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LA POLEMICA

Ed è ancora scontro tra Comitato No Grandi Navi e Cruise Venice. Questa volta tocca al portavoce del Comitato, Silvio Testa contestare l’annuncio tra le righe di una nota del “comitato avversario”. E il passaggio contestato è legato soprattutto al concetto di “senso unico” lungo il Canale Sant’Angelo-Contorta (una volta che questo venisse scavato e usato per il transito delle grandi navi ndr). Nella nota di Cruise Venice, infatti, si accenna all’ipotesi

“del canale Contorta – si dice nel testo – come unica alternativa con 650 entrate da Alberoni, e quindi dal Canale dei Petroli, e successive 650 uscite dal Lido, ovvero attraverso San Marco, limitando così il passaggio davanti a Palazzo Ducale, ad una sola volta».

«Finalmente abbiamo capito il disegno che hanno in testa – sbotta il portavoce dei No Navi con il sostengo dei movimenti ambientalisti e di Global Project – lo hanno detto nero su bianco. É una pazzia totale, dare il colpo di grazia alla laguna per mantenere 650 inchini all’anno davanti al Ducale? Senza contare che Autorità portuale e Vtp hanno sempre detto di voler incrementare i numeri del crocierismo, dunque i 650 passaggi quanti dovrebbero diventare?».

 

Protesta No Navi: c’è il rischio infiltrati

Sale la tensione per la tre giorni “Par Tera e Par Mar”, mobilitazione contro le Grandi Navi e Grandi Opere che inizia oggi e proseguirà fino a domenica con due cortei.

“No Navi”, rischio infiltrati. Cortei sorvegliati speciali

L’allarme non è “rosso”, ma potremmo dire “arancione”. E la Prefettura lo ha detto a chiare lettere: meglio non scherzare con il fuoco… anzi l’acqua. Già. Sarà un week-end delicato quello che ci apprestiamo a vivere da oggi a domenica quando, quasi si terranno ben due cortei, uno a Piazzale Roma, l’altro lungo il Canale della Giudecca con problemi di circolazione proprio per le navi crociera. Da una parte la manifestazione “Par tera e par mar”, tre giorni di mobilitazione contro le Grandi Navi e le Grandi Opere (leggi Mose ndr) che verrà giungere a Venezia, una “marea” di sodalizi e associazioni ambientaliste, partiti della sinistra radicale ma anche movimento del mondo antagonista dell’arcipelago legato ai cosiddetti “No Tav”, dall’altra il “Workshop” del Consiglio Italia-Usa che si apre oggi e si concluderà domani, all’Excelsior al Lido.
Ca’ Corner, dove ha sede la rappresentanza di Governo, ha usato parole “diplomatiche” per far capire che non saranno ammessi eccessi. «Si è preso atto – ha riassunto una nota della Prefettura – delle dichiarazioni formulate in questi giorni dagli organizzatori di “Par tera e par mar” volte a sottolineare l’intento pacifico delle manifestazioni. Nè potrebbe essere diversamente da parte di chi propone di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della salvaguardia di Venezia. Resta ferma, l’avvenuta predisposizione delle opportune misure che dovessero rendersi necessarie in caso di violazioni di legge». Insomma, patti chiari e amicizia lunga. Un concetto ribadito ieri pomeriggio ad una delegazione di organizzatori dell’incontro ricevuta dal questore Vincenzo Roca a Santa Chiara.
Intanto cresce l’interesse per l’iniziativa veneziana anche con un banchetto informativo ai Giardini della Biennale. Infatti va registrato il sostegno (ma non è detto che saranno in città) tra gli altri anche di attori (Loredana Cannata e Roberta Da Soller, Beppe Casales), musicisti (Herman Medrano, Modena City Ramblers e Tre Allegri ragazzi morti) scrittori e giornalisti (Alberto Toso Fei, Nanni Balestrini, Cristiano Prakash Dorigo) e registi (Carlo Virzì, Andrea Segre), politici (Andrea Zanoni) e anche del padre comboniano Alex Zanotelli. Il programma di “Par Tera e Par Mar”, in un’area attrezzata di Sacca Fisola, vicino ai campi sportivi, prevede oggi, alle 18, la presentazione di un libro “Il gondoliere cinese” di Lucio Angelini e due concerti in rapida successione. Domani, alle 17, un’assemblea dedicata al tema delle Grandi navi in preparazione del clou di domenica, quando alle 10 vi sarà una manifestazione da piazzale Roma verso il Porto e quindi alle 16, a San Basilio, si snoderà un corteo acqueo lungo il Canale della Giudecca al grido di “Riprendiamoci le nostre acque”.

 

A ROMA – Lupi convoca istituzioni e armatori per il decreto Clini-Passera

E il ministro anticipa il Comitatone

Intanto il Governo gioca d’anticipo in vista del Comitatone sulla questione “Grandi Navi”. Il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi ha convocato per giovedì prossimo, 13 giugno, alle 11 nella sede del Ministero, una riunione sul problema delle grandi navi che entrano nel porto di Venezia. Il ministro, spiega una nota, «segue la vicenda e ha già sentito in merito alcuni protagonisti istituzionali». Alla riunione di giovedì parteciperanno: il sindaco Giorgio Orsoni, il presidente della Regione Veneto Luca Zaia; il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando; il presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa; il Comandante delle Capitanerie di porto Ammiraglio Felicio Angrisano; il presidente di Confitarma Paolo d’Amico; e il presidente di Clia Europe (l’associazioni degli armatori stranieri e italiani) Manfredi Lefebvre d’Ovidio. «Si tratta di un passaggio molto importante – sottolinea il sindaco Orsoni raggiunto a Bruxelles per un incontro di rappresenatanza dell’Anci – e sono grato al ministro per aver risposto con sollecitudine alle nostre richieste». Ma Beppe Caccia (In Comune) non è proprio dello stesso parere:

«Che bravi! – commenta ironicamente – Ma non si doveva convocare il Comitatone su questi temi? E invece, ecco qua il ministro chiama a Roma solo le istituzioni e… gli armatori. La città resta al palo. Peraltro in questo modo non vi sarà nemmeno il ministro per i Beni culturali, Massimo Bray».

Insomma, una “spruzzata” di veleno sulla riunione convocata al ministro, mentre in realtà la città attende da tempo decisioni precise anche dopo il decreto Passera-Clini di cui, in realtà, si sono perse le tracce. Sempre sul fronte parlamentare va registrata l’interrogazione di un gruppo di deputati M5S (i veneziani Marco Da Villa, Arianna Spessotto, Emanuele Cozzolino, e il romano Adriano Zaccagnini) nella quale si chiede quali iniziativa intende prendere il Governo dopo l’accordo interministeriale (decreto Passera-Clini) del marzo 2012; i criteri di trasparenza sulle decisioni in merito ai progetti e infine quali misure il Governo intende attuare per invitare l’Autorità portuale a dare attuazione al riordino della legislazione in materia portuale».

 

Nuova Venezia – Soldi ai partiti per tre elezioni

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7

giu

2013

 

Le ammissioni di BAITA non convincono i PM

MESTRE – Sui due conti correnti svizzeri, rintracciati dalla Guardia di Finanza e dal pm Stefano Ancillotto e attribuiti a Piergiorgio Baita, sono transitati, negli ultimi anni, diversi milioni di euro. Non è chiaro se questi soldi siano serviti per questioni personali all’ex presidente e ad della Mantovani, oppure se fossero a disposizione della società padovana. Gli inquirenti però hanno il forte sospetto che in quei conti siano transitati fondi neri ad uso e consumo del sistema-Baita. Fondi creati grazie alla “società cartiera” di San Marino del faccendiere Wiliam Colombelli. Fondi neri già ampiamente dimostrati dalle indagini e dalle confessioni del ragioniere Nicolò Buson, dell’ex segretaria di Giancarlo Galan Claudia Minutillo e dallo stesso Colombelli. Per il momento gli investigatori delle fiamme gialle hanno visionato i transiti svizzeri ma non hanno ancora individuato esattamente dove siano finiti i quattrini. E soprattutto stanno verificando se a quei conti aveva accesso solo Piergiorgio Baita o anche altre persone. Non viene nemmeno escluso a priori che Baita abbia aperto quei conti a titolo personale e che poi siano stati utilizzati anche per altri scopi. Naturalmente dovrà essere Baita a spiegare agli investigatori quei transiti: a chi sono finiti i soldi visti passare e poi sparire nel nulla. Da quando Baita ha deciso di cambiare strategia difensiva, sostituendo i legali dello studio Longo e Ghedini con l’avvocato mestrino Alessandro Rampinelli e con il vicentino Enrico Ambrosetti, gli investigatori si aspettano la collaborazione del manager. Nel primo interrogatorio in carcere a Belluno, durato quattro ore, Baita ha ammesso le responsabilità sui fatti che gli vengono contestati, confermato una parte delle confessioni rese da Minutillo, Buson e Colombelli e raccontato di aver pagato dei partiti, di destra e di sinistra, in occasione di almeno tre campagne elettorali. Ha spiegato di aver versato alla fin fine alcune centinaia di migliaia di euro. Poca cosa secondo gli inquirenti considerato l’ammontare dei fondi neri fin qui accertato. Un racconto che sarebbe stato percepito, da parte degli inquirenti, come un tentativo di Baita di sminuire la sua posizione. La strategia del manager è quella di un indagato che cerca di capire quanto l’accusa sia disposta a cedere sulle misure restrittive in cambio di collaborazione. Per il momento l’ammissione del finanziamento illecito dei partiti non consentirà a Baita di ottenere grandi benefici. Anche perché la vicenda è già emersa dagli elementi fin qui raccolti dagli inquirenti. Insomma, se Baita vuole uscire dalla cella dov’è rinchiuso da fine febbraio, dovrà raccontare ben altro. Dovrà spiegare come la Mantovani, da lui diretta, sia diventata l’assoluta regina delle opere pubbliche realizzate in Veneto negli ultimi vent’anni e dove siano finiti i quasi trenta milioni di euro di fondi neri messi da parte grazie alle fatture false provenienti dalla cartiera sanmarinese intestata a Colombelli. Gli inquirenti guidati dal pm Ancillotto, affiancato ora dal collega Stefano Buccini, non hanno mai fatto mistero che quei soldi sarebbero serviti per pagare tangenti. A chi? La speranza è che a rivelarlo, prima o poi, sia Baita.

Carlo Mion

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Bottacin: mazzette figlie del sistema consociativo veneto

Il consigliere di Verso Nord: da troppo tempo maggioranza e opposizione fingono di darsi battaglia ma votano insieme

VENEZIA «Fondi illeciti bipartisan alle forze politiche? Non mi stupisce, è la naturale conseguenza di un sistema distorto che garantisce rendite di posizione e monopoli a scapito del mercato. La mia impressione è che i soldi distribuiti da Piergiorgio Baita più che alle strutture-partito siano stati erogati a persone, a soggetti politici in rappresentanza di cordate. A differenza della prima Tangentopoli, dove i partiti disponevano di aziende di riferimento che distribuivano mazzette, in Veneto si assiste a una spartizione preliminare di quote nelle grandi opere, dalle quali, a cascata, discendono le provvigioni destinate alla politica». Diego Bottacin, consigliere regionale di Verso Nord in forte sintonia con Montezemolo, commenta così gli sviluppi dell’inchiesta Mantovani. La domanda: su quali pilastri fonda il sistema spartitorio? «Il punto di partenza è la negazione del libero mercato. Dal Mose, madre di tutte le anomalie, dove la più grande opera pubblica d’Italia è affidata ad un consorzio d’imprese senza gara né concorrenza; alle strade, affidate in project financing dove chi presenta il progetto sa che al 90% riceverà l’appalto; gli ospedali, gravati da oneri micidiali per la sanità pubblica; il trasporto locale e i rifiuti con le aziende che dettano tempi e modi in barba a Regione ed enti locali. Un esempio di questi giorni? Per un km di strada su gomma il costo medio europeo varia da 1,8 a 2,2 euro, quello dell’azienda pubblica di trasporto di Venezia, l’Actv, è 3,5. Perché nessuno a destra, a sinistra e al centro, mette in discussione questo stato di cose?». Lei che risposta si dà? «Io dico che, al di là delle responsabilità penali oggetto dell’inchiesta, a questo sistema consociativo hanno attinto un po’ tutti, non solo i partiti ma anche le cooperative, le imprese, i gruppi d’affari. Dietro la capofila Mantovani ci sono sempre partner e subappalti. Ricordate quando Berlusconi decise di cedere a Zaia la presidenza del Veneto? Fu accolto all’aeroporto da una pattuglia di imprenditori illuminati che reclamavano il quarto mandato per Galan. Emblematico». Punta l’indice su Galan? «Galan è stato il direttore del traffico e il garante di un equilibrio che includeva l’opposizione, al punto che il vecchio regolamento del consiglio regionale impediva di fatto l’approvazione di leggi e bilanci senza il consenso della minoranza. Quando ho sollevato la questione della trasparenza nel Pd, denunciando una dinamica consociativa nelle nomine, mi sono ritrovato solo e alla fine ho dovuto andarmene. Non è un caso che l’affaire Mantovani prenda origine dal filone Brentan ed è paradossale che in una Regione a lungo diretta da una forza che si proclama liberale, il libero mercato resti un miraggio». Luca Zaia sostiene che nella sua giunta non si discute di appalti. È cambiato qualcosa con la presidenza leghista? «Direi di no, la correttezza dei gesti individuali non è sufficiente, occorre cambiare il sistema e introdurre regole che garantiscano la concorrenza. Finora non è stato fatto». L’assemblea regionale ha istituito una commissione d’inchiesta. Contribuirà a far luce sugli intrecci affari-politica? «Ci credo poco perché la volontà prevalente in Consiglio è quella di verificare la legittimità formale degli atti senza aggredire il cuore del problema».

Filippo Tosatto

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Galan: mai chiesti né presi soldi sottobanco, sono tranquillissimo

Il presidente della commissione Cultura della Camera Giancarlo Galan è in tutt’altre faccende affaccendato (la settimana prossima presenterà il progetto di legge Pdl sulle unioni omosessuali) ma non si sottrae a una battuta sugli sviluppi dell’inchiesta Mantovani: «Leggo che Baita avrebbe dispensato soldi a destra e a sinistra, cosa posso aggiungere? Non ne so nulla o meglio, so quello che ho fatto io: le mie campagne elettorali, che peraltro costavano poco, si sono valse del contributo di imprenditori e professionisti amici oltre che del partito. Non ho mai chiesto né ricevuto soldi sottobanco da chicchessia, perciò sono tranquillissimo». All’indomani degli arresti, lei affermò che, in quanto presidente della Regione Veneto per tre lustri, si attendeva di essere convocato e ascoltato dalla magistratura… «Sì, io sarei stato curioso di sentire Galan, invece nessuno mi contattato né chiesto nulla». Nel frattempo Baita ha rotto il silenzio… «Può darsi, lo leggo sui giornali come tutti, il Baita che ho conosciuto era un ottimo professionista dotato di capacità tecniche non comune e di fantasia imprenditoriale, di più non saprei cosa dire». L’ha stupita il suo cambio di difesa e la rinuncia al patrocinio dell’avvocato-deputato Piero Longo? «Un po’ sì, Longo è bravo, io se fossi nei guai me lo terrei ben stretto».

 

Nuova Venezia – Mose: “La Fip non ha nulla da temere”

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5

giu

2013

Guerra legale sulle cerniere: «Mai commissionata alla General Fluidi la progettazione dei 178 gruppi»

PADOVA – Guerra legale per la progettazione delle cerniere che legano i cassoni e le paratie del Mose ai fondali delle quattro bocche di porto della laguna di Venezia: la Fip Industriale «non ha nulla da temere e attende con serenità il giudizio del tribunale civile di Padova. La General Fluidi ha ricevuto il giusto compenso pattuito per la commessa e ogni altra richiesta non è ammissibile». A parlare sono gli avvocati Giovanni Scudier e Lucia Casella, in qualità di difensori di Fip Industriale di Selvazzano nella controversia promossa da General Fluidi avanti la sezione civile del tribunale padovano: il nostro giornale, ieri, ha anticipato la querelle, promossa dalla General Fluidi che ha chiesto un risarcimento danni di 600 mila. Il motivo? «La Fip industriale si è assunta indebitamente la paternità dei progetti oleodinamici con disegni tecnici, prototipo e risultati dei test di collaudo, realizzati da General Fluidi per il progetto del Mose di Venezia: tutto questo si configura come un’ipotesi di concorrenza parassitaria e quindi sleale», sostiene l’avvocato Biagio Pignatelli che tutela la General. Immediata la replica, affidata allo studio Casella-Scudier. «La società Fip Industriale Spa contesta integralmente la ricostruzione dei fatti e le pretese di General Fluidi srl; lo ha già fatto direttamente nei confronti della società interessata e lo farà naturalmente anche nella unica sede competente a discutere e decidere della vicenda, vale a dire il tribunale civile di Padova. General Fluidi ha instaurato un giudizio civile ed è in quella sede che Fip Industriale dimostrerà la totale infondatezza ed inconsistenza delle tesi di General Fluidi. Quel che è certo è che Fip Industriale non ha mai commissionato a General Fluidi né la progettazione, né la realizzazione di un sistema oleodinamico per i 178 gruppi di connettori di aggancio; tantomeno si è appropriata di alcunché, non essendoci del resto nulla di cui appropriarsi. General Fluidi ha collaborato con Fip Industriale per un periodo limitato quale fornitore di alcuni componenti e materiali, dopodichè Fip Industriale ha scelto di avvalersi di altri fornitori: questo è tutto. I tentativi di trarre profitto lamentando inesistenti danni verranno contestati e respinti nella competente sede processuale, così come verrà dimostrata l’infondatezza e la temerarietà delle accuse di concorrenza parassitaria, per le quali Fip Industriale adotterà ogni iniziativa a tutela del proprio buon nome e della propria immagine», affermano gli avvocati Lucia Casella e Giovanni Scudier. La causa civile è iscritta a ruolo e gli atti di citazione già notificati: a luglio ci sarà la prima udienza, ma i tempi per dirimere la controversia rischiano di essere più lunghi di quelli di realizzazione del Mose: entro il 2015 le dighe mobili dovrebbero entrare in funzione.

 

 

«Il progetto De Piccoli sia subito esaminato dalle commissioni consiliari. Per portare al Comitatone soluzioni concrete sull’alternativa alle grandi navi in laguna».

Il consigliere comunale della lista «In Comune» Beppe Caccia ha scritto ieri un’interrogazione urgente al sindaco Giorgio Orsoni. Chiede che il Comune cominci l’iter per l’esame dei progetti alternativi alla Marittima, per essere pronti quando verrà convocato il Comitatone dal nuovo governo

«La proposta illustrata in municipio da Cesare De Piccoli», scrive Caccia, «si presenta come una credibile e relizzabile alternativa all’attuale situazione di permanente impatto a rischio per la salute e l’incolumità pubblica e il patrimonio naturalistico e monumentale di Venezia».

Per questo motivo, scrive il consigliere, è necessario e urgente mettere sul piatto le alternative possibili, a cominciare da quella di De Piccoli. La proposta prevede di localizzare la nuova Marittima per le grandi navi a Punta Sabbioni, davanti alle barriere del Mose e all’isola artificiale. In questo modo le navi resterebbero lontane dalla città. Le altre proposte sono quella lanciata dal sindaco Orsoni qualche mese fa – una nuova stazione passeggeri a Marghera – e quella già in fase di progettazione di massima da parte dell’Autorità portuale che prevede di scavare un nuovo grande canale di navigazione all’interno della laguna centrale, il Contorta-Sant’Angelo. Infine, il terminal a Santa Maria del Mare, dove ci sono le piattaforme per la costruzione dei cassoni del Mose. Il progetto De Piccoli era nato all’epoca delle alternative al Mose. Togliendo la portualità dall’interno della laguna, sosteneva l’ex vicesindaco, si potevano rialzare i fondali, fermando l’acqua alta senza bisogno di costruire le dighe. Proposta allora nemmeno considerata, e adesso di nuovo in pista.

(a.v.)

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La General Fluidi cita in giudizio per concorrenza sleale la Fip Industriale: «Abbiamo subito un danno di 600 mila euro»

PADOVA – Dighe mobili del Mose contro l’acqua alta a Venezia: l’azienda padovana General Fluidi porta in giudizio la Fip Industriale per «concorrenza parassitaria» e lamenta un danno di 600 mila euro. L’atto di citazione, notificato tre settimane fa, è iscritto a ruolo con procedimento incardinato nella sezione civile del tribunale di Padova. Secondo il decreto di citazione, come spiega l’avvocato Biagio Pignatelli che tutela l’azienda, «la Fip Industriale si è assunta indebitamente la paternità dei progetti oleodinamici di General Fluidi da inserire nel progetto Mose di Venezia». Di cosa si tratta nel concreto? Stiamo parlando del cuore del Mose, cioè delle cerniere che legano i cassoni alle paratie mobili: «Nel 2009 la Fip ha commissionato a General Fluidi la progettazione e realizzazione, con elaborati tecnici, di un sistema oleodinamico per i 178 gruppi di connettori di aggancio con relative centraline. Dopo aver ricevuto i disegni e le informazioni tecniche, la Fip se ne è appropriata: ha personalizzato i relativi documenti con i propri riferimenti, li ha ceduti e poi ha commissionato a ditte concorrenti la restante parte del sistema oleodinamico del Mose», dichiara la General Fluidi. Un passo indietro, a giovedì 18 marzo 2010, quando l’allora ministro Altero Matteoli assieme al governatore Giancarlo Galan e al Magistrato alle Acque di Venezia Patrizio Cuccioletta partecipa alla cerimonia di sganciamento del tensionatore, una tappa che chiude la fase sperimentale di costruzione delle cerniere del Mose. «Si tratta del più grande biglietto da visita dell’Italia nel mondo» dice con orgoglio Cuccioletta mentre taglia il nastro alla Fip di Selvazzano. Il clima è euforico. Si parte dalla bocca del Lido di Treporti. Entro il 2014 Venezia sarà salvata dalle alluvioni. Si gira anche in video che finisce su You Tube. Tutto a posto? Pare di no. Consegnati i progetti, la General Fluid viene estromessa e ora ha depositato la causa civile: «In questo caso, ricorre un’ipotesi di concorrenza parassitaria e quindi sleale» spiega l’avvocato Biagio Pignatelli, «in quanto Fip Industriale si è indebitamente appropriata della paternità del progetto, comprensivo di disegni tecnici, prototipazione e risultati dei test di collaudo. È evidente che le ditte concorrenti abbiano prodotto quotazioni più basse grazie alla mancanza della progettazione e acquisizione del know how tecnico, sottratta alla ditta che tutelo in giudizio». «Abbiamo subìto danni quantificabili in almeno 600.000 euro» dichiara Andrea Tiburli, della General Fluidi, «per questo chiediamo di essere risarciti da Fip Industriale. I danni subiti sono gravissimi, sia dal punto di vista della perdita di fatturato che dell’investimento di tempo e denaro per l’acquisizione delle competenze tecniche necessarie a sviluppare l’opera. Per non parlare del danno d’immagine, considerata la rilevanza mediatica mondiale del Mose».

 

Fabio Franco Accinelli, legale di Milano, seguiva gli interessi di William Colombelli per gli inquirenti veneziani non figura nell’albo e non insegna all’ateneo di Trento

VENEZIA – Colpo di scena laterale nell’inchiesta Mantovani. Si scopre che l’avvocato di William Colombelli, titolare della Bmc Broker di San Marino, quella che fabbricava le fatture false per la Mantovani, non è un avvocato. Non è iscritto all’Ordine e non potrebbe esercitare più del barista che vi serve il caffè stamattina. Invece lo fa da tempo in vari tribunali della Repubblica. Con progressione di carriera, per giunta, visto che si presenta come consulente di grossi studi milanesi. Anche se non risulta. E come professore dell’Università di Trento, di cui ha carta intestata. Ma a Trento non l’hanno mai visto. Il sedicente avvocato, smascherato e denunciato dagli inquirenti veneziani, si chiama Fabio Franco Accinelli. È milanese. Dal suo ufficio Colombelli scriveva le e-mail confidenziali all’ingegner Piergiorgio Baita, capo della Mantovani. Tipo quella del 26 maggio 2011 in cui gli dice:

«Caro Piergiorgio, ti scrivo dallo studio del mio avvocato con il quale abbiamo visionato la relazione da te speditami, che è assolutamente insufficiente e non sostenibile di fronte ad un ufficio indagatore».

Studiavano le strategie per seminare gli inseguitori. Chissà come la prenderà Piergiorgio, l’unico dei quattro arrestati ad essere ancora in carcere: Claudia Minutillo, Nicolò Buson e lo stesso Colombelli hanno avuto la revoca anche degli arresti domiciliari. Baita no, è sempre in vincolis. Pensare che ha fatto i salti mortali per pagare quei 22.506.400 euro alla Bmc Broker documentati dalla Guardia di Finanza. Colombelli ha vissuto come un nababbo con il 20% che la Mantovani gli lasciava in compenso delle consulenze tecniche mai eseguite ma fatturate. Grosse auto, una collezione di moto da strada e d’acqua, case, barche, con 12.000 euro di imponibile dichiarato all’anno. Avesse almeno riempito le carte che gli competevano. No, tutto Baita doveva fare: inventarsi i progetti, acquisire la documentazione, stendere le relazioni al posto suo. Le palancole del Mose, il terminal Ro-Ro di Fusina, quello di Porto Levante, il sistema delle tangenziali sull’A4, il Gra di Padova, il mercato ortofrutticolo di Mestre, il cantiere di via Moranzani, quello del Lido-Tre Porti. Consulenze tecniche su tutto. E tutte fasulle, secondo il pm, perché riferite a operazioni già pagate ad altri. L’ordinanza che le racconta, 220 pagine firmate dal Gip di Venezia, è avvincente come un romanzo: i giri che si è inventato Baita, gli intrecci tra le società, i lavori inesistenti da fare e i soldi veri da incassare, sembrano il canovaccio di un film. Non aveva torto Giancarlo Galan a definire l’ingegnere «una spanna più alto di tutti». Peccato che tanta intelligenza sia inciampata in un tipo come Colombelli, che peraltro Giancarlo Galan ha conosciuto in casa di Niccolò Ghedini. Altra bella testa di sicuro, oltre che avvocato vero, almeno lui. In compagnia di tutti questi intelligenti, come poteva Colombelli non sentirsi arrivato? L’unica fatica che ha fatto per anni, a parte registrare le telefonate di Baita a insaputa del medesimo, è stata andare a incassare il denaro nelle banche di San Marino, assieme a Minutillo. Quasi 400 viaggi in sei anni si sono fatti. Più di uno a settimana. Sempre prelievi in contanti. Mai sotto 30.000 euro. Quarantuno volte sopra 100.000. Una volta addirittura 1.025.000 in un colpo solo. Cifre accertate da riscontri bancari della Finanza: provate a farvi dare somme consistenti dalla vostra banca in contanti, se ci riuscite. Poi uno si chiede perché San Marino. Gli inquirenti veneziani incontrano la prima volta Fabio Franco Accinelli quando accompagna Vanessa Renzi, una dipendente di Colombelli, sentita come teste. Siamo nel 2012. Accinelli si presenta come avvocato di Colombelli. Circostanze successive inducono a chiedere al Gip l’autorizzazione a perquisirgli l’ufficio: la perquisizione si svolge alla presenza di un delegato della procura di Venezia e uno dell’Ordine di Milano, per salvaguardare gli altri avvocati che lavorano nello studio. La routine prevede la verifica del tesserino professionale: Accinelli tergiversa. Il suo imbarazzo induce ad approfondire. Dopo alcuni solleciti, l’Ordine degli avvocati di Milano nega che Accinelli sia mai stato iscritto. Il rettore dell’Università di Trento cade dalle nuvole. Nessun altro foro italiano lo ha in elenco. L’esercizio abusivo della professione (art. 348 cp) è punito con una condanna fino a 6 mesi e una multa fino a 516 euro. Quisquilie, a parte la figuraccia. Al telefono Accinelli continua a sostenere la parte: «Sono un avvocato, perché questa domanda? Come studio facciamo diritto societario e contrattualistica. Io ho seguito la Bmc di Colombelli nel recupero crediti su contratti che la vedevano creditrice di varie società del gruppo Mantovani». E com’è andata?

«Avevamo predisposto delle azioni ma nel momento dell’esecuzione è scoppiato il patatrac e siamo rimasti fermi. Sull’inchiesta di Venezia non dico niente, il penalista è l’avvocato Fogliata».

Renzo Fogliata, veneziano:

«Ho sentito parlare dell’avvocato Accinelli nel corso dell’indagine, ma parlare e basta. Non lo conosco di persona. So che Colombelli si è rivolto a lui prima di rivolgersi a me, ma per altre questioni».

Non sa neanche se sia un civilista o un penalista?

«No, so solo che ha lo studio a Milano e che c’era l’ipotesi di Colombelli di avviare un contenzioso civile nei confronti di Mantovani per ottenere il pagamento di alcune commissioni».

Renzo Mazzaro

 

POLITICA E AFFARI»LO SCANDALO DELLE FATTURE FALSE

È l’unico coinvolto nell’inchiesta Mantovani ancora in cella e per il manager ora il rischio è di rimanerci fino a due anni

L’avvocato difensore Paola Rubini: «Attendiamo l’udienza davanti alla Cassazione non condividiamo l’attualità dell’esigenza cautelare»

PADOVA – Si apre un nuovo filone d’indagine e, intanto, Piergiorgio Baita, 64 anni, l’ex presidente del consiglio di amministrazione di Mantovani spa, è l’unico fra gli indagati ancora in carcere dal 27 febbraio scorso nell’ambito dell’inchiesta che ha per protagonista la più importante impresa di costruzioni del Veneto. Un carcere – quello di Belluno – dove rischia di restare almeno un anno in detenzione preventiva, periodo destinato a lievitare di un altro anno se, prima della scadenza del termine di custodia cautelare, la procura chiederà il rinvio a giudizio o il giudizio immediato facendo scattare il decorso dei termini fin dal principio. «È quello che prevede la legge perché al mio assistito, fra gli altri, è stato contestato il reato di associazione a delinquere con l’aggravante del primo comma» spiega la penalista Paola Rubini, uno dei difensori che assiste il manager con il collega Piero Longo, in attesa che la Cassazione fissi la data dell’udienza per discutere un alleggerimento se non l’annullamento o la revoca dell’ordinanza di custodia cautelare chiesta e ottenuta dal pubblico ministero veneziano Stefano Ancillotto. Nel marzo scorso il tribunale del Riesame aveva già rispedito al mittente la richiesta di scarcerazione, confermando a carico di Baita il rischio di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Diversa la sorte dei co-indagati come Claudia Minutillo (una rapida carriera da segretaria dell’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan a quella di amministratore della società Adria Investimenti), di William Ambrogio Colombelli, titolare della Bmc Broker di San Marino, sospettata di essere una delle “cartiere” di Mantovani, e dell’ex direttore amministrativo della spa, il ragioniere padovano Nicolò Buson, tutti finiti agli arresti domiciliari dopo un lungo interrogatorio con il pm e la firma di un verbale di parecchie pagine. Nessuna collaborazione o confessione da parte di Baita che, pochi giorni dopo l’arresto, con un semplice tratto di penna si era dimesso da ben 42 incarichi compreso il ruolo di vertice alla Mantovani, spianando la strada a una strategia difensiva che punta a dimostrare come da parte del manager non ci sia nessuna possibilità di inquinare o di orientare gli accertamenti in corso. Conferma l’avvocato Rubini: «Attendiamo la fissazione dell’udienza davanti alla Cassazione. E aspettiamo la pronuncia del giudice di legittimità sull’applicazione della misura restrittiva. Secondo il pm c’è stato un tentativo di inquinare le prove che risalirebbe a diversi mesi fa: la difesa contesta l’attualità dell’esigenza cautelare». Sul merito dell’indagine, nessuna presa di posizione, nemmeno alla luce degli ultimi sviluppi: «Il compendio di conoscenza che ci è stato offerto, con il deposito delle carte messe a disposizione della difesa, non dicono certo tutto». La partita è aperta, mossa dopo mossa. E la prossima settimana i difensori incontreranno Piergiorgio Baita: nella sala-colloqui del carcere di Belluno. Salvo novità.

Cristina Genesin

 

L’indagine punta su Svizzera e Canada

Nuove perquisizioni, sotto la lente transazioni per l’acquisto oltre frontiera di materie prime e servizi

VENEZIA – Il Canada e la Svizzera. È internazionale la nuova frontiera delle indagini della Procura di Venezia, nell’inchiesta che vede ancora in carcere l’ex presidente del colosso edile Mantovani Piergiorgio Baita, accusato – con altri complici ora agli arresti domiciliari – di aver orchestrato un sistema di cartiere, alle quali attribuire false fatturazioni per milioni di euro per servizi mai eseguiti e costituire così fondi neri ed evadere il fisco. Spulciando tra le migliaia di fatture sequestrate negli uffici della Mantovani – e che hanno permesso di scoprire nuove cartiere – i finanzieri del Nucleo tributario si sono imbattuti anche in fatture emesse da una società svizzera (per alcuni servizi intestati alla Mantovani) e da una canadese, sulle quali ora sono stati accesi i riflettori dell’indagine. La società canadese ha ricevuto da Mantovani i pagamenti per 20 milioni di euro in 10 anni, per l’acquisto della pietra per la realizzazione dei fondali del Mose. Pietra comprata in Croazia dall’impresa maggiore azionista del Consorzio Venezia Nuova – concessionario dello Stato per le opere di salvaguardia della laguna – ma pagata a una società con sede legale in Canada: perché andare incontro ad un sovrapprezzo del 10-20% per l’intermediazione, invece di saldare direttamente le cave croate, si sono domandati i finanzieri, coordinati dai pm Ancillotto e Buccini? Il sospetto degli investigatori – da verificare – è che si tratti di un altro modo per creare fondi neri all’estero: in questo caso i beni sarebbero reali (migliaia di tonnellate di pietre), ma pagati con un sovrapprezzo all’azienda canadese, per creare un fondo. Circa un milione all’anno, per 4-5 anni: un sospetto, per ora, che ha portato il 24 aprile i finanzieri del Nucleo tributario padovano a una nuova perquisizione durata 12 ore alla sede della Mantovani, per acquisire dati relativi all’acquisto dei “masegni”. Per rogatoria, la Procura ha chiesto alle autorità canadesi notizie circa la titolarità della società verificare se sia o meno riconducibile alle cave o alla Mantovani stessa. Un altro filone degli accertamenti ha invece preso la via della Svizzera, in questo caso per fatturazioni relative a servizi pagate a una società elvetica: anche in questo caso, il sospetto (da appurare) è che si tratti di un modo per creare un fondo all’estero. Se Baita è in carcere e potrà restarvi per parecchio altro tempo – in quanto accusato di essere a capo dell’associazione – a fine maggio scadranno i termini di custodia per altri protagonisti dell’indagine: William Colombelli, Claudia Minutillo e l’ex direttore di Mantovani Sergio Buson, agli arresti domiciliari perché hanno dato il loro contributo all’inchiesta. Potrebbero tornare liberi o il pm Ancillotto potrebbe chiudere l’inchiesta e chiedere nei prossimi giorni il processo con rito immediato. (r.d.r. – e.f.)

 

INCHIESTA MANTOVANI

Un «giro» da trenta milioni. Perquisito l’ufficio del nuovo presidente Damiano

PADOVA —Affaire Mantovani: a due mesi e mezzo dagli arresti che hanno alzato il velo sui presunti fondi neri legati a Gianfranco Baita, ex ad della Mantovani costruzioni e «re» delle grandi opere in carcere dal 27 febbraio scorso, le indagini vanno avanti. I finanzieri di Padova si stanno infatti concentrando sui rivoli (si fa per dire, visto che si tratta di fatture da 30 milioni di euro) che riguardano la realizzazione del Mose di Venezia. In particolare, gli investigatori hanno messo sotto la lente l’acquisto delle pietre utilizzate per la protezione delle bocche di porto in laguna. Pietre che arrivano dalla Croazia ma che sarebbero state pagate, con fatture da 30 milioni di euro, a una società con sede in Canada. Per approfondire elementi parziali che sono già in mano alla procura veneziana, le Fiamme gialle di Padova si sono nuovamente presentate il 23 aprile scorso alla Mantovani, con in mano un ordine di perquisizione emesso della procura anche nell’ufficio di Carmine Damiano, ex dirigente di polizia (è stato questore di Treviso) e neopresidente della società dal 15 marzo scorso. L’obiettivo era raccogliere quanto più materiale possibile che consenta di disegnare il «percorso» se non delle pietre, che venivano portate con le navi dalla Croazia a Venezia, quantomeno dei soldi usati per pagarle, che a dispetto della vicinanza tra la costa veneziana e quella slava sembrano aver fatto mezzo giro del mondo. È ancora tutto da chiarire, secondo gli investigatori, il motivo per cui i sassi croati siano stati acquistati attraverso fatture emesse a una società canadese.

Per questo è stato necessario acquisire nuova documentazione relativa al filone parallelo del Canada, per ricostruire la genesi dei trasferimenti di 30 milioni di euro (avvenuti nell’arco di dieci anni, si intende): di qui la necessità di un nuovo sopralluogo alla società di via Belgio a Padova. Quando si sono presentati davanti al nuovo presidente di Mantovani, Damiano, i finanzieri hanno esibito l’ordine di perquisizione e hanno trovato la piena disponibilità da parte dell’ex questore. Le fatture «canadesi» di cui i militari vanno a caccia fanno riferimento al sistema Mose e in particolare all’acquisto delle pietre che servono a costruire barriere di protezione per il passaggio delle navi alle bocche di porto. Si tratta di lavori aggiunti in corso d’opera, le cosiddette «lunate»: barriere curve che dovrebbero assorbire le onde e proteggere, in caso di maltempo, le imbarcazioni in entrata in laguna. Inoltre, sempre in corso d’opera, si sono ritenuti necessari nuovi acquisti di queste pietre trovate in Croazia, lavorate e particolarmente adeguate agli studi di resistenza in relazione alla permanenza nell’acqua tra la laguna e il mare.

Che ci fossero le navi pagate da Mantovani che attraversavano l’Adriatico portando questi sassi non è un segreto. E veniva dato per scontato che questo materiale venisse pagato alla società croata che lo produce. Gli investigatori hanno invece notato con sorpresa cospicui spostamenti di danaro giustificati come pagamento di sassi, ma trasferiti a una sola società in Canada. L’ipotesi accusatoria potrebbe intravedere una nuova società «cartiera» in Canada, sullo stile e stampo di quella scoperta a San Marino. Se così fosse, emergerebbe l’ipotesi di più canali di approvvigionamento dell’indagato Piergiorgio Baita (ancora in carcere a Belluno) in merito a quei presunti fondi neri che sono emersi nella prima parte dell’inchiesta. Soldi pagati alla Bmc, società sanmarinese, a fronte di false fatture, e poi ritirati in contanti per una quota pari all’80% sul totale versato da Claudia Minutillo e William Colombelli (entrambi arrestati e ora ai domiciliari, come pure il fido collaboratore di Baita Niccolò Buson). I soldi in contanti erano ordinati dallo stesso Baita, come ha ammesso in sede di interrogatorio Claudia Minutillo, ex assistente di Giancarlo Galan poi entrata in affari con il manager Mantovani. Ciò che ancora non si conosce è la destinazione di quei soldi: una cifra pari a circa 10 milioni di euro. La quota potrebbe alzarsi di molto, però, se la pista dei sassi «canadesi » seguita dal Nucleo tributario di Padova rivelasse delle similitudini con quella di San Marino.

Roberta Polese

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Gazzettino – Baita, caccia ai fondi neri

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13

mag

2013

LE DIGHE IN LAGUNA – Una società canadese rivendeva a Mantovani a prezzi maggiorati

VENEZIA – Nuove indagini della Procura sull’intreccio internazionale per acquistare grossi massi

Nel mirino i lavori del Mose

Un “giro” di società estere utilizzate allo scopo di far lievitare sensibilmente il costo di materiali destinati alle opere complementari al Mose. E, probabilmente, alla creazione di consistenti fondi “neri”. È questo il nuovo filone al quale sta lavorando la Procura di Venezia nell’ambito dell’inchiesta su Piergiorgio Baita, l’ex presidente della società di costruzioni Mantovani, in carcere dalla fine di febbraio con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla creazione di false fatture per milioni di euro.
Qualche settimana fa la Guardia di Finanza è tornata a Padova nella sede della Mantovani (ora presieduta dall’ex questore di Treviso, Carmine Damiano) per acquisire documentazione relativa all’acquisto, per decine di milioni di euro, di considerevoli quantitativi di grandi massi utilizzati per la realizzazione delle opere di protezione alle bocche di porto della laguna di Venezia. Sulla base degli atti già in possesso degli inquirenti, acquisita in parte nel corso delle perquisizioni effettuate due mesi fa, risulta che le pietre provengono dalla Croazia e non sarebbero state acquistate direttamente dalla Mantovani, ma da una società con sede in Canada la quale, successivamente, le avrebbe rivendute alla Mantovani ad un prezzo sensibilmente maggiorato. Documentazione contabile relativa a questa società nordamericana, nonché ad un intreccio con altre società estere, è stata rinvenuta lo scorso febbraio nella sede della Mantovani e la Finanza ha acquisito numerosi elementi (tra cui ci sarebbe anche qualche testimonianza) in base ai quali ritiene di poter provare che queste società estere fanno (o facevano) capo alla Mantovani. E che, di conseguenza, la singolare “triangolazione” per l’acquisto dei massi necessari alla realizzazione del Mose, sarebbe servita a garantire un consistente “surpluss” economico all’azienda di costruzioni amministrata all’epoca da Baita. Il tutto con un considerevole aumento di costi per le casse pubbliche, costrette a pagare più “salati” i lavori di Salvaguardia della laguna di Venezia. Qualcosa di più di una semplice ipotesi di lavoro, assicurano gli investigatori, i quali stanno ora lavorando per cercare di ricostruire il flusso di questo “surpluss” realizzato in Canada, nella speranza di capire dove siano finite le ingenti somme di denaro ricavate grazie all’acquisto “allungato” delle pietre croate. Operazione che non si preannuncia semplice proprio a causa dell’intreccio di società estere che sarebbe stato utilizzato.

 

Gazzettino – Porto Marghera, gli occhi della mafia

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7

mag

2013

Il business dei rifiuti che fa gola alla mafia

GRANDI OPERE «Ambiente sotto attacco»

NELLA NOSTRA REGIONE – Illegalità, un business da due miliardi

COSTOSO – Il Passante di Mestre

Tra il 2007 e il 2011 nei vari depositi e stabilimenti per il trattamento di rifiuti della zona si è registrato un solo incendio. Nel 2012 sono schizzati a 5 e, a inizio 2013, ce n’è già stato un altro. «Questo non vuol dire di per sè che sia opera della criminalità – spiega Gianni Belloni, coordinatore dell’Osservatorio -, ma è un segnale, come molti altri, da tenere sott’occhio».
Dei 2 miliardi di euro che costituiscono i ricavi delle attività illegali nel Veneto (tra droga, contraffazioni, sfruttamento sessuale) il traffico di rifiuti vale 149 milioni di euro e colloca il Veneto al primo posto in Italia. Ecco perché le antenne vanno tenute sempre sollevate. Anche nei confronti degli altri attacchi all’ambiente: quelli perfettamente legali che approfittano dell’assenza delle istituzioni, in questo caso della Regione Veneto che ha un Piano dei trasporti fermo al 1990 e il Ptrc ancora da rinnovare (Piano Territoriale Regionale di Coordinamento). In questo vuoto i project financing, affidati ai soliti gruppi imprenditoriali connessi alla politica, come Mantovani e altri, nascono come funghi anche per grandi opere che l’Osservatorio giudica inutili se non dannose e sicuramente più costose per la collettività (Mose, ma soprattutto autostrade e passanti vari, per non parlare di ospedali). E in queste opere «il rischio d’impresa è scaricato sull’utente» come i pendolari che sborsano il 10% dello stipendio mensile per pagare l’autostrada. (e.t.)

 

OSSERVATORIO   «La Regione ritiri quella delibera»

L’ALLARME «Alles, c’è il rischio salti il sistema dei controlli»

La criminalità non è imbattibile, anzi la ricerca del centro studi Transcrime (tra l’Università Cattolica di Milano e quella di Trento) boccia i mafiosi come imprenditori, dato che la profittabilità delle loro aziende è in linea con quella delle imprese legali se non addirittura peggiore, per colpa di una gestione inefficiente, e nonostante le intimidazioni verso il personale, i fornitori e i concorrenti. La crescita dell’azienda infiltrata (di solito in settori a bassa tecnologia, alta intensità di manodopera e alto coinvolgimento di risorse pubbliche) non è un obiettivo per il mafioso imprenditore, continua la ricerca riportata nel quaderno dell’Osservatorio ambiente legalità Venezia, al contrario egli mira a diversificare gli investimenti, anche per evitare confische e sequestri.
La criminalità, insomma, si può battere anche perché distrugge l’economia invece di svilupparla. Certo che è indispensabile non aprirle varchi. E l’assessore Gianfranco Bettin ieri ha ribadito che un varco pericolosissimo è costituito dal permesso che la Giunta Regionale, senza nemmeno passare per il Consiglio, ha aperto con l’autorizzazione al potenziamento dell’impianto Alles: la società partecipata da Mantovani potrà aumentare moltissimo la tipologia di rifiuti da trattare a Malcontenta ma soprattutto potrà importarli da fuori regione.

«La delibera rischia di far saltare il sistema collaudato di controlli pubblici sul ciclo dei rifiuti tossici, che ora è pressoché un ciclo locale – afferma Bettin -. Con una Variante urbanistica, imposta d’imperio al piano regolatore dell’area industriale, si consente l’arrivo di rifiuti tossici e pericolosi da ovunque, creando un precedente per altre imprese analoghe ad Alles. Il rischio di aprirsi ad avventurieri e a criminali viene così moltiplicato da questa che di fatto è una inquietante, pericolosa deregulation di tutta l’area».

Perciò ieri l’Osservatorio ha ribadito la richiesta alla Regione di annullare quella delibera, mentre il Comune ricorrerà al Tar per chiederne la sospensiva. E questa sera a Marghera, alle 20.30 in municipio, si terrà un’assemblea pubblica, organizzata dall’Assemblea permanente contro il rischio chimico per contrastare il progetto. (e.t.)

 

Il primo studio dell’”Osservatorio ambiente legalità” dedicato al traffico illegale di rifiuti

Il porto di Venezia è uno degli scali maggiormente utilizzati per l’esportazione di rifiuti: scaglie e cascami della fabbricazione di ghisa, ferro e acciaio, avanzi di materie plastiche, pneumatici, carta. È un traffico in costante aumento che non sente crisi, anche perché il Veneto è tra le regioni con il maggior numero di impianti di deposito e trattamento dei rifiuti.
Questo non significa che stiamo parlando i traffici illegali, anzi sicuramente la maggior parte degli operatori è onesta e preparata e porta ricchezza al territorio, «e allo stesso modo la nostra attenzione su Porto Marghera non significa che sia diventata terra di criminali ma è determinata dal fatto che qui una stagione diversa, di riqualificazione di industrie pulite, è già iniziata e non vogliamo che si torni indietro». Così Gianfranco Bettin ha spiegato il senso dell’Osservatorio Ambiente Legalità Venezia che ieri mattina in Municipio a Mestre ha presentato il primo quaderno prodotto, dedicato alle ecomafie e ai rifiuti, in senso ampio del termine, perché sporca il territorio non solo chi commercia illegalmente i veleni ma pure chi lo riempie di cemento e di asfalto.
L’Osservatorio, coordinato da Gianni Belloni (ha anche un comitato scientifico curato da Laura Fregolent) è promosso da Legambiente Veneto con il sostegno e la collaborazione dell’assessorato comunale all’Ambiente.
Nel rapporto Dia 2011 (la Direzione investigativa antimafia) si legge che la mafia si è infiltrata «oltre che nel Veneto Orientale e a Venezia, a Porto Marghera nel traffico di rifiuti». Anche se non parliamo solo di ecomafie (’ndrangheta, camorra e Cosa Nostra) che si prendono il 50% della torta, mentre il resto è in mano a criminali locali, a volte alleati con gruppi stranieri.
L’Osservatorio serve a raccogliere e mettere insieme i dati e le esperienze di diversi soggetti che si occupano di difesa dell’ambiente, comprese le forze dell’ordine e la magistratura, per creare un database immediatamente consultabile, perché la prevenzione è la migliore delle tattiche contro le attività illegali. «Vogliamo creare sentinelle ambientali» ha spiegato Luigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto.
E le prime sentinelle in servizio, tra le quali anche docenti universitari di Venezia e di Padova, hanno lavorato per un anno e mezzo per produrre questo primo rapporto. Che parla di nuovi traffici illegali di rifiuti: sono quasi scomparse le rotte verso Sud, fatte di illegalità conclamata, e sono state sostituite da sistemi camuffati alla perfezione da trasporti legali verso il Nord Italia (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Trentino, Friuli) e, da lì, alla volta di Germania, Austria, Danimarca e naturalmente Cina che ha una grande fame di materiali per le proprie industrie. Anche in questo caso la legalità è la norma ma l’illegalità si diffonde. Lo dimostra l’incremento dei sequestri effettuati dall’Agenzia delle dogane nel corso di operazioni interforze, come l’Operazione Serenissima che ha sgominato un traffico di rifiuti tossici spediti con bolle false, che venivano utilizzati come fonti di energia o per produrre giocattoli e materiali informatici che poi venivano rivenduti, “puliti”, anche in Italia.

 

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