o meno del patteggiamento a 4 mesi su cui sono accordati con la Procura i legali dell’ex sindaco Giorgio Orsoni.

 

I CONTATTI – Consorzio e Mantovani volevano informazioni su un’inchiesta di Udine

MILANO – Quella che si apre oggi sarà una settimana importante sul fronte delle decisioni che la nuova Autorità Anticorruzione, i cui poteri sono stati delineati con il decreto del Governo Renzi, dovrà prendere in relazione al commissariamento di alcuni appalti dell’Expo, finiti al centro dell’inchiesta della Procura di Milano sulla presunta «cupola». Nei prossimi giorni, infatti, il commissario unico per l’Esposizione Universale Giuseppe Sala vedrà Raffaele Cantone, presidente dell’Authority, per discutere di quali «azioni intraprendere rispetto ad aziende» coinvolte nella bufera giudiziaria.
Provvedimenti verranno presi, quasi certamente, sull’appalto principale che sarebbe stato truccato, come emerge dalle indagini, quello da 67 milioni di euro per le cosiddette ‘Architetture dei servizi’, ossia le strutture, tra cui bar e spazi commerciali, per accogliere i visitatori, che venne pilotato, in cambio di mazzette, a favore dell’imprenditore Enrico Maltauro, che dopo aver collaborato l’altro ieri ha ottenuto gli arresti domiciliari. L’impresa di costruzioni Maltauro spa nei giorni scorsi ha annunciato che potrà andare avanti con i lavori. Ora con il decreto il quadro potrebbe cambiare: la Maltauro completerà le opere, ma l’appalto è probabile che venga commissariato, proprio in virtù delle nuove prerogative attribuite a Cantone. Lavori sì, dunque, per rispettare i tempi, ma controlli stringenti da parte dell’Anticorruzione.
Non sono previsti, al momento, come ha spiegato Cantone, commissariamenti per il Mose: «Non dovrebbe essercene bisogno – ha detto – ma ci sono comunque alcune misure che possono essere certamente estese anche ai cantieri delle dighe mobili».
Altri appalti Expo, invece, potrebbero finire sotto il controllo dell’Authority: quello per le cosiddette ‘Vie d’Acquà, assegnato sempre alla Maltauro, e quello per la ‘Piastra’, ossia i lavori per le opere di urbanizzazione del sito espositivo. Su questa gara, che venne assegnata alla Mantovani, l’impresa coinvolta nello scandalo del Mose, è aperta un’altra inchiesta della Procura milanese, nella quale sono confluiti i verbali dell’ex manager Expo arrestato, Angelo Paris. Quest’ultimo ha parlato di «pressioni» da parte dell’ex dg di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni, anche lui arrestato, per escludere dalla gara la Mantovani. Secondo Paris, nell’agosto 2012 Rognoni andò da lui con «un elenco di condizioni» da «imporre» alla Mantovani. E dopo una «riunione nell’ufficio di Sala» l’impresa accettò quelle «condizioni», come ha messo a verbale l’ex responsabile dell’Ufficio contratti Expo, e si aggiudicò «l’appalto».

 

MILANO – Giro di vite dell’Autorità anticorruzione: controlli stringenti sui cantieri. L’impresa veneta: andiamo avanti

Appalti Expo sotto tutela, ma la Maltauro può operare

MILANO – Quella che si apre oggi sarà una settimana importante sul fronte delle decisioni che la nuova Autorità Anticorruzione, i cui poteri sono stati delineati con il decreto del Governo Renzi, dovrà prendere in relazione al commissariamento di alcuni appalti dell’Expo, finiti al centro dell’inchiesta della Procura di Milano sulla presunta «cupola». Nei prossimi giorni, infatti, il commissario unico per l’Esposizione Universale Giuseppe Sala vedrà Raffaele Cantone, presidente dell’Authority, per discutere di quali «azioni intraprendere rispetto ad aziende» coinvolte nella bufera giudiziaria.
Provvedimenti verranno presi, quasi certamente, sull’appalto principale che sarebbe stato truccato, come emerge dalle indagini, quello da 67 milioni di euro per le cosiddette ‘Architetture dei servizi’, ossia le strutture, tra cui bar e spazi commerciali, per accogliere i visitatori, che venne pilotato, in cambio di mazzette, a favore dell’imprenditore Enrico Maltauro, che dopo aver collaborato l’altro ieri ha ottenuto gli arresti domiciliari. L’impresa di costruzioni Maltauro spa nei giorni scorsi ha annunciato che potrà andare avanti con i lavori. Ora con il decreto il quadro potrebbe cambiare: la Maltauro completerà le opere, ma l’appalto è probabile che venga commissariato, proprio in virtù delle nuove prerogative attribuite a Cantone. Lavori sì, dunque, per rispettare i tempi, ma controlli stringenti da parte dell’Anticorruzione.
Non sono previsti, al momento, come ha spiegato Cantone, commissariamenti per il Mose: «Non dovrebbe essercene bisogno – ha detto – ma ci sono comunque alcune misure che possono essere certamente estese anche ai cantieri delle dighe mobili».
Altri appalti Expo, invece, potrebbero finire sotto il controllo dell’Authority: quello per le cosiddette ‘Vie d’Acquà, assegnato sempre alla Maltauro, e quello per la ‘Piastra’, ossia i lavori per le opere di urbanizzazione del sito espositivo. Su questa gara, che venne assegnata alla Mantovani, l’impresa coinvolta nello scandalo del Mose, è aperta un’altra inchiesta della Procura milanese, nella quale sono confluiti i verbali dell’ex manager Expo arrestato, Angelo Paris. Quest’ultimo ha parlato di «pressioni» da parte dell’ex dg di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni, anche lui arrestato, per escludere dalla gara la Mantovani. Secondo Paris, nell’agosto 2012 Rognoni andò da lui con «un elenco di condizioni» da «imporre» alla Mantovani. E dopo una «riunione nell’ufficio di Sala» l’impresa accettò quelle «condizioni», come ha messo a verbale l’ex responsabile dell’Ufficio contratti Expo, e si aggiudicò «l’appalto».

 

«Galan in 13 anni ha speso il doppio dei suoi redditi»

La Guardia di finanza: uscite a 2,7 milioni ed entrate a 1,4. La beffa del 2012 quando l’ex ministro diceva di essere in difficoltà: «Il mio conto? “Sotto” di 300 mila euro»

PADOVA «Sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero». La formula è di rito, ma quella dichiarazione sottoscritta il 30 maggio 2013 dall’onorevole Giancarlo Galan, presidente della commissione Cultura di Montecitorio, assume ora un valore particolare alla luce della domanda di autorizzazione ad eseguire la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’esponente forzista. Nella dichiarazione dei redditi 2012, pubblicata sul sito della Camera, l’ex governatore del Veneto (dal 1995 al 2010) ed ex ministro dei Beni culturali (fino al 16 novembre 2011) certificava un reddito imponibile di 40.316 euro. Decisamente in calo rispetto, tanto per fare un esempio, all’imponibile sottoscritto dallo stesso Galan per il 2007, quando da presidente della giunta veneta dichiarava 140.778 euro lordi. D’altra parte l’alfiere di Forza Italia, in un’intervista concessa a Radio 24 nel settembre 2012, aveva sostenuto che la sua situazione economica non era tra le più floride. «Ci sono mia moglie e il mio commercialista », aveva affermato, «che controllano tutto e ne sanno più di me. So solo che il conto in banca è in passivo,ho una bella casa e tanti debiti, circa 300 mila euro: una cifra umana ma rilevante, intanto li copre mia moglie, poi quando ricomincerò a lavorare, contribuirò anch’io. E poi ho un appartamento a Rovigno e una piccola barca, che voglio vendere ma non ci riesco». Adesso, però, la Guardia di Finanza contesta a Galan e consorte (Sandra Persegato) conti che non tornano nel periodo compreso fra il 2000 e il 2013. La coppia, sposatasi nel giugno 2009, avrebbe dichiarato entrate pari a 1.413.513,31 euro, a fronte di uscite pari a 2.695.065,95 euro. La differenza, in negativo, è di 1.281.552,64. Tornando alla dichiarazione per la pubblicità della situazione patrimoniale 2012, presentata nel 2013, va detto che non vi compare il succitato appartamento di Rovigno (su due piani, in un palazzo del Settecento). Perché? Lo ha spiegato lo stesso Galan, in un’intervista a “Il Piccolo”: «Per acquistare l’appartamento ho creato una società di diritto croato che è mia al 100%». Dovrebbe essere la Franica Doo di Rovigno di cui l’ex ministro afferma di essere l’amministratore unico. Nell’elenco degli immobili certificati dal deputato forzista figurano la comproprietà (lui però ha il 98%) di un fabbricato a Cinto Euganeo (la casa di abitazione con due pertinenze, dove nel 2009 è stato celebrato il principesco matrimonio con Sandra), la proprietà di un terreno non edificabile (un bosco) a Rovolon; la nuda proprietà (al 33,33%) di due fabbricati a Padova e la nuda proprietà (sempre al 33,33%) di un fabbricato a Milano. Sostanzioso l’elenco dei beni mobili iscritti in pubblici registri: un’Audi Q7 (26 cavalli fiscali del 2006); una Land Rover Pickup (22 cavalli fiscali) del 1980; un fuoristrada 170MPinzgauer (23 cavalli fiscali) del 1979; un Pelpi quadriclo del 2007; un Carryall agricolo (10 cavalli fiscali) del 2007; una Morris Minor (13 cavalli fiscali) del 1985. Due, invece, le imbarcazioni da diporto dichiarate: un Boston Whaler Walk Around del 1991 e un Boston Whaler 28’ Conquest. Sul versante delle azioni lui dichiarava 3.000 azioni di Veneto Banca, il 100% del capitale sociale della Franica Doo (pari a 1.173.300 kune: per un euro ci vogliono 7,5 kune); 50% del capitale sociale della Margherita srl di Padova (20 mila euro). Del “caso Galan” tornerà a occuparsi mercoledì la giunta presieduta da Ignazio La Russa. Nella sua illustrazione il relatore Mariano Rabino (Sc) non ha fatto sconti ricordando l’accusa del Gip: «Si faceva ristrutturare l’abitazione sita in Cinto Euganeo, ove venivano svolti dal 2007 al 2008 lavori nel corpo principale e successivamente nell’anno 2011 nella barchessa» per un valore stimato di 1.100.000 euro.

Claudio Baccarin

 

Veneto sviluppo

Quel contratto d’oro a Barone voluto dalla presidente Gemmo

VENEZIA Il contraccolpo dell’inchiesta Mose fa volare gli stracci in Consiglio regionale. Spunta una lettera del 2007, firmata da Giancarlo Galan su sollecitazione di Irene Gemmo, allora presidente di Veneto Sviluppo, scritta per mettere a tacere gli oppositori all’assunzione del direttore generale della Finanziaria Luigi Barone. Il quale era stato reclutato alle seguenti modiche condizioni: 320.000 euro di stipendio base, più un premio annuale di 60.000, più l’auto blu, più «vitto e alloggio in albergo adeguato», da lunedì a venerdì, perché arrivava da Roma e lì doveva tornare ogni fine settimana. Al cuore non si comanda,com’è noto. La Gemmo l’aveva assunto sulla parola, ma si era trovata l’opposizione nel Cda e non riusciva ad avere l’ok per il contratto. Chi frenava di più era Fabrizio Stella, consigliere in quota Pdl come la stessa Gemmo, il quale sosteneva che 380.000 euro più i benefits era un trattamento spropositato: il tetto da non superare dovevano essere i 275.000 euro dello stipendio del primo presidente di Corte di Cassazione. Per risolvere il caso, Irene Gemmo chiede un parere legale. Stella si mette di traverso anche qui, pretendendo che si pronunci l’azionista di maggioranza di Veneto Sviluppo, cioè la Regione (51% della Finanziaria), che peraltro di uffici legali ne ha due,uno in giunta e uno in Consiglio, i quali lavorerebbero gratis. Il collegio sindacale gli dà ragione. La Gemmo è in difficoltà. Arriva in soccorso Giancarlo Galan: il 25 luglio 2007 il presidente spedisce una lettera riservata personale a Fabrizio Stella e per conoscenza a Irene Gemmo, in cui bacchetta il consigliere discolo con una reprimenda di due pagine mandandolo a rileggersi il codice civile e lo statuto della Veneto Sviluppo. La Regione non c’entra, lui è un incompetente, la smetta con «velleitarie pretese» e partecipi alle decisioni «con spirito di collaborazione ». Insomma, si metta in riga. Benché riservata, la lettera arriva a tutti i consiglieri di palazzo Ferro Fini, tant’è che ce n’è in giro ancora una copia. Questa vicenda va ad aggiungersi agli «strani episodi» elencati martedì scorso dal consigliere Moreno Teso, che nella seduta di autocoscienza dopo gli arresti dell’inchiesta Mose, ha denunciato in aula la gestione allegra di Veneto Sviluppo che negli anni «è entrata come azionista in aziende poi fallite, buttando via 20 milioni di euro». «Verificherò con il lanciafiamme ogni singolo episodio», gli ha replicato Luca Zaia. Andrebbe aggiunto che la politica delle partecipazioni di Veneto Sviluppo sotto la presidenza Gemmo era così condivisa dai soci bancari (49% della Finanziaria) che nel 2008 portò alle dimissioni del consigliere Franco Andreetta, anche se giustificate al pubblico con motivazioni generiche, come si usa in banca. Luigi Barone fu poi assunto con un contratto di 273.000 euro l’anno, senza i 60.000 di premio annuale, ma più i benefits. Ma l’aria era diventata irrespirabile per lui e dopo poco si licenziò. I casi della vita l’hanno portato a sedere con Marcello Dell’Utri e Alberto Rigotti nel Cda di Epolis, dov’era socio anche Piergiorgio Baita con Adria Infrastrutture. Il gruppo è imploso e Rigotti è stato arrestato il 5 giugno scorso dalla Guardia di Finanza di Cagliari per bancarotta fraudolenta. È andata meglio a Fabrizio Stella, che oggi dirige Avepa, l’agenzia dei pagamenti in agricoltura, con uno stipendio di 152.000 euro. Stella parrebbe godere della fiducia di Luca Zaia, ciò nonostante risulta essere l’unico dirigente al quale non è stato rinnovato il contratto che scadeva a metà legislatura. E’ in regime di proroga, periodo che dura 45 giorni, scaduti i quali si decade. Lo stanno tenendo in castigo perché ha fatto il discolo un’altra volta? Stella raggiunto al telefono risponde in inglese: «No comment».

Renzo Mazzaro

 

«Il Mose va commissariato» Il Codacons vuole Cantone

L’associazione dei consumatori ha avviato una class action per i risarcimenti

Il presidente Rienzi: «In questi anni l’opera è diventata il bancomat dei ladroni»

VENEZIA Se è vero che «il Mose è diventato il bancomat dei ladroni» non ci sono alternative: «i cantieri vanno fermati, il Consorzio Venezia Nuova va sciolto e affidato a Raffaele Cantone – nominato l’altro giorno presidente dell’Autorità Anticorruzione, ndr – e il Mose va posto sotto sequestro perché è il corpo del reato». Ne è convinto il presidente nazionale del Condacons, l’avvocato Carlo Rienzi, ieri a Mestre per presentare assieme al presidente regionale Franco Conte la Class action -anche se in termini giuridici è improprio chiamarla così – contro i ladroni del Mose. Venerdì mattina i rappresentanti dell’associazione dei consumatori hanno consegnato in procura la documentazione per accreditarsi come parte offesa nel procedimento penale a carico delle persone indagate. L’associazione stima che il danno possa essere di almeno 2 miliardi e 700 mila euro, calcolato sugli incrementi di costo dell’opera e i minori trasferimenti ottenuti dal Comune dalle Legge speciale proprio perché dirottati sul sistema delle dighe mobili che si è mangiato la fetta più grande dei trasferimenti. Per aderire all’azione collettiva c’è tempo fino al 31 luglio, e per farlo basta andare sul sito dell’associazione, iscriversi e compilare i moduli che poi, ogni persona che deciderà di aderire, dovrà far pervenire alla procura. «Il risarcimento dei cittadini veneziani ma non solo, perché potrà aderire qualsiasi cittadino italiano», spiega Rienzi, «è il minimo che si possa fare perché il Mose si è rilevato una mangiatoia per tutti, alimentata con i soldi pubblici, e quindi con i soldi dei cittadini». «Il nostro », aggiunge Rienzi, «è anche un modo per fare sentire meno soli i magistrati in questa battaglia di legalità dentro la città». Quella di oggi però non è la prima battaglia del Codacons contro il sistema di dighe mobili dato che già nel 2004 i consumatori, con il sostegno di altre associazioni locali (Ambiente Venezia, Magistratura democratica e l’Assemblea permanente No Mose) aveva promosso un ricorso al Tar, rigettato, e l’anno successivo respinto anche dal Consiglio di Stato. Il Codacons, oggi come allora, sostiene che non sia mai stata applicata una corretta procedura per la valutazione di impatto ambientale, by-passata dal Comitatone. E va da sé che se Tar e Consiglio di Stato si sono espressi su documenti che oggi si scopre potrebbero essere stati aggiustati – è questa la linea del Codacons – ci sono i presupposti per chiedere la revoca di quelle sentenze come è del resto previsto dall’articolo 395 del Codice di procedura civile. Tuttavia, anche se il Codacons avesse ragione resta però la questione di che fare con una grande opera che nel frattempo è arrivata all’85% per cento della sua realizzazione, e che dovrebbe essere ultimata, salvo imprevisti, entro la fine del 2016. «È un dibattito che bisogna avere il coraggio di affrontare », sostiene ancora Rienzi, «perché noi crediamo che, anche se siamo arrivati a questo punto, sia meglio fermare tutto, lasciare così com’è perché in base a quello che sta emergendo dalle indagini della procura veneziana nessuno può dire con certezza che questa sarà un’opera sicura. Meglio quindi fermarsi qui e destinare gli ulteriori stanziamenti previsti ad altri interventi di riqualificazione della laguna». Uno scenario improbabile. «Se proprio l’opera deve andare avanti», spiegano del Condacos, «è necessario l’intervento di un commissario speciale, e noi siamo convinti che questo commissario da mettere a controllare i lavori debba essere Cantone». Il Codacons poi si batterà anche perché, nel corso del processo, la probabile richiesta di costituzione di parte civile da parte dello Stato venga respinta. «Perché lo Stato è quello che ha provocato quello che è successo, il Consiglio dei ministri di oggi è in continuità con i consigli dei ministri di ieri, non sono parti diverse. Le responsabilità di quanto accaduto sono anche nello Stato».

Francesco Furlan

 

«Il parere ambientale? Non è mai stato dato. Era solo un orpello da superare in fretta»

VENEZIA. Nel ricorso presentato dal Codacons e da altre associazioni ambientaliste della città si contestava il fatto che il Comitatone (in particolare con due delibere, una del 6 dicembre del 2001 e una del 4 febbraio del 2003) avrebbe dato il via libera al Mose «in assenza di una valutazione di impatto ambientale positiva» dal momento che una prima valutazione negativa era stata fatta nel 2000 dai ministri Ronchi (Ambiente) e Melandri (Beni culturali) ma venne poi annullata dal Tar senza che l’opera sia stata poi sottoposta ad un nuovo vero percorso di valutazione ambientale a livello ministeriale. Per il Codacons guidato da Rienzi «la valutazione dell’impatto ambientale è stata trasformata in un orpello fastidioso da superare a tutti i costi».

 

Il procuratore Nordio «Contro la corruzione leggi più semplici»

VENEZIA. «La nomina di un commissario contro la corruzione può anche avere una giustificazione politica, ma razionalmente parlando non ci si deve fare nessuna illusione». Lo ha detto a Radio Radicale il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio. Secondo il procuratore aggiunto, che sta coordinando l’inchiesta sul Mose, «la nomina di un commissario potrà in minima parte servire. L’inasprimento delle pene e la creazione di nuovi reati non servirebbe a nulla, come ha dimostrato l’esperienza del passato. Gli unici strumenti contro la corruzione, a parte l’educazione etica che si può realizzare in una o più generazioni, sono la semplificazione delle procedure e l’individuazione trasparente delle competenze. Se un cittadino deve bussare cento porte è inevitabile che qualcuna resti chiusa finché qualcuno non viene a suggerirti di oliarla e di renderla apribile. Copiamo dagli altri Paesi dove ci sono pene anche meno aspre», ha concluso,«ma procedure molto più trasparenti e competenze molto più individuate». È una riflessione che Carlo Nordio aveva già fatto dieci giorni fa, nel corso della conferenza stampa in procura il giorno in cui erano scattate le 35 misure cautelari. «Al di là dell’inchiesta di oggi», aveva sottolineato il magistrato, «voglio ricordare quanto scrissi già 15 anni fa: una delle cause della corruzione deriva dalla farraginosità delle leggi, dal numero delle leggi e dalla loro incomprensibilità, e da una diffusione di competenze che rende difficile individuare le varie responsabilità».

 

Il governo chiude il magistrato alle acque

Stop all’ente dopo oltre cento anni. Da ottobre competenze trasferite al Provveditorato interregionale per opere pubbliche

VENEZIA – Una riga nel comunicato del governo, al termine del Consiglio dei ministri di venerdì sera: «È soppresso il Magistrato delle Acque per le province venete e di Mantova». Dal primo ottobre cala il sipario su magistratura con 500 anni di storia e affaccio sul Ponte di Rialto, serenissima per nome anche se emanazione oggi del ministero delle Infrastrutture, con funzioni di controllo sulla laguna e sulle opere di salvaguardia. Con due magistrati come Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva in carcere da dieci giorni perché accusati dalla Procura di aver percepito “stipendi neri” per centinaia di migliaia di euro l’anno dal Consorzio Venezia Nuova, per non controllare alcunché, la decisione del governo Renzi – del tutto inaspettata anche dagli addetti ai lavori – ha un sapore tutto politico. «Certamente le vicende giudiziarie di questi giorni hanno giocato nell’accelerare la decisione », conferma il sottosegretario Pierpaolo Baretta, a sua volta stupito della decisione. Una scelta che ha lasciato sconcertati molti, a Venezia, da sinistra a destra. Anche perché – pur in attesa della pubblicazione del decreto – il governo ha deciso di trasferire le competenze del Magistrato al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia: sempre organi ministeriali, ma passati da una dimensione territoriale veneziana a grandezza Italia del Nordest. Pure se da mesi magistrato è lo stesso provveditore interregionale, Roberto Daniele – con sede di entrambi gli uffici a palazzo dei Dieci Savi – la decisione di cancellare il Magistrato alle Acque è accolta con sconcerto trasversale. Anche perché il Comune di Venezia voleva sì abolirlo, ma per ottenerne i poteri: Comitatone dopo Comitatone – il sindaco Orsoni più volte – Ca’ Farsetti ha chiesto più volte per sé tutte le competenze che oggi imperano in laguna, rendendone difficile il governo e il controllo locale (dal Magistrato alla Provincia alla Capitaneria di porto). E la riunione delle competenze a Venezia è anche uno dei caposaldi della proposta di nuova Legge speciale in discussione, primo firmatario il senatore pd Felice Casson. «Una decisione sconcertante, che va contro qualsiasi logica e allontana ancora più la salvaguardia da Venezia», commenta l’ex assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin. «Fuffa: come se l’iperstatalismo romano fosse garanzie di probità», incalza il consigliere Beppe Caccia, «non ci dimentichiamo gli scandali Balducci, il G8 e l’Aquila». E in una mozione al voto del Consiglio comunale, domani – che nasce dalla richiesta al governo di «smantellare il sistema politico- affaristico, il cui profilo criminale emerge dall’inchiesta in corso» su Consorzio, salvaguardia e mazzette – si chiede anche «il superamento dell’attuale Magistrato alle Acque e trasferimento dei suoi poteri al Comune di Venezia». Sinistra e destra, si diceva. «Così è ancora peggio: una magistratura con secoli di storia veneziana diventa sempre più romana: non ha senso», commenta il capogruppo provinciale di Fratelli d’Italia, Piero Bortoluzzi, «semmai è urgente una bella riforma della legge speciale per Venezia, che unifichi le competenze sulla laguna, attribuendole ad esempio alla città metropolitana, solo a condizione però che abbia organi elettivi».

Roberta De Rossi

 

ROBERTO DANIELE «Non ho incarichi di collaudo»

VENEZIA. «Sono stato incaricato dell’esecuzione di collaudi del Mose, ma il giorno stesso che ho preso servizio a Venezia, il 2 settembre 2013, come presidente del Magistrato alle Acque, ho rassegnato le dimissioni dagli incarichi di collaudo che mi erano stati affidati». Così Roberto Daniele, riferendosi alla ricostruzione degli affidamenti di collaudi per il Mose fatta dal settimanale l’Espresso. «L’importo reale rispetto alle somme che mi sono attribuite pe ri collaudi», aggiunge, «è di gran lunga inferiore: un terzo più o meno. E poi, essendo io dipendente della P.A., la parte più consistente relativa all’onorario è stata versata interamente in conto entrate alla Tesoreria dello Stato, nel rispetto della norma sull’onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti pubblici: fondi dai quale il Ministero attinge per pagare la parte accessoria dello stipendio mio e dei 50 dirigenti, mentre prima era lo Stato a stanziare queste somme».

 

NUOVA VENEZIA – IL CASO MOSE – La nostra amara soddisfazione

Per anni e anni noi ambientalisti abbiamo contrastato in vari modi(anche con dettagliati esposti) l’affare Mose, indicando le alternative possibili a questa grande opera devastante, inutile e costosa, denunciando anche le varie criticità amministrative. Dall’anomalia del concessionario unico alla mancata considerazione della negativa Valutazione d’impatto ambientale nonché delle prescrizioni indicate (illusoriamente) dal consiglio comunale, alle “inesattezze” del parere fondamentale dato dal Ministero dei Beni e le attività culturali, che peraltro sembra aver approvato anche quelle opere realizzate in laguna tanto per spendere i cospicui finanziamenti, come confessato da uno degli arrestati (Baita, ex impresa Mantovani), anche queste in gran parte da noi contestate. Maabbiamoanche più volte sottolineato quella che sempre più si percepiva come una mafia infiltrata dal potere forte del Consorzio Venezia Nuova nella nostra città (e non solo), con la sua ramificata corruzione che sta venendo alla luce, fatta di tangenti- favori-incarichi-accordi-ricatti- nomine nei posti che contano. Capace di creare quantomeno a criticità e subalternità anche da parte di gran parte del mondo culturale e accademico. È ormai normale utilizzare sponsorizzazioni, ma è grave che forze politiche e istituzioni le chiedano a un consorzio d’imprese che per i propri lavori deve ottenere autorizzazioni e finanziamenti. Ancora più grave, ovviamente, quando i fondi sono dati illegalmente e in cambio di qualcosa. Ci hanno chiamato e ci chiamano, ingiustamente, quelli del no. È per noi ora un’amara soddisfazione seguire l’evolversi di un’inchiesta che ci auguriamo possa fare piena luce sui vari aspetti di questa scandalosa realtà.

Cristina Romieri – Lido di Venezia

 

Sanità, canoni salati e concessioni eterne: project da 1,2 miliardi

Da Mestre a Verona, da Este-Monselice a Treviso i nuovi ospedali costruiti su una montagna di debiti

Rate fino al 2036 per saldare tutte le rate: ai privati rendimenti a due cifre

Prima il “mito” dei mega progetti, poi i sospetti su cui lavora la magistratura

VENEZIA – Dal nuovo ospedale di Mestre alla Cittadella della salute di Treviso, dal nuovo polo sanitario di Schiavonia d’Este agli impianti tecnologici di Camposampiero e Cittadella. E poi i nuovi ospedali di Castelfranco e Montebelluna, la ristrutturazione di Borgo Trento e Borgo Roma a Verona, il nuovo ospedale unico dell’Alto Vicentino. Solo le province di Belluno e di Rovigo ne sono state risparmiate: masi sa che i montanari non si fidano dei veneziani e i rodigini son pochini. Negli ultimi dieci anni la parola magica era «project» (tanto i soldi li mette il privato). Peccato che non si trattasse di mecenatismo ma semplicemente di business: il privato costruisce subito ma si garantisce per trent’anni la concessione di pulizie, pasti, energia, diagnostica, parcheggi. Un rendimento, per i privati, a due cifre. Un affitto capestro per il pubblico, che ammette così la propria incapacità di oculata gestione. Più di un miliardo e trecento milioni di euro di investimenti per rinnovare la rete ospedaliera del Veneto. Ma così ci siamo giocati una generazione di debiti: per un project da cento milioni di euro il «canone» a favore delle imprese concessionarie può sfiorare anche i trenta milioni l’anno. Quello di Mestre, ad esempio, scadrà nel dicembre 2031, quello di Santorso addirittura nel 2036. Nove contratti di progetto di finanza in campo ospedaliero sono stati sottoscritti o semplicemente siglati in attesa di aggiudicazione. La larga parte si deve all’epoca in cui il Veneto era guidato da Giancarlo Galan, su cui pende una richiesta di arresto nell’inchiesta sui finanziamenti del Consorzio Venezia Nuova alla politica. Che la politica dei project non fosse proprio un affare se n’era accorto anche Leonardo Padrin, presidente della commissione regionale sanità, che nel 2010 aveva chiesto al governatore Luca Zaia di «verificare e rinegoziare i project attivi, sospendere e riesaminare quelli ancora in corso». Tre anni più tardi è la magistratura veneziana che sta puntando i riflettori, facendo seguito a un approfondimento in corso da parte della Corte dei conti. Ad aprire la stagione dei project sanitari fu l’Asl 12 Veneziana per realizzare, tra il 2003 e il 2007, il nuovo ospedale dell’Angelo di Mestre. Un contratto da 250 milioni di euro per una concessione della durata di 24 anni. Demolito il vecchio Umberto I, adesso nel nuovo ospedale si paga il parcheggio (sei euro al giorno) e per avere la televisione in camera occorrono 3 euro e mezzo al giorno (e 5 euro di cauzione per il telecomando). Ad aggiudicarsi la gara è stato il «gotha» dei project del Veneto: Astaldi, Mantovani,Gemmo, Studio Altieri. Imprese i cui nomi compaiono più volte nella ricostruzione della magistratura veneziana come autentici «pigliatutto » degli appalti. Più o meno gli stessi nomi degli altri project: la milanese Siram a Venezia, Este e Monselice, Cittadella e Camposampiero, la rodigina Guerrato a Castelfranco e Montebelluna, l’impresa Carron a Treviso e Monselice, la Mazzi a Verona, la vicentina Gemmo a Santorso, Monselice, Mestre, Venezia («Nonostante una stampa superficiale e poco corretta,Gemmo spa è totalmente estranea alle indagini legate ai recenti scandali Mose e Galan» ha spiegato nei giorni scorsi l’azienda di Arcugnagno). E le cooperative rosse? Ci sono sempre, con piccole e grandi quote: a Verona come capogruppo mandataria c’è la storica Cooperativa Muratori e Braccianti di Carpi (con la Ccc e la Manutencoop), a Santorso ancora la Cmb di Carpi, a Castelfranco la Coop service, a Venezia la Coveco e la Ccc. Insomma, i project sanitari – e quelli sulle infrastrutture – hanno garantito nel periodo più nero dell’edilizia la sopravvivenza alle maggiori imprese di costruzioni del Veneto. Che grazie all’esperienza avviata dalla giunta Galan hanno potuto esportare la loro professionalità: in Toscana, ad esempio, i quattro project degli ospedali di Massa, Lucca, Pistoia e Prato sono stati realizzati dalla cordata del gruppo Astaldi che aveva costruito a Mestre. L’investimento di capitali privati nella realizzazione degli ospedali, poi, è stato ampiamente scontato dalle banche, cui è stata data in garanzia proprio la sicurezza della gestione per venti o trent’anni. Proprio nell’equilibrio tra apporto di capitale, valore dei servizi dati in concessione e durata della concessione c’è il ritorno per il privato: dalle pulizie e dai pasti di un ospedale si possono ricavare anche dieci o venti milioni l’anno. Soprattutto con la certezza della durata e del pagamento: le Asl sono pagatori morosi ma assolutamente certi e di questi tempi non è poco. Al palo è rimasto il project del nuovo ospedale di Padova (600 milioni): promesso da Galan e salutato con entusiasmo da Zanonato, con la vittoria di Massimo Bitonci è destinato a tornare nel cassetto. Le imprese già pronte se ne faranno una ragione. Insomma, per «regalare» i nuovi ospedali abbiamo indebitato una generazione di veneti. Ma tanto i soldi li mette il privato, no?

Daniele Ferrazza

 

Baita sugli ospedali «Decide tutto Lia Sartori»

«Il mio rapporto con Lia Sartori (foto) era conflittuale»: è per questo che Piergiorgio Baita, ex numero uno della «Mantovani spa» non vinceva né un appalto né un lavoro nella sanità veneta. Se non quando si univa alla «Gemmo». Baita, arrestato nel febbraio 2013, lo spiega diffusamente nel lungo interrogatorio del6 giugno di un anno fa in procura a Venezia. Lo fa davanti ai pm Ancilotto e Buccini, assistito dagli avv. Ambrosetti e Rampinelli. «Non le ho mai corrisposto somme di danaro in via diretta», precisa Baita, ricordando il rapporto difficile con l’eurodeputata vicentina, per la quale sono stati chiesto gli arresti domiciliari. «Il consorzio credo che abbia finanziato la campagna delle europee del 2009 dell’onorevole Sartori». «Il Consorzio puntava su Sartori… i soldi furono consegnati direttamente dall’ingegner Mazzacurati».Non solo: Baita farebbe riferimento anche ad altri finanziamenti, «in particolare alla associazione di imprese che ha concorso per il project all’ospedale di Mestre». In quegli anni, dal 2005 al 2010, Sartori è il deus ex machina della sanità veneta: «Le leve della Sartori erano i direttori generali delle Asl, alla cui nomina aveva provveduto in maniera autonoma rompendo i rapporti politici, per cui i direttori potevano essere etichettati in maniera precisa come persone di riferimento dell’onorevole». Ma«Sartori in sanità non ha mai ritenuto di considerare la Mantovani come soggetto di prima battuta, ritenendo che invadesse il campo riservato ai gestori sanitari e in particolare alla Gemmo».

 

Scandalo fondi Mose, il Pd è nella bufera

I pm Ancilotto, Buccini eTonini allargano gli interrogatori

E l’ex sindaco dimissionario racconta gli scontri con Mazzacurati

VENEZIA Inchiesta Mose: le prime timide ammissioni di alcuni arrestati negli interrogatori di garanzia resi ai giudici hanno spinto i pubblici ministeri Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini a viaggiare lungo l’Italia per sentire personalmente quello che hanno da raccontare, per convincerli a vuotare il sacco, in modo da ottenere nuovi elementi e ripartire com’ è accaduto con le due indagini precedenti: quella che ha portato in carcere da una parte Piergiorgio Baita della «Mantovani » e dall’altra Giovanni Mazzacurati , presidente del Consorzio Venezia Nuova», grazie alle dichiarazioni dei quali sono scattati gli arresti di mercoledì scorso. L’ex presidente del Magistrato alle acque, il romano Patrizio Cuccioletta è accusato di aver percepito addirittura uno stipendio annuo di 400 mila euro e un bonus una tantum di 500 mila finito nel conto intestato alla moglie in una banca svizzera. Non ha potuto negare di averlo incassato, ha confermato, ma ha sostenuto essersi trattato di un regalo. Probabilmente qualche insistenza con lui potrebbe convincerlo ad andare oltre, a riferire con dovizia di particolari che cosa gli era richiesto di fare in cambio di quel presente. Uno dei titolari della Cooperativa San Martino, l’impresa di Chioggia da dove è partita l’inchiesta grazie alla verifica fiscale della Guardia di finanza, ha ammesso che i suoi emettevano fatture per operazioni inesistenti a favore del Consorzio in modo da formare fondi neri attraverso le «retrocessioni» del danaro che usciva per pagarle e poi in parte rientrava. Non è lungo il passo per spiegare a cosa servivano quei fondi neri e in tasca di chi siano finiti. Lo stesso ha spiegato il bolognese Manuele Marazzi, che le fatture fasulle, invece, le emetteva a favore della «Mantovani». Infine, l’ex amministratore delegato dell’Autostrada Venezia- Padova, il Pd Lino Brentan, piazzato però su quella poltrona dall’assessore di Forza Italia Renato Chisso, ha confessato di aver consegnato 12 mila euro nelle mani di Giampietro Marchese e in precedenza di aver organizzato una cena elettorale a Malcontenta per raccogliere fondi a favore della campagna elettorale di Davide Zoggia per le elezioni provinciali del 2009. E di Zoggia, già allora responsabile per gli enti locali e nelle segreteria nazionale del partito guidato all’epoca da Pierluigi Bersani, ha parlato anche l’ex sindaco Giorgio Orsoni nel suo unico interrogatorio, quello che gli è valso la scarcerazione (era ai domiciliari) e il raggiungimento dell’accordo con la Procura per il patteggiamento a 4 mesi. Orsoni dopo aver sostenuto che è stata «una sua debolezza » avanzare la richiesta di finanziamenti a Mazzacurati, racconta che Zoggia, assieme a Mognato e a Marchese, lo avrebbe convinto a insistere con il grande manager perché finanziasse con altro denaro la sua campagna elettorale. L’anziano ingegnere aveva fatto già arrivare più di 100 mila euro nelle casse, ma ne servivano di più e così sarebbero stati consegnati altri 400-500 mila euro. Mal’ex sindaco, nel suo interrogatorio, ci tiene a raccontare alcune circostanze di quando era già a Ca’Farsetti: «Mazzacurati aveva una tecnica sua, quella di pressare le persone, venne da me più volte per l’Arsenale, per la Legge speciale e per Est capital, dove l’amministrazione precedente aveva fatto delle cose inaudite perché si era messo in mano a Baita. Evidentemente pensavano di far bene, ma dopo di che io mi sono trovato, come dire, col coltello alla gola per molte cose, dalle quali ho cercato di uscirne e i conflitti con Mazzacurati fin da subito, da quando sono stato eletto, sono stati di vario tipo… io mi sono messo di traverso a certe operazioni sul Lido, sull’Ospedale al Mare, mi sono messo di traverso sull’occupazione dell’Arsenale» da parte del Consorzio Venezia Nuova.

Giorgio Cecchetti

 

Mercoledì l’autodifesa di Galan

Alla giunta autorizzazioni della Camera. E lo stesso giorno cinque ricorsi al Riesame

Domani in laguna il Tribunale dei ministri del Veneto decide se avviare le indagini su Matteoli

VENEZIA – Il primo appuntamento in agenda è quello di lunedì per il Tribunale dei ministri del Veneto: domani, il presidente Monica Sarti, giudice a Verona, ha convocato gli altri due colleghi, Priscilla Valgimigli e Alessandro Girardi, giudici di Venezia, negli uffici della cittadella della giustizia di piazzale Roma perché dovranno decidere in quale modo procedere, innanzitutto se avviare le indagini nei confronti dell’ex ministro delle Infrastrutture del governo Berlusconi, il toscano Altero Matteoli di Forza Italia. Giovanni Mazzacurati ha raccontato di essere andato in casa sua, in Toscana, a consegnargli una mazzetta e poi c’è lo stretto rapporto con l’ex presidente dei costruttori romani Erasmo Cinque, inserito a forza tra le imprese che dovevano vincere l’appalto per la bonifica dei terreni inquinati di Porto Marghera. Cinque e Matteoli erano entrambi nell’Assemblea nazionale di Alleanza nazionale, l’organo dirigente del partito quando al vertice c’era ancora Gianfranco Fini e il sospetto è che con la sua «Socostramo srl» (Società costruzione strade moderne) fosse il collettore di tangenti per il ministro. I tre giudici dovranno soprattutto fissare il giorno in cui l’ex ministro potrà presentarsi in laguna a raccontare la sua versione dei fatti, così come hanno chiesto di poter fare i suoi avvocati difensori. Mercoledì, poi, ci sarà il secondo round davanti al Tribunale del riesame presieduto dal giudice Angelo Risi: cinque i ricorsi fissati. Quello dell’imprenditore chioggiotto Stefano Boscolo Bacheto, uno dei titolari della «Cooperativa San Martino », l’impresa da cui è iniziata l’intera indagine sul Mose, grazie alla verifica fiscale della Guardia di finanza nel 2009; dell’ingegnere di Roma e tecnico del Consorzio Venezia Nuova Luciano Neri; del bolognese Manuele Marazzi, accusato di aver emesso fatture fasulle a favore della Mantovani con la sua società e di aver favorito la latitanza del padovano Mirco Voltazza; del segretario di Mazzacurati Federico Sutto, ex socialista e, secondo le accuse, distributore di tangenti per conto del presidente; dell’imprenditore romano di «Condotte d’acqua », impresa del Consorzio, Stefano Tomarelli. Nel primo «appuntamento con il Riesame due degli indagati hanno ottenuto la scarcerazione, il consigliere regionale del Pd Giampietro Marchese e l’imprenditore di Cavarzere Franco Morbiolo, che ora sono agli arresti domiciliari. Infine, lo stesso giorno, mercoledì, si riunisce per la seconda volta la giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera, quella che deve dare il via libera o meno all’arresto di Giancarlo Galan. I deputati non devono esprimere giudizi o entrare nel merito delle accuse, devono soltanto escludere o meno che da parte degli inquirenti via sia stato un intento persecutorio nei confronti dell’ex presidente della giunta regionale ora deputato di Forza Italia. Potrebbe già essere il giorno in cui l’ex ministro di Berlusconi darà la sua versione. A relazionare sulle accuse elevate dalla Procura lagunare nei suoi confronti è il deputato di Scelta civile Mariano Rabino, ma a tutti i componenti della Giunta è stata consegnata la copia degli atti dell’indagine, si tratta di migliaia di pagine.

(g.c.)

 

L’imprenditore vicentino sentito anche per un appalto in sicilia

Scandalo Expo, a Maltauro concessi gli arresti domiciliari

Resta in cella Cattozzo, il postino delle mazzette, accusato di aver trattenuto 500 mila euro per la “cupola”

PADOVA Maltauro è tornato a casa. Ieri, il giudice di Milano Fabio Antezza ha concesso gli arresti domiciliari a Enrico Maltauro, l’imprenditore vicentino finito in carcere lo scorso 8 maggio nell’inchiesta degli appalti dell’Expo 2015. Secondo la difesa dell’imprenditore la scarcerazione è stata disposta a seguito di ulteriori riscontri investigativi forniti dallo stesso indagato, che da subito aveva confessato di aver pagato tangenti alla «cupola » degli appalti. «Siamo molto soddisfatti» hanno spiegato i difensori, gli avvocati Giovanni Maria Dedola e Paolo Grasso , «finalmente è stato valorizzato l’atteggiamento di collaborazione del nostro assistito con l’autorità giudiziaria». Sergio Cattozzo (ancora in carcere) verrà nuovamente interrogato dai pm milanesi che indagano sulla «cupola». Per la terza volta si troverà infatti davanti ai sostituti per chiarimenti in merito alla contabilità delle tangenti che Maltauro, è questa l’ipotesi, ha versato o promesso alla «squadra» per gli appalti Sogin, Expo e Città della Salute. I pm stanno esaminando i documenti sequestrati su bandi e procedure al centro dell’indagine per trovare anche i riscontri con quanto messo a verbale dall’ex esponente Udc ma anche da Maltauro e Paris. Dai verbali viene a galla che Cattozzo, il «postino delle mazzette », aveva trattenuto per sè oltre 500 mila euro a cui se ne sarebbero aggiunti altri 500 mila, che a suo dire gli sarebbero toccati se l’accordo per Sogin fosse andato in porto. Per la gara di Sogin «abbiamo definito» ha chiarito Cattozzo, «la somma di un milione e mezzo con Maltauro» pari all’1,5 per cento dell’appalto chiesto all’imprenditore. In realtà poi la cifra versata – il resto sarebbe dovuto arrivare con l’avanzamento dei lavori – è stata di 490 mila euro di cui «300 mila corrisponde a quello che ho trattenuto per me stesso. La differenza l’ho suddivisa tra me, il senatore Grillo e il professor Frigerio ». L’imprenditore vicentino ieri nel carcere milanese di Opera è stato ascoltato come persona informata sui fatti dai pm di Catania. L’imprenditore ha lavorato anche in Sicilia con un consorzio da lui acquisito. Proprio dopo questo ennesimo verbale riempito davanti ad altri inquirenti e definito «esplorativo», è arrivata per lui la scarcerazione. E tornerà a casa.

 

L’INTERVENTO

Il sindaco ci ha tolto le deleghe e la parola

DI GIANFRANCO BETTIN

Il mio ultimo intervento politico a Ca’ Farsetti è stato un bicchiere di vetro scagliato contro il muro – come è stato scritto. Un gesto violento e irrazionale, ma politicamente connotato, pur se politicamente scorretto. Il sindaco ci aveva appena comunicato che si sarebbe dimesso ma che intanto ci aveva già revocato le deleghe. Restava in campo solo lui – lui e i partiti, in realtà – a gestire i venti giorni prima del commissario. Gli avevamo chiesto di dimetterci subito ma insieme, lasciandoci così il brevissimo tempo necessario a chiudere questioni urgenti ormai pronte per la soluzione, attese da molti in città. Nel mio caso, ad esempio, alcuni atti relativi a Porto Marghera e all’avvio del Parco della Laguna Nord, ma anche, ne cito un paio, la garanzia che si aprirà la comunità per giovani negli appartamenti che abbiamo tolto agli spacciatori di droga a Ca’Emiliani, l’esecuzione dell’ordinanza anti degrado in via Carducci predisposta dal settore Ambiente, la prosecuzione delle attività dell’Osservatorio Ecomafie, e qualche altro. Tutti i miei colleghi avevano pronti provvedimenti analoghi, ora a forte rischio. L’altra questione è che il sindaco ci ha così tolto la parola, per dire in consiglio comunale le nostre ragioni. E quando si soffoca la parola a volte esplodono i gesti, per quanto scorretti, come appunto il mio ultimo “intervento politico” a Ca’ Farsetti. Il penultimo era stato la richiesta di dimissioni del sindaco, ovvia, perché il patteggiamento lo rendeva necessario e, per noi, anche la conseguenza – annunciata il giorno stesso dell’arresto – di quanto era già inoppugnabilmente emerso di lecito (i contributi dichiarati, ricevuti dal Consorzio Venezia Nuova per la campagna elettorale). La magistratura, con i suoi mezzi e poteri, lo ha scoperto dopo quattro anni, ma se il fatto fosse stato pubblico all’epoca, nel 2010 (o prima, o dopo), non saremmo mai stati in una coalizione e a sostegno di candidati che avessero ricevuto tali contributi anche se “leciti”. Sono certissimo che Giorgio Orsoni non abbia richiesto i contributi “in nero” ma a noi basta e avanza ciò che di “regolare” è emerso (e che si estende alle ramificatissime relazioni su base economica intrattenute da moltissimi con il CVN in città e altrove). Il Comune è la sola istituzione che esce totalmente pulita da questo scandalo, nessun atto amministrativo compiuto ne risulta inquinato, come la magistratura stessa conferma, e siamo certi di aver avuto in questa pulizia un ruolo forte. Anche per questo nessuno, nemmeno il sindaco, ci toglierà la parola.

 

VENEZIA – Il difensore: «Mancava l’ok regionale, così rinunciò al collaudo del Mose»

Lo strano caso dell’ingegner Fasiol, la sua nomina non fu autorizzata

Serviva un uomo negli apparati di vertice della Regione. Non nella struttura politica dell’assessorato, ma in un ruolo tecnico. Per controllare le procedure, indirizzare le pratiche, accelerare i tempi, in particolare dei project financing. Nella costruzione perfetta del sistema Mantovani, che secondo l’accusa aveva due referenti formidabili nel governatore Giancarlo Galan e nell’assessore ai Trasporti Renato Chisso, era necessario un terzo ingranaggio. Lo sostengono i pubblici ministeri che hanno chiesto e ottenuto l’arresto di Giuseppe Fasiol, 53 anni, residente a Rovigo. È il commissario straordinario alla riforma del Settore Trasporti, nonchè dirigente regionale della Direzione Strade, autostrade e concessioni infrastrutture di trasporto. Ma anche componente della commissione di collaudo (la nomina risulterebbe in data 11 gennaio 2012) per la verifica funzionale del sistema Mose, su sollecitazione di Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita. Insomma, il numero due delle infrastrutture, dopo Silvano Vernizzi.
Ma è davvero tutto oro quello che luccica nell’inchiesta veneziana? La tesi della Procura viene contestata dal difensore, l’avvocato Marco Vassallo, che ricorrendo al Tribunale del riesame ha esibito un prova ad effetto, che dimostrerebbe l’inesistenza del presupposto che ha portato in carcere Fasiol. All’ingegnere sono contestati quattro incarichi ricevuti dal Magistrato alle Acque (tutti con data 2 aprile 2013), relativi a collaudi alle bocche da porto. Le parcelle sono contenute: 6.386, 3.296 euro, 5.156 e 2.485 euro. Secondo i Pm, Fasiol sarebbe «l’uomo giusto al posto giusto» per la coppia composta da Claudia Minutillo e Piergiorgio Baita, che erano affamati di controllare l’operatività del Mose e far avanzare i project financing.
Fasiol è citato in un contesto di contrasti tra Baita e Silvano Vernizzi, segretario generale alle Infrastrutture della Regione. Un funzionario in carriera, Fasiol, a cui Baita decide di far assegnare il collaudo del Mose. Minutillo ha detto: «Lui apprezzò molto questa cosa. E’ ovvio che un collaudo del genere vale tanti, tanti soldi, perché va in base al valore dell’opera». Serviva però l’autorizzazione dell’assessore. «Chisso era contentissimo e disse che non ci sarebbero stati assolutamente problemi per l’autorizzazione».
Ma qui si profila un possibile colpo di scena. «L’ingegner Fasiol aveva presentato la domanda per ottenere dalla Regione l’autorizzazione a ricoprire l’incarico. Ma l’autorizzazione non è mai arrivata e così lui ha revocato la richiesta» sostiene l’avvocato Vassallo. Conclusione? «La nomina non ebbe seguito, l’ingegner Fasiol non ha fatto alcun collaudo». Eppure nel capo d’imputazione è esplicito il riferimento alla nomina «espressamente sollecitata» da Baita e Mazzacurati con la conseguente accusa di aver ricevuto «a titolo di compenso» le quattro parcelle per circa 19 mila euro. «Confidiamo nel riesame, che discuterà il nostro ricorso per insussitenza totale di indizi il 23 giugno» conclude il difensore.

 

La Regione stoppa i progetti più onerosi: Protonico a Mestre e Patavium

E porta a termine solo quelli iniziati. Ma l’inchiesta guarda anche indietro

OPERE & SOLDI – L’Angelo costerà all’Asl veneziana un miliardo. Freno ai progetti veronesi

PRIVATI – L’ospedale dell’Angelo di Mestre, la struttura che l’allora governatore Giancarlo Galan costruì in “project financing”

Ospedali, i project nel mirino: ogni anno buttati 100 milioni

Potrebbe essere il secondo filone dell’inchiesta che sta squassando il Veneto: gli ospedali. Che pacchi di carte siano già sotto la lente non è solo una voce, è quasi inevitabile visto che già nella inchiesta sul Mose la voce “project” è riecheggiata più volte. La partita “ospedali” è infatti già nel mirino degli inquirenti, chiacchierata da tempo per quei costi spropositati di alcune strutture sanitarie noti da tempo. Così sotto la luce del sole che lo stesso Zaia non aveva fatto mistero sui motivi della rivoluzione nei vertici della Asl, al momento del rinnovo dei manager. Cambio di rotta voluto proprio per creare una discontinuità e inserire linfa fresca all’interno del comparto. La sanità non si regge infatti solo sulla gestione degli ospedali e della spesa territoriale, ma anche sulla “progettualità”. E di ospedali il Veneto già fatti, in via di assegnazione e “solamente desiderati” ne ha parecchi. Milione più milione meno, sono quasi due miliardi (tra già finanziati e bloccati) i soldi da impegnare.
Che Zaia sui “project” abbia più volte alzato la voce non è storia di oggi. Lo ha fatto in Consiglio regionale, chiedendo una riflessione al parlamento regionale, lo aveva riproposto in sedi diverse, denunciando come la finanza di progetto utilizzata in sanità sia fuori mercato e abbia costi esorbitanti. Ed è venuto fuori pure nel giudizio di parificazione della Corte dei Conti.
Morale della favola, i “project” pesanti in Veneto sono stati stoppati, almeno quelli nuovi, visto che i contratti blindatissimi ereditati dalle passate amministrazioni non si toccano. Quelli già iniziati sono stati portati a compimento e quelli a metà del guado lo saranno comunque (a volte le penali pesano più dell’impegno economico complessivo). Ospedali nuovi, nuovi dalla testa ai piedi, da anni il Veneto non ne costruisce. La giunta ha concluso quanto ereditato e si è messa di traverso su nuovi progetti. Uno su tutti il “Protonico” di Mestre, costo complessivo 738 milioni per curare un centinaio di pazienti quando ad un centinaio di chilometri c’è un centro attrezzatissimo. Il Polo, avversato da più parti e sostenuto dalla precedente amministrazione, è stato definitivamente affossato da un’informativa di giunta presentata il 3 ottobre del 2013 dall’assessore Luca Coletto. O ancora di più il faraonico progetto dell’ospedale di Padova, 1 miliardo e 200 milioni per un “project” che doveva rivoluzionare anche la viabilità di una parte della città, maturato ancora con la giunta Galan e che probabilmente mai vedrà la luce visto che, oltre agli stop della Regione, arriveranno pure quelli del nuovo sindaco di Padova Bitonci.
Resta l’Angelo, super costoso ospedale di Mestre, per il quale oltre al “project” si è ereditato pure il “global service”: “un pozzo senza fondo” è stato più volte definito. L’Asl, per una struttura costruita con 241 milioni, complessivamente dovrà sborsare ben oltre un miliardo di euro.
Altro project financing finito nel mirino quello di Santorso (a Schio, appena finito): 150 milioni di spesa e una stupenda facciata in opaline che ha già avuto necessità di manutenzioni pesanti. I conti sono facili: un project alla fine costa il 13 per cento d’interessi, chiedere i soldi decisamente meno. E poi c’è il vincolo indissolubile con il privato. I conti sono stati più volte fatti anche dalla Corte dei Conti: al Veneto i project costano 100 milioni di euro in più all’anno. Più o meno il disavanzo che ogni anno la Regione si trova a dover colmare usando i “tesoretti” accantonati. In tempi non sospetti, quando a Zaia venne chiesto come mai questa giunta in Sanità non progettava nulla, la risposta fu che con 4 miliardi e 400milioni di buco c’era proprio poco da progettare. E poi quello che era in cantiere non era in linea con lo spirito: troppi project e eccesso di opere faraoniche affidate agli “archistar” che pensano alla bellezza e a volte trascurano la funzionalità.
Stop su Padova, frenata sui mega progetti veronesi (l’ospedale della mamma e del bambino), occhi più che attenti sulla “Cittadella” di Treviso anche se in questo caso non si tratta esclusivamente di un progetto di finanza. Ma non basta per levarsi gli sguardi di torno. Le carte sono state raccolte. Tutte.

 

SCANDALO MOSE – Chisso chiede di essere scarcerato. Gli avvocati di Mognato e Zoggia attaccano Orsoni

Renzi affonda il Magistrato alle acque

Cancellata la storica istituzione travolta dall’inchiesta. Ospedali nel mirino, Zaia blocca nuovi appalti a Padova, Mestre e Verona

STOP – Fine del Magistrato alle acque, già travolto dallo scandalo-Mose. Con un colpo di penna il consiglio dei ministri cancella cinque secoli di storia.

L’INCHIESTA – Anche la sanità nel mirino: soprattutto i project financing. Intanto Mognato e Zoggia(Pd) attaccano il sindaco Orsoni.

Secondo l’accusa quattro parcelle erano il prezzo della connivenza

SCONTRO NEL PD – Tirati in ballo per i soldi del Consorzio, gli interessati replicano con i loro avvocati

L’INTERROGATORIO – L’ex sindaco: «Sul conto della campagna elettorale affluirono 300mila euro»

«Da noi solo un apporto politico, non ci occupammo dei finanziamenti»

Zoggia-Mognato, attacco a Orsoni

È scontro totale tra l’ex sindaco Giorgio Orsoni e i vertici del Partito democratico. Ieri i parlamentari Michele Mognato e Davide Zoggia, attraverso i rispettivi legali, hanno duramente replicato alle affermazioni di Orsoni in merito alla vicenda dei finanziamenti delle campagna elettorale del 2010. E il fatto che siano scesi in pista i legali fa capire che il clima è a dir poco rovente. «Durante la campagna elettorale del 2010 l’onorevole Michele Mognato – scrivono gli avvocati Alicia Mejia e Alfredo Zabeo – si adoperò nella stesura del programma elettorale e delle schede di sintesi per fornire allo staff i suggerimenti per il candidato. Mognato ribadisce di non aver mai partecipato ad incontro alcuno nè di mai di aver trattato di finanziamenti. E poi dalla primavera del 2008 sino alla scadenza del 2010 Mognato era assessore e vicesindaco, non aveva la carica di segretario».
Anche Davide Zoggia ribatte a Orsoni. «All’epoca della campagna elettorale – aggiungono gli avvocati Gianluca Luongo e Marta De Manincor – Zoggia era il responsabile nazionale enti locali del Pd ed in tale veste ha dato il proprio apporto politico, lo stesso che ha riservato a tanti candidati delle elezioni locali del 2010. A Zoggia furono chieste indicazioni di natura politica ed in modo particolare per la venuta a Venezia di personalità politiche di rilievo nazionale. Mai si occupò di indicare membri dello staff elettorale al professor Orsoni che come noto non è persona che si lasci etero-dirigere nelle proprie scelte. Zoggia non fece parte del Comitato elettorale di Orsoni».
E proprio sulla vicenda del finanziamento emergono altri particolari dell’interrogatorio di Orsoni davanti ai magistrati lagunari. «Accettai la candidatura ponendo delle condizioni relative al fatto che, non avendo nessuna esperienza politica e tantomeno elettorale, non avrei saputo come organizzarmi – spiega l’ex sindaco ai magistrati – Lo dissi da subito, mi toccò ripeterlo e questa è stata una delle ragioni di attrito con i partiti, in particolare con il Pd. Dissi con chiarezza che non sapevo come organizzarmi e soprattutto che non sapevo come reperire le risorse. Mi venne garantito che si sarebbero dati da fare tutti e individuai un mandatario elettorale, indicato anche dal Pd, che avrebbe aperto un conto corrente sul quale far affluire le somme necessarie. Sul conto affluirono, lo scoprii alla fine della campagna elettorale, quasi 300mila euro, cifra che mi sembrava enorme, devo dire, a me che ero abbastanza a digiuno di queste cose».
Sempre sul fronte dell’inchiesta sui finanziamenti del Mose, ieri l’avvocato Antonio Forza, che difende l’ex consigliere regionale Renato Chisso, ha ufficialmente presentato ricorso al Tribunale del riesame. L’avvocato Forza, che ha depositato un corposo memoriale, punta alla revoca della misura cautelare in carcere e alla concessione dei domiciliari. E nei prossimi giorni dovrebbe esserci anche la deposizione dell’ex presidente della giunta regionale, Giancarlo Galan, il quale, attraverso gli avvocati Antonio Franchini e Niccolò Ghedini ha già avuto un contatto con i magistrati lagunari.

Gianpaolo Bonzio

 

IN TOSCANA – Via libera nei terreni di Mazzacurati a un maxi albergo a cinque stelle

VENEZIA – Lo scandalo del Mose tiene banco anche in Toscana, complice l’approvazione di un maxi albergo di lusso a Bibbona, provincia di Livorno: il “Wine & Oil Resort Bolgheri” a cinque stelle in località Aione – approvato a dieci giorni dalle elezioni – è un progetto della Assia Srl, società intestata a Giovannella Mazzacurati, figlia dell’ex presidente del Consorzio Veneiza Nuova, Giovanni. Rispetto a i piani originari – come riportano le cronache locali – la localizzazione è stata spostata “in una porzione di Bibbona decisamente appetibile e di proprietà della famiglia Mazzacurati”.
Il nome di Giovannella Mazzacurati, con le sorelle Cristina e Elena, era comparso nella carte della Guardia di finanza già un anno fa, all’epoca dell’arresto dell’ex presidente del CVN, a proposito di «benefici economici ottenuti direttamente o indirettamente dal Consorzio» attraverso la società Ing. Mazzacurati Sas.

 

Zaia: il Mose? Oggi il mio sarebbe un no a prescindere

VENEZIA – «Se oggi mi trovassi nelle condizioni di dover partire da zero con un progetto del genere del Mose, direi di no a prescindere». Lo ha detto ieri il presidente del Veneto, Luca Zaia: «Si dice che il costo sarà di 20 milioni l’anno, ma non so se basteranno. E in ogni caso, per la gestione sarà indispensabile fare una gara pubblica», ma secondo Zaia, «non ci deve essere alcuna rendita di posizione». Sull’opportunità di un commissariamento del Consorzio, Zaia si è limitato a proporre che «settore per settore, quanto resta da fare in quest’ultima parte del cantiere è saggio metterlo in gara».

 

NEL 2010 UN CONTRIBUTO DI 80MILA EURO

La Regione finanziò un film sul Mose

VENEZIA – Che bisogno c’era di finanziare con 80mila euro presi dalle casse della Regione Veneto un film sul Mose quando il Mose, tra l’altro, non era neanche finito? Correva l’anno 2010, a Palazzo Balbi si era appena insediata la giunta del leghista Luca Zaia e a dicembre (delibera 3219) vennero approvati i contributi previsti dal Fondo regionale per il cinema. Tra questi, ottantamila euro andarono alla SD Cinematografica srl di Roma per il lungometraggio “Mose la sfida di Venezia”. Perché? A distanza di quattro anni, l’assessore che aveva proposto la delibera, Marino Zorzato (Ncd), spiega: «Tutto questo non c’entra niente con il Consorzio Venezia Nuova, sono contributi previsti da una legge regionale, è un bando e il giudizio tecnico spetta a una commissione, poi la delibera va in consiglio regionale».
Il 2010 è anche l’anno in cui il regista Carlo Mazzacurati, figlio di Giovanni, recentemente scomparso, presenta fuori concorso alla Mostra del cinema il film “Sei Venezia”. Il Consorzio lo regalerà poi come strenna di Natale.

 

IL CONFORMISTA

di Massimo Fini

Lo scandalo Mose e le “cose raccapriccianti” che finanziano i partiti

Oggi è di moda sparare sulla burocrazia. Non c’è uomo politico, non c’è partito che non accusi la burocrazia, per le sue complicatezze, soprattutto in materia fiscale, di essere un peso insopportabile per l’imprenditoria italiana oltre che un angoscioso tormento per la vita del singolo cittadino. Bene, secondo uno studio della Confartigianato negli ultimi sei anni, da metà aprile del 2008 a marzo di quest’anno, il Parlamento ha approvato 629 norme in materia fiscale, di queste solo 72 semplificano le procedure, 389 le complicano. Ed è pressoché certo che se analoghi studi fossero fatti su altri rami della Pubblica Amministrazione il risultato sarebbe più o meno lo stesso. Che c’entrano i burocrati? I burocrati applicano le leggi e le leggi, sotto la guida del governo, le fa il Parlamento cioè proprio quegli uomini politici e quei partiti che puntano il dito contro le complicazioni burocratiche. Il dito dovrebbero puntarlo contro se stessi. Lo stesso avviene con i magistrati, odiati dalla classe dirigente da quando, con Mani Pulite, hanno osato chiamare anche ‘lorsignori’ al rispetto di quella legge cui tutti siamo tenuti. Se in via preventiva mettono in galera dei ‘pezzi grossi’ (che quasi mai è vera galera – questa tocca ai poveracci – ma i più comodi ‘arresti domiciliari’ in lussuose ville) li si accusa di volersi fare pubblicità. Ma a parte il fatto che se si seguisse questo ragionamento nessun uomo politico potrebbe essere mai indagato, la discrezionalità del Pubblico ministero nel decidere o no un arresto (discrezionalità peraltro correggibile dal Gip e dal Tribunale della libertà) gli viene dalle leggi e le leggi le fa il Parlamento, cioè proprio quegli uomini politici che, a seconda dei casi, si scandalizzano per quegli arresti. Se si ritiene che quella discrezionalità sia eccessiva, la si limiti con una nuova legge, altrimenti il magistrato non può che applicare quella vigente. Uomini politici e partiti gridano all’infamia quando delinquenti notori vengono liberati per la decorrenza dei termini della carcerazione preventiva. Ma chi, in questi anni, ha inzeppato il Codice di procedura penale di leggi cosiddette ‘garantiste’ tanto da allungare all’infinito i tempi del processo, se non il Parlamento, cioè quegli uomini politici e quei partiti che poi gridano all’infamia? Se i termini sono decorsi il magistrato non può e non deve far altro che applicare la legge, che non lui ha fatto, ma altri, non può dire, alla Jannacci, «no tu no» perché sei cattivo e malfamato. Il Italia è costume, o piuttosto malcostume, dare sempre la colpa agli altri. Quando è scoppiato lo scandalo Mose il premier Renzi ha affermato «sono cose raccapriccianti che fanno malissimo all’immagine dell’Italia». Ma questa ‘Vispa Teresa’ che è in politica dall’età di 22 anni non sapeva che queste ‘cose raccapriccianti’ sono il metodo usuale per finanziare, oltre ai manigoldi propriamente detti, i partiti e quindi indirettamente anche lui che ne fa parte da vent’anni? È inutile e volgare fare la faccia feroce («li cacceremo a pedate nel sedere») quando i buoi sono scappati. Altre stalle vuote si chiuderanno se i partiti italiani, che sono il vero cancro del sistema, rimarranno quello che sono. Pare che il Pd abbia accumulato 10 milioni di debiti. Ora, per avere dieci milioni di debiti bisogna che per le sue casse siano passati centinaia di milioni. Un cittadino normale, che non sia un ladro, di debito può avere solo qualche migliaio di euri.

 

Il governo ha soppresso. il Magistrato alle Acque

È IL TERZO STOP – Venne abolito già nel 1808 e nel 1866

Il consiglio dei ministri cancella l’organismo dopo le accuse di corruzione ai due ex presidenti Cuccioletta e Piva. Da ottobre le funzioni passano al Provveditorato per le opere pubbliche

A RIALTO – Il Palazzo dei X Savi, sede del Magistrato alle acque, affacciato sul Canal Grande a Rialto

Con un colpo di mano, il Governo di Matteo Renzi ha soppresso il Magistrato alle Acque di Venezia, erede di un organismo attraverso il quale la Serenissima ha mantenuto l’integrità della laguna per oltre mezzo millennio. Il provvedimento del Consiglio dei ministri varato venerdì sera entrerà in vigore dal primo ottobre e prevede che le competenze del Magistrato siano assorbite dal Provveditorato interregionale del Triveneto per le opere pubbliche. Visto così, si tratterebbe di un atto più simbolico che di una razionalizzazione vera e propria, dal momento che il Magistrato alle Acque già fa parte del Provveditorato e il suo presidente è anche il Provveditore del Triveneto. Evidentemente, il Governo ha voluto dare un segnale forte dopo la caduta della giunta Orsoni a causa della vicenda dei presunti finanziamenti illeciti alla campagna elettorale del sindaco. Accuse ben più gravi di queste hanno invece coinvolto direttamente due ex presidenti dell’istituzione: Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta. Ad entrambi, la Procura di Venezia contesta di aver percepito annualmente ingenti somme oltre ad altri benefici.
Il fatto è che il Magistrato non si occupa solamente del Mose, ma di una lunga sequela di attività che hanno a che fare con la vita cittadina: basti pensare alla disciplina e alla vigilanza del traffico acqueo sulla laguna alle concessioni di spazi e specchi acquei per ormeggi e darsene su tutta la gronda lagunare e alle autorizzazioni per gli scarichi reflui, dalle quali dipendono tutte le attività produttive che insistono su Venezia.
E allora, si chiedono in molti, perché cancellare questa istituzione, fondamentale per la laguna solo perché alcune figure apicali del passato sono finite sotto inchiesta per il Mose? E perché cancellare solo il “nome” del Magistrato alle acque, se è vero che non cambierà nulla?
Fonti governative fanno capire che si tratta solo del primo atto.
«Le competenze saranno assorbite e la specificità sarà abolita – fanno sapere dal Ministero delle Infrastrutture – per mettere in moto una riforma più ampia. La figura del Magistrato alle Acque è abolita, ma rimangono a capo del Provveditorato tutte le funzioni».
In città non ci sono state ancora reazioni ufficiali, ma nell’ambiente politico l’iniziativa del Governo è stata un po’ vista come uno schiaffo a Venezia (già duramente provata dall’inchiesta della magistratura e dalla crisi in Comune) e anche al disegno di legge Casson per la riforma della Legge speciale, la quale punta a unificare le competenze sulla laguna togliendole dal livello nazionale. Accorpando il Magistrato al Provveditorato, invece, il legame con il Governo è ancora più stretto.
Casson, però, non la vede in questo modo. Per lui la questione è ancora in divenire e ci sono margini per un intervento.
«Una cosa positiva è la decisione di dare un taglio con il passato – commenta – ma non deve finire qui, nel senso che per le competenze fondamentali che fanno capo al Magistrato alle Acque, la questione è delicata e per apportare delle correzioni c’è tempo fino a ottobre».

Michele Fullin

 

Una storia lunga cinque secoli a tutela della laguna di Venezia

L’ente fu istituito dalla Serenissima nel 1501: fece i Murazzi a difesa dal mare, deviò fiumi perché non diventasse palude

Colpito dallo scandalo e affondato dalla politica. Con la decisione del premier Matteo Renzi si conclude una storia lunga oltre cinquecento anni. Era il 7 agosto del 1501 quando la Serenissima Repubblica, consapevole di dovere ad ogni costo mantenere i delicati equilibri della laguna e dei fiumi che vi sfociavano per evitare che l’immensa distesa d’acqua diventasse palude, decise di avviare una energica azione preventiva eleggendo tre Savi alle Acque, la magistratura da cui nacque il Magistrato alle Acque.
Per la verità, già nel 1808, durante la dominazione francese (1806-1814) il vicerè d’Italia Eugenio lo aveva soppresso, incurante del fatto che nei secoli quella nobile magistratura aveva fatto realizzare grandi opere di ingegneria idraulica, come la costruzione dei murazzi, la deviazione dei fiumi per salvaguardare l’interramento della laguna e, non ultimi, i tanti manufatti per rendere navigabili i corsi d’acqua dell’entroterra. Le conseguenze di quella prima abolizione non tardarono però a rendersi evidenti, tanto che già sotto il successivo governo austriaco (1816-1848) la struttura fu ripristinata e a più riprese trasformata con altri nomi e schemi organizzativi.
Una seconda abolizione avvenne nel 1866, quando Venezia e il Veneto diventarono italiani, ma dopo ripetuti disastri idraulici quell’antico istituto venne ancora ripristinato (5 maggio 1907) con lo scopo di concentrare nel nuovo Magistrato alle Acque tutti i poteri e le funzioni attinenti al buon regime delle acque.
Siamo oggi al terzo stop. Ciò non significa comunque che la laguna non abbia più bisogno di qualcuno che la tuteli. L’organo strutturato dalla Serenissima, proprio perché la laguna era per Venezia la prima ragione di vita, aveva l’obbligo di riunirsi settimanalmente su convocazione del doge. E disponeva di un suo portafoglio e deteneva il potere di comminare pene.

 

VENEZIA – E sul fronte politico, dopo le dimissioni del sindaco, si apre una fase di emergenza

Chiude il Magistrato degli scandali

L’ente con competenza sulle acque azzerato dopo l’inchiesta sul Mose che coinvolge tre presidenti

Magistrato alle acque, a ottobre si chiude

Decisione di Renzi: le competenze passeranno al Provveditorato triveneto per le opere pubbliche

COLPO DI SPUGNA – Azzerata l’istituzione che risaliva ai tempi della Serenissima

Dal primo di ottobre il Magistrato alle Acque non esisterà più come ente in quanto tale e le sue competenze saranno assorbite nel Provveditorato interregionale del Triveneto per le opere pubbliche. Lo ha deciso venerdì sera il Consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi, che decretandone la soppressione, ha evidentemente voluto dare un segnale forte dopo la caduta della giunta Orsoni a causa della vicenda dei presunti finanziamenti illeciti alla campagna elettorale del sindaco. Accuse ben più gravi di queste hanno coinvolto direttamente due ex presidenti dell’istituzione: Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta ed evidentemente il Governo non poteva stare a guardare.
Con un tratto di penna viene dunque cancellata, senza pensarci troppo, un’istituzione creata dalla Serenissima e durata oltre mezzo millennio con lo scopo regolare il bacino idraulico del Nordest e impedire che la laguna, ecosistema per definizione mutevole, si interrasse o diventasse un braccio di mare. Alla fine, però, dal punto di vista operativo, non cambierà quasi nulla, perché l’integrazione con il Provveditorato è già forte e i presidente del Magistrato alle Acque sono anche Provveditori per il Triveneto.
E allora, si chiedono in molti, perché cancellare questa istituzione, fondamentale per la laguna solo perché alcune figure apicali del passato sono finite sotto inchiesta? E perché cancellare solo il “nome” del Magistrato alle acque, se è vero che non cambierà nulla?
Fonti governative fanno capire che si tratta solo del primo atto di una riorganizzazione ben più ampia della macchina dei Lavori pubblici e, soprattutto, di un segnale che Renzi doveva dare al Paese per far capire che l’aria sta cambiando e che gli scandali non sono più tollerati. «Le competenze saranno assorbite e la specificità sarà abolita – fanno sapere dalle Infrastrutture – per mettere in moto una riforma. Un segnale, insomma. Poi si andrà in direzione di una razionalizzazione più importante. La figura del Magistrato alle Acque è abolita, ma rimangono a capo del Provveditorato tutte le funzioni».
Per il senatore Felice Casson, relatore del disegno della Nuova legge speciale per Venezia, la questione è ancora in divenire.
«Una cosa positiva è la decisione di dare un taglio con il passato – commenta – ma non deve finire qui, nel senso che andranno rimosse anche tutte quelle figure della dirigenza che dovessero risultare coinvolte in successivi sviluppi dell’inchiesta sul Mose come persone succubi del Consorzio. Poi, – aggiunge – bisogna però riconoscere che si tratta anche di un organismo molto importante, che ha ha competenze amplissime anche ultraregionali. La questione è insomma delicata – conclude – e per apportare delle correzioni c’è tempo fino a ottobre. L’ideale sarebbe approvare presto la nuova Legge speciale ed evitare interventi tampone come questo».

 

GLI SCANDALI – Un ente travolto dalle inchieste Tre presidenti nei verbali del Mose

Il Magistrato alle Acque è stato toccato in modo assai pesante dall’inchiesta sui fondi neri finalizzati alla corruzione per opere legate al sistema Mose. Il Magistrato, infatti, è un organo periferico del Ministero delle Infrastrutture e ha contribuito alla progettazione e alla realizzazione attraverso il concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova.
Due ex presidenti del Magistrato erano stati arrestati mercoledì 3 giugno in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Venezia su richiesta della Procura. Si tratta di Patrizio Cuccioletta, presidente tra il 1999 e il 2001 e tra il 2008 e il 2011, e Maria Giovanna Piva, tra il 2001 e il 2008. Un terzo presidente, Ciriaco D’Alessio (2008-2013) è stato tirato in ballo dall’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, ma il suo nome non figura nella lista degli indagati finora conosciuti.
Cuccioletta e Piva, secondo l’ordinanza del Gip, avrebbero percepito un vero e proprio stipendio parallelo molto consistente, oltre a benefici vari come contratti o incarichi professionali.
Il Magistrato alle Acque aveva e ha il compito di controllare ogni cosa in merito alla progettazione del Mose ed questo, per la Procura, non sarebbe quasi mai avvenuto. Il Consorzio Venezia Nuova poteva condizionare i Magistrati alle Acque. La più grande infedeltà che emerge dalle carte dell’inchiesta nei confronti della città lagunare è proprio questa: l’Italia ha investito miliardi per salvarla dalle acque alte, ma il Consorzio è riuscito a percorrere scorciatoie procedurali per accorciare tempi ed evitare controlli.
Anzi, i responsabili avrebbero delegato a personale del Consorzio e di Thetis “la predisposizione formale e sostanziale degli atti” omettendo “di effettuare la dovuta vigilanza sulle opere in corso di realizzazione, non segnalando i ritardi e le irregolarità nell’esecuzione dei lavori, nel mettersi costantemente a disposizione del Consorzio, nell’accelerare gli iter di approvazione e nei rilasci dei permessi di interesse del Consorzio”.

 

E tra i lavoratori in ansia una quarantina sono di Consorzio e Thetis

L’INTRECCIO – Assunti per lavorare nella sede del “controllore”

L’OCCUPAZIONE – Sono in tutto un centinaio i dipendenti dell’ente pubblico in attesa di conoscere il loro destino

C’è anche una quarantina di dipendenti di Consorzio Venezia Nuova e Thetis tra i circa cento lavoratori in ansia per il loro destino al Magistrato alle acque.
Dipendenti delle controllate che lavorano negli uffici del controllore: vale a dire lavoratori di società che si occupano del Mose, distaccati nell’ente che doveva verificare la regolarità dei lavori in laguna.
C’è anche questo nei rapporti finiti sotto la lente del premier per quanto riguarda il Magistrato alle acque.
Si tratta di tecnici laureati, integrati nella struttura e che collaborano stabilmente da anni con il Magistrato e sono pagati dalle società di appartenenza. Il problema è che una parte del sindacato ha cominciato a puntare queste persone considerandole la longa manus del Consorzio all’interno dell’istituzione.
Nessuna di queste persone si occupa però di Mose o di grandi opere, ma quasi tutte sono professionalità indispensabili nel campo del disinquinamento. Se per qualche motivo l’apporto di queste persone venisse a mancare, le autorizzazioni per gli scarichi reflui e i relativi rinnovi non potrebbero andare avanti. E, se si fermassero le autorizzazioni, rischierebbero di saltare quasi tutte le attività produttive di Venezia.
A rischio è insomma, tutta la parte del controllo sulla laguna e sul territorio.
Con la cancellazione del Magistrato alle Acque si pone anche il problema della riscossione degli importi delle concessioni di specchi acquei lagunari, poiché il Provveditorato non è un ente autorizzato a riscuotere.
Nessuno, tra i dipendenti, conosceva le intenzioni del Governo e la notizia di ieri è stata un fulmine a ciel sereno. Tra l’altro, proprio nei giorni scorsi si è svolta un’assemblea in cui il presidente Roberto Daniele avrebbe detto ai dipendenti che non c’era motivo di preoccupazione per gli sviluppi dell’inchiesta sui lavori del Mose.

M.F.

 

PRONTA LA MOZIONE – Caccia: «Revocare le concessioni dell’Arsenale al Consorzio»

«Fuori il Consorzio Venezia Nuova dall’Arsenale di Venezia». È la richiesta del Forum Futuro Arsenale che Beppe Caccia, consigliere comunale della lista “In Comune”, ha fatto propria su segnalazione di Stefano Boato. E domani Caccia presenterà una mozione in Consiglio comunale sull’argomento.
«Chiederò la discussione immediata di questa mozione – afferma Beppe Caccia – per impegnare l’Amministrazione comunale alla revoca delle concessioni al Consorzio Venezia Nuova nell’ambito dell’Arsenale. È fondamentale che, nelle sue ultime ore di vita, il Consiglio compia tutti gli atti di sua competenza utili a ridurre o, almeno, limitare il ruolo del Consorzio nella vita cittadina. Chiederò anche ad altri consiglieri di sottoscriverla». E Stefano Boato ricorda tutte le lettere “inviate inutilmente negli ultimi mesi al sindaco e agli assessori Maggioni e Ferrazzi proprio per ottenere la revoca delle concessioni al Consorzio con l’apertura al pubblico degli spazi aperti vincolati come pubblici dagli strumenti urbanistici vigenti concessi a Consorzio Venezia Nuova e Biennale”. E Boato aggiunge: «L’assessore Maggioni stava invece procedendo non alla revoca delle concessioni illegittime, ma alla modifica dei piani vigenti per legittimarle».
E giovedì scorso, giorno in cui il sindaco Giorgio Orsoni è tornato in libertà, Barbara Pastor e Roberto Falcone del “Forum Futuro Arsenale” hanno scritto una lettera al primo cittadino (ora dimissionario), al vicesindaco Sandro Simionato e all’assessore al Patrimonio Maggioni per bloccare i progetti sull’Arsenale: «Siamo allarmati dall’ipotesi che l’Arsenale sia inserito nel “decalogo delle urgenze” da affrontare – scrive il Forum -. È da più di un anno che stiamo interagendo con l’Amministrazione per la revisione delle concessioni e la trasparenza di bilancio sul capitolo di spesa “Arsenale”. Riteniamo pertanto che non sia assolutamente il momento di avventate “fughe in avanti” e riteniamo che nessuna delibera di giunta sull’Arsenale debba essere approvata». Per capire come andrà a finire, non resta che aspettare la discussione della mozione di Beppe Caccia nel Consiglio comunale convocato per domani, alle 14.30 nel municipio di Mestre.

 

IL RETROSCENA – Bettin: «La mia rabbia? Ecco come è andata l’ultima Giunta»

«È vero, ho lanciato un bicchiere contro il muro. Il sindaco ci ha detto che voleva dimettersi, ma intanto ci aveva già ritirato le deleghe»

LO SFOGO «Bloccati provvedimenti importanti per la città»

Il mio ultimo intervento politico a Ca’ Farsetti è stato un bicchiere di vetro scagliato contro il muro – come è stato scritto. Un gesto violento e irrazionale, ma politicamente connotato, pur se politicamente scorretto. Il sindaco ci aveva appena comunicato che si sarebbe dimesso ma che intanto ci aveva già revocato le deleghe. Restava in campo solo lui – lui e i partiti, in realtà – a gestire i venti giorni prima del commissario. Gli avevamo chiesto di dimetterci subito ma insieme, lasciandoci così il brevissimo tempo necessario a chiudere questioni urgenti ormai pronte per la soluzione, attese da molti in città. Nel mio caso, ad esempio, alcuni atti relativi a Porto Marghera e all’avvio del Parco della Laguna Nord, ma anche, ne cito un paio, la garanzia che si aprirà la comunità per giovani negli appartamenti che abbiamo tolto agli spacciatori di droga a Ca’Emiliani, l’esecuzione dell’ordinanza anti degrado in via Carducci predisposta dal settore Ambiente, la prosecuzione delle attività dell’Osservatorio Ecomafie, e qualche altro. Tutti i miei colleghi avevano pronti provvedimenti analoghi, ora a forte rischio.
L’altra questione è che il sindaco ci ha così tolto la parola, per dire in consiglio comunale le nostre ragioni. E quando si soffoca la parola a volte esplodono i gesti, per quanto scorretti, come appunto il mio ultimo “intervento politico” a Ca’ Farsetti. Il penultimo era stato la richiesta di dimissioni del sindaco, ovvia, perché il patteggiamento lo rendeva necessario e, per noi, anche la conseguenza – annunciata il giorno stesso dell’arresto – di quanto era già inoppugnabilmente emerso di lecito (i contributi dichiarati, ricevuti dal Consorzio Venezia Nuova per la campagna elettorale). La magistratura, con i suoi mezzi e poteri, lo ha scoperto dopo quattro anni, ma se il fatto fosse stato pubblico all’epoca, nel 2010 (o prima, o dopo), non saremmo mai stati in una coalizione e a sostegno di candidati che avessero ricevuto tali contributi anche se “leciti”. Sono certissimo che Giorgio Orsoni non abbia richiesto i contributi “in nero” ma a noi basta e avanza ciò che di “regolare” è emerso (e che si estende alle ramificatissime relazioni su base economica intrattenute da moltissimi con il Consorzio Venezia Nuova in città e altrove). Il Comune è la sola istituzione che esce totalmente pulita da questo scandalo, nessun atto amministrativo compiuto ne risulta inquinato, come la magistratura stessa conferma, e siamo certi di aver avuto in questa pulizia un ruolo forte. Anche per questo nessuno, nemmeno il sindaco, ci toglierà la parola.

 

Il ministero dell’ambiente estromesso. Così Chisso aggirò i controlli

Pecoraro scanio e realacci «Ci siamo opposti ma è stato inutile»

VENEZIA Il Mose? «Nasce senza Via, la valutazione d’impatto ambientale, e si procede con deroghe e l’autoassegnazione degli appalti », dice l’onorevole Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera. A lanciare il campanello d’allarme nel 2008 è stata l’Europa, che ha chiesto all’ Italia di affidare i controlli sui lavori a un organo autorevole e neutrale ma, grazie all’ intervento dell’ assessore Renato Chisso, il monitoraggio tornò sotto il controllo di quegli uomini che in Regione Veneto venivano, secondo l’accusa, regolarmente stipendiati dal Consorzio Venezia Nuova con l’perché non creassero problemi. L’episodio è raccontato nell’ ordinanza di custodia cautelare che ha fatto scattare i 35 arresti, tra cui Chisso. La Commissione europea aveva aperto una procedura di infrazione per violazione della direttiva comunitaria di salvaguardia della biodiversità in relazione ai lavori del Mose, che fu chiusa in seguito ad un piano di monitoraggio elaborato dal magistrato delle acque di Venezia. Come ricorda l’allora ministro Pecoraro Scanio, il governo aveva deciso di affidare l’incarico all’Ispra, ente strumentale del ministero dell’Ambiente con un mandato fino al 2012. É a questo punto che interviene Chisso. Il 21 gennaio 2013, con un successivo accordo di programma con il ministero, la Regione subentrava all’Ispra nei monitoraggi sulle attività connesse al progetto Mose. La vicenda è finita al parlamento Ue con una interrogazione, ma Chisso ha tirato dritto. «Si assiste», scrive il Gip Scaramuzza, «all’estromissione dell’Ispra dai monitoraggi e alla sua sostituzione con la Regione che, tenuto conto della riorganizzazione, poteva preludere, come in effetti poi è emerso, ad accordi di tipo corruttivo tra i vertici del Consorzio Venezia Nuova e i vertici della Regione, finalizzato a facilitare gli iter autorizzativi ». E qui entrano in gioco Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, e l’allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini, che nell’ordinanza viene erroneamente chiamato Carlo. La telefonata è del 20 settembre 2012 e l’argomento della conversazione sono i fondi europei. Ad un certo punto, annota la Gdf nel brogliaccio, la Minutillo gli «rinfaccia di non esser stato lui a raccomandarla con Clini». Torniamo al giudizio politico: «Sono stato l’unico ministro con Fabio Mussi a votare contro il Mose fin dal Comitatone del 2006», ricorda Pecoraro Scanio, «sono sempre stato contrario alle grandi opere, al ponte sullo Stretto di Messina e al Mose: le dighe mobili giapponesi costavano 5 volte di meno, Bettin ed io siamo stati gli unici a dire di no». Rincara la dose Ermete Realacci (Pd): «Ho sempre avuto dubbi sul Mose, se il livello dell’Adriatico si alza le dighe diventeranno fisse e non mobili e allora viene a cadere la ragione stessa dell’opera i cui costi sono triplicati. Ora va concluso, ma con 5.-6miliardi di poteva fare di meglio e sprecare meno».

Albino Salmaso

 

Strade, inchiesta della procura

Indagato Vernizzi. Acquisiti documenti anche sull’ospedale dell’Angelo

Veneto Strade, caccia alle false fatture

Uno dei primi filoni della grande inchiesta riprende quota: acquisizione di documenti da parte della Guardia di Finanza

VENEZIA – Dopo il Mose è tempo di strade. Dei “project” utilizzati per realizzare opere pubbliche che tanto hanno fatto esultare gli amministratori regionali che li portavano ad esempio del Veneto efficiente. In realtà, come hanno raccontato Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo, dopo il loro arresto, altro non erano che un sistema per garantire alle solite imprese amiche i lavori e ai soliti politici, di destra e sinistra, le tangenti. Dopo gli ultimi arresti riprende a correre anche il filone dell’inchiesta che riguarda le grandi opere stradali e Veneto Strade. Del resto tutti coloro che tiravano le fila del sistema corrotto di queste opere sono indagati. Si tratta di Giancarlo Galan, ex presidente della Regione, dell’assessore alle infrastrutture Renato Chisso, del dirigente regionale sezione strade Giuseppe Fasiol e dell’ex ad di Veneto Strade Silvano Vernizzi. Fasiol e Chisso sono in galera, per Galan c’è una richiesta di arresto che deve valutare il Tribunale dei Ministri e Vernizzi è solo indagato e dallo scorso anno. In questi giorni sono continuate le acquisizioni di documenti in undici abitazioni private da parte della Guardia di Finanza. Documenti riguardanti opere pubbliche e in particolari strade e infrastrutture legate alla viabilità. Del resto Baita e Minutillo hanno riempito pagine pagine di verbali al riguardo. Hanno spiegato che praticamente non c’è un’opera stradale importante, realizzata con soldi pubblici, passata attraverso l’assessorato ai trasporti regionale e Veneto Strade, che non sia stata realizzata col “trucco” per assegnare gli appalti agli amici. Dalla Pedemontana alla “Nogara Mare”, al “Passante”, per citarne alcune. Discorso analogo per le opere destinate alla sanità. Claudia Minutillo spiega in un verbale, che all’inizio dell’era Galan Silvano Vernizzi era considerato dalla “cupola delle tangenti”: «Bravissimo perché sapeva come far andare le cose in modo perfetto anche da un punto di vista tecnico ». Poi negli ultimi anni Renato Chisso e lo stesso Baita non lo ritengono più affidabile per i loro interessi e gli preferiscono l’astro nascente Giuseppe Fasiol. Vernizzi è indagato dallo scorso anno, Fasiol è stato arrestato. Ma il filone delle grandi opere stradali non è stato ancora sviluppato fino in fondo. La stessa Minutillo racconta ai magistrati che anche su opere locali viene imposto il sistema dei “project” e di far andare deserta la prima asta per poi consentire a chi si deve aggiudicare l’opera la possibilità di “offrirsi” a realizzarla. Spiega che Baita in alcune circostanze si mise d’accordo con Mario Della Tor, all’epoca vice presidente della Provincia di Venezia, attualmente senatore e uomo ombra di Renato Chisso. Della Tor non è indagato. Uno dei maggiori fruitori del “sistema Baita”, cioè nell’ utilizzo di fatture false, per creare “fondi neri”, i cui importi venivano messi a bilancio è stata Veneto Strade. Quando i finanzieri, coordinati dal pm Stefano Ancillotto hanno verificato i conti correnti della Bmc Broker, la “cartiera”, si sono trovati davanti a numerosi bonifici compiuti da Veneto Strade, che superano i 2 milioni di euro. Soldi pagati per delle fatture prodotte dalla “cartiera” che all’epoca era gestita da William Colombelli. Cioè carte false. Stando alla Guardia di Finanza infatti quei bonifici alla società di Colombelli sono giustificati con documenti falsi. Dove sono finiti quei soldi?

Carlo Mion

 

IL MANAGER INDAGATO – Padre del Passante e della Pedemontana

Silvano Vernizzi è il supermanager delle infrastrutture nel Veneto, «padre» del Passante di Mestre e della Superstrada Pedemontana Veneta. Rodigino classe 1953, ingegnere civile, dal 1988 è dirigente regionale e, dal2000 e fino a pochi mesi fa, segretario regionale alle Infrastrutture e Mobilità. Nelle carte dell’inchiesta veneziana è citato più volte soprattutto a proposito dell’incarico, assegnatogli dalla giunta Galan, di sovraintendere alla Commissione di valutazione di impatto ambientale, fino ad allora di competenza della Direzione ambiente. Galan – e soprattutto Chisso – vollero invece affidare la presidenza della Commissione Via e le relative competenze a Vernizzi, manager di provata capacità e fedeltà. La Procura ritiene che questo agevolasse le procedure di approvazione delle opere di salvaguardia di Venezia. Dal 2001 è amministratore delegato di Veneto Strade. Dal 2003 commissario delegato per il Passante di Mestre e per la Pedemontana.

 

Veneto Strade, replica di Vernizzi: non sono indagato

Proseguono gli accertamenti della Guardia di Finanza sull’operato di Veneto Strade, ma l’amministratore delegato della società regionale Silvano Vernizzi non ci sta e respinge la parte che lo riguarda che lo riguarda della ricostruzione apparsa sul nostro giornale: «Leggo con stupore l’articolo dal titolo “Strade, inchiesta della Procura” – scrive l’ingegner Vernizzi – Buona parte dei contenuti dell’articolo riportano le stesse informazioni presenti in un altro articolo pubblicato oltre un anno fa, articolo per il quale Veneto Strade ha presentato querela». Poi la parte della replica che riguarda direttamente l’estensore: «Il sottoscritto, Silvano Vernizzi – scrive l’amministratore delegato di Veneto Strade – fino ad oggi, non ha ricevuto alcun avviso di garanzia, non solo, ma recentemente era stato sentito dal pm Stetano Ancilotto come persona informata sui fatti, e di conseguenza non può essere indagato da più di un anno».

 

Il business collaudi: tesoro di 50 milioni pagato ai soliti noti

Gli ex presidenti del Magistrato alle Acque Piva e Cuccioletta in un elenco che in 25 anni ha allineato tanti alti burocrati

La legge prevede una parcella dell’1% di ogni appalto

Di Pietro aveva affidato ai tecnici del suo ministero il verdetto definitivo sul Mose

VENEZIA Una pioggia di denaro su consulenti e collaudatori. Centinaia di milioni di euro distribuiti negli ultimi 25 anni. Funzionali a «promuovere» l’opera nelle situazioni di criticità. Incarichi affidati sempre o quasi agli stessi soggetti. Decisi dal presidente del Magistrato alle Acque e pagati direttamente dal Consorzio Venezia Nuova. Cioè da coloro che realizzano le opere da sottoporre a controllo. «Il sistema dei lavori pubblici va riformato», dice Lorenzo Fellin, ingegnere che si era dimesso per protesta dal Comitato tecnico di Magistratura in polemica con i pareri facili pro-Mose, «le norme attuali nutrono un verminaio di corrotti e di corruttori». Nel mirino gli incarichi «extra funzione », tutti regolarmente autorizzati e lautamente pagati. «Affidati», racconta Fellin, «a funzionari della Regione, delle Province, dei Comuni ma soprattutto del Magistrato alle Acque e del ministero. «Brodo di coltura dove possono attecchire i semi della corruzione». Un sistema ben collaudato. 24 milioni di collaudi per il Mose elargiti in pochi anni, dal 2004 al 2008. Una cifra totale che si avvicina intorno ai 50. L’1 per cento come previsto dalla legge. Ma qui si tratta di cifre enormi, oltre 5 miliardi di euro. A chi andavano questi collaudi? Il record spetta all’ex presidente dell’Anas Vincenzo Pozzi, un milione e 200 mila euro, poi il suo successore Pietro Ciucci (747). E dietro alti funzionari del ministero dei Lavori pubblici. Mauro Coletta e Massimo Averardi, l’ex Magistrato del Tar Vincenzo Fortunato. A decidere dei collaudi era sempre il presidente del Magistrato alle Acque. Maria Giovanna Piva e Patrizio Cuccioletta – che hanno governato dal 2000 al 2011, oggi in carcere – li distribuivano tra gli ingegneri dei Lavori pubblici. Ma anche a Giampietro Mayerle, vicepresidente del Magistrato e responsabile di molti progetti del Mose. Erano stati beneficiati da Cuccioletta anche Angelo Balducci, per anni presidente del Consiglio superiore e coinvolto nell’inchiesta della cricca a Firenze e il suo braccio destro Fabio De Santis. E poi Roberto Daniele, dirigente delle Infrastrutture, oggi presidente del Magistrato alle Acque. La stessa Piva aveva ricevuto l’incarico di collaudare il nuovo ospedale di Mestre, costruito dalla solita cordata Gemmo-Mantovani-Studio Altieri. Collaudi e parcelle per consulenze. Famose quelle denunciate dalComune e dai comitati che avevano promosso il Mose nonostante i tanti dubbi tecnici emersi e le alternative presentate dalla giunta Cacciari. L’allora ministro Di Pietro, d’accordo con Prodi, aveva incaricato un gruppo di suoi tecnici del ministero di dare il giudizio definitivo sul Mose. Gli ingegneri Valentino Chiumarulo, Angelo Ferrante, Pietro Ciaravola, Aldo Burgignoli, Luigi Natale, Luigi Da deppo, Donato Fontana, Renato Gavasci, Giuseppe Veca, Salvatore Fiadini avevano detto sì. A Venezia il Magistrato alle Acque stroncava le critiche con un altro gruppo di esperti del Ctm (Comitato tecnico di Magistratura): gli ingegneri Mayerle, Santin, Caielli, Datei, Fellin, Foccardi, Mammino, Stura. La relazione del Consorzio era stata approvata anche da Roberto Cecchi (Beni culturali), Pierpaolo Campostrini (Corila), Giancarlo Zacchello (Autorità portuale). E dalla commissione regionale con la firma di Giancarlo Galan.

Alberto Vitucci

 

VERBALE DI SAVIOLI  «Mazzacurati impose ditta vicina a Matteoli»

Tra il 2001 e il 2002 i lavori per 120 milioni di euro per le bonifiche fronte laguna a Marghera dovevano essere fatti, per ordine di Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, dalla Socostramo, che non era neppure nel Cvn. L’indicazione della ditta sarebbe arrivata – secondo quanto riferisce Pio Savioli, rappresentante delle coop rosse in Cvn – dal ministero dell’Ambiente, guidato all’epoca da Altero Matteoli. La circostanza, tutta da verificare, è contenuta negli interrogatori di Savioli messi a disposizione delle parti nell’inchiesta Mose. Savioli racconta che erano scattate le bonifiche a Marghera e «a questo punto – sostiene Savioli – il Consorzio Venezia Nuova inizia a lavorare». «A questo punto – racconta sempre Savioli – arriva l’ingegner Mazzacurati in direttivo e ci dice che su richiesta, fa il nome lui, per cui…su richiesta del Ministro Matteoli bisogna dare questo lavoro a Socostramo». «Questo lavoro – è riportato ancora nell’interrogatorio – significava 120 milioni di euro».

 

Mestre, sospetti sul project dossier ospedale in Procura

La documentazione dell’opera entra nell’inchiesta dopo i rilievi di Corte dei Conti

Il dg dell’Ulss avvia un braccio di ferro con i privati su prezzi e standard qualitativi

VENEZIA L’ospedale «All’Angelo» di Mestre entra nel raggio d’interesse, diciamo così, dei magistrati che indagano sull’intreccio criminoso tra opere pubbliche e partito degli affari. Un’ampia documentazione sarebbe già stata acquisita dalla Procura di Venezia né l’iniziativa desta stupore perché è conseguente ad azioni giudiziarie già avviate dalla Corte dei Conti – che sospetta il danno erariale – e alle denunce politiche echeggiate in questi giorni in Consiglio regionale, nel corso del dibattito dedicato allo scandalo Mose. Di cosa parliamo? Del project financing sottoscritto per realizzare l’ospedale mestrino, precursore in Italia di questa formula innovativa che combina capitali pubblici e privati. Un’opera inaugurata il 25 settembre 2007 e costata 241 milioni (a fronte dei 220 preventivati inizialmente) dei quali 140 coperti dalla spa Veneta Sanitaria Finanza di Progetto, l’associazione temporanea d’impresa costituita dai partner Astaldi (capofila), Mantovani,Gemmo, Cofathec Progetti, Aps Sinergia, Mattioli e Studio Altieri. Tant’è. L’Ulss 12 – diretta all’epoca da Antonio Padoan – si è impegnata a rimborsare gli investimenti privati entro il 2031 con rate annuali di 40 milioni: 24 attraverso la concessione di alcuni servizi (rifiuti, pulizia, lavanderia, mensa, trasporti, calore) e il resto in forma di ammortamenti liquidi. Complessivamente, l’azienda sanitaria di Venezia sarà chiamata ad erogare quasi un miliardo. Troppo, secondo molti osservatori. Ma il punto non consiste tanto nel dettato contrattuale astratto quanto nella sua concreta attuazione. L’Ulss Asolo- Castelfranco-Montebelluna, ad esempio,ha sottoscritto un project identico al mestrino, ritrovandosi con due ospedali completamente rinnovati ed un cospicuo avanzo di cassa. L’azienda sanitaria veneziana, invece, si è ritrovata un buco in bilancio di 208 milioni, scesi poi a un centinaio e dimezzati ora dal dg Giuseppe Dal Ben al prezzo di tagli impietosi. Ma il tarlo riguarda le modalità effettive del project cioè la qualità e la quantità dei servizi erogati. Composizione del menù destinato ai pazienti, condizioni di riscaldamento e di aria condizionata, manutenzione, introiti del laboratorio analisi (riservati al privato); su questo versante, maggiore è la compressione della spesa, più ghiotti diventano i margini dell’utile d’impresa, perciò Dal Ben- su mandato esplicito del governatore Luca Zaia – sta incalzando i partner per chiedere un più elevato standard di prestazioni. Fin qui siamo nell’ambito amministrativo, ma ad evocare scenari di altro genere sono stati esponenti politici di opposti schieramenti. Dapprima il consigliere Moreno Teso, di Forza Italia, che ha citato i direttori generali della sanità galaniana Franco Toniolo e Giancarlo Ruscitti – il primo condannato in primo grado, il successore indagato nel caso Mose – indicando un concorso chiacchierato per dirigente svoltosi all’Ulss 10. Poi il gruppo del Pd, che ha sollecitato a Zaia l’elenco completo dei project in corso e l’avvio di una revisione dei prezzi. Il sospetto di fondi neri accantonati a margine di questa, ed altre opere, è ormai trasversale.

Filippo Tosatto

 

Padova, a cena c’era il rettore Zaccaria

PADOVA. Attorno al tavolo, quella sera di giugno del 2011 al ristorante Le Calandre, c’erano Giovanni Mazzacurati, l’allora sindaco Flavio Zanonato, Giancarlo Ruscitti, Pio Savioli e il rettore Giuseppe Zaccaria. L’invito a cena, formulato da Mazzacurati, serviva per ragionare sul nuovo ospedale di Padova cui era interessato Mazzacurati e le imprese a cui faceva riferimento. Nell’edizione di ieri, per un nostro errore, abbiamo riportato che a quella cena era presente l’ex rettore Vincenzo Milanesi, che all’epoca aveva peraltro già lasciato la carica accademica. C’era invece il successore, Zaccaria. Il nomedi Milanesi compare nelle trascrizioni delle telefonate tra Ruscitti e Pio Savioli a proposito di una possibile nomina a dg dell’Azienda sanitaria padovana, che non si è mai verificata: «Milanesi mi voleva al posto di Cestrone» dice Ruscitti parlando al telefono con Pio Savioli.

 

IL RUOLO DI VENETO BANCA – La masseria di Consoli e Rossi Chauvenet

Nella società Amigdala Galan sarebbe socio della famiglia del dentista padovano

MONTEBELLUNA Si chiama Masseria Cuturi srl, si trova in provincia di Taranto ed è la culla del Primitivo di Manduria. É l’azienda agrituristica – 270 ettari di cui 25 coltivati a vite e 80 di uliveto – la cui proprietà fa riferimento alla moglie del manager di Veneto Banca Vincenzo Consoli, alla moglie del dentista padovano Paolo Rossi Chauvenet e alla moglie del giornalista Rai Bruno Vespa. Un filo sottile collega questa operazione, perfezionata nel 2008 per una cifra vicina ai tre milioni di euro,alla galassia di società che farebbero riferimento a Giancarlo Galan. Perché l’ex ministro sarebbe socio, attraverso il suo commercialista Paolo Venuti, di una società – la Amigdala spa – le cui quote sarebbero in parte controllate anche dalla famiglia di Rossi Chauvenet. E dal commercialista padovano di Galan, sospettato di essere un suo prestanome, Paolo Venuti. Nessun collegamento diretto ma un legame indiretto, secondo «l’Espresso» in edicola questa settimana, che sottolinea come il dentista padovano Paolo Rossi Chauvenet abbia fatto parte del consiglio di amministrazione di Veneto Banca fino a poco più di un mese fa, quando il consiglio di amministrazione fu costretto alle dimissioni in massa da un’imposizione di Banca d’Italia. Le frequentazioni di Bruno Vespa a Veneto Banca sono note, anche per il cospicuo pacchetto di azioni che detiene: circa otto milioni di euro. Così come Galan non ha mai nascosto i suoi legami con Veneto Banca, di cui è cliente da molti anni. I finanzieri hanno passato al setaccio le operazioni di Venuti, compiute anche attraverso la filiale di Zagabria di Veneto Banka. E avrebbero messo insieme tutti i tasselli della situazione patrimoniale dell’ex ministro. Masseria Cuturi srl, nel Comune di Manduria, è controllata per il 62% dalla Pavi di Lorenza Cracco e Maria Rita Savastano, per il 31% da Augusta Iannoni e Bruno Vespa e per il 7%dalla Meridiana Agri di Vincenzo Lanzone e Maria Chierico. Nell’inchiesta veneziana è finito agli arresti anche il finanziere vicentino Roberto Meneguzzo, da sempre in buoni rapporti con Vincenzo Consoli.

 

I favori sollecitati dall’ex portavoce di Zaia

Beltotto chiese invano al Cvn di ospitare giornalisti e saldare conti ministeriali: «Governatore all’oscuro»

VENEZIA «Non mi avrete, sono un giornalista, non uno spulciatore di mattinali, e non cambierò il mio modo di lavorare, né di parlare al telefono. Semmai, sto valutando se rinnovare o meno l’iscrizione all’Ordine». Contrattacca, Giampiero Beltotto. Romano, 59 anni, cattolico di rito ciellino, autore televisivo e saggista, oggi è responsabile della comunicazione e direttore marketing del Teatro La Fenice nonché vice presidente del Teatro Stabile del Veneto. È stato stretto collaboratore di Luca Zaia, dapprima al ministero dell’Agricoltura e poi alla Regione Veneto, dove ha diretto l’ufficio stampa fino agli ultimi mesi del 2012 (gli successe il petroniano Carlo Parmeggiani) e in questa veste è citato negli atti dell’inchiesta sul Mose per tre colloqui telefonici con l’entourage del Consorzio Venezia Nuova. Di che si tratta? Nel primo caso si rivolse a Flavia Faccioli, la portavoce del Cvn, per sondare la disponibilità del colosso d’imprese a coprire le spese d’albergo e di biglietto aereo ad una quindicina di giornalisti stranieri in arrivo a Venezia per seguire la visita di Zaia al cantiere delle dighe mobili: «L’avvenimento coinvolgeva 140 persone, spiegai che in Regione non avevamo un soldo per l’accoglienza alla stampa estera e chiesi se esisteva una possibilità in questo senso da parte consortile ma mi fu opposto un cortese rifiuto». Secondo round, stavolta più pettegolo: Beltotto viene a conoscenza che l’ex portavoce di Giancarlo Galan, il giornalista e critico d’arte Franco Miracco, dispone ancora di un’abitazione a Venezia per svolgere il suo lavoro: «Una conversazione privata di quattro anni fa, una semplice curiosità di interesse pari a zero per l’opinione pubblica», replica. Infine, è il 9 dicembre 2010, Faccioli riferisce a Giovanni Mazzacurati una telefonata di Beltotto che riguarda parcelle in sospeso con alcuni professionisti della comunicazione. Questo il brano dell’intercettazione pubblicato sul Fatto Quotidiano: «Quando ero al ministero dell’Agricoltura avevamo incaricato dei ragazzi di una società con cui mi aveva già fatto lavorare e pagare dei soldi, e dovevamo loro 60 mila euro e il ministero attuale con Galan non vuole più pagare e volevo sapere se potete aiutarci voi». Anche stavolta, nonostante l’iniziale disponibilità dell’ingegnere- presidente, i cordoni della borsa del Consorzio restano annodati. «Non sono riuscito ad ottenere nulla», afferma Beltotto. Che tiene a sottolineare un paio di circostanze. «Di tutte queste conversazioni, e di moltissime altre che investivano il mio lavoro quotidiano, il governatore Zaia non sapeva assolutamente nulla, né vi era motivo perché ne fosse messo a conoscenza». Due: «Mi vanto dell’amicizia con Flavia Faccioli ». Conclusione? «Dormo sonni tranquillissimi, mi spiace solo per la deriva-spazzatura imboccata da molti giornali».

 

Quel benefit da 50 mila euro della Nes

Nel mirino della Procura un contratto che garantiva all’ex questore di Treviso un’Audi A8 e l’uso di un appartamento

TREVISO Nel mirino della Procura è finito un contratto di consulenza da cinquantamila euro, firmato pochi mesi prima di lasciare la guida della polizia trevigiana: un contratto che garantiva denaro, la disponibilità di un appartamento in centro, di un’Audi A8. Il documento da una parte porterebbe la firma dell’ex questore Carmine Damiano (presidente della Mantovani Spa dopo l’arresto di Piergiorgio Baita), dall’altra dei vertici di Nes, l’azienda di vigilanza privata North East Services, al centro di uno scandalo da 104 milioni di euro, spariti e “rispuntanti” in una maxi-indagine per appropriazione indebita. Un documento dietro cui, secondo il pubblico ministero Massimo De Bortoli, potrebbe allungarsi l’ombra della corruzione: ed è proprio per corruzione che l’ex numero uno della polizia di Treviso è stato iscritto nel registro degli indagati insieme a Luigi Compiano. È dopo quella firma infatti che sarebbe apparsa un’altra carta, in cui sarebbe stata garantita la totale regolarità dell’attività di Nes. Ex controllore e controllato che appongono la firma allo stesso contratto? Controllore che nel 2012 aveva denunciato Nes perché, secondo le indagini condotte dalla stessa i furgoni portavalori non sarebbero stati « a norma di legge»? Queste sono le domande cui le indagini vogliono dare una risposta. Damiano respinge le accuse, «non ho preso un euro », ha ribadito.Ma l’ex questore non ha mai nascosto i suoi rapporti con l’istituto di vigilanza avvenuti «alla luce del sole»: Damiano si è insinuato nel fallimento Nes, presentando un conto da 22 mila 500 euro. La Procura conferma le indiscrezioni sulla presenza di una nuova indagine, nata da una costola dello scandalo Nes. «Le contestazioni sono state mosse sia contro Luigi Compiano, sia contro l’ex questore di Treviso Carmine Damiano. L’interrogatorio dell’ex questore è stato fissato a fine mese e aspetteremo di sentire la sua versione», ha affermato il procuratore generale Michele Dalla Costa. Secondo gli inquirenti – l’indagine è ancora avvolta nel massimo riserbo – Damiano potrebbe aver voluto ottenere benefici da Compiano con l’idea di avere un cuscinetto per la pensione, una sorta di buonuscita. Le contestazioni mosse dal pubblico ministero Massimo De Bortoli, titolare delle indagini sia relative allo scandalo Nes che al nuovo filone per corruzione, sostengono che Damiano, nel novembre 2012 (un mese prima di andare in pensione), avrebbe sottoscritto con Nes un contratto di consulenza che prevedeva oltre a compensi in denaro l’affitto di un appartamento in centro storico, vicino a piazza del Grano e l’utilizzo di un’Audi A8. Un totale di 50 mila euro tra retribuzione e benefit. Secondo la tesi accusatoria, ancora in fase embrionale, poco prima di essere “ingaggiato”, Damiano avrebbe firmato un documento nel quale dichiarava la completa regolarità dell’attività svolta da Nes, che lo stesso Damiano aveva più volte attaccato in merito alle irregolarità del trasporto valori. L’ex questore, invitato a comparire in Procura, sarà sentito a fine giugno per spiegare la propria versione dei fatti. A novembre il contratto con Nes, a febbraio, nove mesi prime, le accuse pesantissime mosse ai vertici dell’istituto di vigilanza: milioni di euro prelevati dalla Banca d’Italia e trasportati senza sorveglianza. Documenti ufficiali deliberatamente falsificati per far sparire i carichi eccezionali dai registri di viaggio della società. Quell’inchiesta si è conclusa esclusivamente con una sanzione pecuniaria.

Fabiana Pesci

 

I PARLAMENTARI VENETI DEL MOVIMENTO CINQUE STELLE

«Sospendiamo tutte le grandi opere»

VENEZIA I parlamentari veneti del Movimento 5 Stelle, dopo le vicende “scoperchiate” dall’inchiesta sul Mose, chiedono «la sospensione di tutte le grandi opere» in corso o previste nella regione. «Il sistema di corruzione », affermano in una nota deputati e senatori pentastellati, «è così esteso che non si può parlare di singole mele marce. Lo scandalo Mose fa intuire che non si tratti di un episodio isolato e fa presagire un sistema ben collaudato che probabilmente coinvolge molte altre grandi opere del Veneto, a cominciare dall’autostrada Valdastico». I 5 Stelle ricordano di aver presentato in proposito nel corso dell’ultimo anno numerose denunce a livello istituzionale e interrogazioni al Governo, «rimaste senza risposta ». «In questa deriva generale », concludono i parlamentari veneti del movimento di Grillo, «sarebbe necessaria un’immediata sospensione di tutte le grandi opere ritenute necessarie; esortiamo la Regione a verificare, in piena trasparenza, la corretta gestione del project financing e dei lavori in concessione. Esortiamo anche a verificare se non siano possibili varianti migliorative; solo dopo una conferma con tale ricognizione,troveremmo sensato proseguire».

 

Una carriera come poliziotto

Dalla Digos alla cattura di Felice Maniero

Carmine Damiano, 65 anni, ex questore di Treviso, ha lasciato la carriera in polizia per diventare un manager e guidare la Mantovani, dopo l’uscita di scena di Baita, al centro dell’inchiesta Mose. Damiano resterà in carica fino all’approvazione del bilancio del 2015. Tre anni per risanare l’immagine di una società uscita a pezzi dall’inchiesta che ha inchiodato l’ex amministratore delegato. Entrato in Polizia di Stato nel 76 ha guidato la Digos di Padova, combattuto gli eversivi di destra e di sinistra, catturato criminali: il più importante è il boss Felice Maniero dopo la fuga dal carcere di Padova. Trenta i riconoscimenti ricevuti dal Ministero dell’Interno. Ora l’inchiesta per quel benefit.

 

nominato dalla famiglia chiarotto

Alla Mantovani dopo l’addio di Baita

«Sto preparando un nuovo grande ufficio per il mio amico già questore» raccontò l’ingegnere alla Minutillo prima che scoppiasse lo scandalo del Mose con gli arresti

MESTRE – La storia di Carmine Damiano alla Mantovani non inizia quando la famiglia Chiarotto lo mette a capo della holding in seguito all’arresto di Piergiorgio Baita. Inizia prima. Già ai tempi in cui Baita regnava come presidente e come amministratore delegato. Emerge dagli interrogatori di Claudia Minutillo. L’ex segretaria di Giancarlo Galan, dopo l’arresto, decide di parlare e raccontare tutto. È un fiume in piena e ricorda parecchie cose. Le ripete al sostituto procuratore Stefano Ancillotto e ai finanzieri che stanno portando alla luce la nuova tangentopoli. In un interrogatorio del giugno dell’anno scorso, racconta di quando Piergiorgio Baita, le disse che stava preparando un nuovo e grande ufficio per l’arrivo «del mio amico già Questore ». E lo dice riferendosi a Carmine Damiano. Una frase che non assume nessuna valenza investigativa e non è chiaro se Baita abbia detto questo per dire qualche cosa oppure se veramente ci fossero dei contatti con l’ex questore di Treviso per un posto da manager nella Mantovani. Conoscendo Damiano difficilmente, in quel momento, con voci insistenti di un’indagine sulla società si sarebbe infilato in un’avventura simile. Dall’altra parte c’era il vertice dell’azienda che cercava, in tutti i modi, contatti per poter conoscere la vera entità dell’inchiesta sul sistema Mazzacurati- Baita. Del resto erano già al soldo di Baita, uomini dei servizi segreti, ufficiali della Guardia di Finanza, poliziotti e carabinieri. Una rete che è servita a benpoco. Carmine Damiano, 65 anni, una lunga carriera nella Polizia di Stato, è dal marzo dello scorso anno il nuovo presidente del consiglio di amministrazione della Mantovani. È arrivato in Mantovani, dopo che il colosso degli appalti in Veneto, venne decapitato con l’arresto di Piergiorgio Baita. All’epoca la nomina dell’ex poliziotto a capo della quindicesima impresa di costruzioni d’Italia (un portafoglio di tre miliardi di euro, 400 milioni di fatturato, oltre mille dipendenti) venne interpretata come una scelta simile a quella compiuta dal Gruppo Ilva che aveva nominato presidente l’ex prefetto di Milano Bruno Ferrante.

Carlo Mion

 

LA BUFERA NON FERMA I LAVORI DEL MOSE

Collaudata la nuova conca di navigazione a Malamocco

VENEZIA Conca di navigazione abilitata per le navi fino a 200 metri di lunghezza. Prima prova ieri mattina a Malamocco sull’agibilità della nuova struttura. La nave traghetto greca «Nissos Rodos», messa a disposizione gratuitamente dall’armatore Hellenic Seaways è stata fatta passare attraverso la nuova conca costruita dal Consorzio Venezia Nuova a lato del sistema Mose. «Esperimento perfettamente riuscito», dice soddisfatto il direttore del Consorzio, l’ingegnere Hermes Redi, «noi siamo qui a lavorare. La cosa peggiore sull’onda dell’emozione per l’inchiesta in corso sarebbe buttar via le competenze e il know how accumulato in questi anni». Un collaudo positivo, secondo Redi, che in qualche modo chiude la polemica con l’Autorità portuale e la Venezia terminal passeggeri, disposte a «bloccare» i lavori se la conca non fosse stata collaudata. Struttura già piccola dopo che era stata progettata dici anni fa su richiesta del Comune e dell’allora sindaco Paolo Costa, per navi fino a 270 metri di lunghezza. «Noi siamo pronti ad andare avanti con i lavori, nel cronoprogramma stabilito», dice Redi. Il piano prevede che già dal 19 giugno si comincia la posa dei primi cassoni sul fondale della bocca di porto di Malamocco. «Attendiamo istruzioni », dice redi. C’è anche chi ha chiesto la revoca della concessione unica. Un atto piuttosto improbabile, visti i contratti in essere regolarmente firmati e approvati per anni. Ma pur senza polemiche, il nuovo direttore del Consorzio non ci sta a essere messo sotto accusa per l’intero capitolo Mose. «Giusto fare chiarezza, colpire chi ha sbagliato. Ma alla fine abbiamo visto che i cassoni sono una realtà, le paratoie funzionano e si alzano con tolleranze di pochi millimetri. Anche le cerniere funzionano». Le imprese che da anni lavorano su questo fronte, dice Redi, sono pronte ad andare avanti. Verso la fase finale dell’opera, che dovrebbe concludersi nel 2017 se gli esiti dell’inchiesta sulle tangenti non porteranno a decisioni diverse. Sul fondale di Malamocco saranno calati i cassoni in calcestruzzo costruiti nel cantiere di Santa Maria del Mare. E successivamente dovrebbero essere installate le paratoie, fissate sul fondo con le cerniere.

(a.v.)

 

LA BANDIERA BIANCA DI VENEZIA

FRANCESCO JORI

Pd e affair

Non dev’esserci più spazio per i Penati e i Greganti. Ma neppure per i finti tonti che ricevono buste di euro

Sul ponte sventola bandiera bianca. Ma con avvilente disonore, a differenza della Venezia di Daniele Manin: quella idealmente esposta da ieri sui balconi del Comune, è il simbolo di una città infettata da una peste ben più mefitica del morbo che la falcidiò nel Seicento. Il Mose deputato a salvarla dalle acque alte della laguna, l’ha sommersa sotto quelle di una corruzione pervasiva e nauseabonda: che le ha inflitto un danno irreparabile a livello planetario. E anche le battute finali sono state desolanti: con un sindaco costretto a fare ciò che aveva negato appena24oreprima, e cioè firmare la lettera di dimissioni prima che i consiglieri della sua maggioranza presentassero le loro. In questo, il Pd conclude bene un percorso che aveva iniziato malissimo, dissociandosi dal sindaco su cui aveva puntato quattro anni fa, e che gli era servito per vincere già al primo turno. Non era accettabile trincerarsi dietro un farisaico «non aveva la tessera»; non lo sarebbe stato lasciar gestire la città a una persona che ne esce con l’autocertificazione di sprovveduto. Ma la vicenda va ben oltre una singola figura: investe il rapporto complessivo tra partito e affari. Colpisce la coincidenza con i trent’anni dalla morte di Enrico Berlinguer: del quale, con la consueta retorica, si sono magnificati tanti aspetti tranne il suo fermo quanto inascoltato richiamo alla questione morale. Che riguardava il Pci di allora, e riguarda in pieno il suo erede di oggi. Perché, allora come ora, per citare le sue testuali parole di un’intervista a “Repubblica” del 1981, «tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica». Vizio duraturo e trasversale, come le vicende Expo e Mose stanno confermando. Ma di cui deve liberarsi,e in fretta, soprattutto quello che è nato con l’espresso intento di voler essere «non un nuovo partito, ma un partito nuovo». E che per riuscirci deve operare su due leve fondamentali: mezzi e uomini. Il tesoriere del Pd ha appena scoperto che i conti di casa sono in rosso per 11 milioni. Eha spiegato che le spese della segreteria passeranno quest’anno a 80mila euro, rispetto ai 640mila di due anni fa: come è stata gestita questa abissale differenza? È tempo poi di rivedere drasticamente i costi delle campagne elettorali: se c’è chi le finanzia versando senza battere ciglio somme ingenti, è chiaro che lo fa perché si aspetta che quei soldi gli rientrino con gli interessi. E questo chiama in causa la seconda leva: la scelta degli uomini. Dai suoi predecessori, il Pd ha ereditato una serie di disinvolti faccendieri che sanno come, dove e quando procurarsi il denaro; e ha mantenuto prassi aberranti, come il finanziamento di strutture collaterali a partire dalle coop rosse: dimenticando che anche una cooperativa è tenuta a rispettare le regole della legalità e del mercato, non meno di una grande impresa. Mail nodo-uomini ha un ulteriore risvolto, che il caso Venezia sottolinea con grande evidenza: è tempo di scegliere le persone con ben altri criteri. Non dev’esserci più spazio per i Penati, i Genovese, i Greganti e via elencando, incluse le figure minori coinvolte negli scandali di mezza Italia, da Genova a Firenze,da Bologna a Napoli. Ma neppure per i finti tonti che si trovano in casa una busta piena di euro e neanche se ne meravigliano, o vanno in giro per la strada distribuendo a dritta e a manca il numero del proprio conto corrente: per farci cosa, giocarlo al lotto?Vanno cacciati a calci, annuncia Renzi. Non c’è bisogno di servirsi dei piedi, bastano le mani: per depennarli da qualsiasi incarico. Applicando una saggia regola di Groucho Marx: non dimentico mai una faccia, ma per voi farò un’eccezione.

 

Orsoni se ne va e fa cadere la giunta

Il sindaco contro il Pd: «Sono estraneo alla politica». Commissario in arrivo

LA CAMERA PENALE «Procura contraddittoria patteggiamento di 4 mesi incongruo con l’arresto»

LE INDAGINI – Zoggia e Mognato entrano nel mirino dei pm ma non sono indagati

IL RIESAME – Concessi i domiciliari al consigliere regionale Giampietro Marchese

Orsoni, addio al veleno «Costretto a lasciare»

L’amministratore si dimette e attacca il Pd: «Opportunismo e ipocrisia»

Al Comune di Venezia scattati i venti giorni prima del commissariamento

VENEZIA Il sindaco si dimette e lascia la politica. Colpo di scena a Ca’ Farsetti. Solo 24 ore dopo aver annunciato che restava in sella, Giorgio Orsoni ha gettato la spugna. «Voglio dare un segno chiaro della mia lontananza dalla politica», spiega, visibilmente stanco, davanti a decine di giornalisti, fotografi e operatori tv riconvocati a Ca’ Farsetti. Cosa ha determinato il cambio di rotta? «Reazioni «opportunistiche e ipocrite anche da parte di esponenti della mia maggioranza». Sui giornali e nelle riunioni di partito. Dimissioni annunciate per arrivare primi – come quelle dell’assessora Tiziana Agostini – critiche frontali da parte di consiglieri del Pd e del segretario provinciale di quel partito. Da ieri sono scattati i 20 giorni per la decadenza del Consiglio comunale e l’arrivo del commissario. A meno che già lunedì la maggioranza dei consiglieri (24 su 47) non decida di accelerare i tempi e di dimettersi. In quel caso le dimissioni sarebbero immediate per tutti. Uno scenario di grande confusione, con le forze politiche disorientate. In attesa delle elezioni di primavera. Provato da una vicenda durissima che non ha ancora accettato («Mi hanno rovinato la vita», ha confessato ieri ai suoi collaboratori), stanco e arrabbiato per quei distinguo venuti anche dalla maggioranza, ieri il sindaco ha deciso. Ha convocato la giunta e revocato tutte le deleghe ai suoi 12 assessori. E subito dopo ha presentato le dimissioni nelle mani del presidente del Consiglio comunale Roberto Turetta e del Segretario generale Rita Carcò. «Mi sono confrontato per tutta la giornata di ieri con le forze politiche e con la maggioranza che mi ha sostenuto», dice, «le mie conclusioni sono state molto amare. Ho dovuto constatare che non c’era quella compattezza che mi era stata preannunciata per tentare di affrontare almeno le cose urgenti nell’interesse della città ». Dunque è l’addio, definitivo. O forse posticipato di qualche giorno «se il Consiglio avrà senso di responsabilità». Ieri il sindaco ha presieduto l’ultima riunione della sua giunta, poi ha salutato i dirigenti. Quindi è tornato a casa, dall’altro lato del Canal Grande. Nel pomeriggio la segreteria gli ha portato un atto urgente da firmare, la revoca del presidente dell’Ente gondola Nicola Falconi, arrestato nella stessa inchiesta sul Mose con l’accusa di corruzione. Da ieri Orsoni si occupa solo di «ordinaria amministrazione ». La fine traumatica di un’esperienza cominciata nel 2010 con una coalizione che andava da Udc a Rifondazione. Ora è tutto cancellato in un attimo da un arresto durato una settimana per accuse (il finanziamento illecito) che il sindaco ha soltanto in parte ammesso. «Mi hanno paragonato ai malfattori ma io soldi non ne ho mai visti», ripete, pallido e stanco. Ieri mattina a mezzogiorno la breve comunicazione che segna la fine dell’amministrazione e forse anche di un’era politica. «Con grande amarezza concludo questo mio mandato», ha detto Orsoni, «certo di aver sempre operato nell’interesse della città e dei suoi cittadini».

Alberto Vitucci

 

Ma prima di andarsene licenzia tutta la giunta

Gelo degli assessori con il sindaco. Esplode la rabbia di Bettin che scaglia un bicchiere di vetro contro il muro: «Non si può finire in questo modo»

VENEZIA – Giunta lampo. E un colpo di scena (quasi) imprevisto. Alle 11 del mattino il sindaco Giorgio Orsoni convoca la sua squadra nella sala giunta di Ca’ Farsetti e manda tutti a casa. Assessori «revocati» e rimasti da un momento all’altro senza incarico. Il sindaco ne ha il potere, mentre il Consiglio ha il potere di mandare a casa lui. Un gioco sottile a cui Orsoni, provato da una vicenda pesante, non ha retto. «Mi hanno rovinato la vita», si è lasciato andare, «voglio rimarcare il mio distacco con la politica e la maggioranza che mi aveva sostenuto in questi anni». Una doccia gelata. Per chi non aveva alcuna intenzione di andarsene, almeno in questo modo. E anche per chi aveva annunciato le dimissioni su Facebook, come l’assessora alla Pubblica Istruzione Tiziana Agostini del Pd. Dimissioni che però sono state presentate qualche minuto dopo la revoca da parte del sindaco. Un gesto che ha contribuito a far decidere il sindaco per la rottura immediata. Facce scure e anche un po’ arrabbiate. L’assessore all’Ambiente, il verde Gianfranco Bettin – suo avversario alle primarie nel 2010, poi confluito nella maggioranza di centrosinistra – ha uno scatto di rabbia. «Non si può finire in questo modo!», dice. E lancia un bicchiere di vetro contro la parete, mandandolo in frantumi. Gelo in sala. Più tardi Bettin firmerà un comunicato congiunto con il suo gruppo per chiedere al sindaco di presentare le dimissioni (prima di quelle della maggioranza del Consiglio) in modo da consentire l’approvazione del bilancio. Un’eventualità che sembra ormai remota. Molto critico anche Ugo Bergamo, Udc di lungo corso, già sindaco dal 1990 al 1992. Orsoni lo aveva scelto come «superassessore », affidandogli la Mobilità e i Trasporti. Anello strategico per quell’operazione che sembrava riuscita di allargare la coalizione del centrosinistra dall’Udc a Rifondazione. Bergamo ha rivendicato il suo lavoro nel campo del traffico, con la recente introduzione del sistema Argos per il controllo del moto ondoso in Canal Grande. Per i più è un trauma improvviso. Da ieri pomeriggio tutti a casa e uffici vuoti a Ca’ Farsetti. Ci è rimasto male il vicesindaco Sandro Simionato, che negli ultimi giorni sembrava quasi la vittima sacrificale. Sindaco facente funzioni per una settimana, si era impegnato a «verificare le condizioni per l’approvazione di un bilancio prima di andare a casa». Invece con la mossa di ieri il sindaco ha spiazzato anche lui. «Un segno chiaro di distacco dalla politica», ha detto il sindaco. Che ha confessato di aver già predisposto l’atto di revoca degli assessori nella giornata di giovedì. «Sospeso a seguito dell’invito a una ponderata riflessione ».Mapoi sono arrivati i distinguo dei singoli consiglieri, di opposizione e anche di maggioranza. La riunione dl Pd e la presa di distanza di molti settori della maggioranza, anche tra l’Udc (Simone Venturini) e Rifondazione, con Bonzio che ha riconsegnato la delega del lavoro. E il sindaco ha deciso di dire basta. Tornano a casa i 12 assessori, nominati nella primavera del 2010 e poi integrati dopo il rimpasto dello scorso anno. Due aderivano a Italia dei Lavori (l’ex rettore Pierfrancesco Ghetti e Bruno Filippini), due dell’Udc (Bergamo e Panciera), e poi Simionato, Rey, Agostini, Maggioni e Ferrazzi del Pd, l’avvocato Alfiero Farinea e Angela Vettese chiamati dal sindaco, Gianfranco Bettin per «In Comune». Una squadra che il sindaco ha comunque ringraziato per «l’impegno amministrativo in questi anni di lavoro comune». Un grazie particolare per il vicesindaco Sandro Simionato. Che ha mantenuto in questi anni il «presidio» a Ca’ Farsetti, occupandosi di referati pesanti a cominciare dal Bilancio. E che sulla questione Orsoni è arrivato alla fine quasi a conclusioni opposte della maggioranza del suo partito.

Alberto Vitucci

 

Adesso l’inchiesta scuote la Camera penale

Per il presidente, procura contraddittoria: «Prima l’arresto, poi il patteggiamento a soli quattro mesi»

VENEZIA – Prima c’era chi non aveva digerito quella richiesta della Procura della Repubblica di mandare in carcere il sindaco Giorgio Orsoni per un reato per il quale, soprattutto per un incensurato, la condanna se fosse arrivata sarebbe stata sicuramente inferiore ai due anni cancellati dalla sospensione condizionale della pena. Adesso, dopo quel parere firmato dal procuratore Luigi Delpino, dall’aggiunto Carlo Nordio e da due dei tre pubblici ministeri che conducono l’inchiesta, in cui si consente al patteggiamento di una pena di quattro mesi, c’è chi contesta questa adesione all’istanza della difesa, ricordando che la pena minima prevista per il finanziamento illecito dei partiti è di sei mesi e osservando che con l’arresto, anche se ai domiciliari, è stato fatto il classico «rumore per nulla», quasi che si sia cercato il clamore mediatico (non a caso sulle prime pagine dei giornali nazionali e addirittura internazionali è finita la faccia del sindaco più che degli altri arrestati perché ciò che riguarda Venezia diventa immediatamente importante e nonostante il reato a lui contestati sia molto meno grave che quelli di cui sono accusati gli altri). E ieri il presidente della Camera penale veneziana, l’avvocato Renato Alberini, che in questa inchiesta non è coinvolto professionalmente non essendo stato nominato da alcun indagati, nel suo discorso ai colleghi raccolti in assemblea, riferendosi all’abuso delle misure cautelari, ha sottolineato la contraddittorietà delle posizioni della Procura, la quale soltanto mercoledì 4 giugno ha ottenuto l’arresto del sindaco dopo averlo chiesto e una settimana dopo, l’11 giugno, chiude l’indagine sul suo conto con un patteggiamento di appena quattro mesi. Stando all’avvocato, sarebbe stata enormemente sproporzionata la richiesta iniziale, quella dell’arresto. Ora, comunque, la parola passa al giudice Massimo Vicinanza, che dovrà dire se quei quattro mesi sono una pena congrua o meno. Altre critiche, infine, sono piovute, sul Consiglio dell’Ordine degli avvocati, che ieri avrebbe dovuto discutere se sospendere o meno l’avvocato Orsoni, come prevedono le norme professionali nel caso dell’arresto di un legale, ma il punto dell’ordine del giorno è stato rinviato.

 

GLI EFFETTI – Municipalità, i presidenti resteranno in carica

Venturini (Mestre Carpenedo): «Saremo gli unici interlocutori tra territorio e commissario»

VENEZIA Il sindaco si dimette, cadono gli assessori – ai quali il sindaco ha ritirato le deleghe – ma restano in vita le Municipalità, i vecchi consigli di quartiere. A meno che non siano gli stessi presidenti e consiglieri di Municipalità a rassegnare per motivi politici le dimissioni. I presidenti delle Municipalità, eletti a differenza del sindaco a turno secco, restano quindi in carica perché nessuno, al momento, ha intenzione di farsi da parte. E il perché lo spiega bene Massimo Venturini, presidente della Municipalità di Mestre – Carpenedo. «Quando arriverà il commissario saremo per lui l’unico punto di riferimento per il rapporto con il territorio», dice Venturini, «quindi saremo più importanti adesso che prima, non ha senso dimetterci». Simile la posizione di Flavio Dal Corso (Municipalità di Marghera) che già nei giorni scorsi si era informato su quali sarebbero state le ripercussioni per le Municipalità. Tra i suoi principali obiettivi, nella speranza che un segnale in tal senso arrivi nell’ultimo consiglio comunale di lunedì, a Mestre, c’è quello di garantire la realizzazione del mercato ortofrutticolo a Marghera, in via delle Macchine, con la contestuale realizzazione della piscina. Più possibilista sulle dimissioni il presidente della Municipalità di Venezia centro storico, Murano e Burano, Erminio Viero. «È ancora presto per dire cosa farò, ma se restare in carica potrà essere utile per la città rimarrò a ricoprire il mio ruolo. Anche se prima andrà capito per bene quale sarà il nostro margine d’azione ». A Favaro Veneto c’è Ezio Ordigoni a guidare la Municipalità. «Sono molto addolorato per quello che è successo ma ho deciso di rimanere, perché almeno come realtà locali potremo dialogare con il commissario». Qualcosa di simile era accaduto 14 anni fa quando l’allora sindaco Massimo Cacciari si dimise per candidarsi alla guida della Regione Veneto e presidenti di quelli che erano i consigli di quartiere rimasero in carica.

(f.fur.)

 

Venti giorni di passione, poi il commissario

Le dimissioni del sindaco diventeranno irrevocabili i primi di luglio, sempre che lunedì i consiglieri non stacchino la spina

VENEZIA – E ora che succede? Relazioni politiche tempestose a parte – legge alla mano – il sindaco Giorgio Orsoni ha venti giorni per ripensarci, poi le sue dimissioni diventeranno irrevocabili, sempre che lunedì in aula la maggioranza dei consiglieri comunali non decida di lasciare. In tal caso la partita si chiuderebbe subito e innestando la macchina per il commissariamento, fino alle prossime elezioni: nella primavera del 2015, unica “finestra” elettorale prevista dalla norma taglia spese. Per anticiparle all’autunno, servirebbe una legge ad hoc dello Stato: praticamente, impossibile. «Le dimissioni del sindaco non comportano l’immediato scioglimento del consiglio comunale: divengono efficaci tra venti giorni, durante i quali il sindaco e la giunta conservano tutti i loro poteri, compresa la possibilità di ritiro delle dimissioni », spiega infatti il capo di gabinetto della Prefettura di Venezia, Sergio Pomponio. In teoria, perché il sindaco Orsoni è andato oltre e prima di dimettersi ha ritirato tutte le deleghe ai suoi assessori, restando un uomo solo al comando davanti al consiglio comunale, convocato in seduta per lunedì. In ogni caso, prosegue nell’elencare la norma il capo di gabinetto del prefetto Cuttaia, è solo «allo spirare del ventesimo giorno», che il prefetto procede allo scioglimento del Consiglio comunale, inviando una apposita relazione al ministro dell’Interno e nominando un commissario prefettizio per la gestione dell’ordinaria amministrazione. E qui si innesta la seconda eccezionalità veneziana, perché in ballo c’è la necessità di approvare il bilancio del Comune entro il 31 luglio 2014. Se il Consiglio fosse stato commissariato per l’incapacità dell’amministrazione di arrivare al voto entro la scadenza massima, i consiglieri non avrebbero potuto ricandidarsi alle prossime elezioni. Tant’è – proseguendo con le scadenze previste dalla legge – a questo punto il ministro dell’Interno propone al presidente della Repubblica il decreto di scioglimento del Consiglio Comunale, nel frattempo sospeso. È il presidente a sciogliere definitivamente il Consiglio, con la nomina di un commissario, che guiderebbe con pieni poteri il Comune fino alle elezioni. Ultima eccezionalità: la città metropolitana. Dal 26 giugno il sindaco di Venezia sarebbe dovuto diventare sindaco metropolitano, guidando da qui a fine dicembre il transito dalla Provincia alla Città metropolitana. Che accadrà? In Prefettura allargano idealmente le braccia: una questione tutta ancora da approfondire con il ministero dell’Interno. Il Comune di Venezia è già stata commissariato due volte nella sua storia democratica: è accaduto nel 1993, quando venne “dimesso” dal Consiglio comunale l’allora sindaco Ugo Bergamo e fu nominato il commissario il prefetto Giovanni Troiani, che guidò la città fino alle elezioni che portarono a Ca’ Farsetti Massimo Cacciari, per il suo primo mandato. E fu lo stesso sindaco Cacciari – nel 2000, a metà del suo secondo mandato – a “provocare” il nuovo commissariamento del Comune, dimettendosi per sfidare Galan alle elezioni per guida della Regione, perdendole. Allora il ministero dell’Interno inviò a Venezia il prefetto Corrado Scivoletto, che la conosceva bene e che guidò il Comune fino all’elezione che portò Paolo Costa alla guida di Ca’ Farsetti.

Roberta De Rossi

 

Assessori a casa, tornano ai vecchi lavori

Simionato lunedì si presenterà alla scuola media Volpi di Spinea, Ferrazzi alla Telecom, Panciera ai suoi negozi di souvenir

VENEZIA C’è chi tornerà a insegnare italiano alle scuole medie (Sandro Simionato), chi italiano e storia all’istituto tecnico Zuccante (Tiziana Agostini), chi a tempo pieno all’IuaV (Angela Vettese, Arti visive e moda), chi potrà fare il pensionato (Bruno Filippini e l’ex rettore Ghetti) o l’avvocato, come Alfiero Farinea e lo stesso Ugo Bergamo, da una vita in politica. Tempo di concordare con i dirigenti gli ultimi atti, di raccogliere le foto dalla scrivania e tornare al proprio “vecchio” lavoro, per gli ex assessori della ex giunta Orsoni. E tempo di fare i conti con le delibere rimaste in corso d’opera. «Domani (oggi, ndr) sarò all’assemblea nazionale del Pd e lunedì mi presenterò alla mia scuola, la media Vico di Spinea», racconta un amareggiato, ma sorridente Sandro Simionato, che nei giorni dell’arresto di Orsoni è stato “f.f.” facente funzioni: «f.f. fatto fuori», sdrammatizza Alessandro Maggioni, architetto esperto di web e comunicazione, cheda parte sua si augura «che i dirigenti dei Lavori pubblici potranno chiudere i molti lavori che abbiamo avviato, iniziando dall’approvazione del progetto definitivo per il restauro del Ponte di Rialto». «Ho lavorato con spirito di servizio nell’interesse della città», commenta Simionato, tra un bacio e l’altro ai dipendenti, «accetto la decisione del sindaco, ma siamo in una situazione anomala, che rischia di non far fare valutazioni serene». C’è il bilancio da chiudere, alle prese con 30 milioni da recuperare: «Stavamo facendo un percorso per risolvere il problema della mancata vendita del Casinò, cercando soluzioni che non penalizzassero troppo i cittadini: se non lo voterà il Consiglio, dipenderà dal commissario che arriverà, in una città così delicata». La preoccupazione massima è per i due dirigenti dei Servizi sociali, Gislon e Chinellato, il cui contratto è legato alla scadenza di Orsoni: «Confido che il commissario non vorrà privare un servizio così delicato dei suoi vertici, mantenendone i contratti». L’assessore allo Sport Roberto Panciera è tornato alla catena di negozi di souvenir d’autore di famiglia: «Ho già fatto un giro, chissà se mi rivogliono», ride. È il più polemico con le dimissioni , «un finale insolito che mette la città in balia degli eventi: capisco la non facile situazione psicologia, anche del sindaco, ma una riflessione in più sarebbe servita. Auspico che il Consiglio deciderà per l’approvazione del bilancio, nel rispetto della città». L’ex assessore all’Edilizia e Urbanistica (già Pubblica Istruzione) Andrea Ferrazzi tornerà al suo ruolo di dirigente Telecom Italia: «Molte delibere le abbiamo chiuse, come quelle per lo studentato a Santa Marta, il piano residenza ex ospidaletto Ire, quello per la stazione di Mestre, il recupero Actv di via Torino. In itinere c’è il nuovo regolamento edilizio, il piano di recupero del Palazzo del Cinema al Lido, il piano zona Marzenego e iniziavo l’istruttoria per il parco urbano, al centro di Mestre».

Roberta De Rossi

 

Carla Rey: «Al momento non ho un’attività mi prendo una pausa di riflessione»

VENEZIA. L’ex assessore al Commercio Carla Rey – già amministratrice del Caffè Lavena e vicepresidente degli esercenti Aepe, prima della sua nomina – dice di non avere «un lavoro al quale tornare, nessun paracadute: mi prenderò una pausa: spero breve. Negli ultimi giorni, ho accelerato con gli uffici le delibere accelerabili, per non gettare via 4 anni di lavoro». Così lunedì la Municipalità potrà votare le nuove procedure per la concessione dei plateatici: il piano che ha integrato in un’unica mappale occupazioni di suolo pubblico di ambulanti ed esercizi, con l’obiettivo – dichiarato – di portare dai 2 anni attuali “tempo reale” i tempi per la concessione o negazione di plateatici, fotografando la situazione esistente, con il benestare della soprintendenza. All’ordine del giorno della Municipalità – spiega Rey – anche al revisione dei criteri per la concessione di plateatici nelle aree di passaggio: restano i4 metri liberi per le strade ad alto impatto, scendono a 3,20 per quelle a medio e a un terzo per basso impatto.

 

«Impossibile continuare ormai siamo delegittimati»

I consiglieri comunali erano pronti alle dimissioni, alzano bandiera bianca

Lunedì in aula verificheranno la possibilità di adottare delibere urgenti

VENEZIA Che accadrà lunedì in Consiglio? Dimissioni a catena o si deciderà di approvare la delicata delibera per far entrare il Comune nella Newco con la Regione per l’acquisto e riconversione “green economy” delle aree ex Syndial? Il bilancio resta un obiettivo difficile – date le tensioni ormai esplose – ma ancora possibile. Le prossime 48 ore – compresa l’assemblea nazionale pd- saranno determinanti. Il capogruppo pd Claudio Borghello «prende atto della decisione del sindaco, che va responsabilmente accettata alla luce delle condizioni che sono venute a crearsi». Un giro di parole per concedere l’onore delle armi, ma avendo pronta la mannaia non fossero arrivate le dimissioni: «Avevamo le firme di tutti i consiglieri pd, pronti a dimettersi », commenta. Lunedì che accadrà? «Il Consiglio può proseguire nelle sue funzioni nei prossimi 20 giorni, serve responsabilità nell’accertamento di passaggi cruciali, perché ci sono delibere importanti su Syndial, regolamento Tari, lo stesso bilancio, c’è tempo fino all’ultima seduta ». «Obiettivamente, non c’erano le condizioni per proseguire l’azione amministrativa, anche se bisogna ricordare che non un atto del Comune è coinvolto», commenta il capogruppo Udc, Simone Venturini, «credo che si debba assolutamente andare al voto del rendiconto – o saremo esposti a sanzioni – e poi basta». La lista In Comune è per le dimissioni e l’approvazione del bilancio: «Abbiamo sempre denunciato il ruolo del Consorzio Venezia Nuova e le pressioni affaristiche: l’esperienza della giunta Orsoni è per noi conclusa », scrivono Bettin, Caccia, Seibezzi, «abbiamo comunicato al sindaco di avere pronti 24 dimissioni dei consiglieri di maggioranza e gli abbiamo chiesto un ultimo gesto di responsabilità verso la città: presentare lui stesso le dimissioni, consentendo che siano votati gli atti di bilancio utili ai cittadini». «Per il Psi si deve proseguire almeno per l’approvazione del bilancio», chiosa Giordani. «Per noi restare in una maggioranza “bacata” dal finanziamento occulto del Consorzio era impossibile», commenta Sebastiano Bonzio (Fed. della sinistra), «ma non voglio che a pagare siano i lavoratori, quindi chiedo che il Consiglio voti la delibera Syndial e si cerchi lo spazio per un bilancio non del commissario ». Festeggiano, Fratelli d’Italia: «Il sindaco è indagato per fatti gravissimi. Basta, tutti a casa», chiosa Raffele Speranzon. Il capogruppo FI Michele Zuin è netto: «Non ha più senso niente: non c’è giunta, ci sono 24 consiglieri dimissionari, meglio sarebbe stato non ci fossero stati neanche i 20 giorni previsti per legge ». Anche per il capogruppo del Movimento 5 Stelle Gianluigi Placella è ora del sciogliere le righe: «Il Consiglio è già delegittimato, non ci può essere coesistenza con una maggioranza respinta dal sindaco. Io sono pronto alle dimissioni immediate e mi auguro tutti: anche il bilancio lo lascerei tranquillamente al commissario. Certo c’è qualche rischio tagli, ma un’amministrazione super partes farebbe meno deficit dell’attuale».

Roberta De Rossi

 

E ora Zoggia e Mognato entrano nel mirino dei pm

Dopo la deposizione di Orsoni, la Procura valuta la posizione dei deputati Pd

Il Riesame: Marchese ai domiciliari, a casa anche l’imprenditore Morbiolo

Il duro scontro con Mazzacurati per la gestione dell’Arsenale e le pretese del Consorzio

VENEZIA il Tribunale del riesame di Venezia presieduto dal giudice Angelo Risi, ieri ha mandato a casa, agli arresti domiciliari, sia il consigliere regionale del Pd Giampietro Marchese sia l’imprenditore di Cavarzere Franco Morbiolo, che erano in carcere. Mentre il terzo,l’imprenditore veneziano Andrea Rismondo,ha rinunciato al ricorso e rimane agli arresti domiciliari. Il giudice veneziano Alberto Scaramuzza aveva scritto che Marchese doveva andare in carcere perché c’era il rischio che con la sua attività inquinasse le prove, «essendo emerso che alcuni dichiaranti lo hanno indicato come soggetto interno alla Regione di livello politico-istituzionale che era stato in grado di informare i correi fornendo notizie riservate delle indagini» e aveva però aggiunto che doveva essere una misura a termine, quello di due mesi. Adesso, invece, il Tribunale del riesame ha cancellato la scadenza e Marchese potrà restare agli arresti domiciliari per più mesi. Davanti al Tribunale, oltre ai difensori, si è presentata anche il pubblico ministero Paola Tonini che ha consegnato ai giudici due nuovi verbali d’interrogatorio, quelli resi dal sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e quello dell’ex amministratore delegato dell’Autostrada Venezia Padova: entrambi, infatti, fanno riferimento a Marchese. Il sindaco sostiene sia stato uno di coloro che lo ha spinto a chiedere finanziamenti a Giovanni Mazzacurati per la campagna elettorale delle comunali 2010, mentre Brentan avrebbe riferito di aver ricevuto 12 mila euro come contributo per la campagna elettorale delle Provinciali dello stesso anno e di aver consegnato i soldi a Marchese. La Procura lagunare, intanto, sta valutando se iscrivere o meno nel registro degli indagati, sulla base delle rivelazioni di Orsoni, i due parlamentari del Pd Davide Zoggia e Michele Mognato, che per ora non sono indagati. Il primo, nel 2010, era candidato alla presidenza della Provincia, poi è stato eletto alla Camera come il secondo, che all’epoca dei fatti era segretario provinciale del partito. Stando ad Orsoni i due, assieme a Marchese, lo avrebbero spinto a chiedere nuovi finanziamenti a Mazzacurati dicendogli «Guarda che il tuo concorrente Brunetta è in vantaggio e dispone di un budget, si dice, di un milione di euro. Fai la figura del pezzente, datti da fare». Durante l’interrogatorio davanti ai pubblici ministeri, poi, il sindaco di Venezia afferma: «Io devo dire mi sono dato da fare, nel senso che ho insistito con Mazzacurati…Si era proposto lui di finanziare la mia campagna elettorale e mi aveva detto che lui aveva finanziato tutte le campagne elettorali precedenti, ma da una parte e dall’altra ». Orsoni, ai magistrati, spiega che si era posto dei problemi di opportunità, ma prima di tutto Mazzacurati avrebbe insistito. Le stesse perplessità sul fatto di essere finanziati dal Consorzio Venezia Nuova le aveva poste anche ai dirigenti del Pd, ma «devo dire con una certa sorpresa», aggiunge il sindaco, « invece di venir dietro alla mia perplessità, trovai una certa… la consideravano come una cosa normale, già rodota». E poi afferma che «avrebbe dovuto seguire con maggior determinazione il suo istinto e dire «Insomma, meglio una manifestazione in meno, ma rimanere in una certa linea». Con Mazzacurati, Orsoni ha avuto anche scontri e ai pubblici ministeri spiega pure questo: «Il Consorzio e Mazzacurati nel 2012 avevano disegnato uno scenario che prevedeva sostanzialmente di prendersi una grossa fetta dell’Arsenale, ivi compresa la parte nord, per farci un albergo, per farci una grossa speculazione immobiliare ». Nell’interrogatorio Orsoni spiega ai magistrati la «tecnica di Mazzacurati sulle partite che lo interessavano, come l’Arsenale, o la Legge speciale. Aveva una tecnica sua, evidentemente cioè quella di pressare le persone. Lui voleva convincermi delle sue ragioni sull’Arsenale. L’idea era quella di prendere una grandissima fetta da parte loro, metterci il centro operativo del Mose e poi continuare con la gestione del Mose. Io tutto questo l’ho contrastato nel modo più assoluto, misono creato tanti nemici».

Giorgio Cecchetti

 

Renzi va giù duro «Chi patteggia non fa il sindaco»

«Non guardiamo in faccia nessuno. Con Orsoni il Pd è stato chiaro. Comprendiamo il suo dramma umano ma, con tutto il rispetto nonostante le sue frasi incredibili verso di me, nel momento un cui uno patteggia è del tutto evidente che non può fare il sindaco». Così il premier Matteo Renzi, ieri sera, replicando alle dichiarazioni di Giorgio Orsoni. Il quale aveva affermato: «Quello che mi ha amareggiato di tutta questa storia è il comportamento inaccettabile del Partito democratico, il modo superficiale e farisaico con cui hanno trattato la mia vicenda, e in particolare mi riferisco al suo vertice, Matteo Renzi. Il premier sa chi sono, apprezzavo il suo modo di fare politica e ho anche pensato di prendere la tessera».

 

LO STATO MAGGIORE Dei democratici VENETI

Moretti: «Ha fatto bene. E Galan?»

Il segretario De Menech: «Avanti nella pulizia, senza fare sconti»

VENEZIA «Le dimissioni di Orsoni sono un gesto doveroso nei confronti di Venezia, l’ultimo atto di un brav’uomo innamorato della propria città e che l’ha amministrata bene». Così Laura Puppato, senatrice del Pd, commenta le dimissioni del sindaco di Venezia. «Ha certamente commesso un errore, probabilmente fidandosi di alcune persone che non lo meritavano, nel caos di una campagna elettorale può succedere, ma», sottolinea Puppato, «non per questo sono tollerabili gli attacchi vili ad un uomo in difficoltà ». «Se Orsoni ha patteggiato mi conforta come cittadino», commenta il senatore Pd Felice Casson, «vuol dire che i magistrati hanno lavorato seriamente e Orsoni che li criticava ha riconosciuto di dover patteggiare. Le critiche al Pd del sindaco mi trovano consenziente, corrispondono alla realtà. Queste critiche riguardano non solo vecchie strutture ma anche renziani. Orsoni fa benissimo a criticare il partito. Il sindaco non dovrebbe rimanere ma c’è un problema profondo legato alla necessità di approvare un bilancio per mettere in sicurezza i conti della città. Poi, approvato il bilancio, tutti a casa. Tutti». «La grandissima maggioranza del Pd, composta da militanti, dirigenti e rappresentanti nelle istituzioni, non ha nulla a che fare con quanto sta emergendo purtroppo ogni giorno dall’indagine sul Mose ». Lo rileva Simonetta Rubinato, parlamentare veneta e componente della direzione nazionale del Pd. «Per questo », dice, «non possiamo aspettare che sia la segreteria nazionale ad intervenire. Lo deve fare la dirigenza regionale invitando tutti coloro che in qualche modo sono coinvolti direttamente o indirettamente con questo “sistema opaco” a fare un passo indietro». «Come Pd dobbiamo fare pulizia», afferma il segretario regionale Roger De Menech, «e, una volta accertate le responsabilità, lo dobbiamo fare senza guardare in faccia nessuno. La scelta di Orsoni di dimettersi », commenta, «era ciò che si doveva fare per riportare tutto ad una situazione di normalità, per rimettere in linea la città di Venezia. Andremo fino in fondo, senza fare sconti, lo abbiamo detto chiaramente, senza distinzioni tra chi è iscritto e chi no». «Il passo indietro di Orsoni», afferma Alessandra Moretti, eurodeputata, «è un importante segnale di chiarezza e di opportunità politica: bene ha fatto il sindaco a rassegnare le dimissioni. Mi domando come mai altri che sono coinvolti in questa inchiesta non facciano un passo indietro», avverte Moretti, «penso prima di tutto a Giancarlo Galan, su cui pendono le accuse maggiori; anche qui l’opportunità politica raccomanderebbe ben altre scelte rispetto a quelle che sta prendendo».

 

È lo schema giù utilizzato con Baita e Minutillo

Almeno una mezza dozzina di arrestati, tramite i loro difensori, hanno chiesto ai Pm di essere sentiti

Orsoni fa scuola, altri indagati pronti a collaborare

Altri quattro indagati sarebbero pronti a collaborare con la Procura di Venezia. I loro legali hanno già avuto contatti a tal fine con i magistrati del pool che indaga sulle presunte mazzette versate per i lavori del Mose, dopo la notizia del parere favorevole al patteggiamento di 4 mesi di reclusione (con remissione in libertà) del sindaco Giorgio Orsoni, a seguito dell’interrogatorio di lunedì scorso, durante il quale l’avvocato veneziano prestato alla politica ha ammesso di aver chiesto al presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati, di finanziare la sua campagna elettorale nel 2010, seppure cedendo alle forti pressioni del Pd.
La prossima settimana, dunque, dovrebbe iniziare un primo giro di interrogatori, dai quali si attendono possibili ulteriori conferme del quadro accusatorio prospettato dai pm Stefano Ancilotto, Stefano Bucini e Paola Tonini, concretizzatosi la scorsa settimana nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Alberto Scaramuzza a carico di 35 persone, per 25 delle quali è stato disposto il carcere. E forse anche nuovi spunti investigativi. Complessivamente gli indagati pronti a collaborare con gli inquirenti sarebbero per ora una mezza dozzina: top secret i nomi. Ma tra loro non vi sarebbe nessuno dei politici o degli alti dirigenti indagati per corruzione con l’accusa di essere stati al soldo del Consorzio Venezia Nuova.
Il parere favorevole ad un patteggiamento di soli 4 mesi di reclusione e 15mila euro di multa per Orsoni (il minimo per il reato di finanziamento illecito, per il quale la pena prevista arriva fino a 4 anni e una multa pari a 3 volte l’ammontare degli importi irregolari) non ha mancato di sollevare critiche e contestazioni nei corridoi del palazzo di Giustizia, anche alla luce di un provvedimento firmato dai pm che è apparso un po’ troppo “morbido” nei confronti del sindaco. Come è possibile, si sono domandati in molti, chiudere la questione con una pena così ridotta in una settimana, dopo aver imposto gli arresti domiciliari a Orsoni? Ma la scelta della Procura va letta in una strategia di respiro più ampio, e la disponibilità avanzata da alcuni indagati di voler collaborare sembra dare ragione a questa linea. Il pm Ancilotto l’ha utilizzata anche in passato nelle altre inchieste sul malaffare nella pubblica amministrazione, con il risultato di riuscire a chiudere gran parte delle posizioni con confessioni e patteggiamenti. Pene più contenute di quelle ipotizzabili a conclusione di un dibattimento, ma in tempi più contenuti e senza il rischio della prescrizione dei reati, che nel caso del finanziamento contestato ad Orsoni, non è troppo lontano (tra due anni). Lo stesso filone delle false fatture della Mantovani ha seguito questo schema, portando alla collaborazione decisiva di Piergiorgio Baita, Claudia Minutillo e altri indagati che nell’inverno del 2013 erano finiti in carcere in relazione al vorticoso giro finalizzato a creare ingenti provviste in nero per pagare politici e amministratori.
Nel frattempo emergono nuovi particolari dall’interrogatorio di Orsoni, e si apprende che lo scorso 19 marzo, di fronte alle continue voci di corridoio che lo davano sotto inchiesta, il sindaco scrisse una lettera al Procuratore capo, Luigi Delpino, per lamentare presunte fughe di notizie. Lunedì, davanti ai pm Ancilotto e Buccini, Orsoni ha precisato che non era sua intenzione «muovere accuse ai pubblici ministeri precedenti. Mi ero molto, come dire, seccato da certe voci che giravano fuori della Procura, fra i media, etc, e quindi credevo che fosse giusto, anche per pregresse occasioni di incontro che avevo avuto con il procuratore, che mi sembrava francamente di non meritarmi…»

Gianluca Amadori

 

PRIMI CEDIMENTI – Dalla prossima settimana comincia una maratona di nuovi interrogatori

VENEZIA L’ex responsabile del Pd era convinto della legittimità dei versamenti

Il Riesame mette ai domiciliari gli indagati Marchese e Morbiolo

Confermata la gravità degli indizi per il finanziamento illecito, la misura meno severa rispetto al carcere è comunque sufficiente a tutelare l’integrità dell’inchiesta

A CASA – Giampietro Marchese, uno degli arrestati nell’inchiesta Mose. Ieri l’ex presidente del Consiglio regionale ha ottenuto gli arresti domiciliari. Stessa decisione per Franco Morbiol

VENEZIA – (gla) Arresti domiciliari sia per l’ex responsabile del Partito democratico ed ex vicepresidente del Consiglio regionale del Veneto, Giampietro Marchese, sia per Franco Morbiolo, presidente del Consorzio Coveco.
Li ha concessi, ieri sera, il Tribunale del riesame di Venezia, accogliendo parzialmente i ricorsi presentati dai difensori dei due indagati, gli avvocati Andrea Zarbo e Massimo Benozzati. Il collegio presieduto da Angelo Risi ha confermato la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nei confronti di Marchese e Morbiolo, entrambi accusati di finanziamento illecito, fornendo in questo modo il primo riscontro positivo sulla fondatezza dell’impianto accusatorio formulato dalla Procura di Venezia. La scelta di sostituire il carcere con i domiciliari si spiega con il fatto che, visto il tempo trascorso dai reati contestati e considerato il contesto generale e le varie posizioni di 35 indagati, la misura cautelare meno afflittiva è stata ritenuto sufficiente e adeguata. Ha rinunciato al ricorso il legale rappresentante della Selc sc, Andrea Rismondo, difeso dall’avvocato Andrea Franco.
Le motivazioni del provvedimento saranno depositate la prossima settimana. Nel frattempo la Procura si prepara al prossimo “round” davanti al Tribunale del riesame, fissato per mercoledì 18 giugno; una ulteriore udienza si svolgerà lunedì 23.
Ieri mattina a sostenere la pubblica accusa davanti al Tribunale c’era il sostituto procuratore Paola Tonini, la quale ha parlato a lungo per ribattere alle tesi dei difensori di Marchese e Morbiolo, i quali hanno respinto ogni accusa nel merito, per poi contestare la sussistenza di esigenze cautelari nei confronti dei rispettivi assistiti. L’avvocato Zarbo ha spiegato che Marchese era convinto della legittimità dei finanziamenti erogati da Coveco e Salc, regolarmente registrati, non sapendo che in realtà a mettere a disposizione le somme per la campagna elettorale era il Consorzio Venezia Nuova. Ha negato, invece, che Marchese abbia mai ricevuto i 400-500 mila euro di finanziamento in nero di cui ha parlato Giovanni Mazzacurati.

 

Il sindaco “di rottura” sconfitto dalla politica

«Porta bene». Gli avevano detto i consiglieri l’8 aprile 2010 quando il Segretario generale del Comune “vestì” con la fascia tricolore Giorgio Orsoni, nuovo sindaco di Venezia. In realtà, tanto bene quel gesto non gli ha portato, considerato il triste epilogo della sua esperienza amministrativa che è poi coinciso con l’annuncio del suo ritiro definitivo dalla scena politica.
All’epoca, Orsoni aveva promesso alla popolazione che sarebbe stato un sindaco di rottura, che avrebbe fatto tabula rasa del sistema gestionale dell’amministrazione in uso fino a quell’anno. Quasi subito, però, l’uomo “prestato” alla politica, ha dovuto venire a patti con essa. A cominciare dalle nomine degli assessori. Credeva e riteneva di poter decidere in piena autonomia e invece si è trovato a dover ingoiare qualche rospo proprio con le nomine dei suoi più stretti collaboratori, imposti dai partiti di maggioranza, in particolar modo dal Pd che reclamava di aver portato più della metà dei voti di coalizione. Poi, ci sono state le baruffe tra le singole correnti del Pd, tra il Pd e i partiti minori della coalizione e anche solo tra questi ultimi. Alla fine, gli unici uomini che Orsoni riuscì a portare in giunta furono Ezio Micelli (Urbanistica ed Edilizia privata) e Antonio Paruzzolo (Attività produttive). Entrambi, per la cronaca, si sono dimessi lo scorso anno.
NEMICI – Il suo mandato si è svolto all’insegna di grandi battaglie per la città, alcune delle quali gli hanno procurato nemici tra i potenti di turno. Orsoni ha avuto il merito di aver saputo battere i pugni sui tavoli giusti e far valere il nome della città a livello nazionale e internazionale.
È stato battendo i pugni (letteralmente) al Comitatone di fronte all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che il 21 luglio 2011 Orsoni riuscì a ottenere dallo Stato quei 50 milioni di Legge speciale (arrivati solo qualche mese fa) che hanno consentito la riapertura di molti cantieri in città. Soldi spariti per anni a causa del dirottamento dei fondi per la salvaguardia di Venezia sul Mose.
ARSENALE – Un’altra battaglia fondamentale è stata quella per la conquista dell’Arsenale, portata a termine attraverso una serie di blitz a livello parlamentare di cui egli era stato il regista nel luglio 2012. Questa attività ha portato allo scontro aperto con il Consorzio Venezia Nuova, i cui uffici e strutture occupano vaste porzioni del compendio. L’intervento è stato poi mitigato dall’attività lobbistica della Difesa da una parte (che ha ottenuto la garanzia sulla proprietà delle zone destinate alla Marina), ma l’obiettivo era l’acquisto a costo zero dell’Arsenale e la fine della “sovranità” del Consorzio in quelle aree. Obiettivo raggiunto.
Orsoni è stato anche il sindaco che ha sostenuto in prima persona la battaglia inizialmente portata avanti solo dal Comitato No grandi navi per far uscire le gigantesche navi da crociera dal bacino di San Marco. Una posizione che lo ha fatto entrare in rotta di collisione non solo con il suo amico Paolo Costa (presidente dell’Autorità portuale), con il Magistrato alle Acque, con Confindustria e la maggior parte delle associazioni di categoria e con gli stessi Governi a livello nazionale. Orsoni ha chiesto e ottenuto di discutere la questione a livello di Comitatone, portando la voce del Comune in un processo decisionale che sarebbe stato solo di palazzo Chigi. Una nuova riunione del Comitatone dovrebbe essere convocata entro la fine del mese, ma a presenziare non ci sarà nessun sindaco di Venezia, ma un commissario prefettizio.
COPPA AMERICA – Nel 2012 Orsoni era riuscito a portare la Coppa America a Venezia, garantendo alla città condizioni economiche molto più favorevoli rispetto a quelle stipulate da Napoli, l’altra città italiana che ha ospitato una tappa della prestigiosa competizione. I catamarani hanno sfrecciato in bacino di San Marco fornendo uno spettacolo incomparabile con il villaggio sportivo situato nientemeno che all’Arsenale. Il tutto grazie a una generosa sponsorizzazione della Mantovani e del Consorzio Venezia Nuova (5 milioni). Quando l’organizzazione della Coppa America si trovò in difficoltà e dovette rinunciare ad una tappa italiana, Orsoni non ebbe esitazioni a mettersi contro i gestori, andando di fronte ad un giudice e ottenendo anche una vittoria.
Altre battaglie portate avanti con altrettanta veemenza non si sono concluse altrettanto positivamente.
Il riferimento è alla questione legata alla conferma alla presidenza di Giuliano Segre nella Fondazione di Venezia (che porta in grembo la realizzazione del M9, il museo del Novecento a Mestre), messa in dubbio da Orsoni in seguito alla vicenda giudiziaria del fallimento Trevitex. In appello Segre aveva avuto la conferma della condanna a 4 anni, salvo poi essere assolto in Cassazione.
L’altra battaglia in cui non ci sono stati risultati è quella con Enrico Marchi sul cosiddetto Quadrante di Tessera, nuovo territorio di espansione per la cittadella dello sport (stadio compreso) e per il nuovo Casinò. Quando l’accordo sembrava concluso, è scoppiato lo scontro sulla possibilità di realizzazione di una seconda pista, eventualità che avrebbe richiesto una zona di rispetto incompatibile con i piani del Comune.

Michele Fullin

 

SCANDALO MOSE – Il professore ci ripensa: ritira le deleghe agli assessori e lascia. Concessi i domiciliari a Marchese e Morbiolo

Scaricato dal Pd, Orsoni se ne va

Renzi: «Chi patteggia è colpevole e non può fare il sindaco». Venezia verso il voto a novembre

L’ADDIO – Giorgio Orsoni si dimette, scaricato dal Pd. Il commento del premier Renzi: chi patteggia è colpevole e non può fare il sindaco. Venezia verso il voto a novembre.

L’ULTIMO ATTO – Prima di andarsene il sindaco ritira le deleghe a tutti gli assessori. Intanto, concessi gli arresti domiciliari a Marchese e Morbiolo.

IN DIFFERITA – La decisione avrà effetto dopo i 20 giorni previsti dalla legge

LA ROTTURA «Rinuncia opportuna» gli intimano insieme Serracchiani e De Menech

IPOTESI – Stando alle procedure, elezioni a primavera 2015 con le regionali. Ma molti vogliono accelerare

Da Roma: fare presto, al voto a novembre

In attesa del commissario, che diventerà operativo comunque dopo il 5 luglio dato che i prossimi venti giorni saranno di gestione ordinaria affidata alla struttura amministrativa attuale, già si discute di campagna elettorale ma qualsiasi strategia dei partiti dipenderà dalla data del voto. A Venezia quasi tutti sono convinti che sarà nella prossima primavera, in concomitanza con il rinnovo del governo regionale, perché le nuove norme lo impongono per evitare sprechi. Da Roma, però, giungono voci contraddittorie che danno quasi per certo che, invece, si andraà al voto in autunno, per la precisione nella seconda metà di novembre. A favore di questa scelta c’è il fatto che non si può lasciare per nove mesi una città importante come Venezia senza una guida amministrativa eletta dai cittadini; oltretutto Venezia è a capo della Città metropolitana, ulteriore fonte di complicazioni.
Jacopo Molina, l’avvocato consigliere comunale e portavoce dei renziani in città, pensa alle primarie da tenere a settembre in vista del voto a primavera 2015 «ma anch’io auspico il voto in autunno. La politica deve essere depurata dal bubbone scoperto dalla magistratura, senza sconti per alcuno ma, fatto questo, la maggioranza dei cittadini onesti ha bisogno di una guida politica con persone che possono andare a testa alta e con schiena dritta, e quindi di chiudere al più presto la parentesi commissariale. Il discredito di cui sta soffrendo Venezia è del tutto immeritato e le sue potenzialità sono enormi».

Elisio Trevisan

 

Ha litigato con Costa per le grandi navi, scontro con Marchi per la città dello sport

BATTAGLIE VINTE – Ha portato 50 milioni della Legge Speciale e conquistato l’Arsenale

ORSONI ADDIO – Pensava di poter decidere tutto da solo, si è piegato alla dura legge dei partiti

IL RETROSCENA – Urla di rabbia la notte dell’arresto: non se l’aspettava

Giorgio Orsoni non se l’aspettava. L’avviso di garanzia lo aveva messo in conto, ma l’arresto no. È per questo che, quando i finanzieri lo hanno buttato giù dal letto per notificargli il provvedimento, ha perso le staffe. Si è disperato, ha urlato, sembrava fuori di sè. E probabilmente lo era, visto che degli sviluppi dell’inchiesta, a Venezia si parlava da quando era stato arrestato Piergiorgio Baita. Ma siccome negli ultimi due secoli nessun sindaco a Venezia poteva dire di essere stato eletto senza l’appoggio del Consorzio, Orsoni era tranquillo. Continuava cioè a pensare che l’avviso di garanzia gli sarebbe costato al massimo la ricandidatura a sindaco, nulla di più. Nel Pd stavano lavorando per vedere di trovargli una via d’uscita che gli permettesse di non ricandidarsi. Del resto Orsoni è sempre stato un sindaco che il Pd ha “subìto” e non amato. E dopo l’arresto sono arrivate le bordate del partito contro Orsoni che “non è iscritto al Pd”. Quanto basta per decidere di andar giù duro con il partito, prima di uscire di scena definitivamente Ecco spiegato il primo “non mi dimetto” che tradotto in italiano voleva dire “adesso me la pagate cara”. Poi si scatena il putiferio delle riunioni. Orsoni appare sempre più provato, sempre più in crisi, annichilito dagli eventi. «Qui ci sono le dimissioni dei consiglieri di maggioranza. Se non te ne vai, ci cacciamo noi» – gli dicono nell’ultima riunione. E Orsoni si lascia convincere ma, solo dopo che Gianfranco Bettin ha preso un bicchiere dal tavolo della sala giunta e l’ha scagliato con rabbia contro la parete.

 

Corruzione, il Governo studi la lezione Mose

L’INCHIESTA Coop e Consorzio il filo “rosso” delle tangenti

di Maurizio Dianese

Tutti in fila per siglare il patto col diavolo. Se li è messi sotto tutti, Mazzacurati, quelli delle cooperative rosse, i duri e puri dell’ex partito comunista.

I VERSAMENTI  «Tutto il denaro finiva al partito»

Il filo rosso delle tangenti

Il ruolo di Pio Savioli, patron del Coveco: rastrellava dalle coop e portava a Mazzacurati

E sono loro che hanno fatto il lavoro di manovalanza della mazzetta. Non sono mai riusciti a salire ai piani alti dove si facevano le strategie – avevano solo il 5 per cento dei lavori del Mose – ma si sono dannati l’anima come e più degli altri per tenere in piedi il gran mercato delle mazzette al quale hanno attinto sindaci e deputati, senatori ed europarlamentari anche del centrosinistra. Ma se Baita aveva messo in piedi una multinazionale della mazzetta, i “compagni” andavano avanti ancora con le “bustarelle”, come ai tempi di Marco Cacco. Altro che conti correnti a San Marino ed “esterovestizioni”, qui al massimo si andava a Chioggia a piazzale Roma. E non solo mazzette perchè alle coop. Mazzacurati chiedeva di risolvere tutte le piccole rogne quotidiane, quelle più brutte. C’è un avvocato che ha bisogno di lavoro? Niente problema, lo assume la Coveco. C’è da trovare qualche decina di migliaia di euro per domani? No problem, ci pensa la coop. San Martino che il nero lo tiene sotto il materasso, sempre pronto. C’è l’ex segretario regionale della sanità Ruscitti che può dare una mano ad agguantare l’appalto per il nuovo ospedale di Padova? Gli diamo noi delle coop. una consulenza.
Non c’è limite alla genuflessione nei confronti di Mazzacurati. E quel che si capisce leggendo i 18 faldoni che la Procura ha messo ai disposizione degli avvocati difensori, è che siamo solo all’inizio della battuta di caccia dei p.m. Basti dire che le pagine degli interrogatori di chi è già stato arrestato sono piene di omissis. Significa che i magistrati stanno lavorando a ricostruire tutti i contatti e gli intrecci tra le coop. Come facevano il nero e come si compensavano tra di loro? Basti dire che di Franco Morbioli della Coveco, la Procura ha rilasciato un solo verbale di interrogatorio. E’ composto da 6 pagine e di queste 6 pagine, 5 sono bianche, coperte da omissis.
Un pò meno “omissati” gli interrogatori dell’altro patron della Coveco, Pio Savioli, «iscritto al partito da 40 anni». Savioli racconta che la Coveco entra nel Consorzio nel 2001. «Parte il Mose, in quell’epoca io ero già diventato amico dell’ingegner Mazzacurati, tanto che sono una delle prime persone, escluso il circolo della Furlanis, come la chiamavamo noi, cioè quelli che erano venuti con lui dalla Furlanis, a cui lui ha chiesto, ovviamente non io, di dare del tu, con qualche difficoltà da parte mia.» Ma se pure Savioli dava del “voi” a Mazzacurati, capisce subito che lavoro deve fare. Gli dice Mazzacurati: «Abbiamo come Consorzio Venezia Nuova delle particolari esigenze. Bisogna che anche voi ci diate una mano. Puoi chiedere alla cooperativa San Martino”… chi mi ha indirizzato alla cooperativa San Martino è stato lo stesso ingegner Mazzacurati: “Puoi chiedere alla cooperativa San Martino se ci.. mi dà, ci dà una cifra – in nero ovviamente – di una certa entità”, in quel momento non me la ricordo, poteva essere 30 mila euro, piuttosto che 40 e cose di questo genere, o 50 o quello che è. Provvederemo poi a compensare la cooperativa San Martino. Intanto chiedigli questo”.
Allora io prendevo e andavo…» Ecco, io prendevo e andavo. E’ tutta qua la storia delle coop., in quel “prendevo e andavo”. E fa tenerezza la difesa: «Non ho mai trattenuto non dico un euro, ma neanche un centesimo». Li versava tutti nel calderone delle mazzette governate da Mazzacurati – per un totale di 1 miliardo in 10 anni, secondo Baita – ma siccome al cuor non si comanda, poi c’erano i soldi anche per i “compagni”. Come il consigliere regionale Giampiero Marchese. «Lei si ricorda di aver detto a Marchese, dopo aver aperto una borsa con una cerniera lampo, di avere detto: “16, gli altri 30 arrivano entro agosto?» Chiede il p.m. Paola Tonini. «Non me lo ricordo». Ma poi gli torna la memoria. «Si recuperavano 15 mila euro in San Martino per Marchese ogni 3 o 4 mesi. Viene pagato per il contributo al partito.» Perchè senza partito non si lavorava e senza cooperative il partito non viveva.

Maurizio Dianese

 

IL “COMPAGNO” PIO  «Fu lo stesso ingegnere a indirizzarmi a Chioggia, e io andavo a rifornirmi»

VERBALI SCOTTANTI – Sono zeppi di “omissis” perché i pm lavorano per scovare tutta la rete

INGEGNERE – Agli uomini della San Martino di Chioggia chiedeva a getto continuo

I DIPENDENTI REPLICANO A BAITA – «Thetis non è un parcheggio di personale del Consorzio,
siamo 123 tecnici e laureati che lavorano per l’ambiente»

VENEZIA – Replicano punto per punto alle dichiarazioni fatte da Piergiorgio Baita, uno dei grandi accusatori nell’inchiesta Mose, i dipendenti e dirigenti di Thetis, la società ingegneristica e di ricerca ambientale che opera all’Arsenale, a Venezia. «Non è in atto – sottolineano in una nota – nessun massivo trasferimento o parcheggio di personale del Consorzio Venezia Nuova in Thetis che attualmente impiega 123 persone, per lo più tecnici laureati: ingegneri, architetti, biologi e specialisti ambientali». Viene quindi ricordato che Thetis «non ha mai lavorato sul Mar Caspio e di conseguenza non ha studiato la proliferazione delle alghe. Al contrario ha avuto un prestigioso contratto nel 2010 direttamente dalla World Bank per il coordinamento tecnico di un gruppo di lavoro multinazionale per l’analisi ambientale del progetto di trasferimento dell’acqua dal Mar Rosso al Mar Morto».
I dipendenti Thetis concludono: «Dovrebbe far riflettere tutti il fatto che l’ing. Baita “dominus” incontrastato in questi ultimi anni delle attività correlate a Thetis e Consorzio Venezia Nuova voglia solo oggi dare giudizi sulla nostra professionalità e impartire lezioni di buona amministrazione. Forse anche nel nostro interesse e delle nostre famiglie avrebbe dovuto farlo prima».

 

ANTICORRUZIONE – Pieni poteri al magistrato, chiusa l’Authority Appalti

Ora Cantone potrà commissariare tutte le grandi opere, Mose compreso

NOMINE Rossella Orlandi (Entrate) e Raffaele Cantone (Anticorruzione)

ROMA – Vigilerà sui contratti pubblici, a cominciare da quelli legati ad Expo, con la possibilità di ordinare ispezioni, ma soprattutto con il potere di proporre commissariamenti ad hoc non dell’azienda, ma di singoli appalti sospetti, redigendo una contabilità separata. Il ruolo di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anticorruzione, fa un salto di qualità con il decreto varato ieri dal governo sulla pubblica amministrazione: da guida di un organismo con armi spuntate assume la funzione di super-ispettore. Tutte le prerogative finora in capo all’Authority sugli appalti pubblici, che viene affidata da subito al magistrato in qualità di commissario straordinario, passeranno all’Anticorruzione nel giro di pochi mesi, e comunque entro la fine dell’anno. Per farlo, avrà un rafforzamento di uomini e strumenti. Per ora il governo ha indicato gli altri quattro commissari che affiancheranno Cantone all’Authority, passaggio necessario per renderla operativa, dal momento che è un organo collegiale. Sono due uomini e due donne: Michele Corradino, consigliere di Stato; l’imprenditore Francesco Merloni; la costituzionalista Ida Angela Nicotra e la giurista Nicoletta Parisi. La vera arma inserita nel provvedimento varato ieri e annunciata dal premier Renzi nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri, è quella che permette i commissariamenti di singoli appalti in caso di notizia di reato o provvedimenti restrittivi. Una novità assoluta rispetto a quello che fino ad ora è stata l’Autorità degli appalti, la vera grande sconfitta di questa partita. Evidentemente, non essere riuscita a prevenire i grandi scandali esplosi nelle ultime settimane, da Expo a Mose, ha lasciato un segno e ora quest’organismo si avvia a uscire di scena. Contemporaneamente il governo procede ad una raffica di nomine. Il Fisco passa a una donna: Rossella Orlandi Capo della direzione regionale delle Entrate del Piemonte, 57 anni, un passato alla direzione regionale della Toscana e una importante esperienza come «numero due» dell’accertamento, la direzione centrale del fisco dedicata alla lotta all’evasione. Diventa presidente dell’Istat Giorgio Alleva con un curriculum di statistico internazionale ed esperienze anche nell’Agenzia Spaziale Italiana. Per la Consob il governo indica anche il terzo membro: anche in questo caso una donna, Anna Genovese. Nuovi vertici anche per l’Enit (Cristiano Radaelli). Il nome della Orlandi, la nuova lady fisco, è sempre stato nella rosa dei possibili successori di Attilio Befera anche se il suo vice, Marco di Capua, per diversi giorni è stato il nome più accreditato.

 

TERREMOTO A VENEZIA – Il sindaco si dimette in rotta col Pd, in arrivo il commissario. Poi le elezioni

Il fallimento del “sistema” Venezia. Un vecchio sistema che affonda in laguna

di Davide Scalzotto

Era arrivato come un avvocato prestato alla politica. Dalla politica è rimasto schiacciato. E più o meno consapevolmente si è fatto schiacciare. Ma la fine, consumata tra il grottesco e l’indecente, dell’esperienza di sindaco di Giorgio Orsoni porta allo scoperto, al di là degli illeciti, il fallimento di un “sistema Venezia” nel suo complesso. Come un tappo che è saltato facendo defluire un’acqua stagnante, immobile da almeno 20 anni. «Il sindaco ha ceduto per un eccesso di debolezza»: lo dicono i magistrati nel documento con cui concordano la scarcerazione e la richiesta di patteggiamento di 4 mesi. In quella parola, “debolezza”, non c’è solo la subalternità di Giorgio Orsoni (arrivato a Ca’ Farsetti come l’uomo di rottura col passato, ma che ben presto di quel sistema ha accettato regole e condizioni). In quel termine, “debolezza”, c’è la subalternità di una politica che, succube non solo di poteri forti come il Consorzio e le aziende che intorno ad esso gravitavano, ma di categorie, corporazioni e interessi particolari, ha finito per confondere l’amministrazione e il buon governo con il potere.
Una città parallela, quella degli interessi e delle corporazioni che, in 20 anni, ha cementato il proprio potere legandolo a quello di una classe dirigente in Comune dove si sono consolidati piccoli o grandi feudi che col tempo hanno finito per rendere alcuni dirigenti e amministrativi più potenti dei politici. Ci sono categorie i cui dirigenti, segretari, direttori sono in sella da 20 anni e da 20 anni condizonano nel bene e nel male la gestione della città. Altre che, pur cambiando rappresentanti, hanno uno spirito talmente corporativo da garantirne la perpetuazione (e la stagnazione) degli interessi. Anche di questo si sente ora il bisogno di rinnovamento. Del resto è diventato ormai consolidato e normale che una delibera, una determina, un provvedimento venga preparato e redatto su input di questa o quella categoria o corporazione. Normale che nelle commissioni consiliari o nelle riunioni di Consiglio comunale ci fosse (ci sia) la presenza dei rappresentanti delle categorie, come in una sorta di “presenza di controllo” a garanzia. Così la città ha finito col piegarsi al gioco degli interessi, piccoli e grandi. Il “sistema […]” è fiorito su questo humus. Tant’è che, una volta saltato il meccanismo di agevolazione delle pratiche edilizie, l’attività si è paralizzata, stendando a riprendersi. Lo stesso regolamento di traffico acqueo, di cui si è assunta l’urgenza dopo la morte in gondola del professor Vogel, è stato scritto garantendo prima l’interesse di gondolieri, tassisti e privati e poi, nel residuo spazio rimanente, del trasporto pubblico di linea. Cioè del servizio ai cittadini. Diciamolo: poco o nulla è cambiato, se non qualche senso unico in Canal Grande.
Tutto questo per anni è stato normale. Ora con lo scandalo Mose l’impressione è che questo “sistema” sia alla fine. Resta da vedere, saltato il tappo, di quale acqua si riempirà la laguna. Se sarà acqua limpida. Se qualcuno saprà mettere in primo piano parole quali buona amministrazione, etica, legalità, competenza. C’è chi imputa a una cattiva legislazione il fiorire del malaffare. Ma la “buona amministrazione” e l’etica battono anche le cattive leggi.
Il fiorire di gruppi, comitati e associazioni sui social e non solo è una risposta alla domanda di partecipazione, non certo (o non ancora) di governo. Su questo fronte, al momento non si vede ancora nulla all’orizzonte. E in questo contesto rischia di germogliare un pericoloso “horror vacui”.

Davide Scalzotto

 

Orsoni lascia, si torna al voto

DIMISISONI – Giorgio Orsoni ha chiuso la sua “missione” a Ca’ Farsetti ieri alle 12.22. Volto stanco, voce rotta dall’emozione e consapevole del momento, Orsoni ha detto basta, dopo che la sua maggioranza è andata in pezzi. Il sindaco ha alzato le mani come “uomo prestato alla politica” dopo la batosta dell’arresto e la “settimana” ai domiciliari.

TENSIONI – Quella di ieri è stata una giornata tesa. In Giunta sono volate parole grosse, e anche un bicchiere. Sul fronte politico il sindaco ha lanciato ancora accuse al Pd, mentre i consiglieri annunciano battaglia lunedì. In 24 hanno congelato le dimissioni. Uno, Jacopo Molina (Pd) le ha presentate.

L’ACCUSA «Abbandonato a causa delle alchimie politiche»

IL CLIMA – Atmosfera pesante per l’addio a Ca’ Farsetti

LE DECISIONI  «Ho revocato le deleghe a tutta la giunta comunale e poi ho deciso di dire basta»

L’AFFONDO «Reazioni opportunistiche e ipocrite hanno messo fine alla mia ammistrazione»

Orsoni: «Troppi ipocriti, mi dimetto»

Dopo una febbrile trattativa nella notte, la maggioranza è andata letteralmente in pezzi

Giorgio Orsoni ha chiuso la sua “missione” a Ca’ Farsetti alle 12.22. Volto stanco, voce rotta dall’emozione e consapevole del momento, a distanza di ventiquattro dalla scarcerazione e dall’incontro di giovedì, a tratti baldanzoso, con la stampa, l’atmosfera era molto, ma molto diversa. Ieri Orsoni che si apprestava a lasciare la fascia tricolore ha detto basta. Ha alzato le mani come “uomo prestato alla politica” dopo la batosta dell’arresto e la “settimana” ai domiciliari. Ed è stato a questo punto, solo guardando negli occhi l’avvocato, principe del foro veneziano, che si è capito che era tutto finito con il “rompete le righe”. Ma prima di capitolare, Orsoni si è voluto togliere una “soddisfazione”: convocare tutti gli assessori della sua giunta, fare a tutti la comunicazione ufficiale che ogni trattativa era miseramente fallita nella notte; lanciare qualche altro strale contro questo o quell’assessore “scavezzacollo” e poi annunciare a tutti che si sarebbe ripreso tutte le deleghe invitando la “squadra” di Ca’ Farsetti a fare le valigie.
Concluso questo passaggio, Orsoni si è dato nuovamente in pasto ai giornalisti. Ma questa volta per un unico intervento senza repliche. Ed è stata tutta un’altra musica. Orsoni si è tolto nuovi sassolini dalla scarpa. «Gli eventi di questi giorni e le relative iniziative della Magistratura nei mie confronti – ha esordito – hanno fatto emergere, in modo sempre più evidente, la mia estraneità al mondo della politica, alla quale mi ero prestato con sincero spirito di generosità verso la città. Le reazioni, per lo più opportunistiche ed ipocrite di singoli esponenti, anche appartenenti a quella maggioranza che sino ad ora ha sostenuto la mia giunta, mi hanno convinto che non sussistono neppure le condizioni minime per un percorso amministrativo per l’approvazione di atti urgenti, a meno di una forte presa di responsabilità da parte del Consiglio. E’ perciò che ho deciso di presentare le mie dimissioni dalla carica di Sindaco».
Insomma, un durissimo attacco a quelle forze politiche, il Pd in primis, che hanno abbandonato la barca facendola affondare. Un atto pesantissimo con il quale Orsoni ha voluto dimostrare ancora una volta la sua estraneità ai tatticismi politici. E poi le parole verso la propria giunta. Anche qui in un misto di ringraziamento alle persone e di bacchettate agli equilibrismi e alle alchimie di una vecchia politica. «Ho provveduto, altresì, a porre in essere la revoca dell’intera Giunta – ha concluso il sindaco -, già da me annunciata ieri e tenuta in sospeso a seguito dell’invito ad una ponderata riflessione, che faceva presumere ci potesse essere una più responsabile condivisione delle cose da fare da parte dell’intero Consiglio e della maggioranza in particolare. É una revoca che ha il solo scopo di certificare il venir meno da parte mia di qualsiasi fiducia nel rapporto con la rappresentanza politica che mi ha espresso, fermo restando la stima personale per il vicesindaco e i singoli assessori, per il loro impegno amministrativo in questi anni di lavoro comune. Con grande amarezza concludo questo mio mandato, certo di aver sempre operato nell’interesse della Città e dei suoi cittadini».
Un addio senza precedenti, con la rabbia nel cuore da parte di Orsoni che non ha concesso alcuna domanda o replica ai giornalisti. Solo un ultimo strappo con un “Era tutto quello che dovevo dirvi” laconico e triste. E poi così come era arrivato, l’ex sindaco di Venezia, a solo sette mesi dalla fine del proprio mandato, è tornato ad rifugiarsi nel suo ufficio. Ci potrà restare per altri venti giorni secondo la formula del “disbrigo degli affari correnti”. Poi, alla fine, non resterà altro che spegnere la luce e passare la chiave al commissario prefettizio.

 

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